venerdì 16 dicembre 2016

IL GRANDE PRINCIPIO

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“Il Cervino è un monte”. “Dio è il creatore del cielo e della terra”. “La gioconda è un ritratto meraviglioso”. Cosa hanno in comune queste tre affermazioni? Dal punto di vista del contenuto, nulla. La prima è una proposizione empirica, la seconda una affermazione teologico metafisica, la terza esprime un giudizio estetico. Eppure tutte e tre seguono un principio, e sono comprensibili proprio in quanto lo seguono. Tutte e tre seguono il principio di non contraddizione.

Nella “metafisica” Aristotele definisce in questo modo il principio di non contraddizione: “E’ impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo appartenga e non appartenga al medesimo soggetto e nella medesima relazione” (1) e, poco più avanti: “risulta allora evidentemente impossibile che la medesima persona, nel medesimo tempo, pensi che la medesima cosa sia e non sia” (2). In Aristotele quindi il principio di non contraddizione riguarda gli enti (è impossibile che il medesimo attributo competa e non competa al medesimo soggetto) ed il pensiero (è impossibile che la medesima persona pensi...) ma non perde per questo il suo carattere formale. Il principio di non contraddizione non ci dice cosa sia il tale ente, ci dice solo che se il tale ente è X non può nel contempo e nella medesima relazione, essere anche Y. Parimenti il principio di non contraddizione non ci dice cosa pensi una persona di un certo ente, ci dice solo che se di questa pensa A non può nel contempo e dallo stesso punto di vista pensare la negazione di A . Insomma, se io sono Tizio non posso nel contempo e dallo stesso punto di vista essere anche Caio, se penso che Tizio sia un uomo non posso nel contempo e dal medesimo punto di vista pensare che non lo sia.

Il principio di non contraddizione costituisce la “conditio sine qua non” del discorso sensato. E’ possibile discutere se non si accetta il principio di non contraddizione? Se, in altre parole, si pensa che “uomo” e “non uomo” abbiano lo stesso significato? Cediamo di nuovo la parola ad Aristotele: “Se è corretto affermare che l’uomo è non uomo sarà corretto affermare che egli è trireme e che non è trireme” (3). Se nego il principio di non contraddizione cancello la differenza fra A e non A, fra “uomo” e “non uomo”. In questo modo però diventa lecito affermare che l’uomo è trireme, visto che di certo la trireme è “non uomo”. D’altro canto, se nego il principio di non contraddizione nego anche la differenza fra “trireme” e “non trireme” quindi posso tranquillamente affermare che l’uomo non è una trireme. Se si rifiuta il principio di non contraddizione ci si preclude la possibilità di dare un significato determinato ai concetti: se A e “non A” coincidono, “non A” avrà lo stesso significato di A e viceversa. Se “essere uomo” afferma Aristotele, “avesse lo stesso significato di “non essere uomo” allora “i termini “musico”, “bianco” e “uomo” avrebbero un solo significato e di conseguenza tutte quante le cose sarebbero una sola cosa dato che esse verrebbero ad essere sinonime” (4). Se A è uguale a “non A” allora A sarà uguale a qualsiasi cosa, visto che qualsiasi cosa è “non A”. Si tolga il principio di non contraddizione e si ha il tutto in tutto, la compenetrazione fra i significati, quindi l’impossibilità del discorso. Se si vuol dare un significato al proprio discorso si deve usare il principio di non contraddizione. Anche per negare validità al principio di non contraddizione occorre usarlo. Se dico: “bisogna rifiutare il principio di non contraddizione” uso il principio che intendo negare. Se non lo usassi non saprei cosa intendo negare né saprei che cosa significa negare. Il principio di non contraddizione sarebbe la stessa cosa della sua negazione, la negazione di tale principio sarebbe equivalente alla sua affermazione.

In quanto principio supremo che rende possibile il discorso sensato il principio di non contraddizione rende possibili le dimostrazioni, ma, appunto per questo, non può a sua volta essere dimostrato.
“Certuni”, afferma Aristotele, “pretendono che si dia dimostrazione anche di questo ma (…) è segno di impreparazione il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no. Difatti è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose (in tal caso infatti si andrebbe all’infinito e quindi neppure così si produrrebbe dimostrazione).” (5). Per dimostrare il principio di non contraddizione io devo intanto usarlo, quindi darlo per dimostrato. In quanto condizione della dimostrazione il principio di non contraddizione è indimostrabile, è un dato della ragione. L’unica possibile “dimostrazione” del principio di non contraddizione è data dal fatto che dobbiamo usarlo se vogliamo dare un senso al nostro discorso.
Inoltre, in quanto puramente formale il principio di non contraddizione non può dirci nulla sulle verità di fatto. Per Aristotele, come si sa, il sillogismo costituisce il procedimento scientifico per eccellenza e si può ragionare per sillogismi solo usando il principio di non contraddizione. Ma cosa ci fornisce la materia che il sillogismo relaziona? Prendiamo il sillogismo classico: “Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo quindi Socrate è mortale”. Come possiamo dire che tutti gli uomini sono mortali? Come possiamo dire che Socrate è un uomo? E’ forse logicamente impossibile che gli uomini siamo immortali o che Socrate non sia un uomo? No, ovviamente. E’ l’esperienza sensibile a dirci che Socrate è un uomo, sono l’esperienza e l’inferenza induttiva a farci dire che tutti gli uomini sono mortali. Così come è un dato della ragione, non deducibile da nulla, il principio di non contraddizione ha sempre a che fare coi dati, in particolare coi dati dell'esperienza sensibile. Questi non sono deducibili dal principio, sono solo relazionabili da questo.

E' tale l'importanza del principio di non contraddizione che questo resta centrale anche dalla logica contemporanea, pure assai diversa dalla logica classica aristotelica.
Come si sa la logica contemporanea è in larga misura verofunzionale: uno dei suoi concetti base è quello di valore di verità. Il valore di verità è il valore che la funzione logica assume per i diversi argomenti. La proposizione: “Cesare conquistò la Gallia” è trattata dalla logica contemporanea come una funzione: “X conquistò la Gallia”. Se in tale funzione si sostituisce alla variabile X il termine “Cesare”, la proposizione risulta vera, se si sostituisce “Pompeo”, risulta falsa. Ogni proposizione risulterà vera o falsa a seconda degli argomenti che si sostituiscono alle variabili. Vera e falsa sono i valori di verità di una funzione proposizionale.
Il valore di verità è centrale nel calcolo proposizionale che rappresenta forse la parte più innovativa della logica contemporanea. Il calcolo preposizionale studia le combinazioni fra proposizioni unite fa loro da costanti logiche. Di cosa si tratta? E’ presto detto. Prendiamo due proposizioni: “Paolo è triste” e “Paolo piange”. Possiamo combinare in vario modo fra loro queste proposizioni. Possiamo unirle con il connettivo e ed avremo una congiunzione fra le due proposizioni: “Paolo è triste e piange”. Il valore di verità di questa nuova proposizione varierà al variare del valore di verità delle due proposizioni che la compongono. Chiamiamo “Paolo è triste” p e “Paolo piange” q. Il valore di verità della congiunzione “p e q” dipenderà dai valori di verità di p e di q. La congiunzione sarà vera solo nel caso in cui p e q siano entrambe vere. “Paolo è triste e piange” è vera solo se sono entrambe vere “Paolo è triste” e “Paolo piange”. Se entrambe le proposizioni sono false o se è falsa anche una sola di esse la congiunzione risulterà falsa.
Possiamo collegare fra loro le due proposizioni anche in altri modi, ad esempio non con il connettivo e ma con quello o. Avremo in tal caso una disgiunzione. Nel caso delle due precedenti proposizioni avremo: “Paolo è triste o piange”. La disgiunzione sarà vera nel caso in cui siano vere entrambe le proposizioni o almeno una di esse, falsa nel solo caso in cui siano entrambe false.
Una costante logica molto importante è la negazione: la negazione di p è non p. La negazione di “Paolo è triste” è “Paolo non è triste”. Se una proposizione è vera la sua negazione sarà sempre falsa e viceversa.
Il calcolo preposizionale non dice nulla, dovrebbe essere chiaro, sul fatto se una proposizione sia vera o falsa, ci dice solo come varia il valore di verità di una proposizione composta al variare del valore di verità delle proposizioni che la compongono. L’introduzione del concetto di verità in logica non modifica minimamente il carattere formale della stessa.

Nella logica contemporanea fondata da Frege ed approfondita fra gli altri da Russel e Wittgenstein esistono due proposizioni complesse che hanno particolare importanza: le tautologie e le contraddizioni. Si ha una tautologia quando si combina mediante una disgiunzione una proposizione con la sua negazione, ad esempio: “piove o non piove”. La tautologia è sempre vera ma lo è perché non dice nulla sul mondo. Dire che piove o che non piove non ci fa sapere se piove o se splende il sole.
Si ha invece una contraddizione combinando con una congiunzione una proposizione e la sua negazione, ad esempio:”piove e non piove”. La contraddizione al contrario della tautologia è sempre falsa. Se io affermo che piove e che non piove dico sempre il falso per il motivo molto semplice che è impossibile che un ente sia nel contempo se stesso e la sua negazione o che accada e non accada lo stesso evento.
“La proposizione mostra ciò che dice” afferma Wittgenstein, “la tautologia e la contraddizione che dicono nulla. La tautologia non ha condizioni di verità poiché è incondizionatamente vera; e la contraddizione è sotto nessuna condizione vera. (…) tautologia e contraddizione non sono immagini della realtà. Esse non rappresentano alcuna possibile situazione, infatti quella ammette ogni possibile situazione; questa nessuna (…)la tautologia lascia alla realtà tutto, infinito, lo spazio logico; la contraddizione riempie tutto lo spazio logico e non lascia alla realtà alcun punto. Nessuna delle due può determinare comunque la realtà” (6).
La tautologia non determina la realtà. Non dico nulla di Paolo se dico che è o non è un uomo. Per dire qualcosa di Paolo devo dire che è un uomo e quindi non è un cane. La contraddizione non determina a sua volta nulla perché non si può determinare un ente dicendo che esso è e nel contempo non è se stesso. E così il circolo si chiude. Con tutto il suo formalismo raffinato, con tutte le sue fondamentali novità,sul punto centrale del rapporto con il principio di non contraddizione la logica contemporanea non può che convenire con Aristotele sulla impossibilità di affermare e negare del medesimo soggetto lo stesso attributo nel medesimo tempo e nella medesima relazione. La realtà non può essere contraddittoria, l'uomo non può essere non uomo. Ed il pensiero, a sua volta non può contraddirsi. Se penso che X sia un uomo non posso nel contempo e dallo stesso punto di vista, pensare che non lo sia. Su questo punto Aristotele e Wittgenstein,  per tanti aspetti lontanissimi fra loro, non possono che concordare.

