giovedì 30 luglio 2015

CONSIDERAZIONI SULLA "LAUDATO SI"




E' importante l'ultima enciclica papale. Lo è non tanto perché costituisca una novità culturale: non si incontra nella “laudato si” letteralmente nulla che non sia già stato detto e ripetuto innumerevoli volte, è importante proprio perché non dice nulla di nuovo. Con la sua enciclica il papa da il suo alto avallo ad un magma ideologico fatto di pauperismo, terzomondismo, mentalità anti industriale, malthusismo, il tutto condito con una goccia di mal digerito marxismo, che è oggi egemone in larghi settori della pubblica opinione occidentale, ed è una delle cause della crisi in cui versa la nostra civiltà. Val la pena quindi di leggerla, questa enciclica, e cercare di commentarla.

LA NATURA

L'enciclica presenta la natura come una sorta di grande ed armonioso sistema. Ogni ente è in relazione con tutti gli altri e contribuisce con gli altri alla vita del tutto. Il punto di riferimento del papa è san Francesco che considerava “qualsiasi creatura sorella, unita a lui con vincoli di affetto”. Questa concezione, secondo il papa, “non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale, perché influisce sulle scelte che determinano il nostro comportamento”. Solo “se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea”, se invece non sentiamo questa unione mistica con la totalità del creato diventeremo dominatori capaci solo di saccheggiare e distruggere l'ambiente che ci circonda.
Il papa invita a guardare la natura con occhi colmi di stupore ed ammirazione per la sua sconfinata bellezza, e basterà questo sguardo a farci sentire il legame d'amore che ci unisce a tutte le creature.
In effetti è vero che la visione della natura è uno spettacolo di sconfinata bellezza. Poche cose riempiono l'animo di tanto stupore ed ammirazione quanto la visione del cielo stellato. Ma, è proprio vero che questa visione ci fa sentire l'intimo legame che ci unisce al tutto? E' quanto meno dubbio. Quando si parla di sentimenti non è possibile fare affermazioni dimostrabili, tuttavia forse non è del tutto errato affermare che la visione del cielo stellato suscita in noi un sentimento di smarrimento: ci fa sentire piccoli ed insignificanti di fronte a qualcosa immensamente più grande di noi ed estraneo ai nostri fini ed ai nostri valori. Il sentimento del sublime, ricorda Kant, sorge in noi ogni volta che la natura ci “sbatte in faccia” la nostra nullità. Il cielo stellato, il mare in tempesta, un ghiacciaio ricco di crepacci, una enorme parete rocciosa non ci fanno sentire misticamente uniti al tutto, semmai ci danno la sensazione, splendida e dolorosa insieme, della nostra solitudine in un mondo che
non è fatto a nostra immagine.

Lasciamo perdere i sentimenti. Tutto è armonicamente collegato da fili invisibili, afferma il papa, ma noi, nella nostra superbia, non vogliamo ammetterlo. Ad esempio, “
stentiamo a riconoscere che il funzionamento degli ecosistemi naturali è esemplare: le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di rifiuti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione di vegetali.
C'è da restare esterrefatti. Un sistema in cui ogni ente esiste al solo fine di alimentarne un altro viene presentato come esempio di armonia! L'erba nutre le zebre, le zebre nutrono i leoni ed i rifiuti organici dei leoni diventano nutrimento per le zebre: tutto è equilibrio, armonia, cura. Il peggior prodotto della umana arroganza, invece, “il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie”. Non lo ha fatto, ovviamente, a causa della perversa mentalità “usa e getta” da cui sono affetti gli uomini, come se il “riutilizzo di scorie e rifiuti” fosse impresa facile e quella fondamentale legge di natura che si chiama crescita dell'entropia non ci ricordasse che gran parte dei processi di trasformazione che avvengono in natura sono irreversibili.
Simili dettagli scientifici non interessano molto, probabilmente, l'autore dell'enciclica. Per lui madre natura non spreca nulla, l'uomo invece ha fatto dello spreco inquinante l'alfa e l'omega della sua attività insensata. Però, il capo della cristianità dovrebbe porsi qualche piccolo interrogativo sulla presunta “armonia” degli ecosistemi. Ammettiamo pure, per un attimo, che l'equilibrio degli ecosistemi miri davvero alla sopravvivenza del tutto, resta pur sempre un interrogativo: e,
i singoli? Diamolo pure per scontato: la zebra nutre il leone, il leone fa la popò e questo procura nutrimento ad altre zebre, ma, cosa ne pensa di tutto questo armonioso processo la singola zebra che viene divorata viva da un branco di leoni famelici? Il fine è l'armonia del tutto, ma questo fine viene raggiunto tramite l'eliminazione spietata dei singoli. E' davvero “armonico” tutto questo? O non è invece caratterizzato da una disarmonia insanabile, spietata, fra le esigenze della specie e quelle degli individui? Il pensiero cristiano in fondo è caratterizzato dalla esaltazione del singolo, della persona; nessuno fra i grandi pensatori cristiani ha degradato il singolo a mera componente di un tutto che lo sovrasta e lo domina, questo dovrebbe mitigare almeno un po' gli entusiasmi ecologici di papa Francesco.

Ma è poi vero che l'equilibrio degli ecosistemi mira a garantire la sopravvivenza di tutte le specie e di tutti gli enti naturali?
NO, ovviamente. La natura vivente non è caratterizzata dall'equilibrio ma da una spietata lotta per la sopravvivenza del più adatto, quella non vivente da continue e spesso catastrofiche trasformazioni. Ogni momento nell'universo muore qualche stella, e quando una stella muore trascina con se i pianeti che le ruotano attorno, e se in qualcuno di questi pianeti esistono forme di vita, tanto peggio per loro. Considerazioni simili possono essere fatte per i corpi celesti che vengono continuamente assorbiti in quelle cose inquietanti al massimo che sono i buchi neri. La natura è tanto poco “amorosa armonia” che innumerevoli specie animali si sono estinte per motivi assolutamente naturali. Dove oggi esiste il mar mediterraneo è esistito un tempo un enorme deserto, le attuali dolomiti un tempo erano scogli sommersi, i giacimenti di petrolio, tanto detestati dagli ecologisti radicali, un tempo erano lussureggianti foreste. L'enciclica considera ingenuamente lo stato attuale del mondo come qualcosa di perfetto e definitivo, ma si tratta appunto, solo di un ingenuo abbaglio ideologico. Tutti gli accorati appelli a “preservare la casa comune” dimenticano che la casa è destinata, come tutto ciò che esiste in natura, a deperire e crollare, per motivi assolutamente naturali.

Papa Francesco ripete più volte nella sua enciclica, che il cristianesimo non divinizza la natura. Però di certo lui, il papa, la antropoformizza la massimo, la natura, soprattutto la nostra terra. Nella “laudato si” la terra diventa una super persona, una sorta di gigantesco essere umano con sentimenti e sensazioni. L'uomo “offende” e “sfrutta” la terra, e questa si lamenta e soffre, unisce il suo “grido di dolore” a quello dei poveri. Siamo di fronte ad una concezione prescientifica della natura. Malgrado l'enciclica faccia qua e la riferimento agli uomini di scienza è fin troppo evidente che la natura di papa Francesco non ha nulla a che vedere con quella di un Galileo, di un Newton o di un Darwin. Ma siamo anche di fronte ad una concezione prefilosofica della natura. La concezione aristotelica della natura, con le sue sfere cristalline ed il suo primo motore, e quelle dei primi filosofi naturalisti: i presocratici e soprattutto gli atomisti, sono molto più realistiche di quella di papa Francesco. E, a ben vedere le cose, la concezione della “laudato si” retrocede anche rispetto a quello che è l'ispiratore sommo del papa: il poverello di Assisi, san Francesco. E' vero che san Francesco amava tutte le creature, ma le amava
unicamente in quanto in esse risplende la gloria del Signore; la natura è amata in quanto creazione di Dio, ed il culmine della creazione, il suo fine e beneficiario, resta, in san Francesco come in tutti i pensatori cristiani, l'uomo, unico ente creato ad “immagine e somiglianza di Dio”. In alcune fra le pagine più contorte della sua enciclica il papa cerca, è vero, di conciliare l'antropocentrismo cristiano con la sua visione organicistica della natura, ma l'unica cosa che si può dire del suo tentativo ermeneutico è che appare, quanto meno, assai “disinvolto”.
Per concludere, la concezione della natura che emerge dall'enciclica papale è prefilosofica e prescientifica, per dirla in una parola, si tratta di una concezione
mitologica, una sorta di riproposizione in chiave cristiana del mito pagano di Gaia, il pianeta vivente. Se e come questo sia conciliabile col cristianesimo resta un problema irrisolto.  

L'UOMO IRRESPONSABILE INQUINATORE  

“La terra, nostra casa”, afferma l'enciclica papale, “sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia. In molti luoghi del pianeta, gli anziani ricordano con nostalgia i paesaggi d’altri tempi, che ora appaiono sommersi da spazzatura”. La causa di questo miserevole stato di cose è da ricercarsi nella “cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura”. Il consumismo sfrenato dei popoli ricchi sta trasformando il mondo in una latrina e questo ha effetti devastanti sullo stesso uomo, in particolare sugli “esclusi”, gli abitanti delle zone periferiche del pianeta.
i gemiti di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta. Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli” afferma l'enciclica.
Il guaio insomma è cominciato circa due secoli fa, quando l'uomo, accecato dalla sua insana volontà di potenza, ha intrapreso la strada della industrializzazione. Qualcuno potrebbe retrodatare l'inizio della catastrofe e collocarlo, più correttamente, fra il '500 ed il '600, al tempo della rivoluzione scientifica, ma questi sono dettagli.
Però, anche ad un esame superficiale le cose non sembrano quadrare troppo. Si, perché gli ultimi 200 anni sono stati quelli che hanno visto una riduzione della miseria ed uno sviluppo del benessere mai visti prima nella storia. Fino al 1400 un neonato poteva sperare di vivere al massimo 20, 30 anni e solo un bambino su due raggiungeva il quinto compleanno. In Francia nel 1845 l'aspettativa di vita era di circa 45 anni, oggi nei paesi sviluppati sfiora gli 80 anni ed anche in molti paesi economicamente arretrati si avvicina ai 70. Considerazioni simili possono essere fatte per tutti gli indicatori di benessere. Negli ultimi 200 anni si è contratto fin quasi a scomparire l'analfabetismo ed è cresciuta ovunque la scolarizzazione. Un tempo malattie infettive oggi completamente debellate falcidiavano gli esseri umani a milioni. La causa di questo massacro non va ricercata solo nello scarso sviluppo della scienza medica, ma anche nella sporcizia e nell'inquinamento. Sono figlie dell'industrializzazione non solo auto e ferrovie, ma anche le reti idriche e fognarie che hanno radicalmente migliorato la vita di milioni di esseri umani. Anche se in maniera non uniforme questo processo ha interessato tutti i paesi, compresi quelli meno sviluppati, molti dei quali del resto hanno cessato di essere tali precisamente perché hanno imboccato la strada della industrializzazione: si pensi alla Cina o all'India, all'Argentina, al Cile od al Brasile. Restano poveri invece quei paesi, in Africa sopratutto, che quella strada, per tutta una serie di motivi, non sono riusciti ad imboccarla. Forse il mondo di oggi è davvero una invivibile latrina mentre quello dei bei tempi andati era una specie di piccolo paradiso, però chi in quei tempi ci ha vissuto è stato molto felice di abbandonarlo, quel paradiso, e di imboccare la strada infernale dello sviluppo economico.

