lunedì 25 agosto 2014

DIALOGO





E', insieme a “pace”, la parola oggi più usata, ed inflazionata. Bisogna “dialogare”. Sempre, comunque, di tutto, con tutti. Un tempo non era così. Non si usava continuamente il termine “dialogo”, non si pretendeva che si potesse dialogare sempre e comunque. Poi, a partire da una certa data, le cose sono cambiate. La data è l'undici settembre 2001. Da quel momento per molti il dialogo è diventato una sorta di talismano, una parola magica. Si dialoghi e tutti i problemi saranno risolti. E ad ogni attentato, ad ogni esplosione di fanatismo, ad ogni bagno di sangue la proposta di dialogo viene rinnovata, più forte che mai. Bombe a Londra ed a Madrid? Dialogo! Cristiani crocifissi in Africa? Dialogo! Ostaggi sgozzati un po' ovunque nel mondo? Dialogo!
Forse val la pena di analizzarla un po', questa parola magica, per vedere se le speranze che alcuni ripongono nelle sue virtù taumaturgiche siano davvero giustificate.

Il vocabolario on  line Treccani della lingua italiana, così definisce il termine “dialogo”.

1) Discorso, colloquio fra due o più persone: prendere parte al dialogo; ebbero un dialogo animato; ho udito alcune battute del dialogo fra i due; figurato,  fare un dialogo. con sé stesso, con i propri pensieri. Per estensione, nel linguaggio politico e giornalistico, incontro tra forze politiche diverse, discussione più o meno concorde o che miri a un’intesa: il dialogo fra Oriente e Occidente; aprire un dialogo  fra partiti contrapposti; in senso più ampio, discussione aperta, di persone disposte a ragionare con spirito democratico: mio padre non accetta il dialogo; tra noi manca il dialogo, ognuno resta della sua opinione.
2) Componimento o trattato in cui, invece della forma espositiva o narrativa, è usata la forma dialogica: i dialoghi di Platone, di Giordano Bruno; il «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo», di Galilei.

Enumera poi altre accezioni del termine (dialogo teatrale, letterario, musicale) che qui non ci interessano.

Il dialogo, qualsiasi tipo di dialogo, presuppone qualcosa di comune fra i dialoganti. Non si può dialogare con chi ci è totalmente alieno. A ben vedere le cose con un essere simile non si possono avere contatti di alcun tipo, non gli si può neppure muovere guerra. A e B possono farsi la guerra se sono, oltre che diversi, anche, in parte, simili. Una guerra economica presuppone che A e B siano interessati alle stesse cose (entrambi mirano a quelle certe terre, al petrolio o ad altro). Una guerra religiosa presuppone che A e B credano in qualche divinità, a volte nella stessa divinità, o comunque che il credente possa pensare di imporre il proprio Dio al non credente, riconoscendolo così, in qualche modo, simile a lui. Si potrebbe continuare. Qualsiasi rapporto fra esseri umani presuppone che non ci sia fra loro una assoluta estraneità. Nessun rapporto è possibile con l'assolutamente altro, l'alieno.

Da questo si può dedurre che è possibile dialogare con tutto coloro che non sono alieni, cioè, in pratica, con qualsiasi essere umano, per quanto questi sia lontano da noi? La risposta è NO. Ciò che deve esistere di comune fra coloro che intendono dialogare è ben più ampio di ciò che di comune esiste fra coloro che si combattono armi alla mano. Per far la guerra ad X basta che io abbia un interesse, di qualsiasi tipo, simile, ma radicalmente contrastante, con il suo. Per dialogare con X occorre qualcosa di più, meglio, molto di più.
Innanzitutto occorre che entrambi i dialoganti accettino il dialogo. Non si tratta di una condizione da poco. Accettare il dialogo vuol dire avere una razionalità comune con l'interlocutore ed essere disposti ad usarla. Dialogare significa esaminare le proprie divergenze usando solo le armi della critica razionale, il che implica che ogni dialogante cerca, ovviamente, di convincere l'altro, ma è anche disposto ad essere convinto dall'altro, se questi avanza buoni argomenti. Il dialogo esclude, a priori, l'impenetrabilità alle altrui argomentazioni. Se io inizio a dialogare con la riserva mentale che, qualsiasi cosa tu dica, non modificherò in nulla le mie convinzioni il dialogo non è tale, è solo una finzione, o una truffa, o un pretesto per guadagnare tempo.
Nei suoi dialoghi Socrate parte dal solo presupposto che l'interlocutore sia una persona dotata di ragione e che la voglia usare. L'interlocutore di Socrate di solito ha convinzioni molto radicate delle quali Socrate dubita. Tuttavia, incalzato dalle domande pressanti del grande filosofo, dopo un po' l'interlocutore inizia a vacillare, deve ammettere la sua ignoranza, e si trova alla fine a concordare con Socrate. La condizione indispensabile di tutto questo è che sia Socrate che il suo interlocutore usino la ragione comune ad entrambi. Se in un qualsiasi momento del dialogo uno dei dialoganti, infastidito dalla acutezza delle argomentazioni dell'altro, “butta in aria il tavolo”, il dialogo cessa, immediatamente.
Considerazioni simili possono farsi sul “dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo. Salviati, Simplicio e Sagredo discutono dei sistemi tolemaico e Copernicano e, più in generale, della fisica aristotelica contrapposta alle nuove concezioni del mondo che stavano maturando in quel periodo. Salviati è un convinto sostenitore del sistema eliocentrico, Simplicio un aristotelico, Sagredo un uomo di mente aperta desideroso di valutare razionalmente le diverse teorie. Le posizioni di Simplicio e Salviati sono all'inizio molto distanti ma nel corso delle quattro intense giornate di dialogo l'aristotelico dovrà riconoscere la ragionevolezza e la verità almeno di molte delle tesi di Salviati.
Ancora una volta, il presupposto e la condizione del dialogo è l'uso corretto di una ragione che tutti accomuna. Simplicio tenta di confutare le tesi di Salviati ma non lo aggredisce. Il tribunale della santa inquisizione avrà con Galileo un atteggiamento ben diverso, come si sa. Gli inquisitori non “dialogheranno” con lo scienziato pisano, anche se nel corso del processo avanzeranno obiezioni alle sue teorie. Il rapporto fra Galileo ed i suoi accusatori è fondato sulla violenza, non sul dialogo, a deciderlo non saranno i “corretti ragionamenti” e le “sensate esperienze” ma qualcosa d'altro, radicalmente diverso.

La accettazione della ragione come strumento del confronto è, insieme, presupposto e condizione del dialogo, di qualsiasi dialogo. Ma non sempre il dialogo richiede solo questo. Torniamo un attimo alla definizione da cui eravamo partiti: “nel linguaggio politico e giornalistico” si parla del dialogo come “incontro tra forze politiche diverse, discussione più o meno concorde o che miri a un’intesa (…) in senso più ampio, discussione aperta, di persone disposte a ragionare con spirito democratico.”
Qui come si vede c'è qualcosa di più che non la volontà di affrontare in maniera razionale e non violenta problemi teorici, c'è un qualche accordo che, al di là di ogni differenza, unisce i dialoganti.
“Governo ed opposizione devono dialogare sulle riforme”. Un simile enunciato esprime, molto semplicemente, il fatto che governo ed opposizione, malgrado tutte le differenze, ritengono utili certe riforme, vogliono realizzarle insieme e cercano, dialogando, di raggiungere tale obiettivo. Un simile tipo di dialogo presuppone non solo il comune uso della ragione, la volontà di ascoltarsi e di prendere ognuno molto sul serio le ragioni dell'altro. Presuppone anche obiettivi ed interessi comuni, ed un comune sistema di valori di riferimento: non si potranno fare riforme democratiche con chi non crede nel valore della democrazia. Il dialogo politico richiede maggiore, non minore comunanza di idee, interessi e valori che non quello scientifico o filosofico. Nel suo dialogo Galileo discute razionalmente le sue tesi con il portavoce dell'aristotelismo. In politica un liberale non potrà mai dialogare con un neonazista.