Ci sono due aspetti del principio di non contraddizione che val la pena sottolineare, perché particolarmente importanti, a mio avviso.
Al primo si è già fatto accenno. Il principio di non contraddizione è un dato, un
dato della ragione e relaziona a sua volta enti dati. Usare il principio di non contraddizione vuol dire precludersi la conoscenza della totalità. Il principio di non contraddizione è nella conoscenza razionale un po' come il punto di vista nella conoscenza sensibile. Si parte dal punto di vista per conoscere la realtà ma il punto di vista è sempre escluso dalla realtà conosciuta. Allo stesso modo, cercando di comprendere razionalmente il mondo non si può dare spiegazione razionale del principio che ci permette questa comprensione. Quando cerca di superare questo limite il grande principio cade nel paradosso o, quanto meno, nell'auto contraddittorietà. L'autoreferenzialità genera l'auto contraddittorietà, ma è obbligatorio essere auto referenziali se si vuole pervenire alla conoscenza della assoluta totalità. Il principio di non contraddizione è il principio dell'intelletto finito, di un intelletto che si sa dato ed ha sempre a che fare col dato, e che cade in contraddizioni non appena cerca di superare integralmente il dato, di spiegare razionalmente se stesso. Un intelletto, meglio, una ragione, divina userebbe il grande principio? E come lo userebbe? Non credo che l'uomo sia in grado di rispondere ad una simile domanda.
Il secondo aspetto e forse ancora più importante. Se si accetta il principio di non contraddizione non si può ammettere l'esistenza di enti negativi.
Gli enti negativi non esistono, quanto meno, chi non contesta la validità del principio di non contraddizione non può ammetterne l'esistenza. Se dico che Mario non è un monte non trasformo per questo il monte nel negativo di Mario, né, viceversa, Mario nel negativo di monte. No, sia “Mario” che “monte” sono enti positivi e la logica, usando il principio di non contraddizione, relaziona questi enti, stabilisce che uno non è l'altro e viceversa; che Mario fa parte dell'insieme degli uomini che non è l'insieme dei monti.
Perché la accettazione del principio di non contraddizione implica necessariamente, che non si possa accettare l'esistenza di enti negativi? Aristotele, come si è già visto, ci da la risposta quando  afferma che eguagliare uomo e non uomo significa, molto semplicemente, eguagiare uomo e trireme.

Esaminiamo la proposizione “Mario è un uomo”. Ora, essere uomo significa non essere un cane. Se questo semplice fatto trasforma Mario in un ente negativo, nel negativo logico del cane, insomma, in non cane, il nostro amico Mario va incontro a brutte sorprese. La proposizione da cui eravamo partiti si trasformerà inMario è non cane”. Ma si dà il caso che anche un carro armato non sia un cane, quindi anche lui è non cane; tenendo conto di questo la nostra proposizione iniziale diverrà: “Mario è un carro armato”; però, sicuramente un carro armato non è un uomo, quindi “Mario è un carro armato” si trasformerà in “Mario è un non uomo”. Questa ultima proposizione deriva logicamente dalla prima da cui eravamo partiti: “Mario è un uomo”, e va a questa uguagliata. Il risultato finale del nostro slalom fra gli enti negativi sarà: “Mario è un uomo ed un non uomo”, la negazione del principio di non contraddizione. Se esistono gli enti negativi il principio di non contraddizione va, letteralmente, a farsi benedire. I casi sono due: o si accetta il principio di non contraddizione e con questo il discorso sensato, ed allora non si può in nessun caso parlare di enti negativi, o si accetta l'esistenza degli enti negativi ed allora si deve rinunciare alla possibilità stessa della coerenza logica e del discorso dotato di senso.

Il rifiuto degli enti negativi porta un colpo al cuore alla teoria della alienazione, com'è evidente. Il centro della teoria della alienazione è infatti tutto li, nella trasformazione di un ente positivo, empiricamente dato, in ente logico, inizialmente inteso come affermativo e poi, necessariamente, come il negativo logico di un altro. La natura è in Hegel l'idea nella forma del suo essere altro, il negativo dell'idea, la sua alienazione terrena. E in Marx la società borghese è, per definizione, il regno della alienazione. L'uomo che vive in questa società è un non uomo, un ente negativo, scisso, che ha fuori di se la propria essenza umana. L'unità originaria si scende, da vita al proprio negativo ed è destinata a ricomporsi in futuro, nella palingenesi globale che attende il genere umano. Questa concezione non è solo mitologica, ma travisa sostanzialmente la logica nel momento stesso in cui sembra esaltarla. La logica relaziona gli enti, non li trasforma in positivi o negativi. Se dico che Mario non è una villetta al mare non lo trasformo nel negativo logico delle villette, e se dico che è un uomo non lo trasformo nell'affermativo logico di se stesso: Mario resta in ogni caso quel certo ente, quella persona lì, di cui posso affermare o negare tante cose.
E non esistono, non possono esistere, enti negativi. Ogni ente è qualcosa di positivo: quella cosa lì. Un uomo imprigionato è un uomo che si trova di fronte ad ostacoli che ne impediscono il libero sviluppo, ma non è un non uomo. La natura non è spirito, ma non perde per questo il suo carattere positivo, non si riduce a negazione dell'idea o ad idea in forma alienata. Si può accettare la teoria della alienazione solo se si elimina ogni differenza, e tensione, fra gli enti e la logica che li relaziona, fra affermazione e negazione da un lato, ed ente di cui si afferma o si nega qualcosa dall'altro. Gli enti reali diventano enti logici, e, poiché la negazione è elemento essenziale della logica, enti negativi. Tutto questo porta, lo si è visto, alla distruzione del principio di non contraddizione e con questo del discorso dotato di senso. Non a caso tutti i teorici della alienazione sono sempre stati oppositori del principio di non contraddizione.









Note

1) Aristotele, Metafisica. Laterza 1988 pag. 94)

2) Ibidem.

3) Ibidem pag. 101

4) Ibidem pag. 98

5) Ibidem pag. 95

6) L: Wittgenstein: Tractatus logicus philosophicus. Einaudi 1958 pag. 38 39






giovedì 24 novembre 2016

GLI ANGELI E I DEMONI

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Esiste ed è abbastanza diffusa una concezione secondo cui l’uomo è un animale essenzialmente ed interamente storico-sociale. Il problema della natura umana, di cosa sia l’uomo sarebbe da questo punto di vista un falso problema. L’uomo si risolve integralmente nella storia e nella società. Non esiste l’uomo, esistono il russo e l'inglese, il borghese o il proletario. L’uomo è l’espressione dell’ambiente storico sociale che lo ha prodotto, si esca da questo e restano solo vuote astrazioni.
Chi si oppone a questa concezione rischia a sua volta di cadere in forme inaccettabili di naturalismo. Allo storicismo ed al contestualismo vengono opposte forme altrettanto dogmatiche di determinismo genetico.
In realtà chi rifiuta la concezione secondo cui tutto è cultura e società non sostiene necessariamente che tutto sia determinato dal patrimonio genetico. Cos’è l’uomo, cosa la natura umana è un problema che non può essere risolto molto facilmente, è un tipico problema aperto, a cui possono darsi risposte sempre nuove che hanno però la particolarità di non smentire mai totalmente le risposte vecchie. Oggi nessuno sosterrebbe che la definizione aristotelica di uomo come “animale razionale” esaurisca tutte le caratteristiche della natura umana, questo però non elimina il fondamentale frammento di verità che è contenuto in quella definizione.
Per Aristotele l’uomo è un animale razionale, per Agostino un essere decaduto cui però la grazia divina può permettere il riscatto, per Pascal è una canna, ma una canna che pensa, per Kant un essere capace di autodeterminarsi, per molti genetisti la natura umana si risolve (quasi?) interamente nel patrimonio genetico (e questo non conduce necessariamente al determinismo). E’ difficile trovare una risposta definitiva ed esaustiva al problema, nessuna definizione, per quanto elaborata può riassumere in una formula ciò che noi siamo.
Chi dice che non tutto nell’uomo è cultura, che non siamo determinati dal quadro socio culturale in cui viviamo non sostiene quindi una particolare concezione della natura umana. Non sostiene ad esempio, o almeno non sostiene necessariamente, che tutto in noi sia patrimonio genetico (potrebbe anche essere così del resto), né che la natura umana sia “immutabile”. Sostiene una cosa del tutto diversa: quale che sia la natura umana essa non è riconducibile in toto all’ambiente sociale, alla storia, alla cultura. Se così fosse resterebbe inesplicabile il fatto che l’uomo è capace di costruire ambienti sociali, fa la storia oltre ad esserne influenzato, crea le culture che poi lo condizionano. La natura umana è quel residuo che fa dell’uomo qualcosa di diverso dall'italiano e dal cinese, dal borghese e dal proletario, dal maschio e dalla femmina, dal nero e dal bianco. E’ il nostro essere genericamente membri del genere umano, persone, individui. Solo un residuo quindi, un “piccolo” residuo? Si, ma di immensa importanza.

Bisogna riconoscerlo francamente: molti aspetti della nostra natura sono francamente spaventosi. Unico animale in grado di elaborare i concetti di bene e di male l’uomo è capace di forme mostruose di violenza. Per fortuna è anche capace di reagire ad essa, di cercare quanto meno di circoscriverla. Da sempre c’è chi si è posto il problema di come controllare, ridurre ed infine bandire totalmente la violenza dalle relazioni umane. Su questo argomento ci sono state, com’è ovvio, una miriade di diverse prese di posizione che è assai difficile ridurre a comuni denominatori, tuttavia, pur tenendo conto di tutte le differenze possono individuarsi due principali filoni di pensiero cui molti altri sono riconducibili.
Il primo potremmo definirlo “riformista”. Occorre cercare di controllare la violenza favorendo lo sviluppo delle libertà individuali, della democrazia politica, del benessere e della cultura e intervenendo efficacemente contro il crimine quando questo si manifesta. Questa concezione mira a ridurre e a controllare la violenza, non ad eliminarla. Non si propone la costruzione di una società in cui la violenza non possa in alcun modo manifestarsi ma mira a gestire l’imperfezione, non vuole rifondare la natura umana ma solo controllarne e cercare di neutralizzarne gli aspetti distruttivi. Si tratta, com’è evidente, di una concezione liberale o socialdemocratica. In questa la perfezione può essere oggetto di speranza, non di programma politico.
Possiamo invece definire “rivoluzionario” un secondo filone di pensiero. Secondo questo non basta controllare la violenza, bisogna estirparla. In una società davvero “buona” la violenza non può neppure manifestarsi, è, letteralmente “impossibile”. Un obiettivo così radicale può essere raggiunto solo se con la società cambia in maniera totale la natura umana. Una società ed un tipo umano del tutto nuovi devono sostituire quelli vecchi. La concezione riformista, tutta centrata sul contenimento della violenza, non solo non risolve i problemi ma diventa di fatto il puntello di una società decadente. Cerca di correggere i vizi del vecchio mondo prolungandone in questo modo l’esistenza.