I miglioramenti di tutti gli indici di benessere negli ultimi due secoli è talmente evidente che stupisce che questi vengano presentati come una sorte di catastrofe per il pianeta ed il genere umano. Ma in realtà non ci si deve stupire più di tanto. Tutta l'enciclica è pervasa da una idea molto precisa: lo sforzo dell'uomo per migliorare la propria condizione è qualcosa di molto pericoloso, addirittura di potenzialmente satanico. L'industrializzazione, l'innovazione, lo sviluppo sono guardati nella migliore delle ipotesi con sospetto, nella peggiore con profonda avversione. L'aumento della ricchezza è bollato come “consumismo” ed è considerato fonte di degrado umano ed ambientale. I problemi innegabili che sorgono dal processo di sviluppo sono considerati non come qualcosa di oggettivo, da affrontare con pragmatismo realistico, si tratta invece di problemi che hanno la loro origine nella natura dell'uomo di oggi, sfigurata dal “
consumismo compulsivo”, e a cui sarebbe facile porre rimedio se tutti accettassimo uno stile di vita “più sobrio”. Esemplare è, a questo proposito, il rifiuto di considerare l'eccessivo incremento demografico come una delle cause di problemi che ci attanagliano: “Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi”, afferma il pontefice. Si diventi “sobri” e si avranno, insieme, uscita dalla povertà per due miliardi circa di infelici, incremento demografico indefinito ed assenza di problemi ambientali: non ci sarebbero problemi se i “ricchi” consumassero meno. Però, sorge spontanea una domanda: visto che la causa di tutti i guai è l'eccesso di consumo, anche se “i icchi” consumassero meno i maggiori consumi di quasi due miliardi di poveri non creerebbero a loro volta problemi ecologici? Davvero uno stile di vita “più sobrio” può essere considerato il toccasana? Ed in cosa si tradurrebbe poi questa “sobrietà”? L'enciclica non da mai risposte concrete a questo interrogativo, si limita ad auspicare un mutamento nei modelli di consumo e a metter sotto accusa... i condizionatori d'aria: “Le abitudini nocive di consumo, non sembrano recedere, bensì estendersi e svilupparsi. E’ quello che succede, per fare solo un semplice esempio, con il crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria”. Molto interessante.
In realtà, se L'analisi dell'enciclica fosse anche solo minimamente realistica, se davvero fossimo sull'orlo del baratro, nulla potrebbe salvarci. Altro che “sobrietà”! Se la situazione fosse davvero così come la si presenta potremmo anche chiudere tutte le fabbriche e tutte le centrali, interrompere dall'oggi al domani ogni attività produttiva, saremmo comunque spacciati. Perché? Semplice, perché basterebbe
l'attività vulcanica a darci il colpo di grazia. Il clima è sempre cambiato nel corso dei millenni, spesso in maniera catastrofica. I ghiacci si sono espansi fino sin quasi all'equatore e si sono poi ritirati sino alle dimensioni attuali; per non andare troppo indietro nel tempo negli ultimi due millenni periodi caldi si sono alternati a periodi freddi, e questo in epoche in cui la rivoluzione industriale era ancora “un mente dei”. Le cause sono state soprattutto l'attività solare, gli spostamenti dell'asse terrestre e l'attività vulcanica. Nel graffiante pamphlet “le bugie degli ecologisti” Riccardo Cascioli ed Antonio Gaspari ricordano che una sola grande eruzione vulcanica “immette nell'atmosfera 17 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, circa due volte e mezzo l'emissione annua causata dalle attività umane a livello mondiale”. Più che sufficiente, direi a farci precipitare nell'abisso.
Le cose non stanno così, per fortuna, per il semplice motivo che l'analisi della “laudato si” è tutto meno che realistica. Sembra che chi la ha scritta provi quasi un sottile piacere nel presentare i problemi ecologici enormemente più gravi di quanto già non siano. Dà spazio alle visioni apocalittiche dei profeti di sventura senza curarsi minimamente di confrontarle con i fatti. Il celebre “club di Roma” profetizzò lo scorso secolo l'esaurimento della gran parte delle risorse del pianeta entro l'anno 2000. Si sa come sono andate le cose. Non sembra che l'enciclica papale tenga in gran conto questo genere di smentite.


IL GRIDO DEI POVERI

Il degrado ambientale è anche degrado umano e sociale. Le folli pratiche consumistiche distruggono l'ambiente e condannano nel contempo gli emarginati della terra ad una vita sempre più miserabile. Per papa Francesco la miseria di tante parti del mondo non è dovuta alla mancanza o alla insufficienza dello sviluppo, è al contrario l'effetto dello sviluppo. La lotta per salvare nostra sorella terra è nel contempo lotta per garantire ai poveri un avvenire migliore. “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che
un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.
Non si tratta di una tesi nuova. La hanno sostenuta in moltissimi negli anni 70 del secolo scorso, quelli del “grande rifiuto”; ha avuto fra i suoi massimi teorici, il presidente Mao Tze Tung ed il suo fido luogotenente Lin Piao, prima di fare la brutta fine che ha fatto.
Però, si tratta di una tesi particolarmente difficile da sostenere oggi, dopo che numerosi paesi dell'Asia e dell'America latina sono riusciti ad uscire, o fra mille difficoltà stanno uscendo, da una endemica miseria precisamente imboccando la strada della industrializzazione, dell'innovazione tecnologica, del tanto aborrito mercato, in una parola, dello sviluppo.
Ma al papa questi esempi interessano poco. La sua visione dell'economia è essenzialmente redistributiva. Esiste un grande forziere colmo di risorse, queste sarebbero sufficienti ad assicurare un dignitoso livello di vita a tutti, ma una minoranza di avidi consumisti si appropria della maggior parte dei beni contenuti in questo forziere condannando gli altri alla miseria. Da un lato ci sono le risorse dall'altro i consumi; che si parli dell'acqua, della fame o dei mutamenti climatici, il clichè è sempre lo stesso: i “ricchi” saccheggiano, si appropriano di una quantità spropositata di ricchezza, inquinano e fanno pagare agli altri, i poveri, il prezzo del loro “consumismo compulsivo”.
Un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere (...) C’è un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi (…) In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro”.

Le citazioni potrebbero continuare ma il discorso dovrebbe essere abbastanza chiaro. Per l'enciclica la ricchezza si identifica per lo più con le risorse naturali. Certi paesi sono ricchi di risorse naturali ma sono oppressi dalla miseria, altri invece, dotati di minori risorse, nuotano nell'abbondanza, questo proverebbe che è in atto un “saccheggio” dei paesi ricchi a danno di quelli poveri. Ma le risorse naturali, se sono un presupposto della ricchezza, non si identificano affatto con essa. La ricchezza occorre
produrla, col lavoro, la ricerca e l'innovazione tecnologica. Le risorse sono tali solo in relazione al lavoro ed alla tecnologia. Il petrolio non è stato una risorsa, ma solo un liquido maleodorante per moltissimi secoli. E' diventato risorsa quando la tecnologia ha creato auto e motonavi, aerei e centrali elettriche. Lo stesso discorso vale per quasi tutte le risorse naturali. Il problema dell'acqua, per fare un esempio solo leggermente diverso, non deriva dallo spreco che di acqua fanno i consumisti dei paesi sviluppati. Pensare che in Africa si soffra la sete perché in America si annaffiano troppo i giardini è, molto semplicemente, una idiozia. A differenza del petrolio l'acqua è una risorsa sempre indispensabile, indipendentemente dal livello di sviluppo tecnologico di un paese, e non è una risorsa troppo scarsa. Ma non è quasi mai immediatamente utilizzabile. L'acqua va cercata, estratta, depurata, trasportata il località spesso molto lontane dai luoghi di estrazione. E' la mancanza di tecnologie adeguate, non lo “spreco” consumistico a rendere drammatico il problema dell'acqua. Considerazioni simili possono essere fatte per il cibo, la cui carenza è messa in relazione, tanto per cambiare, con lo spreco consumistico e con lo scandalo degli alimenti che il ricco occidente butta via mentre in Africa la gente muore di fame. Di nuovo, pensare che la denutrizione in certi paesi del mondo sia la risultante della diffusione della obesità in altri è semplicemente ridicolo, ed ancora di più lo è il pensare che chi getta via, o da in pasto al suo cane, un pezzo della bistecca che non è riuscito a mangiar tutta, contribuisce alla fame di tanti sventurati. Il problema del cibo è legato alla produttività agricola, alla possibilità di collegare rapidamente i luoghi in cui i generi alimentari vengono prodotti a quelli in cui vengono consumati, allo sviluppo dell'industria del freddo. Un contadino o un allevatore americano producono in una giornata di lavoro una quantità di cereali o di carne enormemente superiore a quella che sono in grado di produrre un contadino o un allevatore africano. Non solo, il contadino o l'allevatore americano sono in grado di rifornire rapidamente i mercati di sbocco e, grazie all'industria del freddo, di conservare a lungo i loro prodotti, tutte cose che il contadino o l'allevatore africano non sono in grado di fare. Il “consumismo compulsivo” con tutto questo non c'entra assolutamente niente.
Ma l'enciclica non si limita a metter sotto accusa lo sfruttamento che il nord consumistico del mondo metterebbe in atto ai danni del sud sofferente. I paesi industrializzati inquinano oltre che saccheggiare e le conseguenze nefaste del loro inquinamento gravano, di nuovo, sui paesi più poveri. “
Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni”.
Insomma, se una fabbrica inquina in Germania aumenta la temperatura... in Nigeria. Come questo sia possibile resta alquanto misterioso; fino a ieri pensavamo che le località più vicine alle fonti inquinanti fossero quelle maggiormente danneggiate dalle emissioni. Le prime vittime del disastro di Chernobyl sono stati gli Ucraini, fino a prova contraria. Papa Francesco ci dice che non è vero. Non ci resta che credergli sulla parola.