Finora si è cercato di vedere cosa il dialogo è e quando si ha dialogo, forse vale però la pena di esaminare, per estensione, cosa il dialogo non è e quando non si ha dialogo. Molti equivoci sul “dialogo” nascono proprio dalla confusione fra ciò che è dialogo e ciò che non lo è.
Non si dialoga per battere, o peggio, distruggere l'interlocutore, si dialoga per risolvere dei problemi comuni o per avvicinarsi, insieme, alla verità. I dibattiti in cui si fa largo uso di richiami ai sentimenti, o a volgari trucchetti retorici non sono, a rigore, dei dialoghi. Interrompere il rivale, impedirgli di parlare alzando la voce, cercare di irretirlo con battute o risolini ironici non sono tecniche da dialogo. In una parola, il dialogo non è propaganda, il che non implica che non sia legittimo, in una certa misura, fare propaganda
Non si ha dialogo quando gli interlocutori non si ascoltano, e si limitano a ripetere sempre gli stessi argomenti, o, peggio, gli stessi slogan. Il dialogo fra sordi non è dialogo.
E non è dialogo neppure la lotta ideale e culturale, anche quella migliore, condotta con le armi della argomentazione più seria e rigorosa. Se io leggo il libro di un neonazista e mi accingo a confutarne le tesi, non sto dialogando con lui. Non mi interessa troppo convincerlo, so di non poterlo fare, con tutta probabilità. Forse lui neppure leggerà le mie critiche ed anche questo non mi preoccupa troppo. Mi interessa invece confutare le sue tesi deliranti perché non voglio che queste abbiano troppa presa sul pubblico. Mentre scriveva “la rabbia e l'orgoglio” la Fallaci non dialogava coi fondamentalisti islamici, né con chi in qualche modo li giustifica, anche se sottoponeva a critica serrata ed argomentata le tesi degli uni e degli altri.
E non sono dialogo neppure il negoziato o la trattativa. Il negoziato e la trattativa non mirano a raggiungere obiettivi, o a realizzare valori, almeno in parte comuni agli interlocutori, né ad avvicinarsi, insieme, al vero. Nel negoziato e nella trattativa le parti mirano ognuna a realizzare il proprio massimo interesse. Il mercanteggiare sul prezzo di un immobile non è un dialogo. Per questi motivi succede che si possa, a volte, trattare o negoziare con persone che hanno pochissimo in comune con noi. Si può trattare anche con un terrorista o un bandito, se hanno in mano degli ostaggi. Si può negoziare una tregua, anche una pace, con forze politiche nei cui confronti si prova una avversità totale. E non è un caso che il negoziato e la trattativa possano, a volte, essere sleali. Si può trattare con un terrorista che ha in mano degli ostaggi solo al fine di guadagnare tempo, ed intanto preparare un blitz. Un dialogo sleale è una autentica contraddizione in termini, non così una trattativa sleale. Questa può essere possibile e, a volte, meritoria. Riuscire ad ingannare un criminale che intende uccidere ostaggi innocenti è sleale, ma altamente morale.

Dialogare è forse l'attività più specificamente umana che si possa concepire. Gli animali non umani si combattono o si temono, vivono isolati o, più spesso, in branchi, ma non dialogano. Il dialogo presuppone il pensiero ed il linguaggio astratti, la capacità di distinguere concettualmente il vero dal falso ed il bene dal male, tutte cose umane, molto umane. Ma, come tutte le cose umane, il dialogo non è possibile sempre e comunque, con tutti, su tutto. Come moltissime attività umane il dialogo discrimina, ci mette in relazione con alcuni e non con altri. Posso dialogare con Tizio, perché esistono con lui interessi comuni, la comune volontà di discutere razionalmente, alcuni obiettivi e valori condivisi. Per gli stessi motivi non posso dialogare con Caio. Un dialogo con tutti, su tutto, per tutto non è solo impossibile, il suo stesso concetto è contraddittorio. Posso “dialogare” con chi mi sta per uccidere? O con un terrorista che sta per sgozzare un ostaggio? O con un bruto che sta stuprando una bambina? Gli ebrei che si avviavano alle camere a gas “dialogavano” con i loro aguzzini? E, se avessero scambiato qualche parola con loro questo sarebbe stato un “dialogo”? Riferito a simili situazioni il termine “dialogo” diventa insensato.
Dialogare sempre, con tutti, su tutto vuol dire privare il dialogo dei suoi presupposti, distruggerlo, renderlo privo di senso. Se è “dialogo” il grido di terrore, o di rabbia, o di sfida, della vittima nei confronti del carnefice, allora tutto è dialogo, ma, per lo stesso motivo, nulla lo è.
Ecco perché è una pura mistificazione la continua proposta di “dialogo” con i fondamentalisti islamici. I tagliagole dell'ISIS sono disposti a misurarsi razionalmente con noi, a farsi eventualmente convincere dai nostri, eventuali, buoni argomenti? Esistono, anche solo potenzialmente, alcuni obiettivi, interessi, valori, comuni fra noi e chi teorizza il califfato, o pensa che un cristiano debba pagare una tassa per poter adorare il suo Dio, o vuole la lapidazione delle adultere, o la pena di morte per apostati e bestemmiatori? Di cosa potremmo dialogare con chi ha abbattuto le torri gemelle, o ha messo le bombe nella metropolitana di Londra? Forse della quantità di esplosivo da usare? Con chi ha scelto la strada del rifiuto di ogni confronto si può combattere, a volte, negoziare, altre volte. Di certo non si può dialogare.
Tutto questo è molto intuitivo. Un bambino lo capisce. Gli occidentali buoni no, non lo vogliono capire.

sabato 9 agosto 2014

CONTRO IL RELATIVISMO



Il relativismo è senza dubbio una delle filosofie oggi più di moda, soprattutto, ma non solo, nella forma di relativismo culturale. Cosa sia il relativismo culturale è presto detto. Secondo questa concezione non esistono norme razionali né valori morali validi per tutti gli esseri umani. Al contrario morale e razionalità valgono solo all’interno di determinati contesti culturali. Pretendere ad esempio che la razionalità scientifica così come è nata e si è sviluppata in occidente possa valere anche in contesti culturali non occidentali è una pericolosa forma di imperialismo. Ancora di più lo è la “pretesa” che concetti come libertà individuale, democrazia, diritti umani possano valere in tutte le culture. Dal fatto che razionalità e valori sono interni ai contesti culturali e validi solo in questi discende che ogni confronto fra culture è impossibile e a maggior ragione lo è stabilire qualsiasi tipo di gerarchia fra culture. Affermare che la tal cultura è, sotto certi aspetti, superiore alla tal altra è, di nuovo, una pericolosissima forma di imperialismo: le culture sono “diverse” fra loro ma nessuna cultura può essere considerata “superiore” a un’altra.
Le conseguenze pratiche di queste concezioni sono sotto gli occhi di tutti. Se un marito milanese picchia la moglie di Lodi tutti insorgono di fronte a tanta brutalità. Le femministe saranno naturalmente in prima linea nel reclamare la severa punizione del bruto. Ma se a picchiare la moglie è un marito islamico, se oltre a picchiarla questi le impedisce di uscire, di mostrare il volto, se la costringe a vivere con le altre tre o quattro mogli che compongono il suo harem allora si assiste al più imbarazzato dei silenzi, l’ardore delle femministe si dissolve, se qualcuno osa bollare come “barbarico” un tale comportamento è additato al pubblico disprezzo come “razzista”; può succedere, come è accaduto alla compianta Oriana Fallaci, di vedersi incriminare per “oltraggio alla religione islamica”.
Il linguaggio segue una simile sorte. Occhiuti censori vigilano per espurgare dal vocabolario tutti i termini che contrastino in qualche modo la dittatura culturale del “politicamente corretto”. Parole come “Superiore” o “inferiore” sono praticamente vietate, se riferite alle società umane. Non si può mai parlare di “usanze barbare” se ci riferisce a civiltà non occidentali, chi assimilasse alla “superstizione” le medicine primitive sarebbe bollato di “imperialismo culturale”, lo stesso uso del termine “primitivo” è alquanto sospetto. Naturalmente se ci si riferisce invece alla civiltà ed alla cultura occidentali le cose cambiano. Il massacro degli indiani d’America può tranquillamente esser definito come tale (magari aumentando il numero dei massacrati che secondo alcuni giornalisti televisivi ammonterebbero a milioni, cifra irrealistica se si tiene conto che il nord America agli inizi della colonizzazione era abitato da non più di 4/500.000 nativi…), i crociati erano “crudeli conquistatori” (e gli islamici che misero a ferro e fuoco mezza Europa?) e così via. Già nell’uso che ne fanno i suoi sostenitori il relativismo inizia a mostrare le sue aporie: vorrebbe che tutte le culture fossero “uguali” ma si vede subito che alcune sono “meno uguali” di altre. Pretende di essere una concezione anti-autoritaria ma stabilisce regole e divieti; i relativisti strillano contro “l’imperialismo culturale” ma fanno della loro dottrina una nuova forma di imperialismo culturale, proprio mentre chiedono tolleranza i relativisti si dimostrano arroganti ed intolleranti.