Queste due diverse concezioni non riguardano, com’è ovvio solo il problema della violenza.
L’antitesi fra concezione riformista e concezione rivoluzionaria tocca tutte le problematiche umane, dai rapporti fra gli uomini, al rapporto uomo - natura. La società umana avrà sempre dei difetti o è possibile una società perfetta? Esisteranno sempre delle differenze ed anche dei contrasti di interessi, valori, aspirazioni fra gli esseri umani ed esisterà sempre di conseguenza la necessità della mediazione politica? Oppure tutti gli esseri umani finiranno per avere valori, fini, interessi ed aspirazioni comuni? La politica e con essa lo stato sono destinati a deperire o costituiscono una costante delle società umane? Sarà sempre necessario il lavoro inteso come fatica, sforzo da compiere per ottenere dei benefici o l’unico lavoro che un giorno gli esseri umani faranno sarà il lavoro creativo, il lavoro-gioco, fine e non mezzo? E’ possibile la conciliazione fra uomo e natura o la natura serberà sempre delle insidie per l’uomo e, di converso, l’azione umana avrà sempre sulla natura un impatto almeno potenzialmente pericoloso? Insomma, avremo sempre dei problemi da risolvere, uno ad uno, con rigore ideale ma anche con una buona dose di realismo, oppure raggiungeremo un armonico equilibrio in cui tutte le nostre esigenze saranno soddisfatte una volta per sempre? Su tutti questi problemi la concezione riformista e quella rivoluzionaria divergono radicalmente. Il riformista si sforza di dare buone soluzioni ai problemi che via via si pongono; cerca di rendere meno duro il lavoro, di evitare il degrado ambientale, di costruire una buona politica, il rivoluzionario considera vani e alla lunga pericolosi simili sforzi.

La filosofia politica di Karl Marx rappresenta una delle più ampie e profonde, forse la più ampia e profonda manifestazione del secondo filone di pensiero.
Da buon seguace di Hegel Marx ha una concezione finalistica del divenire storico. La società di classe, soprattutto nella sua forma capitalistica, ha radicalmente corrotto la natura umana. L’uomo che vive nella società borghese moderna è un uomo alienato, un uomo che ha fuori e contro di se la sua umanità. Sia il borghese che l’operaio incarnano, da opposti punti di vista, la stessa umana alienazione. L’operaio è un uomo ridotto ad uno stato semi animale, con desideri e fini che non superano il livello della mera animalità, il borghese è il simbolo stesso della cupidigia e dello sfruttamento: pur sguazzando nell’abbondanza egli è ancora più meschino e miserabile dell’operaio che sfrutta. Ma l’operaio può, o meglio, deve rovesciare a società che lo opprime. Deve farlo perché la soddisfazione dei suoi bisogni di oggi, i bisogni di un essere alienato e miserabile, è incompatibile con il sistema capitalistico. Nelle rivendicazioni operaie non c’è nulla di realmente comunista: chiedere più salario o meno orario non modifica nella sostanza il meccanismo sociale fondato sulla compra vendita della forza lavoro. Ma il sistema non può reggere l’impatto delle lotte operaie, esso va incontro a crisi economiche sempre più gravi ed è per questo destinato a crollare. Il capitalismo sarà sostituito dal comunismo, alla fase della alienazione seguirà la fase della riunificazione. L’uomo ritroverà la sua umanità smarrita, natura umana e società subiranno la più radicale trasformazione di tutti i tempi. Nella accezione marxiana il comunismo è un rovesciamento totale di uomo, natura e società. Il comunismo non si identifica con lo stato giusto ma con la abolizione dello stato, non persegue una economia efficiente ma la fine dell’economia, non rivendica un lavoro ben retribuito ma la fine del lavoro inteso come strumento per procacciarsi da vivere, non vuole controllare e reprimere la violenza, vuole eliminarla, renderla impossibile. Col comunismo l’uomo esce dalla preistoria ed entra nella storia, diventa, per la prima volta, realmente ed integralmente umano.
Lasciamo la parola a Marx: “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo (…) questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera soluzione dell’antagonismo fra natura e uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa fra l’esistenza e l’essenza, (..) la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie, è la soluzione dell’enigma della storia” (1).
C’è poco da commentare: la storia giunge al suo termine rovesciandosi, l’uomo recupera la sua essenza diventando integralmente altro rispetto all’essere miserabile che è stato per millenni. Di fronte a tanta sfavillante bellezza la prospettiva riformista appare insipida, grigia, triste.

La concezione marxiana contiene (fra le altre) una contraddizione particolarmente grave, che la sua bellezza ipnotica può nascondere ma non cancellare. Se l’uomo è un essere meschino ed alienato come può rovesciare la società esistente? Marx risolve integralmente l’uomo nei rapporti sociali ma se in ogni epoca l’uomo è l’espressione dei rapporti sociali dominanti come può andare oltre questi rapporti? Come può l’uomo alienato ritrovare la sua essenza perduta se ha desideri, aspirazioni, valori da, appunto, alienato?
Alcuni marxisti del ‘900, Korsch in particolare, hanno cercato di risolvere a livello teorico la contraddizione di cui si è detto. Il marxismo non è un determinismo affermano costoro. L’uomo è condizionato dal quadro sociale ma lo modifica a sua volta con la sua azione e la sua volontà. In questo potevano trovare puntelli nella stessa opera di Marx che in varie occasioni aveva affermato che nella prassi rivoluzionaria la modificazione delle circostanze coincide con l’automodificazione delle coscienze.
La soluzione però era più apparente che reale. A parte il fatto che Marx ripete fino alla noia che è l'essere sociale a determinare la coscienza, a parte questo decisivo "particolare", è vero che l’uomo può modificare l’ambiente in cui vive e modificare in questo modo se stesso, ma la automodifica dell’uomo parte sempre e comunque dalla natura umana. L’uomo modifica se stesso a partire da quello che è, può cambiarsi ma non trascendersi, modificare questo o quell’aspetto, non la totalità della sua natura, può favorire certe pulsioni e controllarne altre, può imporsi regole di condotta, ma non può uscire da sé stesso, diventare totalmente ed integralmente nuovo. Considerazioni simili possono essere fatte se si considerano la natura extraumana e la società. L’uomo può cambiare il mondo che lo circonda ma può farlo solo se conosce e rispetta le leggi fondamentali che presiedono al suo funzionamento. Si può cambiare una parte del mondo facendo leva sull’altra e questo per il semplice fatto che noi siamo nel mondo, ne siamo parte. E lo stesso vale per la società, per la politica e l’economia. Si cambia la società sempre a partire da esigenze, valori, interessi che sono nati e che vivono nella società che si vuole cambiare, si può aumentare il benessere solo se non si violentano le leggi economiche fondamentali, si modificano i rapporti di forza politici sempre a partire da una situazione politica. Il nuovo parte sempre dal vecchio ed è condizionato dal vecchio nel suo essere nuovo. L’assolutamente nuovo, il rovesciamento radicale non sono possibili, almeno, non sono possibili in positivo. La storia può fare passi avanti o tornare indietro, può conoscere accelerazioni o periodi di stasi, non può rovesciarsi, uscire da se stessa. L’innovazione radicale non conduce a nulla che non sia la distruzione.
 
In realtà la soluzione prospettata da Korsch non è tanto quella di una interazione fra circostanze e coscienze considerata ognuna nella propria autonomia: A e B hanno ognuno la loro autonomia e si influenzano a vicenda. Una simile concezione è del tutto compatibile col riformismo. La soluzione di Korsch si basa sulla hegeliana identità di soggetto ed oggetto: la coscienza operaia è oggettivamente subalterna perché la classe operaia è oggetto dello sfruttamento capitalistico ed in quanto tale fa sua la ideologia della classe dominante. Nello stesso tempo però la classe operaia è soggetto rivoluzionario e in quanto tale rifiuta e mette in crisi il sistema borghese. In quanto radicata nell'oggetto la rivoluzione perde ogni carattere utopico, in quanto radicata nel soggetto rivoluzionario si scioglie non solo da ogni determinismo, ma anche da ogni condizionamento sociale. Peccato che in questo modo il principio di non contraddizione vada a farsi benedire e tutto il discorso precipiti nel non senso.
L’andamento delle lotte operaie dal canto suo, ben lungi dal confermare le astruserie della dialettica ha finito per mettere in crisi la visione marxista del divenire storico. Ben lungi dal far collassare il sistema le rivendicazioni dei lavoratori sono state gradualmente assorbite nel sistema. Lo sviluppo della democrazia politica invece di aprire nuove aree di crisi ha favorito l’integrazione di masse sempre più vaste di popolazione nel sistema finendo per stabilizzarlo. Invece di dimostrarsi una forza radicalmente eversiva la classe operaia ha dimostrato di essere interna al sistema, una forza sociale i cui orizzonti non superano la concezione riformista. La speranza marxiana che nella lotta per soddisfare i suoi bisogni di oggi (bisogni alienati di uomini da alienati) la classe operaia mettesse in crisi verticale il “sistema” si è rivelata illusoria.

Prima di Marx la contraddizione di cui si è parlato era stata affrontata da Rousseau.
Per Rousseau l’uomo è un essere profondamente corrotto dalla civiltà. Il contratto sociale è il punto di partenza della sua redenzione. Stipulando il contratto sociale l’uomo cede tutta intera la sua libertà al collettivo in cui entra a far parte ma facendo questo resta interamente libero: cedendo il suo potere a tutti egli in realtà non lo cede a nessuno. La volontà generale che ora regola la sua vita non è altro che la sua volontà, obbedendo alla volontà generale ognuno obbedisce solo a se stesso. L’ingresso dell’uomo nella nuova comunità modifica nel profondo al sua natura. L’egoismo, la vana ambizione, l’amor proprio scompaiono e vengono esaltati al massimo gli elementi altruistici e comunitari della natura umana. L'amor proprio scompare, subentra la virtù civica.
Ma anche il ginevrino deve fare i conti con un problema simile a quello che Marx dovrà affrontare dopo di lui. Se l’uomo è corrotto dalla civiltà perché mai dovrebbe stipulare il contratto? Se è incapace di vedere il suo “vero” bene come può entrare in un collettivo che contrasta quelli che non sono “davvero” i suoi interessi ma che gli sembrano tali?
“Perché un popolo al suo nascere potesse capire le grandi massime della giustizia (…) bisognerebbe che l’effetto potesse divenire causa, che lo spirito sociale che deve essere il frutto dell’istituzione presiedesse all’istituzione stessa e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono diventare per opera loro” (2) afferma Rousseau nel “contratto sociale”. Il discorso è chiarissimo: il contratto redime l’uomo ma per stipulare il contratto l’uomo dovrebbe essere già redento.