E' difficile trovare in tutta l'enciclica una parola di elogio nei confronti della attività produttiva, che costituisce la vera fonte della ricchezza individuale e sociale. Per il papa la produzione è sempre o quasi causa di inquinamento, degrado, arricchimento di alcuni a danno di altri. Il santo padre è un assertore di quella che il filosofo britannico Roger Scruton chiama “la fallacia della somma zero”. Non esistono attività che siano vantaggiose per tutti, la ricerca e lo sviluppo tecnologico non sono in grado di alimentare uno sviluppo che sia cumulativo ed abbia costi sociali ed ambientali limitati. No, per papa Francesco se qualcuno guadagna qualcun altro deve, inevitabilmente, perdere. Non stupisce quindi più di tanto questa affermazione contenuta nell'enciclica:

è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti”. Se l'Africa vuole crescere Europa ed America devono decrescere. Si tratta di una affermazione che contraddice tutte le leggi economiche che parlano invece del carattere propulsivo sia dello sviluppo che del non sviluppo. Se un paese cresce la sua crescita è uno stimolo per l'economia di altri paesi, se un paese invece attraversa una fase recessiva altri rischiano di essere trascinati nella recessione. Non a caso le attuali difficoltà della Cina preoccupano moltissimo i mercati. Ma il santo padre non è affatto interessato alla scienza economica: questa rappresenta per lui qualcosa di troppo legato all'egoismo individualista per essere considerata positivamente. E così pensa che la decrescita in occidente potrebbe favorire lo sviluppo dei paesi poveri. Gli operatori economici di questi paesi, specie quelli legati alle esportazioni, di certo non gradirebbero una simile eventualità, ma, che importa? Si tratta, probabilmente, di gente attratta dalle sirene del “consumismo compulsivo”.

LAVORO E TECNOLOGIA

Le attività a più elevato contenuto tecnologico sono anche quelle a minor impatto ambientale. Per secoli gli uomini sono stati cacciatori e raccoglitori. Se ci procurassimo ancora da vivere in questo modo distruggeremmo il pianeta nel giro di pochi mesi, se i nostri antichissimi progenitori non lo hanno fatto ciò è dovuto solo al loro numero estremamente esiguo. La agricoltura intensiva ha un impatto ambientale molto minore di quella estensiva e l'applicazione della scienza all'agricoltura riduce ulteriormente tale impatto. Molti sono convinti che le famose fonti rinnovabili abbiano un impatto ambientale molto ridotto, ma si tratta di un errore grossolano. Se dovessimo procurarci non dico la totalità, ma anche solo una quota rilevante dell'energia di cui abbiamo bisogno col solare o l'eolico trasformeremmo aree enormi dei nostri territori in distese di panelli solari o pale eoliche, con effetti devastanti sulla flora e sulla fauna selvatiche. Il tanto detestato nucleare non presenta simili problemi. Ne può presentare altri, ovviamente, ma, se si applicano con rigore le normative di sicurezza, resta una fonte di energia insieme redditizia ed ecologicamente sostenibile. Se un giorno si dovesse realizzare il nucleare per fusione molti dei problemi ecologici che ci opprimono diverrebbero molto meno pressanti.
Chi, come il papa, è giustamente attento ai problemi ecologici dovrebbe quindi guardare con simpatia alla tecnologia. Tutta l'enciclica “laudato si” invece è pervasa da un forte spirito anti tecnologico. A parte alcune frasi di circostanza sulle buone cose che ci può offrire, la tecnica è sempre guardata con sospetto se non con forte ostilità, ed è continua la polemica contro chi pensa che i problemi ambientali possano essere risolti, o comunque resi meno gravi, dalla tecnologia.
Il paradigma su cui si basa la tecnica moderna, afferma l'enciclica, risponde ad una logica di dominio sfrenato dell'uomo sul mondo. “ Da tale paradigma risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede l’oggetto che si trova all’esterno. Tale soggetto si esplica nello stabilire il metodo scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione (…). L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse (…) Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti.”
La tecnologia e sua madre, la scienza moderna, rispondono ad un'ottica di dominio che rompe il rapporto armonioso dell'uomo con la natura. E' illusorio cercare di usare a fini buoni la tecnica perché questa non è qualcosa di neutro, il rapporto fra tecnica e dominio non è accidentale, ma strutturalmente connesso all'essenza stessa della tecnica moderna. "
Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere".
Ancora una volta, nulla di nuovo sotto il sole. Che scienza e tecnica non siano neutrali i più anziani lo hanno sentito ripetere mille volte negli anni della contestazione globale, da Herbert Marcuse sino all'ultimo liceale. Ma si tratta di idee tanto suggestive quanto infondate.

La tecnica non dice nulla sui fini che gli esseri umani possono darsi, si limita ad indicare i mezzi necessari al raggiungimento di determinati fini, risponde a quello che Kant ha chiamato imperativo ipotetico:
se vuoi X devi fare Y. Se un uomo gravemente ammalato deve subire un ad intervento chirurgico bisogna usare una determinata tecnica per salvargli la vita, se invece si deve eseguire una sentenza di morte occorrerà usare una tecnica diversa per togliergli la vita. Posso decidere che volare non mi interessa, ma se voglio volare devo servirmi di determinate macchine costruite secondo certe modalità tecniche. Nuotare è una tecnica ma lo sono anche lo scrivere o il suonare il pianoforte. E sono frutto della tecnica un'auto come un violino, una nave spaziale come un revolver, una trivella petrolifera come un pannello solare o un depuratore. Pensare che, in quanto tale, la tecnica ci imponga determinati fini significa, molto semplicemente confondere i fini coi mezzi, un po' come ritenere che, visto che esistono tecniche in grado di rendere particolarmente potenti i nostri pugni, noi tutti siamo obbligati a diventare pugili. Una evidente sciocchezza.
Da sempre l'uomo usa la tecnica per rendere il mondo che lo circonda compatibile coi suoi fini. Lo fa perché è l'unico animale a non adattarsi istintivamente all'ecosistema in cui è inserito, l'unico, per quanto possiamo saperne, a porsi coscientemente dei fini; in questo senso poche cose sono tanto
intimamente umane come la tecnica. Secondo l'enciclica nel bel tempo andato la tecnica non “violentava” la natura, di modo che uomo e natura potevano darsi amichevolmente la mano. Le cose stanno in realtà in maniera leggermente diversa. Un tempo le tecniche non erano “dolci”, erano solo più primitive e, in certi casi, inefficaci. Cercare di curare un tumore con un salasso è una tecnica esattamente come lo è sottoporre il paziente a chemioterapia, solo, non è una buona tecnica. Altro che uomo e natura che si davano amichevolmente la mano! Quando le tecniche non rispondevano ad una “logica di dominio” un bambino su due non raggiungeva i cinque anni d'età, epidemie di vario tipo dimezzavano la popolazione di interi continenti e una donna su dieci era destinata a morire di parto nel corso della sua vita. Un modo molto bizzarro di “darsi la mano”.

L'avversione del papa bei confronti della tecnica è tanto marcata che la sua enciclica giunge a riproporre, in maniera neppure troppo velata, autentiche tematiche luddiste.
Non si deve cercare” afferma il papa, “di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale (…) l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro sé stesso”.
C'è da restare sbalorditi, ed anche da chiedersi se il santo padre abbia un consigliere economico. Per il papa il lavoro è uno strumento di realizzazione personale, ma qui il papa fa una confusione che Smith e, in parte, lo stesso Marx si sono invece ben guardati dal fare. Il lavoro può essere, è vero, un fine in se. Scrivere, dipingere, tagliare l'erba del proprio giardino, giocare al pallone, educare i propri figli sono fini prima che essere mezzi. Nessuno scrittore vorrebbe che fosse una macchina a scrivere il romanzo a cui lui sta lavorando e nessuna madre accetterebbe di delegare ad una macchina l'educazione dei propri figli. Ma né lo scrittore né la madre corrono simili rischi. Il lavoro che si cerca di sostituire con macchine non è il lavoro inteso come autorealizzazione, il lavoro – fine, è il lavoro – mezzo, il lavoro - fatica che serve per ottenere beni e servizi, quello che si fa per un salario o uno stipendio, il
lavoro propriamente detto. Ebbene, questo lavoro ha senso solo se è produttivo. Se fatico dieci ore per produrre un bene che sarebbe possibile produrre in cinque fatico a vuoto per cinque ore, se al termine di una giornata lavorativa ho prodotto beni che non interessano a nessuno ho sprecato il mio lavoro; la mia giornata lavorativa, dal punto di vista sociale è una perdita secca. L'enciclica sembra condividere l'opinione ingenua secondo cui lavorare sia sempre e comunque qualcosa di positivo, indipendentemente dai risultati del lavoro che si svolge. Per secoli gli esseri umani hanno lavorato moltissimo restando molto poveri, semplicemente perché il loro lavoro era scarsamente produttivo. L'applicazione della scienza all'industria e lo sviluppo tecnologico hanno reso il lavoro enormemente più produttivo e questo, nel lungo periodo, ha permesso sia un incremento generalizzato del benessere che una riduzione a volte molto marcata dell'orario di lavoro. Nella “Ricchezza delle nazioni” Smith osserva che un operaio dei suoi tempi era, da certi punti di vista, più ricco che un principe del passato. L'apparente paradosso di Smith è ancora più accentuato ai nostri giorni: un comune cittadino italiano di oggi vive più a lungo, è più sano, mangia meglio, viaggia più, in molti casi è più colto di un re di tre secoli fa. Cosa ha reso possibile un fatto tanto strano? L'incremento della produttività del lavoro, conseguenza dello sviluppo tecnologico. E' quasi imbarazzante dover scrivere cose tanto banalmente vere, ma sono le “bizzarrie” dell'enciclica a costringere a farlo.

PER CONCLUDERE


Non è il caso di commentare l'enciclica in tutti i suoi molteplici aspetti. Farlo renderebbe il presente scritto intollerabilmente lungo, e non sarebbe neppure troppo utile. Al di la di questa o quella affermazione lo spirito generale che informa l'enciclica papale è infatti sin troppo chiaro. Qua e là nel suo lavoro il papa assume posizioni più “moderate”. Riconosce l'utilità di molte realizzazioni della tecnologia, ammette che il diritto di proprietà, ovviamente sottoposto a numerosissimi limiti e controlli, va tutelato, giunge addirittura a parlare di “nobiltà” della funzione imprenditoriale. Ma si tratta di posizioni che stridono con l'impostazione generale della “laudato si”. Tutta l'enciclica è infatti caratterizzata da una avversione fortissima nei confronti di quanto è sviluppo economico e tecnologico, mercato, scambio, denaro. Soprattutto è caratterizzata da una fortissima, quasi violenta, avversione nei confronti del “consumismo”. Il consumismo appare, nell'enciclica papale un fenomeno dai contorni quasi satanici. Trasforma alcuni uomini in una sorta di macchine per consumare, egoisti senz'anima capaci solo di circondarsi di beni “inutili”, e condanna altri esseri umani alla più degradante miseria. Il consumismo è il responsabile dei principali drammi dell'umanità: povertà, guerre ed inquinamento sono causati, più o meno direttamente dalla follia consumistica delle popolazioni “ricche” del pianeta.
Il consumismo è parte di un processo storico che inizia con la rivoluzione industriale. Prima di quell'evento la gran maggioranza dei beni era destinata alle classi ricche. Si produceva per le classi elevate della società, al popolo restavano le briciole. Con la rivoluzione industriale questo quadro cambia radicalmente. Le imprese iniziano a produrre beni destinati al consumo di massa. I referenti principali della produzione cessano di essere le classi alte, al loro posto si fanno avanti gli uomini e le donne “normali”. Contrariamente a quanto avveniva un paio di secoli fa i beni destinati alle elites costituiscono oggi una minoranza, spesso una piccola minoranza, del monte prodotti complessivo.
L'espansione del consumo di massa costituisce l'aspetto economico di quel processo di
entrata delle masse nella storia che ha sul piano politico il suo corrispettivo nell'affermazione della democrazia. Si è trattato e si tratta di un processo ricco di luci e di ombre, caratterizzato da pericoli che fior di pensatori liberali hanno denunciato; un processo però di cui è impossibile disconoscere il carattere storicamente progressivo. Grazie a quel processo milioni e milioni di esseri umani hanno abbandonato una posizione di degradante marginalità sociale, sono diventati a tutti gli effetti cittadini ed hanno conquistato un livello di vita finalmente dignitoso. Solo con una buona dose di snobismo intellettuale è possibile sottovalutare cose simili.