Naturalmente il relativismo culturale contiene alcuni importanti elementi di verità. E’ innegabile che le concezioni morali varino da cultura a cultura e da una epoca storica all’altra. Le stesse norme razionali non sono esattamente le stesse in civiltà diverse così come in differenti civiltà ed epoche storiche cambia la concezione stessa di ciò che è la razionalità. Se il relativismo si limitasse ad evidenziare e valorizzare questi innegabili fattori di diversità sarebbe una dottrina del tutto accettabile. Ma così non è. Il relativismo non si limita a sottolineare il carattere culturalmente condizionato di norme e valori, nega che esistano valori e norme universali, validi, almeno potenzialmente, per tutti gli esseri umani in quanto esseri umani. Per un relativista ad esempio la libertà non è un valore universalmente valido che alcune civiltà possono tutelare, altre interpretare secondo propri parametri, altre ancora rifiutare. No, per il relativista il fatto che alcune civiltà rigettino il concetto stesso di libertà dimostra che tale concetto è del tutto privo di interesse per gli esseri umani che fanno parte di quelle civiltà. Se un occidentale deve subire un arresto arbitrario è legittimo protestare, se lo subisce un iraniano la protesta è priva di senso perché nella civiltà islamica la libertà individuale non avrebbe valore. E se gli esseri umani cge vivono in quella civiltà protestano per gli arresti arbitrari? Se si dichiarano innocenti e chiedono che la loro colpevolezza venga dimostrata in un pubblico processo? Se reclamano garanzie giuridiche? Se, insomma, chiedono a gran voce cose che sono nate in occidente, ma non solo, e fanno parte a pieno titolo della civiltà occidentale? Che dire delle loro proteste? Esse sono legittime o dimostrano solo che questi esseri umani si sono fatti fuorviare dall’imperialismo culturale dell’occidente? Ma, se norme e valori valgono solo all’interno di una certa cultura come può una norma che è parte di questa cultura “fuorviare” un essere umano nato e vissuto in un contesto culturale del tutto diverso? Non sarà che il fatto di essere un uomo, genericamente un uomo, è più importante del fatto di essere “occidentale” o “mussulmano” ?
Questo in effetti è il punto centrale. Per i relativisti culturali la cultura (o la civiltà) vengono prima degli esseri umani, non esistono individui, persone, esistono membri di determinate civiltà. Un islamico è islamico ben prima di essere uomo. Costoro sono pronti ad indignarsi per le violazioni della libertà... se si tratta della libertà delle culture. Il filosofo Massimo Fini lo ha detto con molta chiarezza. Allontanare dal potere lo sceicco Omar in Afganistan ed indire in quel paese libere elezioni è stato un atto oppressivo e imperialista nei confronti della cultura islamica. Omar rappresenta la tradizione, la cultura dell’Afganistan, le libere elezioni non sono altro che una imposizione al popolo afgano di usi e costumi occidentali. Per Fini è del tutto ininfluente stabilire se gli afgani siano o non siano stati lieti di partecipare alle elezioni. Per lui non esistono gli afgani o gli iracheni, esistono le “culture”, le “civiltà” considerate alla stregua di super- persone metafisiche che vengono prima, molto prima, degli esseri umani in carne ed ossa. Per Fini non sono gli uomini a fare le civiltà e le culture, sono queste a fare quelli e a farli integralmente. L’uomo cessa di essere condizionato dall’ambiente culturale in cui vive per risolversi integralmente in esso.
Naturalmente, poiché culture e civiltà non esistono come super-persone metafisiche il compito di dar voce a queste entità misteriose spetta a certi super-individui. Lo sceicco Omar “rappresenta” la cultura Afgana, allo stesso modo in cui Hitler “rappresentava” la nazione tedesca o Stalin il “proletariato mondiale”. Che il signor Alì, afgano, o il signor Strauss, tedesco, o il signor Rossi, operaio metalmeccanico, non si riconoscano in Omar, Hitler o Stalin è del tutto privo di importanza per filosofi “a la” Fini. La negazione del valore degli individui va di pari passo con la attribuzione di un super valore ai super-individui.

Il relativismo culturale è del tutto legittimo se inteso nel senso “debole” di condizionamento che le culture esercitano sulla vita ed il pensiero degli esseri umani. Inteso in senso “forte” come riduzione dell’uomo al contesto socio-culturale il relativismo è invece palesemente assurdo e auto-contraddittorio.
Accettiamo per un attimo l’ipotesi che la razionalità sia un fatto culturale che vale solo in un certo contesto. Non esistono norme razionali valide universalmente, esistono norme che valgono per la cultura occidentale, altre per quella “islamica” e così via. Se questo fosse vero avrebbe senso parlare di “altre culture”? No, ovviamente. Il significato stesso del termine “altra” e del termine “cultura” sarebbe interno ad una certa cultura e solo all'interno di questa avrebbe senso parlare di culture "altre". Mai nessun discorso sull'altro potrebbe rimandarci qualcosa di realmente esterno al contesto in cui si svolge il discorso. Per i relativisti non esiste nulla di esterno al contesto ma proprio questo distrugge radicalmente ogni riferimento a contesti diversi. Io posso dire che la civiltà A è diversa dalla civiltà B solo se dispongo di norme razionali universali che mi permettano di esaminare le caratteristiche di A e B, confrontarle, giudicarle diverse. Se queste norme valgono solo in A o in B ogni dichiarazione di diversità fra B ed A è illusoria.
L’impossibilità di uscire dal contesto è un leit-motif dei relativisti ma proprio questo rende del tutto privo di senso un altro dei punti forti del loro discorso: il richiamo costante al valore dell’”altro”. Ben lungi dal valorizzare “l’altro” il relativismo lo distrugge, ben lungi dall’agevolare il dialogo fra culture il relativismo riduce le varie culture a monadi incomunicabili. Se questo non appare è solo perché il relativismo non è coerente con le sue premesse. Accade ai relativisti ciò che accade ai critici del principio di non contraddizione. Chi critica tale principio lo usa mentre lo critica, allo stesso modo i relativisti usano norme razionali universali per poter parlare della riduzione di tutta la razionalità ai diversi contesti culturali.