Rousseau cerca di risolvere la contraddizione introducendo la figura del “legislatore”. Il legislatore è un uomo eccezionale che impone al suo popolo quelle leggi grazie alle quali tutti cambieranno la loro natura: “chi affronta l’impresa di dare istituzioni ad un popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere” (3). Il legislatore che compie questa titanica impresa è “un intelletto superiore che conosce tutte le passioni degli uomini senza provarne nessuna, che non ha alcun rapporto con la nostra natura e che la conosce a fondo” (4), insomma, una sorta di semidio.
Non bisogna credere che il legislatore usi la violenza in questa opera di trasformazione radicale dell’uomo: “Il legislatore, non potendosi servire né della forza né del ragionamento deve ricorrere ad un’autorità d’altro ordine che possa trascinare senza violenza e persuadere senza convincere. Ecco ciò che convinse in tutti i tempi i padri delle nazioni a ricorrere all’intervento celeste perché i popoli (..) obbedissero liberamente e portassero docilmente il giogo della felicità pubblica”. (5)
Il legislatore attribuisce a Dio ciò che è opera sua, fa apparire come prescrizioni divine quelle leggi che sono necessarie alla redenzione dell’uomo e spinge in questo modo gli esseri umani laddove non sarebbero mai andati spontaneamente. La figura del legislatore introduce una cesura radicale nel corso storico. Questo non va spontaneamente verso la sua meta redentrice, occorre la volontà di un uomo superiore, una sorta di semidio che è in effetti creduto tale dalle masse, per forzare il corso storico e portare gli esseri umani alla salvezza. Naturalmente la soluzione di Rousseau è del tutto illusoria. A livello pratico la contraddizione fra natura umana corrotta ed esigenza del suo rovesciamento sarà “risolta” non dalla “persuasione senza convinzione” ma dalla lama affilata della ghigliottina. A livello di teoria politica Il ginevrino non può risolverla perché deve cercare fuori dall’uomo e dalla storia la soluzione di un problema umano e storico. Anche il legislatore è un uomo: questa sola constatazione mette in crisi tutta la costruzione di Rousseau. Essa però ha una importanza eccezionale e sarà foriera di sviluppi di estrema importanza; il più prossimo sarà, com’è noto, l’esperienza del giacobinismo e anche tramite questa esperienza il pensiero di Jean Jacques Rousseau avrà una grande influenza in alcuni momenti decisivi della storia contemporanea.

Vissuto parecchi anni dopo Marx, Lenin si rende conto che il corso storico non va nella direzione da questi auspicata ma, a differenza di una parte sempre crescente dei socialisti europei, non è affatto intenzionato a rinunciare al fine comunista.
In Lenin il partito rivoluzionario gioca il ruolo che Rousseau affida al legislatore. Il partito ha il compito di introdurre dall’esterno nella classe operaia quella coscienza comunista che da sola questa non è in grado di raggiungere. Formato da rivoluzionari di professione il partito deve preservare la purezza dell’idea rivoluzionaria da ogni contaminazione ideologica, educare le masse e soprattutto stare sempre vigile, sempre pronto a sfruttare l’occasione che possa consentirgli un colpo di mano. E l’occasione venne, come tutti sanno. Sfruttando le eccezionali circostanze causate dal primo conflitto mondiale il partito bolscevico, sebbene rappresentasse una minoranza non solo del popolo ma della stessa debole classe operai russa, fu capace di conquistare il potere e di mantenerlo. Soprattutto usò il potere per mettere in atto il suo programma, integralmente e senza sconti.

I lavoratori non vogliono il socialismo? Questo può venire loro imposto dalla avanguardia che conosce quale deve essere la “autentica” coscienza di classe. La maggioranza della popolazione russa è formata da contadini? I contadini sono legati all’ideologia borghese, non sognano altro che la proprietà di un  pezzo di terra. Dovranno essere condotti volenti o nolenti all’economia collettivizzata. I partiti non bolscevichi hanno la maggioranza dei consensi? Siano messi fuori legge. Nel partito bolscevico si formano correnti che possono metterne a rischio l’unità? Che siano abolite. Si iniziò con l’abolire la libertà per borghesi e poi si dovette restringere sempre più il cerchio, fino a concentrare un potere immenso nelle mani di un dittatore. Lo stato che doveva estinguersi divenne sempre più forte fino a diventare quasi onnipotente, i lavoratori vennero ridotti in uno stato di semischiavitù, la cultura irreggimentata in maniera mai vista prima nella storia, ogni autonomia di pensiero distrutta. La produzione si separò in maniera sempre più netta dalle esigenze dei consumatori. La natura umana dovette subire in effetti una torsione mai vista, l’uomo divenne la materia prima di un esperimento sociale di grandiosa ampiezza. L’individuo fu davvero, come auspicava Rousseau, inserito in un collettivo più grande, mostruosamente più grande di lui, da cui riceveva “l’essere e la vita”, ed anche, assai spesso, le deportazioni, la tortura, la morte.
Le dimensioni della “normale” violenza criminale si ridussero ovviamente nella Russia staliniana: come poteva esserci in una società simile una criminalità ”comune”? Ma si ampliò fino a diventare gigantesca la criminalità istituzionalizzata. Solzenicyn ci ricorda che il sistema dei gulag raggiunse dimensioni mostruose e arrivò ad ospitare contemporaneamente molte centinaia di migliaia, addirittura milioni di esseri umani. Lo storico sovietico Roy Medved, di certo non sospettabile di anticomunismo “viscerale”, calcola le vittime dello stalinismo in ventidue milioni di esseri umani, né queste sono le sole vittime del prometeico “assalto al cielo” tentato dai comunisti.

Ovunque l’esperienza comunista condusse agli stessi risultati. Per la Cina si calcolano vittime nell’ordine di settanta milioni di esseri umani uccisi dalle repressioni e dalle carestie provocate dalla politica agricola irresponsabile e disumana di Mao. Nel libro “Mao la storia sconosciuta” la scrittrice cinese Jung Chang (autrice del bellissimo romanzo “i cigni selvatici”) ed il marito Jon Halliday così descrivono l’esperienza del gran balzo in avanti, cioè del tentativo messo in atto da Mao fra il 1958 ed il 1962 di aumentare a tappe forzate la produzione industriale e di fare della Cina una super potenza militare (voglio ricordare che il libro è documentatissimo, di ogni cifra, di ogni fatto si cita la fonte. Al termine del volume ci sono 214 pagine di note e bibliografie, la sola bibliografia delle fonti ne occupa 64).
“Nell’estate del 1958 Mao concentrò di punto in bianco l’intera popolazione rurale in nuove unità allargate definite “comuni popolari”. Disse senza mezzi termini che la concentrazione dei contadini in un minor numero di unità – oltre 26.000 in tutta la Cina era più facile da controllare. (…). Le comuni erano de facto dei campi di lavoro forzato. (..) come nei campi di lavoro i reclusi erano obbligati a mangiare in mensa. (..) il controllo totale sul cibo conferì allo stato un’arma terrificante: negare i pasti divenne una forma comune di punizione “lieve” che i funzionari rurali esercitavano a piacimento” (6).
“I quadri dovevano controllare che i contadini non “rubassero” il loro stesso raccolto. Si infliggevano spesso punizioni orribili: alcuni furono sepolti vivi, altri strangolati (..) ad altri ancora fu tagliato il naso” (7)
Questa politica provocò una carestia senza precedenti, ovviamente: “A livello nazionale la carestia iniziò nel 1958 e terminò nel 1961, raggiungendo l’apice nel 1960. (..) Secondo un famoso sostenitore del regime, Hang Suyn, nel 1960 le casalinghe delle città assumevano al massimo 1200 calorie al giorno.” (8). Nel frattempo la Cina esportava derrate alimentari: “nel 1958 e 1959 le sole esportazioni di cereali che ammontarono quasi certamente a sette milioni di tonnellate avrebbero potuto fornire l’equivalente di oltre 840 calorie al giorno per 38 milioni di persone: la differenza fra la vita e la morte” (9). In breve, “nei quattro anni del gran balzo in avanti e della carestia morirono di fame e di lavoro circa 38 milioni di persone” (10) . Trentotto milioni in quattro anni, un bel record non c’è che dire.

La Cambogia di Pol Pot fu il paese in cui l’aspirazione al cambiamento totale della natura umana assunse le forme forse più sanguinarie e demenziali. Il denaro, il vile, corruttore “Dio denaro” fu abolito, le grandi città, covo di corruzione, evacuate, chi sapeva leggere e scrivere fu qualificato “intellettuale” e fucilato, la tecnologia “borghese” venne bandita e masse enormi di nuovi schiavi vennero mandate a coltivare i campi praticamente senza attrezzi, le famiglie vennero separate (la famiglia è una istituzione borghese...) la religione, la alienante religione, vietata, i templi buddisti distrutti, una preghiera era punita con la morte. La natura umana andava rifondata, l’uomo vecchio doveva sparire per far posto all’uomo nuovo, la vecchia cultura distrutta per far posto alla nuova, i vecchi rapporti fra padri e figli, marito e moglie, fratello e sorella distrutti per lasciar posto a nuovi e più elevati rapporti umani. Nel giro di pochissimi anni vennero fatti fuori in Cambogia, un piccolo paese con circa 12 milioni di abitanti, dai due ai tre milioni di esseri umani, quasi un quarto della popolazione. E oggi c'è chi definisce il "dramma dei migranti" la "più grande emergenza umanitaria del dopoguerra"...