Eppure è letteralmente impossibile trovare nella enciclica papale una analisi equilibrata di un processo storico tanto importante e complesso. Nel corso di tutta l'enciclica il papa non fa che lanciare anatemi contro il “consumismo”, contrapponendo spesso alla sua “follia” la presunta serena felicità delle età preindustriali.
L'avversione del pontefice nei confronti della “opulenza consumistica” è tanto forte da far nascere sospetti sul senso vero della sua simpatia nei confronti dei poveri. Bisogna ascoltare il grido dei poveri, ripete costantemente il papa, ma, ascoltarlo per fare cosa? Per aiutare i poveri a cessare di essere tali? C'è da dubitarne.
Nel corso degli ultimi decenni importanti paesi, ieri caratterizzati da estrema, degradante povertà, hanno imboccato, fra mille difficoltà, la strada dello sviluppo. Lo hanno fatto seguendo, nella sostanza, la via già percorsa dalle grandi potenze economiche dell'occidente: investimenti in ricerca e sviluppo, tecnologia, mercato, espansione dei consumi. Il papa auspica un simile percorso per quei paesi che nel sottosviluppo ci sono ancora immersi fino al collo? Non mi sembra si possa dare una risposta positiva ad una simile domanda, al contrario. Certo, per Francesco il modello occidentale è improponibile perché “il pianeta non lo reggerebbe”. E molto dubbio che questa previsione si basi su una analisi scientifica seria della realtà, ma, a prescindere da simili considerazioni, val la pena di porsi la domanda: se fosse possibile l'attuazione di un simile modello questa sarebbe, per papa Francesco, desiderabile? Non si può che rispondere
NO. Indipendentemente dalla sua realizzabilità, per il papa il modello di sviluppo occidentale è intrinsecamente negativo, perverso, forse addirittura satanico. Se paragonata al degrado morale di cui il consumismo è portatore la povertà appare al il pontefice, come qualcosa di positivo. I poveri sarebbero portatori di valori umani fondamentali che gli abitanti dei paesi ricchi hanno ormai da tempo obliato. L'ideologia che traspare dalla enciclica papale è, fin troppo chiaramente, il pauperismo. Per questo la povertà non è tanto un problema ed un nemico quanto un valore. Si devono aiutare i poveri, ma non certo per farli diventare i mostri egoisti e dissipatori che sono i “ricchi” del nord del mondo.
E' lecito allora sospettare che la prospettiva di un mondo in cui non risuonasse più “il grido dei poveri”, un mondo in cui la povertà fosse ridotta a dimensioni marginali e tutti avessero raggiunto un decente livello di consumo, non rappresenti per il papa un sogno, al contrario. Una simile prospettiva è molto probabilmente per lui un incubo, forse il peggiore dei suoi incubi.
Tutta l'enciclica papale conferma un simile sospetto, purtroppo.

domenica 19 luglio 2015

LO STERCO DEL DEMONIO


Risultati immagini per immagini di banchieri che contano monete

Il denaro è un po’ come il sesso. Tutti o quasi ne sono attirati ma tutti o quasi mostrano una certa repulsione nei suoi confronti. Come il sesso il denaro è, dicono i moralisti, intrinsecamente un po’ sporco: è qualcosa che si desidera, che è bene avere, ma è anche corruttore, spinge l’uomo ad azioni spregevoli ed è esso stesso, in fondo, abbastanza spregevole. Il denaro appartiene alla dimensione dell’avere, anzi, ad una forma particolarmente alienante di questa dimensione. Grazie al denaro l’avere prevale sull’essere. Col denaro l’uomo può acquistare ciò che non ha e grazie a questa acquisizione diventa ciò che non è. Parafrasando Shakespeare e Goethe Marx afferma, nei Manoscritti economico filosofici: “Ciò che posso pagare, ciò che il mio denaro può comprare quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. (…) le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche (..) ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto ma posso comprarmi la più bella fra le donne. E quindi non sono brutto (..) io, considerato come individuo, sono storpio ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio”. Il denaro fa di me ciò che io non sono, c’è del vero in questa affermazione, ma cosa significa realmente? Una cosa molto semplice ed importante: l'essere dell'uomo non è determinato unicamente dalle sue caratteristiche psicofisiche. Una fondamentale caratteristica dell’uomo è la sua capacità di modificare a propri fini il mondo circostante e questo influisce sulla sua stessa natura. Un tempo se un uomo nasceva privo di un arto era per sempre condannato ad una vita molto difficile, a volte invivibile. Oggi grazie alla tecnologia si possono costruire arti artificiali che permettono ai loro portatori una esistenza quasi normale. Questo significa che l’uomo odierno ha alienato da se la sua essenza autentica? Che l’avere ha prevalso sull’essere? No, significa che nell’essere dell’uomo è presente la dimensione dell’avere. Io sono ciò che sono anche grazie a ciò che ho, così come ho ciò che ho anche grazie a ciò che sono. L’avere non si identifica con l’essere ma non è neppure assolutamente contrapposto a questo. Il fatto di poter leggere, viaggiare, ascoltare musica, quindi avere dei libri, dei CD, dei mezzi di trasporto contribuisce a sviluppare le mie potenzialità, a bloccarne altre magari, quindi a fare di me ciò che sono.
Il denaro spinge l’uomo ad azioni spregevoli, è vero. Si uccide per denaro, ma si uccide anche per amore, passione, sesso. Si uccide per ideologia, religione, addirittura per noia. Si uccide perché si odia ma anche perché si ama, si ammazzano i nostri simili per freddo e lucido interesse ma anche per spassionato disinteresse. L’uomo compie azioni spregevoli quando egoisticamente antepone in maniera assoluta sé stesso agli altri e non obbedisce all’imperativo che ci obbliga a rispettare i nostri simili, ma compie azioni altrettanto se non ancora più spregevoli quando, spinto da idealistico e nobile altruismo, vorrebbe rendere felici tutti gli esseri umani. Alcuni fra i peggiori delitti della storia sono stati compiuti da uomini assolutamente disinteressati, pronti a sacrificare la propria vita, insieme a quella di milioni di altri, per quello che consideravano il bene dell’umanità.
L’uomo è capace di fare il male, è molto bravo a farlo. Pensare che sia la diabolica forza del denaro a spingere l’uomo al male significa scambiare l’effetto con la causa. L’uomo compie delitti (anche) per impossessarsi di denaro ma non è il denaro la causa dei delitti, la causa è la nostra capacità di compiere azioni malvagie. Addossare le nostre colpe allo “sterco del demonio” è solo un ingegnoso tentativo di auto assolverci.

Nessuno ha inventato il denaro. E’ sorto spontaneamente dall’interagire degli uomini; nessun governo ne ha programmato la comparsa. Forse per questo è tanto antipatico a chi crede nella assoluta superiorità della pianificazione sul mercato.
Gli esseri umani sono passati gradualmente dall’economia di auto consumo a quella di scambio (il che tra l’altro ha prodotto una considerevole diminuzione della violenza) e successivamente dal baratto all’uso di certi beni in funzione di denaro. Il processo che porta dal baratto al denaro è spontaneo: esistono dei beni che servono a tutti o quasi gli individui e che hanno caratteristiche che ne rendono particolarmente agevole la trasferibilità. Poniamo che A e B posseggano rispettivamente conigli e galline da scambiare e che sia A che B posseggano e desiderino avere pelli di castoro. Prima o poi A e B inizieranno a scambiare non galline con conigli ma galline e conigli con pelli di castoro. Un bene di largo consumo che tutti accettano diventa in questo modo gradualmente denaro. Nessuno ha deciso che le pelli di castoro diventino denaro, nessuno obbliga A e B ad accettarle come strumenti di pagamento, eppure gradualmente le normali transazioni fra gli esseri umani portano a questo risultato in partenza non voluto né programmato da nessuno. Un bene diventa denaro se è accettato come tale dalla grande maggioranza delle persone interessate agli scambi. E non si tratta di un processo che riguarda solo tempi antichissimi, avviene spesso sotto i nostri occhi ai giorni nostri. Un tempo non troppo lontano divennero nei fatti denaro i gettoni telefonici, oggi potrebbero diventarlo i ticket restourant che molte aziende distribuiscono ai loro dipendenti. Per andare su strumenti di pagamento più usati: assegni, bancomat, carte di credito sono ormai a pieno titolo sostituiti del denaro. Fino a quando non è consegnato per l’incasso e fino a che viene accettato come strumento di pagamento un assegno libero è a qualcosa di molto simile ad una banconota. Il fenomeno è tanto accentuato che le banconote legali ormai più che da strumento di pagamento assolvono al ruolo di riserva a garanzia della moneta bancaria in circolazione. E’ stata la graduale espansione del credito e dei depositi bancari a condurre a questo risultato.

Questo carattere spontaneo è stata la caratteristica di tutte le più importanti trasformazioni del denaro. Il passaggio dalla moneta aurea alla carta moneta è avvenuto in diverse fasi, non decise in anticipo da alcun governo. Ricchi mercanti depositavano nelle banche grosse quantità di monete auree e le banche rilasciavano loro dei biglietti che ne attestavano la proprietà. Lentamente i mercanti iniziarono ad usare questi biglietti per regolare le loro transazioni. Tizio vendeva certi beni a Caio per 100 monete d’oro e Caio dava a Tizio non 100 monete ma un biglietto attestante che nella banca X egli aveva in deposito 100 monete; presentandosi alla banca Tizio esibiva il biglietto e poteva ottenere il rilascio delle monete. In questo modo, lentamente, la circolazione dei biglietti affiancò quella delle monete. Il passo veramente decisivo però fu un altro. I banchieri si resero conto che le monete che dovevano effettivamente restituire ai loro legittimi proprietari erano solo una piccola parte di quelle conservate nei loro forzieri. Iniziarono allora a dare in prestito il denaro dei loro depositanti. X, Y e Z depositavano monete per 100 e la banca concedeva prestiti a W, K ed R per un importo pari a 80. Il 20 che restava era sufficiente per far fronte alle eventuali domande di rimborso dell’oro da parte dei depositanti. Inoltre anche coloro che avevano ottenuto credito non portavano con se l’oro ma lo lasciavano depositato ed avevano biglietti che attestavano la loro proprietà di certe quantità di monete auree. Era iniziato quello che in gergo tecnico si chiama effetto leva: l’attività di intermediazione creditizia moltiplica la liquidità che circola in un paese, gli strumenti di pagamento hanno un valore facciale superiore al valore dell’oro che essi rappresentano. Questo processo non ha fatto che ampliarsi fino ai nostri giorni. Oggi la funzione che fu ieri dall’oro è svolta in parte dalla carta moneta. La moneta bancaria in circolazione (assegni, carte di credito ecc) supera il valore delle banconote depositate presso le banche. Se per ipotesi tutti i depositanti dovessero presentarsi agli sportelli per ritirare il loro denaro le banche non potrebbero far fronte alle loro richieste, la porta sarebbe aperta al fallimento e fallendo le banche trascinerebbero nella rovina molte altre imprese.