Il relativismo culturale non è ovviamente la sola forma di relativismo. I relativismi sono potenzialmente infiniti. A cosa un certo valore, una certa norma ecc. devono essere relativi? Al contesto culturale, o alla civiltà cui gli individui appartengono dicono alcuni, ma perché proprio a quelli? Se il relativismo vale quando si esaminano e si confrontano diverse civiltà o diversi contesti culturali, perché non dovrebbe valere quando ad essere esamiati e confrontati sono sono usi e costumi, idee e valori interni ad una certa civiltà, o ad un certo contesto culturale? Esiste un relativismo linguistico, per cui tutto vale solo all’interno di un certo linguaggio. Non esiste una realtà empirica cui il linguaggio si riferisce, la realtà è interna al linguaggio, alle sue norme semantiche e sintattiche (ma un linguaggio non è esso stesso una realtà empirica? E non si riferisce a tale realtà la frase “tutto è interno al linguaggio”?). Per Nietzsche “non esistono fatti ma solo interpretazioni” (ma questo è un fatto o una interpretazione?). Le femministe hanno contestato i valori umani per sostituirli con valori “maschili” o “femminili”, i marxisti sono invece teorici del relativismo socio economico. Parlano di morale “borghese” o “proletaria”, a suo tempo qualcuno di loro parlò anche di “scienza proletaria”, “arte proletaria” da contrapporre alle decadenti scienza ed arte “borghesi” e così via... l’elenco può allungarsi all’infinito. Il più serio di tutti resta il vecchio Protagora secondo cui “l’uomo è la misura di tutte le cose”. In effetti perché ciò a cui una norma o un valore vanno relativizzati deve essere una misteriosa entità metafisica, la civiltà, la donna, il proletariato? Se A è relativo a qualcosa nessun “qualcosa” è più reale, concreto dell’uomo, ma non l’uomo astratto, metafisico, no, l’uomo concreto, quel certo uomo: Mario, Luigi, Giacomo. Per Mario lo zucchero è dolce, ma a Luigi, che è malato, esso appare amaro. Giacomo ride di una barzelletta, ma Paolo, che ha un diverso senso dell'humor, resta del tutto indifferente ad essa. Non la “civiltà”, il “linguaggio”, il “proletariato” ma il singolo essere umano è ciò a cui tutto è relativo. La distruzione dell’universalismo è così finalmente completa, la conoscenza non esiste, tutto è frammentato fra tanti singoli privi di ogni contatto fra loro.
Protagora è molto più serio dei suoi emuli successivi e Platone lo prende in effetti molto sul serio. Nel “Teeteto” Il Socrate platonico immagina di chiedere al relativista Protagora cosa ne pensa di ciò che affermano numerosissime persone secondo cui la verità esiste. Costoro hanno torto o ragione? Se Protagora afferma che hanno ragione contraddice ovviamente la sua dottrina, se dice che hanno torto riconosce che esiste un criterio intersoggettivo di verità che permette di distinguere il torto dalla ragione e la sua dottrina viene così egualmente contraddetta. Se tutto è relativo è relativo anche il relativismo: la conclusione platonica vale contro Protagora come contro tutte le successive forme di relativismo. Chi sostiene la “verità” del relativismo si contraddice da solo, oggi come 2500 anni fa.
Naturalmente un relativista non si lascerà impressionare da questi ragionamenti. Per lui si tratta solo di “dogmatismo”. L’argomentazione platonica vale per il Socrate platonico, non per il relativista Protagora. Per il Socrate platonico la dimostrazione razionale della fallacia del relativismo è valida, per Protagora no... tutto qui. Il relativista può usare la ragione, quando gli aggrada ma può smettere di usarla quando gli aggrada non usarla, esattamente come il critico del principio di non contraddizione si arroga il diritto di usare tale principio quando il suo uso gli fa comodo. Come l’irrazionalista il relativista ha sempre ragione, gli basta dire: ”per me è così”. Una dottrina che dice di basarsi sulla tolleranza, sul “rispetto dell’altro” dimostra ancora una volta di avere nella forza il suo unico fondamento.

Il relativista non nega valore universale solo alle norme razionali. Oggetto del suo nichilismo sono anche, e soprattutto, i valori morali.
Ogni cultura ha i suoi criteri per valutare di ciò che è bene o male afferma il relativista e fin qui può vantare alcune solide ragioni. Partito da questa premessa in parte condivisibile il relativista salta a conclusioni inaccettabili. Poiché i criteri di valutazione del bene e del male sono variabili in società e culture diverse non è possibile trovare alcun principio morale universale, alcuna concezione del bene e del male che valga o possa valere per tutti gli esseri umani. Vorrei sottolineare le ultime parole: che valga o possa valere per tutti gli esseri umani. Non si chiede che un certo principio sia applicato ovunque, ci si domanda se tale principio possa interessare gli esseri umani anche laddove non è applicato. Prendiamo la democrazia: che non sia applicata ovunque è una ovvietà, che in paesi non democratici la coscienza democratica sia alquanto limitata è un’altra ovvietà. Da questo però non discende che la democrazia non possa interessare gli uomini che vivono in paesi non democratici. Discorsi analoghi possono farsi per la dignità della donna. Che non si tratti di un valore ovunque perseguito è evidente, ma da questo discende che non interessi né possa interessare tutte le donne, anzi, tutti gli esseri umani? E’ quanto meno assai dubbio. I relativisti partono da un evidente dato empirico quando sottolineano la diversità di molte norme morali. Dovrebbero però stare più attenti a ciò che i dati empirici dicono realmente. Basta aver occhi per vedere per constatare che certi valori interessano anche gli esseri umani che hanno la ventura di vivere in società in cui vengono negati. La feroce determinazione dei fondamentalisti islamici nel rifiutare qualsiasi “contaminazione” con quanto è occidentale si spiega proprio con questo. A differenza dei relativisti occidentali i fondamentalisti islamici sanno benissimo che se posti nella condizione di scegliere moltissimi islamici accetterebbero alcuni valori del “corrotto” occidente, da qui il loro impegno nella lotta a morte contro l’occidente. L’universalità di certi valori è dimostrata proprio da chi li combatte senza quartiere.

Una volta stabilito che ogni cultura ha i suoi valori morali il relativista ripropone il solito appello alla tolleranza. “Non cerchiamo di imporre a tutti i nostri valori” afferma “rispettiamo le culture diverse, non comportiamoci da imperialisti”. In un paese esiste il divorzio, in un altro l’adultera può essere lapidata... che importa? Ognuno ha i suoi valori, la sua cultura. Non bisogna essere intolleranti, pretendere che tutti abbiano la nostra concezione del bene e del male, cianciare di “superiorità” o “inferiorità” delle culture: accettiamo il diverso...
Ma questa tolleranza, questa “accettazione del diverso” di cui tanto parla il relativista non è in fondo un valore universale? La tolleranza non è affatto praticata in tutte le culture, al contrario. Non tutte le culture rispettano il “diverso”, al contrario. E allora? Non è “imperialistico” fare di un valore che solo certe culture accettano un valore universale? Se qualcuno dice: “la tolleranza non è un mio valore, il mio valore principale è la lotta a chi è diverso da me, questa è l’essenza della moralità”, se qualcuno dice questo, che si deve fare? Se si accettano le premesse del relativista assolutamente nulla, si deve accettare di essere aggrediti magari belando qualcosa sulla necessità del “dialogo”. Non si tratta di un caso teorico. Il modo in cui vasti settori della sinistra “pacifista” hanno reagito agli attacchi dell’11 Settembre 2001 è significativo.
Il relativismo morale si presenta come una dottrina della pace e della tolleranza. In realtà è una dottrina che, se coerentemente perseguita, dovrebbe farci accettare tutto. Ogni essere umano fa parte di una civiltà, tutto ciò che facciamo avviene in un contesto culturale. Se la diversità dei contesti ci impedisce di condannare o assolvere allora dobbiamo accettare tutto, ma proprio tutto. Per i nazisti il massacro degli ebrei era qualcosa di meritorio, perché dovremmo essere tanto “imperialisti” da condannarli? E se a noi, si, proprio a noi, venisse in mente di regolare i conti con gli altri a suon di bombe atomiche chi avrebbe diritto di criticarci? Altro che tolleranza! Il relativismo morale, distruggendo ogni tipo di valore universale lascia che sia la pura forza, meglio, la violenza, a decidere di tutto.
Se tutto questo non appare troppo chiaramente lo si deve, di nuovo, al fatto che i relativisti non sono coerenti. Non solo erigono la tolleranza sempre e comunque a valore universale proprio mentre negano ogni universalità, ma sommergono di critiche l’occidente accusandolo di immoralità nello stesso momento in cui riducono la norma morale a una sorta di appendice del contesto culturale. Il relativismo appare in questo modo per quello che è: una forma di odio dell’occidente verso sé stesso. Forma di odio che fa della parzialità la propria norma suprema, che usa sempre il metodo dei due pesi e delle due misure. All’occidente nulla è permesso, agli altri è permesso tutto. Il relativismo serve ad assolvere i terroristi islamici ma non chi fa loro la guerra, serve a capire le “ragioni” dei ragazzi-bomba palestinesi ma non quelle degli israeliani. Nulla come il relativismo morale mette oggi in pericolo la vera tolleranza, la ricerca di un vero dialogo con l’altro, di una pace basata su basi solide.