Come si vede i comunisti non seguirono le raccomandazioni di Rousseau, non limitarono la loro violenza alle forme alquanto truffaldine che il ginevrino suggeriva. Andarono molto più a fondo nei loro intenti. Questo del resto era l’unico modo per metterli in atto, già i primi seguaci di Rousseau lo avevano capito. Nulla è casuale in questo processo mostruoso. Chi dice ad esempio che i crimini che si sono ricordati costituiscono un tradimento del comunismo dimostra di non aver capito nulla del fenomeno comunista. E’ stato precisamente il loro "alto" ideale a spingere i comunisti sulla strada senza ritorno del terrorismo di massa. Lo stato onnipotente è figlio dello stato che si “doveva estinguere”, la violenza di massa deriva direttamente dalla pretesa utopica di rendere impossibile ogni violenza. Certo, moltissimi comunisti divennero poi burocrati corrotti e privi di principi, satrapi miserabili interessati solo a meschini tornaconti personali. Al suo tramonto l’impero comunista era diventato assai più corrotto del più corrotto dei paesi capitalistici. Ma il sistema in cui questi satrapi, i demoni del comunismo, poterono prosperare e quella corruzione svilupparsi non avrebbe potuto nascere senza l’azione spirituale e materiale degli angeli, dello stesso: degli idealisti, dei rivoluzionari incorruttibili che volevano davvero, sinceramente, cambiare dalle fondamenta il mondo e l’uomo.
La costruzione dell’uomo nuovo non può farsi (non può nemmeno tentarsi) se non al prezzo della morte di milioni di uomini “vecchi”, la fine di ogni violenza, di ogni possibilità di violenza, implica necessariamente una violenza sconfinata che colpisce masse enormi di esseri umani. La natura e la società umana non possono essere rovesciate senza l’intervento di un mostruoso “legislatore” che tratta gli uomini come creta, o come spazzatura.
E, ovviamente, da tutto ciò non sorge alcuna figura umana davvero “nuova”. Sorgono solo sconfinate schiere di poveri esseri umani incarcerati, torturati, mutilati, privati, loro si davvero privati, della loro umanità. E montagne di cadaveri.









Note

1) K. Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 111

2) J.J. Rousseau: Il contratto sociale. Ne: I grandi filosofi: Rousseau. Edizioni del “sole 24 ore” 2006. pag. 268

3) Ibidem pag. 266

4) Ibidem pag. 266

5) Ibidem pag. 268 sottolineatura mia

6) Jung Chamg: Mao la storia sconosciuta. Longanesi 2001. pag. 511

7) Ibidem pag. 512

8) Ibidem pag. 515

9) Ibidem pag. 516

10) Ibidem pag. 515









giovedì 27 ottobre 2016

INTEGRAZIONE

Il Vocabolario Treccani della lingua italiana così definisce la integrazione, in senso sociale:

Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita

Si ha integrazione quando un individuo o un gruppo diventano a tutti gli effetti membri di una certa comunità, o società. Un italiano, per fare un esempio, emigra in Argentina e dopo un certo numero di anni può a pieno titolo definirsi argentino. Parla correttamente lo spagnolo, conosce i principali eventi della storia argentina, è informato e segue la politica del suo nuovo paese. Certo, il nostro ipotetico emigrante conserva un legame con l'Italia, si sente in qualche modo ancora italiano, ma questo non contrasta col fatto che è argentino, e non solo formalmente.
L'integrazione è
inserimento, condivisione di alcuni valori e sentimenti, sviluppo di un senso di appartenenza. Se queste cose mancano non si ha integrazione e coloro che si dovevano integrare, ma integrati non si sono, vivono, nella migliore delle ipotesi, accanto agli altri, nella peggiore, contro gli altri.

Per chiarire ancora meglio le cose val la pena di confrontare il concetto di integrazione con altri due che apparentemente sembrano assomigliargli.
In primo luogo il cosiddetto
melting pot.
Si parla di melting pot, letteralmente crogiuolo, calderone, per indicare il processo di fusione di popoli, razze od etnie. La differenza fra melting pot ed integrazione è abbastanza chiara. Si ha integrazione quando gruppi ed individui entrano a far parte
a pieno titolo di una cultura o di una società già esistenti, si ha melting pot quando più gruppi ed individui, fondendosi, danno vita ad una nuova cultura o, più modestamente, si mischiano fra loro a livello puramente etnico e razziale.
Nel melting pot c'è una componente etnica: la fusione di etnie e razze diverse, ed una culturale: la formazione di una nuova cultura, ma non è detto che questa seconda componente sia sempre presente. Si tratta comunque, in tutti i casi, di qualcosa di radicalmente diverso dalla integrazione.
I barbari che determinarono il crollo dell'impero romano si fusero in qualche modo con le popolazioni latine, ma non ci fu una loro integrazione nelle istituzioni dell'impero romano. Gli spagnoli che conquistarono il sud America in parte si mischiarono, più che altro a livello etnico e razziale, con le popolazioni locali, ma non ci fu alcuna fusione fra la cultura dei conquistadores e quella degli Aztechi, dei maya e degli Incas. Meno che mai si può parlare di integrazione di queste popolazioni nella cultura degli spagnoli e dei portghesi. Ci può essere fusione etnica e razziale fra conquistati e conquistatori, addirittura fra schiavisti e schiavi, senza che vi sia fra gli uni e gli altri alcun processo di formazione di una nuova cultura, meno che mai di integrazione.
La differenza fra melting pot ed integrazione risulta con particolare evidenza nel processo di formazione degli Stati Uniti d'America. Nel corso di quel processo le diverse popolazioni emigrate in nord America si fusero sia culturalmente che etnicamente fra loro, dando vita ad una nuova nazione con la sua specifica cultura, ma non vi fu alcuna integrazione di questa nuova cultura in quella degli indiani d'America. Il melting pot da cui doveva nascere il popolo americano si formò in un processo che vide contrapposti senza possibilità di mediazioni, purtroppo, gli emigranti europei e gli originari abitanti d'America. Si possono fare le considerazioni più svariate su quel processo. Si può dire che sia stato storicamente progressivo e si possono condannare le violenze e le ingiustizie che lo accompagnarono, in ogni caso non lo si può spacciare come esempio di “integrazione”.
Neppure si può confondere l'integrazione con quel processo, avvenuto svariate volte nella storia, che porta i conquistatori ad assimilare la cultura dei conquistati.
Capita spesso che i vinti conquistino culturalmente i vincitori, ma si tratta di una amara vittoria. I vincitori fanno proprie parti della cultura dei vinti distruggendo però la loro indipendenza e la loro organizzazione politica.
I Romani assimilarono molto della cultura greca, ma lo fecero trasformando la Grecia in una loro provincia. I barbari che determinarono la caduta dell'impero romano di occidente fecero propri alcuni spezzoni della cultura latina, ma lo fecero dopo aver più volte saccheggiato Roma ed il nord Italia e distrutto la struttura politica dell'impero. Quando una grande civiltà crolla alcuni frammenti della sua cultura sono sempre, in qualche modo, assimilati dai suoi nemici, ma solo mistificando al massimo il senso dei concetti questo può essere spacciato per integrazione. Se i nazisti avessero vinto la seconda guerra mondiale nei teatri di Berlino si sarebbero, probabilmente, continuate a rappresentare le tragedie di Shakespeare, questo non vuol dire che i nazisti si sarebbero integrati nella democrazia liberale britannica.

Se è possibile trarre una conclusione da quanto sinora detto questa è:
si possono integrare individui e gruppi, non interi popoli.
Il perché è molto semplice. Singoli individui o gruppi che emigrano in un un paese subiscono inevitabilmente il condizionamento del nuovo ambiente sociale. La nuova cultura in cui sono inseriti penetra in loro come l'aria che respirano. A meno che non sorgano gravi problemi economici o di altro tipo in un certo lasso di tempo i nuovi venuti diventano a tutti gli effetti cittadini del paese ospitante. Cittadini particolari, certo, che portano nel cuore l'amore per il luogo da cui provengono, ma non per questo meno leali nei confronti della loro seconda patria.
Ma se a trasferirsi non sono singoli o gruppi, ma un interi popoli questo non avviene. I singoli ed i gruppi subiscono l'influenza dell'ambiente in cui si inseriscono,
trasferendosi i popoli modificano l'ambiente, ne creano uno del tutto nuovo. Il contesto sociale influisce sui singoli, ma i popoli influiscono, addirittura creano i contesti sociali. Per questo è semplicemente assurdo parlare di integrazione di interi popoli.
Mai nella storia trasferimenti di interi popoli o comunque di enormi dimensioni, hanno dato vita a processi di integrazione. Goti e visigoti, Unni e Vandali non si sono integrati nell'impero romano, gli europei non sono stati integrati dagli indiani d'America, né gli spagnoli dagli Atztechi. Le migrazioni di massa hanno distrutto civiltà ed altre ne hanno create. Migliori a volte delle precedenti, ma non è questo il punto in discussione. Di certo non hanno innescato alcun processo di integrazione. Le grandi migrazioni hanno creato un rimescolamento di etnie e razze ed anche di culture, dato vita a processi di assimilazione da parte dei nuovi arrivati di spezzoni delle culture delle civiltà soggiogate. Ma questo, lo si è visto, ha poco o nulla a che vedere con l'integrazione.

La domanda che dobbiamo porci oggi, di fronte ai processi migratori in corso, è molto semplice. Abbiamo a che fare con normali flussi di migratori o con un esodo massiccio che riguarda intere popolazioni? Dobbiamo parlare di numerosi stranieri che vengono a lavorare qui da noi o di intere popolazioni che si stanno trasferendo sul nostro territorio? Basta porre la domanda giusta per avere la risposta.
Solo dei perfetti mistificatori possono spacciare i processi in corso per normai flussi migratori. Il flusso continuo di clandestini dall'Africa e dal medio oriente, e non solo, verso l'Europa è un “normale” processo di emigrazione più o meno come era un normale processo migratorio il trasferimento di parte della popolazione europea in nord America.
E' inutile mistificare: quella che sta avvenendo sotto i nostri occhi è la
sostituzione della popolazione europea, un processo massiccio, che riguarda milioni, decine di milioni di esseri umani ed è destinato a cambiare radicalmente il contesto sociale, politico, economico e culturale del nostro continente. Qualcuno ha dei dubbi in proposito? Beh, faccia un giro per le vie del centro di qualsiasi città italiana e si guardi in giro. Poi, se non è troppo giovane, cerchi di ricordare come erano quelle stesse vie qualche decennio fa. Avrà subito la risposta.
Inoltre, ad aggravare non poco le cose, c'è il fatto che le migrazioni cui oggi dobbiamo far fronte riguardano masse umane con idee, valori, usi e costumi del tutto incompatibili con i nostri.
Una cosa è subire massicce migrazioni di popoli a noi simili. In questo caso, se non integrazione, è possibile, forse, un rimescolamento non solo etnico e razziale ma anche culturale fra i vecchi abitanti e nuovi venuti, ed è possibile che ci siano in questo anche aspetti positivi. Ma se chi arriva appartiene ad una cultura del tutto incompatibile con la nostra anche un simile processo, comunque lento, difficile e doloroso, diventa impossibile. Poligamia, lapidazione, identificazione di politica e religione, intolleranza, disprezzo per la democrazia non possono integrarsi e neppure mischiarsi con il laicismo, la pari dignità dei sessi, il libero pensiero. Quello di cui molti occidentali non si rendono, o non
vogliono rendersi, conto è un fatto notissimo: nell'Islam il principale fattore aggregante fra le persone, è la religione, non il principio di nazionalità. Questo non solo rende impossibile l'integrazione di massa, a livello di popoli, rende molto difficile la stessa integrazione nella nostra cultura di individui e gruppi di fede musulmana.
Pensare che un musulmano, un musulmano vero, possa sul serio integrarsi in una società di "infedeli" vuol dire essere molto ottimisti. Certo ci possono essere casi di questo genere, a livello di individui e piccoli gruppi, ma si tratta di casi come minimo molto rari.