E’ quasi un luogo comune legare il denaro al più crasso materialismo eppure nulla è più immateriale del denaro, se si escludono, naturalmente, le anime di noi poveri peccatori. Un tempo facevano funzione di denaro i più svariati oggetti: pelli, pesci essiccati, conchiglie, balle di tabacco. Poi questo ruolo è stato svolto dai metalli preziosi, poi dalle banconote cartacee e poi ancora dagli assegni e dalle varie forme di moneta bancaria. Oggi il denaro quasi non esiste, o meglio, esiste assai spesso nella forma eterea di un segnale elettronico, di una cifra che compare nel monitor di un computer. Una cifra, un numero bianco o azzurrino e davanti a quel numero una D o una A, un segno + o un segno – e quel segno, quella lettera, stanno ad indicare se sei ricco o sei povero, se hai un debito o un credito. Cosa potrebbe esserci di meno materiale? Cosa di più genuinamente spirituale? Il denaro è l’essenza pura della ricchezza, la sua anima; è ricchezza che non ha forma alcuna perché nello scambio può assumere ogni forma. Non solo, questa ricchezza spiritualizzata è molto vicina all’anima di ognuno di noi, alla nostra psiche. I nostri stati mentali influiscono profondamente sul valore del denaro, nel denaro si riflettono molte nostre paure, molte nostre speranze, progetti, aspettative. Si pensi alla borsa: se tutti o molti pensano che si sia alla vigilia di una fase espansiva il valore dei titoli sale, se invece prevale la sensazione che una crisi sia alle porte possono verificarsi disastrosi crolli. La stabilità del sistema bancario, quindi delle borse, quindi dell’economia nel suo complesso è intimamente legata ad un fattore psicologico, ad una propensione dell’animo umano e questa si chiama fiducia.Se per un qualsiasi motivo una banca perde la fiducia dei suoi depositanti la via al fallimento è aperta. E il fallimento di una banca, o almeno di una grande banca, è qualcosa di molto pericoloso. La sfiducia determina la corsa al prelievo: i depositanti temono che la banca non possa far fronte ai propri debiti e ritirano il denaro che hanno depositato. Ma nessuna banca può far fronte all’assalto ai propri sportelli, non esiste in nessuna banca una liquidità che le permetta di restituire tutti i depositi. Per cercare di far fronte all’assalto agli sportelli la banca deve chiedere la restituzione delle somme date in prestito agli investitori. Neppure questi però possono disporre di tali somme: esse sono state investite, con quelle somme si sono acquistati macchinari, materie prime, si sono pagarti operai e impiegati. Il fallimento della banca porta con se il fallimento di altre imprese e questo contagia altre banche e così via. Può scatenarsi un incontrollabile effetto domino dalle conseguenze imprevedibili. Le autorità monetarie naturalmente (e giustamente) non lasciano che le cose vadano in questo modo, intervengono iniettando liquidità nel sistema, si accollano una parte delle perdite, contribuiscono a ricreare un clima di fiducia. Devono farlo ed è bene che lo facciano se si vuole evitare il disastro.

Quello che è avvenuto negli Stai Uniti con la crisi dei mutui del 2008 è indicativo a questo proposito. C’è stata per anni negli Usa una grande espansione del mercato dei mutui. Le banche hanno iniziato a concedere mutui senza troppo badare alla capacità di rimborso dei mutuatari. Mutui al 100%, mutui con scadenza trentennale, mutui a persone con scarsi redditi. I crediti derivanti dai mutui sono stati poi cartolarizzati. Il procedimento è semplice. La banca vende il proprio credito nei confronti dei mutuatari ad una società che lo trasforma in obbligazioni e vende a sua volta queste obbligazioni sul mercato. Nel meccanismo non c’è nulla di diabolico: serve ad immettere nuove dosi di liquidità nel sistema e la liquidità, lo si è già detto, si trasforma in investimenti, produzione, occupazione. Ma se ad un certo punto i mutuatari cessano di pagare le rate dei mutui le cose si complicano, il sistema rischia di entrare in crisi con conseguenze catastrofiche (amplificate dal fatto che le obbligazioni garantite dai mutui sono intanto finite in fondi di investimento mobiliare, addirittura in fondi pensione). E non occorre che i mutuatari non paghino davvero, basta che il pubblico abbia la sensazione che questi potrebbero non pagare. I possessori di obbligazioni garantite da mutui le vendono, il valore di titoli crolla e con questo la fiducia nelle banche o nei fondi che li hanno in portafoglio. Solo interventi assai forti delle autorità monetarie possono, raddrizzare la situazione.
La genesi della crisi greca è diversa ma, alla base di tutto, sta sempre un livello patologico di indebitamento.
In Grecia i vari governi hanno creduto di potere garantire, insieme, un pressione fiscale molto bassa ed una elevatissima spesa pubblica improduttiva. Per cercare di tenere in piedi la baracca lo stato si è indebitato oltre misura, e molti dei suoi titoli sono finiti, come sempre accade, nei portafogli di banche greche e in seguito di banche straniere. Quando è apparso chiaro che lo stato greco non era in grado di far fronte ai suoi impegni c'è stato un crollo di fiducia nei confronti del sistema Grecia. Le banche estere hanno cercato di ridurre la loro esposizione nei confronti di quelle greche, i depositi sono crollati e le banche elleniche si sono trovate di fronte ad una spaventosa crisi di liquidità. Il resto è storia nota. Ancora una volta l'illusione di creare ricchezza semplicemente indebitandosi si è rivelata per quella che è: una illusione, molto pericolosa.
Il denaro è allora davvero qualcosa di diabolico? La finanza un veleno per l’economia? No, ovviamente. Perché se è vero che denaro e finanza possono innescare moltiplicatori negativi possono innescarne, e di fatto ne innescano, anche di positivi. L’economia è tutta fondata sulla anticipazione. Nel processo produttivo i costi precedono i ricavi, i debiti i crediti. Non esiste in economia un equilibrio assoluto, una situazione statica in cui tutti i debitori potrebbero pagare i loro debiti e tutti i creditori riscuotere i loro crediti dall’oggi al domani. L’economa è per definizione squilibrio, esposizione. Cosa fa si che lo squilibrio si trasformi o meno in crisi, l’indebitamento in crollo o in sviluppo del sistema? Sostanzialmente un rapporto equilibrato o squilibrato fra economia reale ed economia monetaria. L'immissione di liquidità nel sistema può stimolare la crescita, se però la liquidità diventa eccessiva, se passa l'idea che l'indebitamento, pubblico o privato, possa sostituire la produzione di beni e servizi, ci si può trovare nel bel mezzo di crisi di dimensioni catastrofiche.

Solo le economie di mercato sono in senso proprio economie monetarie. L’economia sovietica, o quella della Cina di Mao, non erano economie monetarie. Quando una autorità centrale decide cosa, quanto e come produrre il denaro non è strumento di scambio e misura del valore, è solo un mezzo per rendere più agevole la distribuzione dei prodotti. Il pianificatore decide di produrre tot beni e decide di distribuirli in un certo modo alla popolazione; potrebbe effettuare direttamente la distribuzione ma ciò è troppo complesso, dà allora ai cittadini dei buoni merce (impropriamente in questo caso chiamati denaro) con cui questi possono ottenere ciò che il pianificatore ha deciso che deve spettare loro.
In una economia libera il mercato seleziona gli investimenti indirizzandoli verso i settori in cui essi si riveleranno più produttivi. Chi investe in beni e servizi che non incontrano i gusti dei consumatori vedrà inesorabilmente svalorizzarsi il suo capitale. Nel caso di un’economia pianificata centralmente le cose sono ben diverse. Qui lo stato è padrone di tutto e non teme le scelte dei consumatori, non può andare incontro a fallimenti o crisi. Lo stato pianificatore non ha bisogno di vendere ciò che produce e neppure ha bisogno di fare degli utili: ha già in mano tutto, nessun imprenditore concorrente lo insidia, il suo capitale non può essere svalorizzato perché il valore riguarda gli scambi e lo stato centralizzato non deve scambiare nulla con nessuno. Se lo stato decide di produrre beni che non piacciono ai consumatori a star male saranno solo loro. E’ capitato nella Russia staliniana che alcune fabbriche di scarpe producessero paia di scarpe entrambe sinistre o destre. Per un imprenditore privato questo sarebbe stata una tragedia, nella Russia staliniana la tragedia c’è stata solo per i consumatori: questi potevano scegliere solo se calzare scarpe destre nei piedi sinistri o non avere scarpe.
Dotato di un potere enorme lo stato pianificatore non è in grado di sapere quali sono le effettive preferenze dei consumatori, non esiste il meccanismo del mercato che lo indirizza in questo senso. E anche se fosse in grado di conoscere queste preferenze allo stato pianificatore ciò non interesserebbe più di tanto. Ciò che è avvenuto nella vecchia Unione sovietica, in Cina e in pressoché tutti i paesi comunisti è a questo proposito indicativo. Scelte economiche che hanno di fatto condannato a morte milioni di persone sono state prese nelle stanze del politboureau, con assoluta nonchalance. Stalin decide che tot milioni di tonnellate di grano devono essere trasferite dalle campagne alle città e questo viene fatto. E se i contadini non intendono trasferire il loro grano? Se chiedono che venga pagato loro ad un certo prezzo? Peggio per loro. L’economia centralmente e totalmente pianificata è una economia di comando, slegata da ogni considerazione sui gusti e le preferenze del pubblico. Non conosce, è vero, fallimenti, squilibri, crisi, ma questo solo perché è totalmente indifferente ai bisogni dei consumatori. Le sofferenze che una siffatta economia riserva agli esseri umani si sono dimostrate enormemente più gravi di quelle che può provocare la peggiore delle crisi capitalistiche.
Forse il denaro è davvero lo sterco del demonio. Ma, pur dando il giusto peso ai problemi spesso molto gravi cui vanno incontro le economie monetarie, possiamo dire: ben vanga un tale sterco.

giovedì 9 luglio 2015

VIOLENZA, DENARO E RELIGIONE





Un po' di logica, molto alla buona.


Non si uccide in nome di Dio”. Dopo ogni grosso attentato, cioè, più o meno ogni due, tre mesi, tutti ripetono questa filastrocca. Da Matteo Renzi a papa Francesco, dal capo dello stato all'ultimo utente di FB è un coro: “non si uccide in nome di Dio”. Quelli che dicono di uccidere in nome di Dio mentono, è chiaro, evidente, lapalissiano. Perché? Ma è semplice, mentono perché … “non si uccide in nome di Dio”. Semplice vero?