Il relativismo assume spesso la forma del decustruzionismo, giocattolo filosofico alla moda in cui è maestro il filosofo francese Derida, ora scomparso. Di che si tratta? Di questo molto semplicemente: si prende un concetto, lo si analizza e se ne mettono a nudo le contraddizioni interne fino a svuotarlo di ogni contenuto. Nel libro “senza radici” Marcello Pera mette in evidenza questa procedura citando due esempi di “decostruzione”. Si tratta dei concetti di ospitalità e democrazia.
Essere ospitali significa accogliere l’altro. Ma noi non ci limitiamo ad accogliere l’altro, lo vogliamo integrare nella nostra società, fargli condividere i nostri valori, rispettare le nostre leggi. In questo modo però l’altro viene trasformato in uno di noi, cessa di essere un “lui” per diventare un “noi”. Ospitando l’altro lo si distrugge in quanto altro, e questa è la negazione del concetto di ospitalità. Se invece lasciamo che l’altro resti tale, non cerchiamo di integrarlo e lo releghiamo in un ghetto, egli prima o poi ci combatterà per farci diventare come lui e anche questa è la negazione del concetto di ospitalità.
Bello slalom! Passiamo ora alla democrazia. In democrazia tutti possono concorrere alle elezioni, ogni limitazione della possibilità di partecipare a, e magari vincere la, contesa elettorale costituisce la negazione del concetto di democrazia. Ma chi vince le elezioni può non essere rispettoso delle regole democratiche ed usare il potere democraticamente conquistato per distruggere la democrazia. Anche questo ovviamente nega il concetto di democrazia.
Il gioco potrebbe continuare: ospitalità, democrazia e una quantità indefinita di concetti sono intrinsecamente aporetici e quindi privi di senso. Che senso ha quindi schierarsi per la democrazia? O propugnare l’ospitalità? Nessuno, una scelta vale l’altra, è relativa (appunto) ai gusti, alle abitudini di ognuno di noi.
Peccato però che, una volta privati di ogni senso i concetti lo stesso decustruzionismo diventi insensato. Proviamo a decostruire il decostruzionismo, nulla è più facile. Per decostruire un concetto bisogna che quel concetto abbia un senso. Posso dire: “usare il potere democraticamente conquistato per distruggere la democrazia nega il concetto di democrazia” solo se conosco cosa designa tale concetto. Si può decostruire un concetto solo se questo ha un senso ma la decostruzione priva di senso i concetti. Il decostruzionismo si basa su, e nel contempo annulla il, senso dei concetti, si tratta quindi a sua volta di un concetto aporetico e quindi insensato.

Ma, a prescindere dalle precedenti considerazioni, è proprio vero che l’attività distruttrice della decostruzione è tanto efficace? Vediamo.
Riprendiamo l’esempio dell’ospitalità. Ammettiamo pure, in prima battuta, che essere ospitali significhi integrare l’altro tanto profondamente da farlo cessare di essere un altro. Ebbene, perché questo dovrebbe fare a pugni col concetto di ospitalità? Se io accolgo un estraneo nella mia famiglia e nel corso degli anni questi si trasforma per me in un figlio io non sono stato ospitale quando lo ho accolto? Il processo nel corso del quale l’estraneo diventa figlio non è iniziato con un atto di ospitalità e non si è basato per lunghi anni sulla ospitalità? Il massimo che si può dire è che alla fine, dopo un certo lasso di tempo, l’ospitalità può trasformarsi in qualcosa d’altro, ma questo non rende affatto aporetico il suo concetto. Se accolgo in casa mia una donna disperata e senza nulla al mondo sono ospitale. Se dopo dieci anni me ne innamoro e la sposo il rapporto che esiste fra noi non è più di ospitalità ma questo non dimostra affatto che per anni non lo sia stato. Inoltre, chi ha detto che per essere ospitali occorra integrare l’altro in maniera tanto totale e profonda da fargli cessare di essere un “altro”? Un cinese che vive in Italia non deve cambiare religione, abitudini alimentari o concezioni metafisiche. Non deve neppure cessare di amare la sua terra d’origine o di mantenere legami con essa. Deve solo rispettare chi lo ospita, assimilarne cultura e tradizioni, imparare la sua lingua, non assumere atteggiamenti conflittuali, obbedire alle leggi del paese ospitante. L’ospitalità è processo di integrazione ma è anche dialogo fra ospitante ed ospitato, scambio di idee, confronto di esperienze diverse. Integrarsi non vuol dire negare le proprie origini, vuol dire essere in grado di cambiare, di vivere in un contesto nuovo, di instaurare nuove relazioni. L’integrazione è un processo di modifica e insieme di conservazione, in qualche modo simile al processo di modifica e conservazione che è presente nel divenire di ognuno di noi. Ogni adulto vive in un ambiente che è più o meno profondamente diverso da quello in cui viveva da bambino, ognuno di noi deve in qualche modo “integrarsi” giorno dopo giorno in un contesto sociale in continua evoluzione. Questo distrugge forse le nostre radici? Fa di noi degli “assolutamente altri” rispetto a quello che eravamo dieci o venti anni fa? No ovviamente.
Veniamo ora alla democrazia. Certo, più di una volta forze politiche antidemocratiche hanno usato la democrazia per distruggerla. Hitler è arrivato al potere tramite elezioni democratiche, è vero. Appunto per questo la democrazia ha non solo il diritto ma anche il dovere di difendersi, anche con la forza se occorre. Impedire ad una forza politica di partecipare alle elezioni è sicuramente un atto antidemocratico, ma impedirle di usare il potere democraticamente conquistato per distruggere la democrazia non lo è. Se si ha la certezza che una forza politica userà il potere per distruggere la democrazia può addirittura essere lecito interdire a questa forza la partecipazione al voto. Era antidemocratico vietare nel dopoguerra l’attività politica del partito nazista? Sarebbe antidemocratico impedire negli Usa ad un novello Bin Laden di candidarsi alla presidenza?
La democrazia non è solo un procedimento che assegna il governo di un paese a chi ha ottenuto più voti alle elezioni. E’ un sistema complesso che esige insieme il governo della maggioranza ed il rispetto delle minoranze, la libertà di pubblica discussione dei programmi politici, il rispetto delle fondamentali libertà individuali. A volte possono sorgere contrasti fra queste aspetti tutti essenziali del concetto di democrazia. Se si tiene conto di questo l’uso di misure che, astrattamente considerate, possono esser giudicate non democratiche appare non contraddittorio col concetto di democrazia. Certo, è possibile che l’uso di certe misure vada ben oltre gli intenti originari e finisca per stritolare la democrazia, questo non prova però l’aporeticità del concetto ma solo la sua complessità.