Del resto sono proprio loro, i “buoni”, gli “accoglienti” a dimostrare, con tutta la loro politica che l'integrazione è solo un ingannevole miraggio. Da tempo ormai in tutto l'occidente si prendono provvedimenti, si mettono in atto comportamenti che di fatto sostituiscono i diritti delle persone con quelli dei gruppi. Il patto sociale da noi è scritto in termini individuali. Esistono diritti e doveri che valgono per tutti, indipendentemente dal colore della pelle, dal sesso, dal credo religioso; in conseguenza di questo la legge è uguale per tutti. Da tempo però le cose stanno cambiando. In certi gruppi etnici o religiosi esistono usi e costumi che la nostra legge sanziona, e sono in netto contrasto con quelli che per noi sono diritti essenziali delle persone. Questi usi e costumi però sono accettati, o quanto meno tollerati, perché fanno parte della cultura di un certo gruppo.
In occidente vige il principio della pari dignità dei sessi. Le donne musulmane sono costrette a velarsi più o meno integralmente e cosa fanno gli occidentali “accoglienti”? Fingono che veli e burka siano il frutto di una “libera scelta”.
In occidente è vietata la poligamia. La gran maggioranza dei migranti ha invece tre o quattro mogli. I “buoni” di casa nostra fingono di non vedere questo piccolo fenomeno. Qualcuno addirittura propone che la poligamia sia legalizzata.
In certi quartieri di Londra, e non solo, una donna non può passeggiare per strada vestita alla occidentale. Invece di reprimere simili situazioni cosa si fa? Le donne poliziotto incaricate di operare in simili quartieri devono velarsi.
Per noi la infibulazione è un crimine, ma viene allegramente praticata da molti “migranti” e le autorità occidentali si tappano gli occhi, qualcuno ha addirittura proposto che si faccia negli ospedali una infibulazione soft, con un po' di anestesia, per evitare scene troppo cruente.
Per farla breve, ovunque, con azioni o con omissioni, si avallano comportamenti, usi e costumi che sono la negazione di quelli che per noi, e non solo per noi, sono valori e diritti essenziali.
Non esistono, questo si teorizza sempre più spesso, i diritti delle persone, esistono i diritti dei gruppi etnici e religiosi. La legge non è uguale per tutti, ma ogni gruppo ha la sua legge e le persone che fanno parte di gruppi diversi sono soggette a leggi diverse. La società tende sempre più a spezzettarsi lungo linee etniche, cessa di essere qualcosa di unitario per trasformarsi in una accozzaglia di formazioni tribali.
Esattamente l'opposto della integrazione. Questo non è un caso: visto che l'integrazione di interi popoli è impossibile e visto che non ci si vuole opporre alle migrazioni di massa si accetta che la società si trasformi in un disorganico insieme di tribù.
Voglio dirlo telegraficamente, con la massima chiarezza.
Nel nostro futuro prevedibile non è in vista alcuna integrazione. Chi pensa, per restare al nostro paese, ad una Italia in cui cristiani, non credenti e musulmani si sentiranno prima di tutto italiani e saranno uniti da forti vincoli di solidarietà sbaglia completamente. Quella che ci attende è una crisi sempre più grave della nostra civiltà, prima una sua sempre più accentuata frammentazione su linee etniche e religiose, poi, forse, la scomparsa.
Qualcuno può obiettare che ciò che affermo dimostra un pessimismo troppo accentuato. Beh,
proviamo a fare due calcoli. Ultimamente i clandestini arrivano a casa nostra al ritmo di due, tremila al giorno. Tremila al giorno vuol dire novantamila al mese, un milione e novantacinquemila all'anno, quasi undici milioni dieci anni. Estremizzo? Faccio indebite estrapolazioni? Generalizzo dei picchi di arrivi? Forse, anche se è innegabile che più passa il tempo e più numerosi sono gli sbarchi. Comunque, anche dimezzando le cifre, se si tiene conto che i nuovi venuti si aggiungono ai molti che già sono qui da noi, e che il tasso di natalità fra i migranti è almeno triplo rispetto a quello dei residenti italiani, la conclusione è tragicamente semplice: se la attuale tendenza non viene bloccata, nel giro di venti, massimo trenta anni
l'Italia sarà morta come paese occidentale. Sarà diventata qualcosa di simile all'Algeria, nella migliore delle ipotesi al Marocco. Qualcuno può giudicare positivo un simile processo, personalmente lo giudico catastrofico, quello che comunque è certo e che non ha assolutamente niente a che vedere con l'integrazione.
Ovviamente spero di sbagliare, clamorosamente.

sabato 8 ottobre 2016

PERCHE'?

Perché? Perché tanta cecità, tanta colpevole acquiescenza? Se lo chiedono in molti. Come è possibile che persone apparentemente capaci di pensare continuino con una politica destinata a distruggere la nostra civiltà?
Un bambino è in grado di cogliere il legame fra le migrazioni ed il crescere di degrado sociale e delinquenza, l'acutizzarsi dei problemi economici, l'espansione del terrorismo. Bisogna essere ciechi per non vedere che l'apertura incontrollata delle frontiere è destinata a distruggere la nostra civiltà e ad introdurre qui da noi costumi che pensavamo fossero solo il ricordo di un passato ormai lontano.
Eppure persone apparentemente normali non vedono queste cose che stanno li, in palmare evidenza, di fronte a tutti. Perché avviene tutto questo?
Qualcuno pensa che la risposta stia negli interessi economici. I migranti sono un business, qualcuno ha interesse ad accoglierli. E non si tratta solo della carità pelosa, delle cooperative che sui migranti fanno un sacco di soldi. Oltre a loro ci sono imprenditori poco onesti che hanno tutto l'interesse a sfruttare mano d'opera di costo infimo, organizzazioni malavitose, traffici di droga e prostituzione. Tutto vero, ma spiega solo in parte, in piccola parte, il fenomeno. Perché è vero che la mano d'opera a costo infimo può far gola a molti, ma riguarda pur sempre settori marginali dell'economia. Globalmente considerata l'economia dell'occidente ha bisogno di lavoratori qualificati, in grado di essere inseriti in settori dinamici, non di raccoglitori di pomodori o venditori ambulanti di prodotti di pessima qualità. Inoltre, se nel breve periodo molti possono far soldi sui migranti, in un'ottica temporale un po' più lunga le migrazioni incontrollate sono destinate a renderci TUTTI molto, molto più poveri. Una cosa è accogliere qualche migliaio, o qualche decina di migliaia, di migranti, altra cosa accoglierne centinaia di migliaia, milioni o decine di milioni. L'economia europea non può sostenere un simile impatto senza collassare, non occorre essere dei geni per capirlo. E se l'economia collassa ci impoveriamo tutti.
Inoltre, vale davvero la pena di diventare ricchi per vivere in una società teocratica? Una donna sarebbe disposta a vivere nel califfato in cambio di un conto in banca di qualche milione di euro? Sarebbe un po' come accettare lo scambio fra alcuni milioni di euro ed una condanna all'ergastolo. I soldi attraggono perché possono essere spesi, ma le occasioni interessanti di spesa sono poche, e riguardano poche persone, e quasi tutte di sesso maschile, nelle teocrazie islamiche.
Certo, molti di coloro che cercano di utilizzare i migranti per far soldi non fanno calcoli di lungo periodo e neppure tentano di prefigurare scenari futuri, ma possiamo seriamente pensare che un branco di persone disoneste e poco intelligenti sia alla base della acquiescenza generalizzata di fronte a fenomeni di portata, una volta tanto val la pena di usare questo termine, epocale? Ad essere favorevoli alle “migrazioni” non sono solo pochi malavitosi, ma parecchie persone comuni, numerosi uomini e donne dotate di una certa cultura, moltissimi intellettuali, veri o presunti, non conta, uomini politici, giornalisti; un sacco di gente insomma, fra cui moltissime donne, i soggetti cioè destinati a subire con maggior violenza il peso dell'affermarsi dell'Islam. E' difficile ipotizzare che siano tutti mossi da interessi personali. Ed anche se lo ammettessimo avremmo solo spostato il problema. Resterebbe infatti senza risposta la domanda essenziale: “perché mai tanti non capiscono che, favorendo le migrazioni, contribuiscono a creare una situazione di povertà generalizzata, destinata a colpire anche loro?” Le migrazioni non porteranno l'Africa al livello dell'Europa, ma questa al livello di quella, e nessuno o quasi può davvero guadagnarci in una simile situazione. Il crollo dell'impero romano non ha favorito se non settori assolutamente marginali del patriziato. Come mai tanti occidentali non arrivano a capire cose tanto semplici? Sono tutti enormemente, spaventosamente stupidi?

Per cercare di capire il perché di comportamenti che possono con giusta ragione essere ritenuti folli l'analisi erudita degli interessi in campo, siano questi economici, politici o geopolitici non basta. Quali che siano le speranze di mega imprenditori e capi di stato, la islamizzazione dell'Europa è destinata far saltare ogni calcolo, ogni equilibrio politico o geopolitico. Basta, per rendersene conto, pensare a quanto sia stupida l'illusione di molti settori della sinistra convinti che l'immigrazione incontrollata possa favorirli sul piano elettorale. Facciamo entrare un sacco di clandestini, pensa qualcuno, diamo loro la cittadinanza e questo ci assicura, a breve termine, un formidabile vantaggio elettorale. Non pensano, questi poveretti, che, una volta fatti diventare “italiani” milioni di clandestini di fede musulmana questi formeranno il loro bel partito islamico che col “progressismo” di sinistra non avrà, né vorrà avere, nulla a che fare. Non ci vuole molto a capirlo, eppure tanti sottili “analisti” non lo capiscono, come mai?
Per cercare di risolvere il mistero occorre abbandonare l'analisi degli interessi, pure corposi, connessi alle migrazioni per misurarsi col problema della coscienza, per essere più precisi, della coscienza ideologica dell'occidente.
Cosa sono l'ideologia e la coscienza ideologica? Senza addentrarci in analisi eccessivamente particolareggiate
possiamo definire l'ideologia come un insieme di idee, una concezione generale dell'uomo e del mondo che si ritiene, insieme, vera e buona al di la di ogni analisi razionale ed ogni raffronto con la realtà, e che si ritiene sia giusto realizzare, a qualsiasi costo.
La coscienza ideologica è quella di chi ha fatto propria l'ideologia, intende realizzarla ed adegua ogni suo pensiero, parola e comportamento a questo obiettivo.