L'enunciato “non si uccide in nome di Dio” può essere inteso in due modi diversi. Può essere un enunciato normativo o descrittivo. Nel primo caso andrebbe meglio espresso con: “non si deve uccidere in nome di Dio” o “è male uccidere in nome di Dio”, nel secondo sarebbe più corretto sostituire al generico: “non si uccide in nome di Dio” il meno fuorviante: “nessuno uccide in nome di Dio”. Con un simile enunciato non si esprime un imperativo etico, si constata uno stato di cose: gli uomini non uccidono in nome di Dio, esattamente come non vivono senza respirare o non possono volare senza l'ausilio di mezzi meccanici.
Abili sofisti però lasciano indeterminata la forma dell'enunciato di cui stiamo parlando e costruiscono con questo allettanti sillogismi. Vediamoli un po'.
Prendiamo l'enunciato nella sua forma normativa e costruiamo con questo il
Sillogismo 1
Premessa maggiore: Non si deve uccidere in nome di Dio.
Premessa minore: Tizio uccide in nome di Dio.
Conclusione: Tizio ha violato l'imperativo etico che vieta di uccidere in nome di Dio.
Tutto a posto, niente da aggiungere.
Proviamo ora ad usare in un sillogismo il nostro enunciato nella sua forma descrittiva.
Sillogismo 2
Premessa maggiore: Non si uccide in nome di Dio (le cose stanno così e così: nessun uomo uccide in nome di Dio)
Premessa minore: Tizio uccide in nome di Dio
Conclusione: Tizio non è un uomo (oppure, se vogliamo essere formalmente meno rigorosi, Tizio mente quando dice di uccidere in nome di Dio)
Come l'uno anche il due è formalmente corretto, tanto che da esso astuti sofisti ricavano il
Sillogismo 3
Premessa maggiore: L'Islam è una religione di pace e amore
Premessa minore: I militanti dell'Isis odiano e fanno guerre
Conclusione: L'Isis non ha nulla a che fare con l'Islam.
Evviva! Evviva! La pace, il dialogo, l'amore sono salvi!!!

I sillogismi due e tre sono, come l'uno, formalmente corretti, ma, descrivono anche stati di cose veri? il problema sta tutto nelle premesse. Se è vero che nessun uomo uccide in nome di Dio allora è vero che, se Tizio afferma di assassinare Caio in nome di Dio, mente o non è un uomo, esattamente come è vero che, se l'Islam è una religione di pace e amore, allora l'Isis con l'Islam non ha nulla a che vedere Ma, sono vere le premesse? Il problemino sta tutto qui. Problemino non da poco.
In materia empirica le premesse di un sillogismo si ricavano dalla esperienza sensibile. “Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale”, recita il più noto dei sillogismi. Ma, chi ci autorizza a dire che “tutti gli uomini sono mortali”? E' forse logicamente impossibile che tutti o alcuni uomini siano immortali? No, ovviamente, sono l'esperienza e l'inferenza induttiva a spingerci a ritenere mortali tutti gli uomini. Chi dice che “non si uccide in nome di Dio” o che “l'Islam è una religione di pace ed amore” ha quindi l'obbligo di esibire i fatti empirici che confermano la sua asserzione. Se non lo fa le sue sono semplici affermazioni apodittiche, mera espressione di desideri. Hanno lo stesso valore di verità di un pugno sbattuto sul tavolo.
Eppure è proprio questo confronto con i fatti ciò che gli occidentali politicamente corretti si rifiutano di fare. Invece di esibire i dati dell'esperienza che dovrebbero confermare l'affermazione secondo cui “l'Islam è una religione di pace ed amore” costoro privano di valore probatorio i dati che smentiscono tale affermazione.. precisamente perché la smentiscono! Non è più l'esperienza a conferire valore di verità alle affermazioni a priori, sono le affermazioni a priori a conferire valore di verità all'esperienza. L'Islam è una religione di pace, dicono, “quindi” se un islamico spara a casaccio sulla folla non è un vero islamico. Un po' come dire: “i leoni non sono carnivori, se un leone divora una gazzella non è un vero leone”. Logica davvero ineccepibile!

Un po' di storia, molto alla buona.

Una cosa va subito sottolineata. Coloro che annoiano mezzo mondo ripetendo la litania secondo cui l'Islam è una religione di pace, o non si uccide in nome di Dio, non si limitano spesso ad affermare che i terroristi sbagliano o interpretano male il loro credo. No, affermano che quelli con questo non hanno proprio nulla a che fare. Una cosa è l'Islam altra cosa il terrorismo, dicono. Fra una religione, qualunque essa sia, ed i crimini commessi in nome di Dio non esisterebbe nesso alcuno. Il deputato grillino Manlio di Stefano lo ha detto chiaramente: il terrorismo islamico non esiste. Molti hanno preso le distanze dalle sue affermazioni, ma queste hanno per lo meno il merito della coerenza: se davvero l'Islam è, nella sua interezza, una religione di pace come può esistere il terrorismo islamico? Più in generale, se davvero non si uccide in nome di Dio le innumerevoli guerre di religione che hanno insanguinato mezzo mondo, i massacri di eretici, i roghi, le torture diventano qualcosa di estraneo alla religione, la storia va riscritta.
La guerra dei 30 anni, le guerre di religione in Francia, l'editto di Nantes e la sua revoca, la strage degli Ugonotti, la sacra Inquisizione, il Torquemada che controlla sulla sincerità delle conversioni degli ebrei al cristianesimo, e ne fa bruciare un sacco; e poi le crociate l'espansione dell'Islam in Europa le battaglie di Poitiers e di Lepanto, l'assedio di Vienna del 1529, i massacri fra sciiti e sunniti, e quelli fra musulmani ed induisti, le guerre fra India e Pakistan... ingenuamente credevamo che tutto questo con la religione avesse qualcosa a che fare. Sbagliavamo. In nome di Dio non si uccide, mai. La violenza religiosa non esiste, non è mai esistita.
“Crociate, strage degli Ugonotti, inquisizione, roghi, davvero credete che la religione c'entri qualcosa in tutto questo?” domandano beffardi coloro che affermano che non si uccide in nome di Dio. “Siete ingenui”, proseguono, “dietro a roghi, inquisizioni e massacri per la religione c'è... il Dio denaro, svegliatevi ingenui!”

Si, il Dio denaro, come mai non ci avevamo pensato prima? Roghi inquisizioni, guerre massacri, tutta roba che riguarda non la religione ma il profitto, più semplice di così...
Però, la cosa appare un po' strana. Si, strana, perché non appena la borghesia diventa classe egemone ed il capitalismo si espande in Europa i massacri di questo tipo cessano o si riducono in maniera esponenziale. Nell'Inghilterra della rivoluzione industriale non si bruciano gli eretici sulla pubblica piazza, né si mandano le streghe al rogo nell'Italia post risorgimentale. E oggi nelle liberal democrazie affamate di profitto non si taglia la testa agli apostati ed ai bestemmiatori né si lapidano le adultere. Alla base di ogni crimine c'è il “Dio denaro”, però, stranamente, nei paesi in cui il “Dio denaro” domina incontrastato certi crimini non si commettono. Li si commette invece in quei paesi in cui la gente passa gran parte del suo tempo impegnata a pregare. Stranezze, coincidenze.
Sarcasmi a parte, eliminando la violenza religiosa dalla storia si trasforma la storia reale in un mistero metafisico. I fatti con la loro concretezza scompaiono e vengono sostituiti da fumose generalizzazioni che sfuggono ad ogni possibilità di controllo e verifica. Il “denaro” starebbe dietro alle guerre di religione in Francia, all'espansione dell'Islam in Europa o ai tribunali della Santa inquisizione. Peccato che il denaro circolasse anche nella Grecia antica e non abbia mai dato origine a fenomeni di questo genere.

Certo, il desiderio di denaro e ricchezza è una motivazione importante dell'agire umano e una spiegazione di molti eventi storici. Ma si tratta, appunto, di una delle motivazioni e delle spiegazioni. Farne l'unica, o sempre e comunque la più importante, o peggio, quella che riduce tutte le altre al ruolo di “mascherature” costituisce una mistificazione colossale. Una mistificazione che, fra le altre cose, rende incomprensibile la stessa storia della Chiesa.
Come tutti sanno (a parte forse il deputato grillino Manlio di Stefano) fra i suoi santi la Chiesa cattolica annovera Ignazio di Layola, Roberto Ballarmino e Tommaso d'Aquino. Ora, Ignazio di Layola fondò nel 1534 la compagnia di Gesù e ne divenne generale. E' noto quale sia stato il ruolo della compagnia di Gesù nella caccia a streghe, ebrei ed eretici. Roberto Ballarmino, educato dai gesuiti, è l'uomo che, sia pure di malavoglia, fece bruciare vivo Giordano Bruno e condannare Galileo. Tommaso d'Aquino non ha colpe di questo genere, ma non era certo contrario ad ogni forma di violenza religiosa. Scrive infatti l'aquinate sugli eretici:
“Alla Chiesa è presente la misericordia, che tende a convertire gli erranti. Essa perciò non condanna subito, ma "dopo la prima e la seconda ammonizione", come insegna l'Apostolo. Dopo di che, se l'eretico rimane ostinato, la Chiesa, disperando della sua conversione, provvede alla salvezza degli altri, separandolo da sé con la sentenza di scomunica; e finalmente lo abbandona al giudizio civile, o secolare, per toglierlo dal mondo con la morte.
Non è mia intenzione, ovviamente, emettere frettolose ed antistoriche condanne etiche contro personaggi come Tommaso o Ignazio. Quello che mi preme sottolineare è che questi santi ancora oggi celebrati dalla Chiesa, e la cui dottrina, nel caso di Tommaso, costituisce ancora la base della filosofia cristiana, teorizzano, o addirittura praticano, la violenza in nome di Dio. Si tratta di “falsi” cristiani? Ballardino era un finanziere travestito da cardinale? E Tommaso era un avido capitalista? Non scherziamo. Si riduca la violenza in nome di Dio a finzione o mascheratura e la stessa Chiesa, la sua storia, la sua dottrina diventano un enigma insolubile.

Sotto c'è sempre qualche complotto...