Il relativismo culturale assegna una grande importanza alla storia e, nella storia, allo sviluppo delle civiltà. L’universalista è un ingenuo seguace di valori “astratti”, avulsi dal contesto storico e sociale, il relativista invece colloca tutto nel contesto, sta con i piedi per terra, non perde mai il contatto col divenire storico.
In realtà il relativismo è del tutto incapace di spiegare proprio l’evoluzione storica. Se il relativismo, inteso in senso forte, fosse vero allora sarebbe proprio il sorgere, lo svilupparsi ed il perire delle civiltà a risultare del tutto inspiegabile.
Inteso in senso forte il relativismo socio-culturale fa dipendere l’uomo, le sue idee, il suo operato dal contesto sociale in cui egli vive. Se questo fosse vero non si capirebbe come sia potuto sorgere un contesto sociale. Il primo “contesto” in cui sono vissuti gli esseri umani non era un contesto sociale: la natura selvaggia è stato il primo contesto con cui l’uomo ha dovuto fare i conti. Se il contesto determinasse tutto non si capisce come l’uomo abbia mai potuto uscire dallo stato di natura, come la storia sia potuta iniziare.
Considerazioni analoghe possono farsi se si pensa alla nascita, allo sviluppo ed alla decadenza di molte civiltà. Ogni civiltà nasce e si sviluppa precisamente perché gli esseri umani vanno oltre il contesto sociale in cui vivono. Una civiltà nasce e si sviluppa in costante confronto, più o meno pacifico, con altre civiltà. Nessuna civiltà si è mai sviluppata senza assimilare elementi di altre civiltà. Lo scambio fra civiltà, l’assimilazione da parte di una civiltà di culture, valori, istituzioni di altre civiltà sono una costante della storia. Si riduca l’uomo a appendice del “contesto” e diventano incomprensibili il commercio, gli scambi culturali, gli incontri e gli scontri fra i popoli. Si, anche gli scontri, anche le guerre. Non si fanno guerre con chi è assolutamente diverso da noi. Si fanno guerre con chi è diverso ma nel contempo è simile a noi. Si combatte chi interessato a cose a cui anche noi siamo interessati, ha valori che sono in contrasto con i nostri ma che ritiene possano andare bene anche per noi (ed in effetti noi potremmo accettare di subirli se costretti con la forza). Si fanno guerre economiche perché entrambi i contendenti mirano a certi beni, guerre di religione perché entrambi credono in una divinità, spesso addirittura nella stessa divinità, guerre dinastiche perché entrambi vogliono rafforzare la propria dinastia. Gli uomini si combattono perché sono simili oltre che diversi. Se l’uomo fosse una mera appendice del contesto non lotterebbe con chi fa parte di contesti diversi, l’indefinita perpetuazione del proprio contesto sarebbe la sua unica preoccupazione. Per il contestualismo storico-sociale l’uomo è il prodotto della storia; è vero il contrario: l’uomo ha una storia perché non è il mero prodotto del divenire storico.

Ma l’universalista è davvero così ingenuamente irrealista come lo si descrive? E’ vero che chi crede in valori universali è cieco al contesto storico sociale, non tiene conto della storia? No, a meno che si tratti di un universalista sciocco e dogmatico. In molti casi anzi è proprio il relativista a cadere in un irrealismo ingenuo. I relativisti anti-occidentali ad esempio parlano dell’imperialismo degli antichi Romani con lo stesso livore con cui condannano il presunto imperialismo Usa di oggi. I massacri di cui si sono rese responsabili un po’ tutte le grandi potenze occidentali due, tre, cinque secoli fa vengono moralmente condannati senza tenere alcun conto del contesto storico, della cultura dominante in quelle epoche lontane. Il contesto storico, ottimo per giustificare i crimini di Stalin (o meglio, per trasformare quei crimini in “inevitabili costi del progresso”) scompare di fronte alla constatazione del tristissimo fenomeno dello schiavismo nella Grecia antica. L’odio per l’occidente in tutte le sue forme trasforma a volte il “realistico” relativista nel peggiore degli idealisti dogmatici.
L’universalista però non è, o non è necessariamente, un idealista dogmatico, tiene conto della storia e dei suoi contesti, ne tiene conto meglio del relativista.
Per l’universalista esistono alcuni valori che interessano tutti gli esseri umani, indipendentemente dai contesti storico-sociali in cui essi vivono. Tuttavia questi valori vengono applicati e perseguiti in maniera del tutto diversa a seconda di questi contesti. Un esempio può chiarire meglio il concetto. Gli uomini non amano essere sottoposti a schiavitù, quale che sia il contesto in cui vivono preferirebbero non essere imprigionati arbitrariamente, non essere torturati o condannati per delitti che non hanno commesso. Diventare schiavo era una prospettiva orribile ai tempi dell’antica Roma come lo è oggi, ciò non ha impedito che per secoli la schiavitù sia stata una istituzione presente ovunque o quasi. Questo è spiegabile. Ognuno ama la propria libertà ma è molto meno sensibile alla libertà degli altri. L’uomo è capace di giudizi morali ma è anche capace di opprimere i suoi simili in maniera feroce, può anteporre il proprio benessere al rispetto dell’altrui dignità. In contesti storico-sociali caratterizzati da miseria e arretratezza è del tutto naturale che questi fattori della nostra natura abbiano il sopravvento. Se l’unico modo per creare ricchezza è far lavorare alcuni come schiavi è realistico pensare che lo schiavismo prima o poi possa prender piede. Nell’antichità l’alternativa era secca: o miseria per tutti o ricchezza e cultura per pochi al prezzo della degradazione di molti. L’universalista queste cose le vede bene e capisce anche come in simili situazioni non solo possa essere sorta la schiavitù ma sia sorta e sia profondamente penetrata nella cultura e nel comune modo di pensare di interi popoli la giustificazione teorica della schiavitù. Mentre condanna senza riserve lo schiavismo l’universalista capisce le cause che lo hanno fatto sorgere e non si sogna neppure di assumere atteggiamenti astrattamente moralistici nei confronti di quei filosofi dell’antichità che lo hanno in qualche modo giustificato. Nulla sarebbe più sciocco che considerare “immorale” Aristotele perché giustifica lo schiavismo anche se è doveroso oltre che legittimo confutare le sue teorie su tale fenomeno. Per il relativista invece la confutazione delle teorie di Aristotele sullo schiavismo è inutile in quanto queste sono vere nel contesto in cui Aristotele visse; d’altra parte se il relativista è un nemico dell’occidente la condanna per lo Stagirita è certa, nessuna preoccupazione per il “contesto” salverà in questo caso il grande filosofo dalla più dura riprovazione morale.

Il contesto condiziona il valore e, soprattutto, la sua messa in pratica. A volte riesce addirittura a mettere a tacere il valore, lo espelle da sé come un corpo estraneo, contrappone al valore universale altri valori che sono propri del contesto e solo di questo. Il valore però non si lascia distruggere e coartare, resta in tensione più o meno forte col contesto, riemerge in forme diverse proprio quando lo si riteneva morto e sepolto. Proprio la giustificazione aristotelica delle schiavismo dimostra la corposa realtà di questa latente tensione fra valore universale e contesto.
Aristotele non considera lo schiavismo qualcosa di positivo, al contrario. Ridurre in schiavitù Platone è stato un crimine, come sarebbe un crimine ridurre in schiavitù un essere umano che non sia “naturalmente” portato ad essere schiavo. Lo schiavo per Aristotele è tale perché è nella sua natura esser schiavo. Un libero diventa schiavo perché è schiavo in potenza, riducendolo in catene si mette in atto ciò che potenzialmente egli era fin dall’inizio.
E’ fin troppo facile evidenziare le aporie del discorso aristotelico. Lo stagirita non fa altro che constatare un fenomeno empirico, l’esistenza della schiavitù, e decide che questo fenomeno empirico altro non è che il passaggio dalla potenza all’atto: la schiavitù esiste perchè esistono esseri umani potenzialmente schiavi. Ma come si può, una volta accettato tale procedimento, dire, ad esempio, che è stato un crimine ridurre Platone in schiavitù? Il semplice fatto che questo sia successo non dovrebbe dimostrare che Platone era “potenzialmente” schiavo?
Al di là delle aporie resta però il fatto che anche per Aristotele lo schiavismo è un fenomeno negativo che può essere giustificato solo dal fatto che lo schiavo è tale per natura. Non si coarta la natura umana riducendo in schiavitù chi è già schiavo, anche se solo in potenza, afferma Aristotele. Ciò significa che anche per lui l’uomo non potenzialmente schiavo ha un valore e nessun contesto giustifica la sua riduzione allo stato servile. La cultura della sua epoca e la stessa impostazione generale della sua filosofia spingono Aristotele a cercare di giustificare lo schiavismo che comunque gli appare, anche alla sua epoca, un fenomeno odioso. Lungi dal giustificare il contestualismo la difesa aristotelica dello schiavismo dimostra che l’universalità del valore era ben presente alla sua mente acuta.