La definizione, sintetica e certamente non esaustiva, mette in rilievo tre caratteri della ideologia. L'ideologia disprezza, insieme, la
coerenza logica, il principio di realtà e la comune morale.
Il fine dei sostenitori delle ideologie si colloca nella dimensione dell'assoluto, e nell'assoluto, si sa, il principio di non contraddizione è “superato”. L'assoluto è il tutto in tutto in cui gli opposti si compenetrano fino a venire a coincidere e la coincidenza degli opposti segna la fine di quel principio di non contraddizione considerato da Aristotele la conditio sine qua non di ogni pensiero significante. I fanatici della ideologia non intendono farsi irretire da questo principio. Usandolo potrebbero scoprire incoerenze nelle loro fantastiche costruzioni mentali, per questo lo rifiutano sprezzantemente. I grandi della ideologia sono autentici costruttori di ossimori. Rousseau riteneva che si possa obbligare un uomo ad essere libero. Lenin palava di “dittatura democratica”, Marcuse e gli altri guru della scuola di Francoforte di “tolleranza repressiva”. Tutto questo è leggermente incoerente? Verissimo, ma, chi se ne frega? Viva i fini assoluti, e vada al diavolo la coerenza!
Per gli stessi motivi i fanatici della ideologia disprezzano il principio di realtà. Il mondo reale, gli esseri umani in carne ed ossa sono radicalmente diversi da come loro li immaginano? Vadano al diavolo, letteralmente, il mondo reale e gli esseri umani in carne ed ossa. La realtà
deve essere così come gli ideologi la immaginano. Quando hanno il potere i sacerdoti della idea assoluta violentano la realtà per costringerla nel letto di procuste delle loro cattive utopie; altre volte, soprattutto se privi di potere, rifiutano di vederla o di capirla, la realtà. Accade così che sottili intellettuali, uomini di cultura, raffinati analisti non vedano o non capiscano cose che qualsiasi uomo della strada vede e capisce benissimo.
Negli anni in cui la tirannide staliniana mieteva vittime in quantità industriale numerosi intellettuali europei si recarono in visita in URSS. I loro viaggi erano organizzati sin nei minimi particolari, i loro movimenti minuziosamente controllati. Qualsiasi persona normale si sarebbe accorta che ciò che veniva mostrata era una realtà posticcia, e bastava allungare un po' lo sguardo per intuire che la situazione reale era leggermente diversa dalla sua rappresentazione propagandistica. Ma persone di grande intelligenza non seppero distinguere il vero dal posticcio, rifiutarono di allungare lo sguardo.
Non volevano rinunciare alla loro bellissima, totalizzante ideologia.
E sempre per gli stessi motivi gli ideologi non accettano la morale comune. Imprigionare o giustiziare un innocente, uccidere gente a casaccio, strappare i figli ai genitori, ingannare consapevolmente i propri simili, rubare, mentire sono tutte cose che la stragrande maggioranza degli esseri umani considera cattive, immorali. Non così chi ha abbracciato una qualche ideologia. Mentire, rubare, uccidere, stuprare, far fucilare degli innocenti o premiare degli assassini, tutto è lecito se serve a realizzare l'idea assoluta. Una cosa è la morale che riguarda i rapporti fra i normali esseri umani, cosa del tutto diversa quella che deve guidare chi ha assunto su di se l'immane compito di realizzare l'assoluto. Una certa idea, un determinato progetto di trasformazione sociale non sono buoni perché si accordano con i dettami dell'etica, sono questi dettami ad essere buoni o cattivi a seconda che si accordino o meno con quella certa idea, quel certo progetto di trasformazione sociale. Il mondo viene capovolto.

Prima di proseguire occorre fare due precisazioni, indispensabili per capire la capacità che le ideologie hanno di attrarre un gran numero di esseri umani.

La prima
. Le ideologie sono quasi sempre frutto di elaborazioni intellettuali assai raffinate, nascono sul terreno della filosofia. Ma non si limitano a quel terreno. Non riguardano solo le idee ma anche i sentimenti, addirittura le pulsioni degli esseri umani. Senso di appartenenza o di estraneità, risentimento sociale, amore ed odio, paure, ansie... in tutte le ideologie è possibile trovare un mix di stati emotivi che con l'elaborazione puramente razionale hanno poco a che vedere.
La seconda
. E' possibile trasformare in ideologie anche teorie ed idee che di per se ideologiche non sono affatto. Si dice “ideologia” e subito si pensa al comunismo o al nazionalsocialismo, ma possono diventare ideologia anche molti principi liberali e democratici, di per se del tutto laici e non ideologici, basta trattarli in maniera ideologica. Si prenda la tolleranza, ad esempio. E' qualcosa di molto poco ideologico, ma si provi a trattarla ideologicamente e diventa, anch'essa, un assoluto ideologico. Da principio in grado di guidare i rapporti fra gli esseri umani che, come ogni principio, vale entro certi limiti, con determinate eccezioni, la tolleranza diventa un valore metastorico, extrasociale, un assoluto a cui tutto va subordinato. Ed altri valori liberali fanno la stessa fine. Il ripudio del razzismo, cosa accettabilissima, diventa teorizzazione del pari valore delle realizzazioni di tutte le civiltà. L'universalismo si trasforma in mondialismo, pretesa cioè che tutti i popoli del mondo possano formare un'unica comunità, sotto un solo stato planetario. La ricerca del dialogo col diverso si trasforma in autocensura, quella della pace in rifiuto di reagire alle aggressioni.
L'insieme dei valori della democrazia liberale diventa in questo modo un assemblaggio di piccoli assoluti, aggressivi, intolleranti come i grandi assoluti delle ideologie totalitarie.



Tutto ha avuto inizio negli ultimi 30 anni dello scorso secolo. In quegli anni si sono avuti prima il riflusso e la crisi del “movimento del 68”, poi quell'evento davvero epocale che è stato il crollo del comunismo. Quel crollo e quella crisi hanno lasciato privi di prospettive e punti di riferimento decine, forse centinaia di migliaia di nostalgici dell'assoluto. Il rovesciamento della storia, il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà era svanito nel nulla, restava solo l'anelito all'assolutamente altro, alla società perfetta da realizzare nel mondo, possibilmente qui ed ora. Non bisognava perdere le speranze, rinunciare all'assoluto. Ma le grandi ideologie erano ormai in pezzi, e solo pochi fanatici, molto poco intelligenti, potevano ancora arroccarsi in loro difesa. Moltissimi hanno risposto a questa crisi conferendo, quasi inconsciamente, dimensione assoluta a spezzoni di ideologie in crisi. Si sono combinati fra loro un residuo di sempre maldigerito marxismo, il nuovo radicalismo femminista, la nascente ideologia gender, molto radicalismo ecologico e grandi dosi di di terzomondismo pauperista. Si è condito il tutto con un bel po' di relativismo, una buona manciata di valori liberaldemocratici ideologicamente modificati, una punta di antisemitismo, uno stuolo di sentimenti lacrimevoli e, soprattutto, con quel sentimento fra noi assai diffuso  che è l'antipatia fortissima che tanti occidentali provano per la loro  civiltà, ed è nata l'ideologia politicamente corretta. Una ideologia di desolante povertà teorica, priva della compattezza, della profondità ed anche di quella cupa grandezza che ha caratterizzato le grandi ideologie del secolo ventesimo, ma capace di fornire consolazioni allo stuolo dei reduci del '68, molti dei quali avevano trovato gradito riparo nelle aule universitarie, nelle redazioni di quotidiani e nelle direzioni di vari TG.
Una ideologia multiforme, valida per tutti gli usi, in grado di dire la sua, anche se in maniera completamente incoerente, su tutti gli aspetti della vita umana, dai rapporti fra i sessi a quelli con la natura non umana. Soprattutto, una ideologia capace di condizionare in maniera fortissima il rapporto dell'occidente con le altre civiltà, l'Islam soprattutto. Uno dei dogmi fondamentali del politicamente corretto è infatti quello della uguaglianza di tutte le culture. Nel momento stesso in cui l'Islam fondamentalista dichiarava guerra all'occidente, ed a se stesso, i guru del politicamente corretto difendevano a spada tratta il “dialogo” a tutti i costi. E quando masse sempre maggiori di migranti hanno cominciato a riversarsi nei paesi europei gli stessi guru, in omaggio al dogmi della “accoglienza generalizzata” e facendo leva sui sensi di colpa degli europei per il loro passato colonialista, si sono opposti ad ogni politica di contenimento o almeno di regolamentazione dei flussi. All'interno della ideologia politicamente corretta ha così acquistato sempre maggior peso quella che possiamo definire l'ideologia della resa dell'occidente all'islam fondamentalista.

Ovviamente, tutti i difetti delle ideologie classiche sono presenti in questa ideologia. Femministe e gay che amano l'Islam, intellettuali che lo definiscono una “religione di pace", sottili analisti che rifiutano di condannare i crimini che ovunque nel mondo si consumano in suo nome. Si può immaginare qualcosa di più lontano dalla coerenza, dal principio di realtà e dalla morale comune? L'ideologia della resa avanza in mezzo a cumuli di macerie, non solo teoriche. Che ci riguardano tutti.