I terroristi islamici rendono la vita difficile agli occidentali politicamente corretti. Questi vorrebbero assolvere l'Islam da ogni addebito, ridurre i crimini che periodicamente insanguinano il mondo ad una serie di atti isolati, finanziati e resi possibili da chi mira solo al “Dio denaro”. I terroristi però sembrano divertirsi a mettere ostacoli all'azione disinteressata degli occidentali trasudanti “bontà”. I terroristi firmano i loro attentati, dicono chiaramente di aver di mira gli infedeli in quanto tali, di perseguire l'espansione dell'Islam.
Gli occidentali “buoni” parlano di “disagio sociale” e loro, i tagliagole, affermano chiaramente di non sentire alcun “disagio”, ma solo una gran rabbia contro il corrotto occidente. I “buoni” parlano di dialogo ed integrazione e loro, i terroristi, affermano a chiare lettere di non voler alcun dialogo ed alcuna integrazione, gli angioletti occidentali dicono che sotto al terrorismo agisce il “Dio denaro” e loro, i fondamentalisti assassini, gridano che dietro alle loro azioni c'è solo l'unico vero Dio, che di certo
non coincide col “Dio denaro”. I fondamentalisti assomigliano moltissimo ad un imputato che non vuole essere difeso ma rivendica orgogliosamente le sue azioni e si prende gioco del suo povero e volonteroso avvocato.
Il quale tuttavia non cessa i suoi sforzi. Apparentemente il suo compito è disperato. Come negare il legame fra Islam e fondamentalismo quando questo è affermato, gridato dagli interessati? Gridato, si badi bene, non da singoli individui o sparuti gruppi. No, gridato in alcune occasioni da grandi masse fanatizzate. Un giornale pubblica vignette sgradite e nel mondo islamico scendono in piazza a milioni, vengono assalite ambasciate, uccisi occidentali, bruciate chiese. Papa Benedetto avanza alcune critiche al concetto di guerra santa ed enormi folle urlano il loro sdegno. Dopo gli attentati dell'undici settembre a Gaza si sono festeggiati i tremila e passa morti americani. Si potrebbe continuare ma sono fatti abbastanza noti.
Ma loro, i volonterosi avvocati, non demordono. Hanno in mano un'ottima carta. Tutto sembra confermare che il terrorismo islamico esiste ed è proprio quello che è:
terrorismo islamico, ma le cose stanno diversamente. Oscuri personaggi tramano nell'ombra per far si che le cose appaiano in un certo modo mentre stanno in realtà in maniera completamente diversa. Certo che “confessano” i vari attentatori islamici: in realtà si tratta di agenti della Cia e del Mossad che vogliono diffondere nel mondo l'”islamofobia”. Gli attentati dell'undici settembre sono stati organizzati dalla Cia, lo sanno tutti. E, gli altri? Chissà, forse anche quelli... e se non basta la Cia c'è il Mossad, la finanza ebraica, il sionismo internazionale. E le folle urlanti? Le ambasciate prese d'assalto? Le chiese bruciate? Reazioni rabbiose alla cui base ci sono povertà e disagio e, naturalmente, l'azione sobillatrice dei soliti agenti della Cia e del Mossad. Chissà, forse nel mondo ci sono varie centinaia di milioni, forse un buon miliardo di agenti della Cia e del Mossad.
La teoria del complotto fornisce agli occidentali buoni la chiave che apre tutte le porte. A noi, poveri ingenui, sembra che ovunque nel mondo il fondamentalismo aggredisca, distrugga, massacri. Le cose stanno ben diversamente: dietro a stragi e devastazioni ci sono i diabolici congiurati, chiaro no?
Ovviamente i paranoici angioletti della bontà non esibiscono prova alcuna delle loro teorie farneticanti, ma, cosa conta? Lo sanno tutti: la mancanza di prove dimostra solo la diabolica abilità dei congiurati. Chi teorizza complotti ovunque ha sempre ragione, per definizione. Però, chi non crede alle paranoie dei “buoni” politicamente corretti potrebbe avanzare una piccolissima obiezione: chi ci assicura che non siano
loro, i “buoni”, i veri congiurati? Che non siano loro a complottare per destabilizzare, con le loro teorie, l'occidente? Se, come recitava il titolo di un testo complottista, “tutto ciò che sai è falso” come posso considerare vera l'affermazione secondo cui è falso tutto ciò che so? La logica non è il forte degli angeli della bontà.


Le “vere cause”

Le varie teorie del complotto sono in fondo la variante paranoica di quella che potremmo definire la teoria della “vere cause”. Dietro ai fenomeni, si dice, agiscono cause profonde che non possono, in linea di principio, essere a loro volta fenomenizzate. Tizio, per fare un esempio, uccide Caio perché lo ritiene un “infedele”. Tutta l'evidenza sensibile prova la natura religiosa dell'omicidio, ma questo non impensierisce il teorico delle “vere cause”. In realtà Tizio ha ucciso Caio perché vittima di un “disagio sociale”. Serve a poco ribattere che Tizio dichiara di non provare alcun disagio o invitare chi parla di “disagio” ad esibire qualche prova empiricamente constatabile. Queste prove, se fossero esibite, avrebbero a loro volta qualche misteriosa “vera causa” che le spiega e così via, all'infinito. Il teorico delle “vere cause” pretende che gli si creda sulla parola: la realtà sensibile, tutto ciò che è controllabile e verificabile, conta poco, ciò che davvero conta è l'essenza profonda del mondo, di cui solo lui è a conoscenza.
Le guerre di religione sono il campo in cui la fantasia del teorico delle “vere cause” si sbizzarrisce al massimo. “Voi parlate di crociate, di guerre fra cattolici e protestanti, fra sciiti e sunniti, ma siete degli inguaribili ingenui”, dice. “Dietro a crociate e guerre di religione stanno ben precisi interessi materiali, il denaro, il commercio, il profitto.
Quelle sono le cause vere di ciò che voi, ingenuamente, attribuite alla religione”. Quando parla di queste cose il teorico delle “vere cause” è a volte tanto magnanimo da argomentare ciò che afferma, si spinge fino ad esibire qualche evidenza empirica a sostegno delle sue affermazioni. “Le crociate hanno aperto la strada a scambi col vicino oriente”, esclama trionfante; anche ammesso che ce ne fosse bisogno, quale prova migliore del carattere economico delle guerre per il Santo Sepolcro?

In realtà ad essere un inguaribile ingenuo è proprio il teorico delle “vere cause”. Egli neppure si avvede che i suoi discorsi sono perfettamente reversibili. Si, perché se è fin troppo facile affermare che le “vere cause” di una guerra religiosa sono, ad esempio, economiche, è altrettanto facile affermare che le “vere cause” di una guerra chiaramente economica sono, “in realtà”, religiose. Le crociate, si dice, hanno aperto nuove vie di scambio, quindi non di guerre religiose ma commerciali si è trattato. Però si potrebbe anche dire che le crociate hanno portato prima ad un incremento poi ad un riflusso della cristianità quindi sono state guerre solo ed unicamente religiose. In realtà ogni guerra, e, più in generale, ogni evento importante, ha cause e conseguenze molteplici. Una guerra ha conseguenze in praticamente tutti campi della vita dei popoli: politici, sociali, religiosi, economici, culturali. Invece di analizzare queste conseguenze il teorico delle “vere cause” cosa fa? Ne prende una, la isola dalle altre, ne muta il segno e la fa diventare la causa “vera” dell'evento che la ha provocata. Una guerra di religione ha avuto, fra le altre, anche la conseguenza di un incremento dei traffici? L'incremento dei traffici, quindi il commercio, quindi il “Dio denaro”, è stata in realtà la causa vera dei quella guerra. Non
una della cause, la cui importanza va analizzata empiricamente nel suo rapporto con le altre, no, la causa unica, quella che riduce le altre al ruolo di “maschere ideologiche”.

I teorici delle “vere cause” fanno a volte una distinzione molto netta fra le motivazioni di una guerra diffuse a livello di massa, ad esempio il diffondersi di ideologie irrazionali o del fanatismo religioso, e le cause “autentiche”, quelle che motivano il comportamento dei leader. Le motivazioni religiose, e più in generale ideologiche, delle guerre, sostengono, servono solo da specchietto per le allodole: inducono i popoli a massacrarsi in nome della fede mentre i caporioni pensano solo a denaro e potere. Si tratta di una analisi sostanzialmente errata. Molto spesso sono i leader più che i popoli ad essere schiavi di lugubri ossessioni ideologiche o religiose: l'antisemitismo di Hitler era di certo più violento di quello della media dei tedeschi. Ma, prendiamo pure per buona una simile analisi, e allora? Anche se fosse vero che le motivazioni religiose sono solo una “specchietto per le allodole” occorrerebbe rispondere alla domanda: perché mai questo specchietto è
necessario? Potrebbe scoppiare un conflitto senza il coinvolgimento delle masse reso possibile da questo "specchietto"? Ammettiamo pure che i caporioni dell'Isis siano sotto sotto dei miscredenti assetati di denaro e che il richiamo all'Islam serva loro solo per fare adepti. Non è vero, ma anche se lo fosse, cosa cambierebbe? E' quel richiamo a rendere possibile l'esistenza stessa del califfato e della jhiad, è il fanatismo religioso a determinare i fini della guerra che l'Isis combatte, le sue caratteristiche, la sua forma. Che i caporioni dell'Isis o di Hammas di nascosto vadano a puttane, bevano alcool o mangino carne di maiale è del tutto secondario. Arafat aveva un tesoro ben celato in banche estere, ma questo non cambiava in nulla la natura della sua guerra ideologico religiosa contro Israele. Se, per incrementare il suo tesoro, Arafat avesse riconosciuto Gerusalemme quale capitale dello stato ebraico i suoi seguaci lo avrebbero fatto a pezzi. Pensare che si possano mobilitare le masse su obiettivi religiosi e poi condurre una guerra che con questi non ha relazione alcuna è una idiozia di dimensioni galattiche.

La teoria delle vere cause altro non è che una variante del marxiano materialismo storico. Variante assai rozza, tra l'altro. Perché mentre il materialismo storico di Marx si basa su una analisi approfondita, anche se discutibilissima, del modo di produzione capitalistico, la teoria odierna delle “vere cause” poggia su una sorta di criminalizzazione dei singoli capitalisti, o dei “caporioni", o dei politici corrotti. Il teorico delle “vere cause” vede dietro ad ogni evento rilevante le manovre delle multinazionali, gli intrighi dei politicanti, la brama di petrolio di questo o quel petroliere. Il valore conoscitivo delle sue chiacchiere non è superiore a quello di una telenovela.