Per concludere, si può essere realisti, figli del proprio tempo e credere fortemente in alcuni valori universali. Si può valutare l’importanza del contesto senza accettare il relativismo contestualista. Ognuno di noi non è solo un astratto essere umano, è, sempre, anche altre cose: occidentale, italiano, lavoratore, ecc e tutte queste altre cose contano nel fare di lui ciò che è. Ma resta sempre un uomo, un generico membro della razza umana. E anche questo è importante, molto importante.





martedì 5 agosto 2014

LA PAROLA AD HAMMAS




E' una caratteristica di molti occidentali. Non leggono ciò che i loro nemici scrivono, non ascoltano le loro parole. O, quando leggono e ascoltano, non prendono sul serio. Non è un fenomeno nuovo. Molti anni fa un oscuro ex caporale coi baffetti scrisse un libro. Si chiamava “Mein kampf” ed esplicitava in maniera molto chiara le idee, i programmi, i valori in cui quell'ometto insignificante si riconosceva. Non fu preso molto sul serio. "Farneticazioni di un pazzoide, idiozie, idee confuse che non potranno mai tradursi in fatti", si diceva. E quando quell'ometto insignificante divenne il capo assoluto del più potente paese europeo molti occidentali, molti capi di stato occidentali, continuarono a non credere ai suoi discorsi deliranti. Spazio vitale, distruzione dell'ebraismo, che sciocchezze! Pura propaganda, nessun uomo politico oserebbe cercare di mettere in atto un simile programma. Abbiamo visto come sono andate le cose. Nulla è più irrazionale del credere che l'irrazionalità non esista.
Le reazioni di molti occidentali alle aggressioni del fondamentalismo islamico ricordano da vicino tale tragica cecità. Non vengono prese sul serio, anzi, molto spesso vengono completamente ignorate. Eppure ci sono moltissimi eventi che dovrebbero mettere in guardia anche il più scettico degli osservatori. Se qualcuno, il dieci settembre 2001, avesse detto che Al Qaeda intendeva distruggere le torri gemelle sarebbe stato preso per pazzo. Di nuovo, si è visto come sono andate le cose. E dopo l'attacco all'America sono arrivati gli attentati a Madrid e a Londra, ed in Turchia, in India, in Russia... ovunque. In Israele soprattutto, che è da sempre nel mirino dei terroristi. Ma, per i “progressisti” il terrorismo anti israeliano sarebbe solo una reazione, giustificabile in fondo, alla politica “imperialista” dello stato ebraico.
Date un po' di terra ai palestinesi, consentite loro di fondare uno stato e tutto sarà risolto, dicono.
Allora, val la pena di esaminare il programma, facilmente rinvenibile in rete, del più implacabile nemico di Israele, Hammas, per vedere quanto le speranze delle anime belle dell'occidente siano fondate. Servirà a poco, probabilmente perché non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire. Però nessuno potrà dire: “non sapevo”.

“Il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento palestinese unico. Offre la sua lealtà ad Allah, deriva dall’islam il suo stile di vita, e si sforza di innalzare la bandiera di Allah su ogni metro quadrato della terra di Palestina”. Così esordisce il documento. E prosegue: “All’ombra dell’islam, è possibile per i seguaci di tutte le religioni coesistere nella sicurezza: sicurezza per le loro vite, le loro proprietà e i loro diritti. È quando l’islam è assente che nasce il disordine, che l’oppressione e la distruzione si scatenano, e che infuriano guerre e battaglie”.

Sin dall'inizio Hammas teorizza la dhimmitudine. Di cosa si tratta? Semplicemente del diritto concesso agli “infedeli” di praticare la loro fede in cambio del pagamento di una tassa e della loro riduzione a cittadini di serie B, se non peggio. I non mussulmani dovrebbero vivere in società dominate dal fondamentalismo religioso, sottoposti, come tutti, alla sharia. Le donne non mussulmane dovrebbero uscire di casa velate, nella migliore delle ipotesi; sarebbe vietato, ovviamente, agli “infedeli” di propagandare il loro credo o di pubblicare opere critiche nei confronti dell'Islam. In cambio ci sarebbe “sicurezza per le loro vite, le loro proprietà ed i loro diritti”. Quali “diritti”? Quelli gentilmente concessi dai seguaci dell'islam. Davvero una fantastica prospettiva! Qualche anima bella occidentale vada a proporre a qualche islamico di vivere la sua fede “all'ombra del cristianesimo”, o dell'ebraismo o dell'induismo, e osservi la sua reazione...
Del resto, Hammas è molto chiaro sul tipo di società che intende edificare, diamogli di nuovo laparola:

“Il Movimento di Resistenza Islamico si è sviluppato in un tempo in cui l’islam si è allontanato dalla vita quotidiana. Così i giudizi sono stati rovesciati, i concetti sono diventati confusi e i valori sono stati trasformati; il male prevale, l’oppressione e l’oscurità infuriano, e i codardi si sono trasformati in tigri. (...) Lo stato di verità è sparito, sostituito da uno stato di malvagità. Nulla è rimasto al suo posto, perché quando l’islam è assente dalla scena, tutto cambia. (...)
Quanto agli obiettivi: combattere il male, schiacciarlo, e vincerlo cosicché la verità possa prevalere; le patrie ritornino ai loro legittimi proprietari; la chiamata alla preghiera si oda dalle moschee, proclamando l’istituzione di uno Stato islamico. Così il popolo e le cose torneranno ciascuno al suo posto legittimo. E l’aiuto si chiederà ad Allah. (…)
Quando la fede è perduta, non c’è più sicurezza. Non c’è vita per coloro che non hanno fede. E chiunque è soddisfatto di una vita senza religione, egli avrà la caduta nel nulla come compagna per la vita (…) Dio come scopo, il Profeta come capo, il Corano come costituzione, il jihad come metodo, e la morte per la gloria di Dio come più caro desiderio".

Più chiari di così non si potrebbe essere. Allontanarsi dall'Islam è il male, è invece il bene costruire uno stato islamico che abbia Dio come scopo ed il Corano come COSTITUZIONE. Le anime belle occidentali che teorizzano la costruzione, al posto di Israele, di uno stato palestinese democratico, liberale, tollerante, in cui a tutti gli individui e a tutti i credo religiosi siano garantiti uguali diritti sono servite.

Andiamo avanti. Molti occidentali scambiano il conflitto israelo-palestinese con un normale scontro per la terra, una disputa, magari violenta ma classica, per stabilire dei confini. Qualcuno lo assimila ad una lotta di liberazione simile a quelle che hanno visto il sorgere di molti stati nazionali. I palestinesi non vogliono vivere in Israele, anche se quello stato garantisce loro i fondamentali diritti civili e politici, oltre che il diritto di professare in piena libertà il proprio credo religioso. Si crei quindi, accanto e non al posto di Israele, uno stato palestinese ed un conflitto che dura da 66 anni sarà infine risolto.
La prospettiva di creare uno stato palestinese che conviva accanto a, e non al posto di, Israele è ragionevole ed, in astratto, condivisibile. Ma, per mettere in atto idee ragionevoli ci vuole l'accordo di tutti gli interessati. Ora, cosa pensa Hammas in proposito?

Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un sacro deposito (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio?”