A questo punto è però ci si potrebbe porre una domanda. Non è sbagliato ridurre tutto ad un fatto di influenza ideale? Le idee e le stesse ideologie in fondo riguardano una minoranza di esseri umani, sono estranee alle masse ed ai loro movimenti. Dare troppa importanza alle ideologie vuol dire trasformare la storia in una sorta di dibattito intellettuale e questo spiega poco o nulla del suo movimento.
Un materialismo storico da vulgata ha contribuito a diffondere la convinzione che l'agire umano sia qualcosa di quasi immediato, una sorta di risposta semi automatica a desideri ed istinti elementari. Qualcosa di non troppo diverso, per capirci, dal comportamento animale. Ma si tratta di una concezione totalmente errata; chi la espone si contraddice da solo, in fondo, solo esponendola.
In realtà
quasi tutto il comportamento umano è mediato dal pensiero. Il pensiero non è presente solo nei cieli delle speculazioni filosofiche o scientifiche, ma anche sulla terra delle azioni umane più elementari. La ricerca del cibo, la lotta contro i nemici, i tentativi per ripararsi dalle intemperie sono nell'uomo intrisi di pensiero, se così non fosse non saremmo mai diventati la specie dominante del pianeta. Anche molto di ciò che nelle nostre azioni appare puramente istintivo ha alle spalle il pensiero. Un guidatore che cambia marcia, un pugile che schiva un sinistro e rientra di destro, un militare che si ripara dietro ad un muro per sfuggire al fuoco nemico si comportano in maniera che a prima vista sembra solo istintiva; ma dietro a quella istintività ci sono istruzioni, addestramento, pratica ripetuta. In ultima analisi, c'è il pensiero.
Anche ammettendo tutto questo il problema non è però ancora risolto. Il pensiero è fondamentale, ma questo non riduce la storia ad un dibattito intellettuale, si potrebbe ribattere, con giusta ragione.
In effetti l'influenza delle idee e delle ideologie non si manifesta affatto come un processo in cui certe concezioni teoriche conquistano, grazie alla propria intrinseca superiorità, le menti degli esseri umani. Non è affatto simile al processo che vede prevalere, in circoli ristretti, certe teorie scientifiche su altre, o confrontarsi diverse scuole di pensiero filosofico, o di espressione artistica.
Le idee, buone o cattive che siano, e quelle idee sempre cattive che sono le ideologie, non si diffondono a livello di massa grazie ad approfonditi dibattiti razionali. Questi sono e restano monopolio di minoranze, purtroppo. Si diffondono trasformandosi, perdendo profondità e complessità.
Le complesse argomentazioni marxiane sul valore ed il plusvalore diventano banalità sui padroni cattivi quando se ne parla al bar o in un metrò. Le grandi filosofie si trasformano in slogan, luoghi comuni, pillole di sapere in una discussione fra amici o nel corso di un corteo di protesta. Ma si tratta di luoghi comuni, slogan, pillole di sapere che hanno, o possono avere, una forza straordinaria, suscitare speranze, alimentare paure, indirizzare comportamenti di grandi quantità di esseri umani. C'è chi sostiene che la filosofia non "serve a nulla”, non ha conseguenza alcuna sui grandi eventi che cambiano la storia ed il destino degli uomini. Nulla di più errato. Dietro a fondamentali eventi storici è fin troppo facile trovare le teorizzazioni dei filosofi. Le si trovano chiaramente nelle idee dei gruppi dirigenti, quelli che danno fini ed obiettivi, indirizzano e spesso determinano i movimenti di massa, e le si trovano super semplificate e banalizzate nelle azioni di masse enormi di esseri umani. Senza l'illuminismo non ci sarebbe stata la rivoluzione francese, senza il marxismo, e la sua interpretazione leninista, quella russa. Senza la reazione irrazionale contro la scienza e la modernità che ha caratterizzato i primi decenni del novecento il nazional socialismo ed il fascismo diventano inspiegabili.

Le idee contano quindi, moltissimo. E contano forse ancora di più le ideologie. E conta, oggi, moltissimo, proprio quella ideologia della resa di cui stiamo parlando. Chi non ne fosse convinto provi a guardare al rapporto oggi esistente fra occidente ed Islam.
Dai punti di vista economico, militare, tecnologico, politico, culturale la superiorità dell'occidente è schiacciante. Eppure la nostra civiltà è chiaramente in crisi. Esposta ad attacchi terroristici devastanti, pressata da ondate migratorie destinate a travolgerla, sottoposta al peso di ricatti sempre più aggressivi ed arroganti la civiltà occidentale è ovunque sulla difensiva, malgrado la sua superiorità in quelli che sembrano essere i settori decisivi per stabilire chi è e chi non è egemone nel mondo. Come mai? La risposta è semplicissima: la civiltà occidentale è fortissima ma incapace di usare la sua forza perché irretita, avvelenata, dal cancro del politicamente corretto che la corrode dall'interno. Un tumore maligno che ha conquistato settori decisivi delle classi dirigenti e si diffonde anche a livello di massa. Una prova al contrario la fornisce lo stato di Israele. Israele è uno stato delle dimensioni della Lombardia, abitato da otto milioni di abitanti. Privo di risorse naturali occupa un pezzetto di deserto ed è circondato da centinaia di milioni di fanatici che non sognano altro che distruggerlo. Eppure continua ad esistere, ha vinto tutte le guerre che è stato obbligato a combattere, i suoi abitanti sono più tutelati dal terrorismo che non quelli di Francia o Spagna; cerca il negoziato ma non cede ai ricatti. Come mai? Di nuovo, la risposta è semplicissima. Gli israeliani non sono vittime, per lo meno non nella stessa misura degli altri occidentali, del cancro politicamente corretto. Sanno cosa vuol dire essere massacrati e non vogliono che la cosa si ripeta, non hanno intenzione alcuna di cedere e non si fanno irretire da sentimentalismi pelosi o remore pseudo umanitarie. Vogliono la pace ma sono disposti a fare la guerra. Non a caso tanti occidentali li detestano. La testarda, strenua volontà degli israeliani di non cedere appare pura arroganza agli occidentali in crisi di identità, e nel profondo leggermente antisemiti, che hanno identificato da tempo la tolleranza con la resa.

L'ideologia della resa è forte come tutte le ideologie ed ha su quelle classiche un paio di grossi, indiscutibili, vantaggi.
Il primo è costituito dalla presenza al suo interno di idee e principi in se positivi, che solo il loro trattamento ideologico rende inaccettabili. Un occidentale può trovare nella ideologia della resa tolleranza e volontà di dialogo, invocazioni di pluralismo e tutela delle minoranze; facile che si lasci irretire. Queste presenze “rassicuranti” spiegano anche qualcosa che a prima vista appare letteralmente avvolta nel mistero. Il comunismo staliniano ha attratto milioni di persone, si può dire. La cosa è orribile ma in una certa misura spiegabile, Il comunismo infatti è in qualche modo figlio dell'occidente, fa parte della nostra cultura, corrisponde a speranze, sentimenti, aspirazioni che sono cresciuti dentro la nostra civiltà. E' spiegabile che abbia potuto attrarre tante persone, comprese molte persone intelligenti. Ma che attrattiva può mai esercitare sugli occidentali una religione ideologica e dogmatica come l'Islam? Che rapporto che non sia conflittuale c'è fra questa e la nostra storia?
L'obiezione è intelligente, ma sottovaluta precisamente il fatto che nella ideologia della resa ci sono molte idee, principi e valori che sono nostri e che solo la loro deformazione ideologica trasforma in mostruosità. L'occidentale politicamente corretto non è attratto dalle lapidazioni,
vuole credere che le lapidazioni siano qualcosa di poco rilevante, non ama la teocrazia, vuole credere che la teocrazia sia nel peggiore dei casi una caratteristica di frange marginali dell'Islam, nel migliore una invenzione degli “imperialisti occidentali”. L'occidentale politicamente corretto cerca di trasformare l'Islam in una variante dell'occidente, qualcosa di diverso, ma comunque aperto e tollerante che solo la nostra “arroganza” ci impedisce di apprezzare. Gli manca la capacità di riconoscere il diverso, il radicalmente diverso da noi; pensa che le sue, le nostre categorie siano le uniche. Ritiene sia folle uccidere ed uccidersi per la fede e blatera che non la fede, ma il “Dio denaro” sta dietro al terrorismo. Cerca di razionalizzare le azioni folli, senza capire che nulla è tanto folle quanto pensare che la follia non esista.
Un secondo, fondamentale, vantaggio dell'ideologia della resa è costituito proprio dalla sua pochezza. E' questa che le permette una velocità di banalizzazione e diffusione assai superiore a quella di altre ideologie, più articolate e complesse. L'ideologia politicamente corretta della resa non ha come fondamento nessuna opera di nessun grande. Non esistono un "Capitale" od un "Contratto sociale" politicamente corretti; si tratta, senza esagerare, di “spazzatura” teorica, ma la spazzatura può inquinare rapidamente, soprattutto le menti predisposte ad assimilarla. Non sempre essere poca cosa è solo uno svantaggio.


Resta
da chiedersi, per concludere, se l'ideologia della resa sia battibile o si tratti di un mostro invincibile destinato a portare la nostra civiltà all'auto distruzione. Non è troppo pessimistico porsi simili domande. Le democrazie liberali dell'occidente hanno rischiato due volte di capitolare, durante lo scorso secolo. Nulla ci garantisce la sopravvivenza, non esiste nessuna legge fatale che indirizzi in senso progressista il corso della storia. Grandi civiltà sono crollate in passato, anche la nostra può fare la stessa fine. Di una cosa però possiamo essere certi: se la civiltà occidentale collassa, è può collassare, nulla di buono prenderà il suo posto. Non sarà sostituita da alcun “mondo multicolore” fatto da tante sorridenti persone “uguali ma diverse”. Non è in vista nessun dialogo paritario, nessuna felice integrazione. Solo il trionfo del califfato o di qualche suo equivalente.
Una considerazione può forse farci apparire meno disperata la situazione: l'ideologia della resa è un cancro le cui metastasi hanno diverse velocità. Si diffondono più rapidamente fra le persone pseudo colte che fra la gente comune. Attecchisce più fra gli strati benestanti, relativamente poco colpiti, almeno nell'immediato, dai contraccolpi devastanti delle grandi migrazioni, che non negli strati popolari. Chi non abita nei quartieri bene, chi è esposto a quella che stupidamente viene definita “microcriminalità” è meno sensibile alla sciocchezze politicamente corrette. Queste possono essere contrastate, possono esserlo perché il mondo reale non è, per fortuna, identico a quello dei talk show televisivi e la gente comune è meno erudita, ma anche meno propensa all'auto inganno dei tanti pseudo filosofi o pseudo esperti che impazzano sui teleschermi. Non è un caso che gli strilli contro il “populismo” riempiano in questo periodo i dibattiti televisivi ed i discorsi di quasi tutti i politici. I sacerdoti della nuova religione “sentono” crescere a livello di massa una certa ostilità nei loro confronti e la bollano di “populismo”, e cercano di tappare al bocca a chiunque non si adegui. Forse sono meno forti di quanto appaia a prima vista.
Quanto è avvenuto in Gran Bretagna, e sta avvenendo nell'Europa dell'est, dimostra che forse chi non si adegua non è sicuramente destinato alla sconfitta. Forse non ha torto chi dice che le ore più buie sono quelle che precedono l'alba.
FORSE...