Denaro, fine e/o mezzo


Tutti i discorsi di coloro che negano qualsiasi legame fra religione e violenza, e pretendono di ricondurre le guerre sempre e comunque al “Dio denaro”, si basano in fondo su una convinzione: esiste una motivazione unica o quanto meno assolutamente preponderante del comportamento umano e questa si identifica col desiderio di denaro e ricchezza. Ora, è certo che il desiderio di denaro e benessere materiale è una motivazione potente dell'agire umano.
Tutti o quasi gli esseri umani mirano ad una certa quantità di denaro e ad un certo livello di benessere, e per alcuni questa è la motivazione prevalente, a volte assolutamente prevalente, del loro comportamento. Non è vero però che questa sia la motivazione unica, o assolutamente prevalente, per TUTTI.
Considerare il desiderio di denaro e benessere materiale la motivazione assolutamente prioritaria, se non unica, del comportamento umano, costituisce un grossolano errore che è possibile verificare empiricamente, tuttavia si tratta di un errore abbastanza spiegabile, una sorta di illusione ottica causata dalla funzione stessa che il denaro ha nella vita sociale. Cerchiamo di spiegarci.
Anche se per molti il “far soldi” costituisce il fine prevalente della propria vita, Il denaro, a ben vedere le cose,
non è un fine, ma un semplice mezzo, e questa constatazione dovrebbe spegnere gli ardori di chi lo considera la motivazione unica dell'agire umano. Si tratta però di un mezzo assolutamente necessario alla realizzazione di una enorme quantità di fini. Il denaro serve ad assicurarci un certo benessere materiale, ma serve anche a tante cose che con l'incremento del benessere individuale hanno scarse relazioni. Il denaro serve all'egoista come all'altruista, a chi mira solo al benessere materiale come a chi intende dedicare la sua vita all'arte, o alla ricerca, o alla politica. Uno scienziato, un musicista, un pittore hanno bisogno di denaro, ne hanno bisogno non solo per mangiare, avere un tetto e vestirsi, ma anche per poter svolgere l'attività di scienziato, musicista e pittore. Chi contrappone il “vile” denaro alle “superiori” attività spirituali dimentica che lo “sterco del demonio” serve anche per queste superiori attività. I romani dicevano “homo sine pecunia imago mortis”, l'uomo senza denaro è l'immagine della morte. Molti hanno visto in questo detto la prova del volgare materialismo dei romani antichi, in realtà si tratta di una descrizione forse esagerata ma tutto sommato fedele della realtà.
Quasi tutte le attività umane sono collegate in un modo o nell'altro al denaro, questo è vero. Non è vero però che tutte o quasi le attività legate al denaro abbiano nel denaro stesso, e nel benessere che questo assicura, il loro fine
. Un artista deve avere una certa quantità di denaro per svolgere la sua attività artistica, ma non svolge questa attività per denaro, quantomeno, non solo per denaro. Anche un grande imprenditore, a pensarci bene, non investe il proprio capitale per far soldi ma fa soldi per aumentare il capitale da investire. Anche se sono a volte “ricchi da far schifo” molti imprenditori pensano assai più al peso ed all'importanza della propria azienda che al benessere privato che questa assicura loro. Tutti abbiamo bisogno di denaro ed in una certa misura questo è per noi anche un fine. Ma non è per tutti solo un fine. Per molti è anche, a volte soprattutto, un mezzo che serve per raggiungere fini che col mero incremento del benessere materiale hanno poco a che vedere.

C'è chi svolge certe attività per avere del denaro, c'è invece chi vuole avere del denaro per poter svolgere certe attività, la differenza fra questi diversi atteggiamenti è importante ma non viene sempre colta. Per venire al nostro tema, un fervente religioso ha, come tutti, bisogno di denaro, ma questo è per lui, in larga misura, solo uno strumento al servizio della sua fede Considerazioni analoghe possono essere fatte per chi crede in una certa ideologia politica. Pensare che Torquemada bruciasse gli eretici soprattutto per “far soldi” è fuorviante quanto credere che Hitler, Lenin o Mao abbiano preso il potere al fine di diventare ricchi. Alcuni dei crimini più spaventosi della storia sono stati commessi da persone scarsamente interessate all'ammontare del loro conto in banca, e che agivano in perfetta buona fede. La crudeltà disinteressata è un fenomeno spaventoso ma terribilmente reale.
Difficile da cogliere però, per chi è abituato a giudicare tutto in termini di dare ed avere. Così, se si sente dire sui media che, ad esempio, l'Isis mira ad impossessarsi di certi pozzi di petrolio c'è subito qualcuno che dice: “avete visto? Altro che religione! I militanti dell'Isis mirano allo sterco del demonio! La religione è solo un pretesto, una mascheratura”. Per lo sciocco i tagliagole fanno la jihad per i proventi del petrolio, come se non ci fossero mezzi meno dispendiosi per assicurarsi questi proventi. Neppure riesce ad immaginare, lo sciocco, che i tagliagole mirino al petrolio per finanziare la Jihad.



La religione motiva l'agire umano?


Anche se molti lo negano la religione è una motivazione molto potente dell'agire umano, come la fede politica o ideologica. La politica, specie nella forma di
politica ideologica è considerata da molti uomini non un semplice mezzo per raggiungere certi fini, ma un fine in se. Per il militante comunista il comunismo è buono in quanto tale. Non si vuole il comunismo perché questo garantisce maggior sviluppo economico ed un benessere più diffuso, lo si vuole perché l'uguaglianza comunista crea un tipo d'uomo del tutto nuovo, immune da quanto di gretto e meschino caratterizza gli esseri umani nella società “borghese”. Il comunismo è talmente poco un mezzo per conquistare un decente livello di benessere che la diffusione di questo benessere ha rappresentato storicamente un problema per i comunisti. Lenin ha sempre praticato coscientemente la politica del “tanto peggio tanto meglio”, e non a caso. Considerazioni simili possono farsi per il fascismo ed il nazismo, ovviamente. Il caso del liberalismo è diverso. Da un lato è vero che alcuni valori liberali (dignità della persona, valore del singolo, libertà personali) sono considerati fini in se, dall'altro è anche vero che il liberalismo non si vergogna di apparire, ed essere, anche un mezzo in grado di assicurare agli esseri umani buoni livelli di benessere materiale. Proprio per questo il liberalismo è accusato dai suoi critici di destra e di sinistra di gretto  materialismo. Per gli ideologhi di tutte le salse non porsi l'obbiettivo di una radicale trasfigurazione dell'uomo, limitarsi a rispettare gli esseri umani per ciò che sono ed operare per migliorare le loro condizioni di vita costituisce una sorta di peccato mortale.
La politica motiva le azioni umane, nel bene e nel male. Spinge ad atti di sublime eroismo come di mostruosa crudeltà. Questo vale, se possibile in misura ancora maggiore, per la religione. Come ed ancor più degli ideali politici i valori religiosi sono
fini in se, non semplici mezzi. Fini in se particolarmente importanti, perché la religione è legata alla componente più intima e profonda della natura umana, dà, o cerca di dare, risposte alle nostre domande più importanti. Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Ha un senso il nostro esistere? E quale?
Non si tratta di domande lontane dalla realtà della vita, sono domande che ognuno di noi si porta dentro, intrecciate alla quotidianità, al noioso tran tran di tutti i giorni. E quando un credente crede di aver trovate nella religione la risposta a tali domande questa influisce sul suo comportamento, a tutti i livelli.

Dietro a molte dichiarazioni di eminenti esponenti del clero cattolico sul “Dio denaro” causa di ogni bruttura del mondo c'è una evidente componente opportunistica. Accusando di tutto lo “sterco del demonio” ci si auto assolve da quanto di brutto hanno fatto le religioni, cattolica compresa, nel corso della storia. Ma si tratta di una auto assoluzione che ha gravi effetti sulla fede stessa. Perché, se l'unica motivazione umana è il desiderio di denaro e di potere che posto resta alla fede? Fa un certo effetto sentire fior di vescovi, o addirittura il santo padre, far proprie tesi che appaiono una riproposizione alquanto volgarizzata del materialismo storico marxiano. Né migliora le cose il fatto che si tratti di di un materialismo storico, per così dire, a corrente alternata, che addossa alla brama di potere e di denaro tutto ciò che di male esiste al mondo ed attribuisce alla fede ciò che invece esiste di bene. Se la fede è una motivazione potente delle azioni umane allora si
devono prendere sul serio tutti coloro che in nome della fede uccidono. Sarà una fede male interpretata, ma le cattive interpretazioni possono essere addotte a giustificazione di qualsiasi cosa spinga gli uomini ad agire: dal desiderio di benessere alla brama di assoluto.
Bisogna riconoscerlo, una volta per tutte. Come la fede politica, anche quella religiosa può indurre gli uomini tanto ad azioni sublimi quanto a comportamenti ignobili. La fede religiosa cerca di dare una risposta alla umana esigenza di assoluto, ma, proprio per questo, è sempre esposta ai rischi del dogmatismo fanatico e dell'intolleranza. Nell'Islam, vista la sua secolare incapacità di auto riformarsi, questi
non sono rischi, sono caratteristiche strutturali che non si vede come e se sia possibile estirpare, purtroppo.
E nulla ha conseguenza tanto gravi e distruttive quanto il dogmatismo intollerante. Pochi conflitti sono tanto difficili da risolvere come quelli basati sul fanatismo religioso. I proventi di un giacimento petrolifero si possono dividere, una città santa no; sulle clausole di un contratto commerciale si possono raggiungere compromessi, sui dogmi di fede a volte lo stesso termine “compromesso” appare blasfemo. Esistono forse particolari ricchezze a Gerusalemme? C'è del petrolio nello stato di Israele? Israele sorge su un lembo di terra desertica del tutto priva di ricchezze naturali. Ma è una stato ebraico circondato da milioni di musulmani fanatizzati che considerano un insulto la sua stessa presenza in una terra che è stata in passato islamica. Ecco perché quel piccolo stato è in guerra da 67 anni.


Per concludere, finalmente
.

Da qualsiasi punto di vista si considerino le cose la teoria di chi intende separare in maniera assoluta religione e violenza, attribuendo la seconda alla brama di denaro, appare insostenibile.
Non intendo dire, dovrebbe essere chiaro, che la fede religiosa debba inevitabilmente sfociare nella violenza, né mettere tutte le religioni sullo stesso piano. La violenza intollerante è un possibile esito del dogmatismo presente in ogni fede, ma non si tratta di un esito inevitabile, né impossibile da contrastare. Il cattolicesimo è stata per lungo tempo una religione profondamente intollerante e spesso anche violenta, ma ha saputo auto riformarsi, accettare le acquisizioni migliori della modernità o quanto meno convivere con esse; considerazioni simili possono farsi per altre religioni, non per l'Islam, purtroppo.
Ma se sarebbe del tutto errato equiparare religione e violenza, lo è ancora di più non vedere quanto, a volte, questa sia legata a quella. Lo è in particolare maniera oggi, di fronte all'offensiva violentissima del fondamentalismo islamico. Perché questo è in fondo il vero tema cruciale. Chi nega ogni possibile legame fra violenza e religione non mira ad altro, oggi, che ad assolvere il fondamentalismo islamico dalle sue numerosissime colpe. La causa di tutto è nella “sete di potere” e nella “brama di profitto”. Sono colpevoli i “mercanti di armi”, le “multinazionali”, la “finanza degenerata”, la “politica corrotta”, il “consumismo” e chi più ne ha più ne metta. In questa lunga ed impressionante serie di “colpevoli” qualcuno brilla per la sua assenza: il fondamentalismo islamico. Attentati suicidi, esseri umani sgozzati, bruciati vivi, crocifissi, impalati, annegati al grido di “Allah è grande”, donne lapidate, fustigate, infibulate, vendute come schiave sui pubblici mercati, gay gettati dalle torri, apostati e bestemmiatori decapitati, non ha davvero nulla a che vedere con una certa religione tutto questo? E' possibile attribuirlo al “consumismo materialistico”? Non esiste proprio alcuna differenza fra il frequentare un centro commerciale e farsi esplodere nello stesso?
Bisogna dirlo chiaramente, urlarlo: il materialismo storico da vulgata oggi diffuso in settori importanti della Chiesa cattolica e della pubblica opinione occidentale è un veleno per l'occidente, contribuisce a disarmarlo nel momento stesso in cui deve subire un attacco devastante da parte di un suo nemico mortale.
Contrastare questo materialismo storico da vulgata, lottare culturalmente contro l'ideologia terzomondista e pauperista che gli fa da sfondo non risponde solo ad elementari esigenze di ristabilimento della verità. E' oggi un fondamentale dovere politico, ed
etico.