Altro che “due popoli due stati”! La Palestina, tutta la Palestina, è terra islamica e tale deve essere, fino al giorno del giudizio. Sarebbe inutile ricordare ai militanti di Hammas che non sono mai esistiti né uno stato né un movimento nazionale palestinesi o che gli ebrei si sono insidiati in Palestina comprando, non espropriando terre. Sarebbe inutile perché ad essere decisivo per Hammas è il carattere islamico della Palestina e nessun accordo, nessuna vendita, nessuna trattativa possono mettere in discussione tale carattere.
Ma, da cosa deriva la Palestina il suo carattere “islamico”? Di certo non è islamica da sempre, di certo un tempo gli ebrei vivevano in Palestina, anche se allora non aveva questo nome (e neppure dopo lo ebbe, a voler essere precisi). Di nuovo, la risposta di Hammas è di una cristallina chiarezza. La Palestina è islamica perché le terre di quella che è l'attuale Palestina, cioè le terre su cui sorge lo stato di Israele, sono un tempo state conquistate dagli islamici e le terre che gli islamici hanno conquistato devono restare islamiche, per sempre.

“Questa è la regola nella legge islamica (shari’a), e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio.”

Conquistare una terra vuol dire consacrarla all'Islam, per sempre. Quello che c'era prima e quello che è avvenuto dopo la conquista, non contano nulla.

“Così avvenne che quando i capi delle armate musulmane conquistarono la Siria e l’Iraq, si rivolsero al [secondo] califfo dei musulmani, ‘Omar ibn al-Khattab [591-644], chiedendo la sua opinione sulle terre conquistate: dovevano dividerle fra le loro truppe, lasciarla a chi se ne trovava in possesso, o agire diversamente? Dopo consultazioni e discussioni tra il califfo dei musulmani, ‘Omar ibn al-Khattab, e i compagni del Messaggero di Allah – possano le preghiere e la pace di Allah rimanere con lui – decisero che la terra dovesse rimanere a chi ne era in possesso affinché beneficiasse di essa e della sua ricchezza. Quanto alla titolarità ultima della terra, e alla terra stessa, occorreva considerarla come waqf, affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio.
La proprietà della terra da parte del singolo proprietario va solo a suo beneficio, ma il waqf durerà fino a quando dureranno i Cieli e la Terra. Ogni decisione presa con riferimento alla Palestina in violazione di questa legge islamica e nulla è senza effetto, e chi la prende dovrà un giorno ritrattarla".
Il singolo proprietario terriero potrà godere dei frutti della terra ma non potrà
mai, in nessun caso, metterne in discussione il carattere islamico. Che, partendo da simili premesse, Hammas neghi radicalmente il diritto all'esistenza dello stato di Israele è fin troppo ovvio. Hammas nega questo diritto in maniera tanto radicale da non chiamare mai col suo nome lo stato di Israele, sempre definito come “entità sionista”. Di nuovo, i fondamentalisti di Hammas non sbagliano: chiamare Israele col suo nome vuol dire concedergli una sorta di “riconoscimento linguistico” e questo è per loro assolutamente inaccettabile.
Ma, attenzione. Hammas nega in prospettiva il diritto di esistere non solo allo stato di Israele ma a tutti quegli stati che sorgono su terre un tempo islamiche perché conquistate, a suo tempo dagli islamici.
Tutte le terre che sono state islamiche devono tornare ad esserlo. E, va da se, le terre che islamiche non sono, e non sono mai state, in prospettiva devono diventarlo. Lo scontro è oggi con Israele perché Israele è li, in medio oriente, confinante con paesi mussulmani, uno stato che con la sua stessa esistenza costituisce per loro un intollerabile insulto. Ma lo scontro con Israele è la punta di diamante di uno scontro più vasto, volto a restituire all'Islam le terre che furono sue e a fargliene conquistare di nuove. Lo scontro insomma è fra il fondamentalismo islamico ed l'occidente, tutto l'occidente. Non a caso Hammas si dichiara amico di tutti i movimenti islamici:

“Il Movimento di Resistenza Islamico considera gli altri movimenti islamici con rispetto e ammirazione. Anche quando si trova in disaccordo con loro su un particolare aspetto o punto di vista, rimane d’accordo con loro su altri aspetti e punti di vista. Considera questi movimenti come compresi nella categoria dello
ijtihad [cioè dell’interpretabile], fin quando hanno buone intenzioni, rimangono devoti ad Allah, e la loro condotta rimane nei confini del circolo islamico. (...)
Il Movimento di Resistenza Islamico considera tutti questi movimenti come suoi, e chiede che Allah guidi e ispiri retta condotta a tutti. Non mancherà di continuare a innalzare la bandiera dell’unità, e a sforzarsi di realizzarla sulla base del Libro e dell’insegnamento del Profeta."

Inutile ricordare che Al Qaeda fa parte di questi movimenti islamici per i quali Hammas esprime “rispetto ed ammirazione”.

L'integralismo estremistico di hammas risulta ancora più chiaro nelle parti del suo statuto dedicate al delicato problema delle trattative di pace.

Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di Resistenza Islamico. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione. Il nazionalismo del Movimento di Resistenza Islamico è parte della sua religione, e insegna ai suoi membri ad aderire alla religione e innalzare la bandiera di Allah sulla loro patria mentre combattono il jihad.”

E, per essere ancora più chiari:

“Di tanto in tanto, si sente un appello a organizzare una conferenza internazionale per cercare una soluzione al problema palestinese. Alcuni accettano l’idea, altri la rifiutano per una ragione o per un’altra, domandando il rispetto di una o più condizioni come requisito per organizzare la conferenza o per parteciparvi. Ma il Movimento di Resistenza Islamico – che conosce le parti che si presentano alle conferenze e il loro atteggiamento passato e presente rispetto ai veri problemi dei musulmani – non crede che queste conferenze siano capaci di rispondere alle domande, o restaurare i diritti o rendere giustizia agli oppressi. Queste conferenze non sono nulla di più che un mezzo per imporre il potere dei miscredenti sui territori dei musulmani. E quando mai i miscredenti hanno reso giustizia ai credenti? (...). Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad. Quanto alle iniziative e conferenze internazionali, sono perdite di tempo e giochi da bambini.”
 

Si potrebbe continuare ma si correrebbe il rischio di ripetersi. Di tutto si possono accusare i terroristi di Hammas meno che di non parlar chiaro. La soluzione del problema palestinese è nella Jihad, tutto il resto è, nella migliore delle ipotesi, una “perdita di tempo”. Le anime belle occidentali possono far finta di non vedere o di non sentire, le cose non cambiano.
Naturalmente le anime belle non si danno per vinte. Quelle fra loro che hanno letto il programma di Hammas belano che non è roba da prendere sul serio, che bisogna capire una rabbia legittima, far distinzioni, essere “razionali”. Altri dicono, che Hammas “non è simpatica” ma questo non giustifica la “politica genocida” di Israele, magari che i razzi di Hammas sono “giocattoli”. Gli occidentali “buoni” sono abilissimi nel crearsi un mondo fatto a loro immagine e somiglianza. Se la realtà non coincide con i propri sogni, vada al diavolo la realtà.
Qualcuno potrebbe dire che Hammas non si identifica con tutti i palestinesi, né li rappresenta tutti. Verissimo. Ci sono di certo molti, forse moltissimi, palestinesi che non ne possono più della retorica bellicista di Hammas che procura loro solo lutti a non finire, e che vorrebbero un loro stato, ma convivente, non in guerra con Israele. Voci critiche nei confronti di Hammas cominciano del resto a sentirsi anche nei paesi arabi, in Egitto soprattutto. Ma occorre che il dissenso, se c'è, cresca e si faccia sentire, e lo si può aiutare solo se si toglie qualsiasi appoggio ad Hammas, non gli si concede giustificazione alcuna, a nessun livello. Nulla ostacola una presa di coscienza critica fra i palestinesi quanto il giustificazionismo nei confronti dei terroristi che li guidano e pretendono di parlare a loro nome
E non hanno tutti i torti neppure coloro che sollecitano Israele a non rifugiarsi in ipotesi solo militari, a cercare, per quanto è possibile, soluzioni politiche. A patto però di aver ben chiaro che intanto gli israeliani
devono difendersi ed hanno tutto il diritto di farlo. Loro non possono permettersi di filtrare con il buonismo giustificatorio ed imbelle. Sono in prima fila, nell'occhio del ciclone. E combattono. Alla faccia di tutti i “buoni” del mondo.