mercoledì 24 febbraio 2016

CONTRO LA MORALE UTILITARISTA

Massimo piacere per il massimo numero

Uno dei padri della morale utilitarista è, Com'è noto, il filosofo e giurista inglese Geremy Bentham.

La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta a essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare ciò che è giusto o ingiusto”. Così afferma il filosofo inglese.
In Bentham la morale su stacca, sembra, da ogni considerazione religiosa e metafisica, ma anche da ogni principio razionale. Per Kant a fondamento dell'etica si trova l'imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di legislazione universale”. Una azione è buona se può essere universalizzata, se vale o può valere per me ma anche per tutti gli esseri morali. Bentham si sbarazza di simili considerazioni. L'etica diventa un fatto di calcolo. Una azione è buona quando si traduce in un incremento globale del piacere o in un altrettanto globale decremento del dolore. Il fondamento dell'etica è la
maggior felicità per il maggior numero.
L'etica kantiana si fonda su un principio, quella utilitaristica di Bentham sulle caratteristiche sensibili degli uomini e sul loro comportamento. Gli uomini provano piacere e dolore e cercano di massimizzare il primo e minimizzare il secondo. E' buono ciò che rende massimo, a livello sociale, il piacere e minimo, sempre a livello sociale, il dolore. La morale kantiana è non naturalistica. Divide il mondo in due categorie: da una parte quella di cui fanno parte gli esseri razionali e morali, dall'altra tutto il resto. C'è morale dove c'è libertà, possibilità di scelta, capacità di instaurare rapporti basati sul reciproco rispetto. Per Kant l'uomo è
anche, o prevalentemente, un essere naturale, sensibile, sottoposto alle leggi della natura. Ma non è, meglio, si deve presupporre che non sia, solo questo. L'uomo è un ente capace di elaborare i concetti di bene e di male, di obbligo e di responsabilità morale e di comportarsi, piuttosto raramente, in conformità con questi. In una parola, l'uomo non è, forse, solo natura, si sottrae, forse, in certi casi, alla necessità della causalità naturale, per questo è un ente morale. Per Kant la morale e la libertà iniziano dove finisce la natura.
La morale utilitaristica dista anni luce da queste concezioni. Bentham lega natura e morale, basa l'obbligazione etica sulle caratteristiche sensibili dell'uomo e sulla sua naturalissima ricerca del piacere ed avversione al dolore. Il naturalismo dell'etica utilitarista è tanto spinto che questa, per molti utilitaristi, compreso lo stesso Bentham, non riguarda solo l'uomo. Alla base dell'etica sta la capacità di provare piacere e dolore e questa non è, ovviamente, monopolio degli esseri umani. Anche gli animali provano piacere e dolore e, coerentemente, Bentham include anche questi fra i soggetti morali. “Il problema non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?” afferma Bentham nei suoi
principi di morale e di legislazione, “ma “Possono soffrire?“. Perché dovrebbe la legge negare la sua protezione a un qualsiasi essere sensibile? Verrà il giorno in cui l’umanità accoglierà sotto il suo mantello tutto ciò che respira.» Non a caso Bentham è diventato uno dei filosofi preferiti dai guru dell'animalismo radicale.

Problemi e
Contraddizioni

L'etica utilitaristica appare, nel contempo, più dolce e meno astratta di quella kantiana. Porta la morale dai cieli tersi della metafisica al concreto, naturalissimo, mondo sensibile. Però, a parte le critiche che è possibile muovere alla morale di Kant, la morale utilitaristica si avvolge da subito in insuperabili aporie e porta, se presa sul serio, a conclusioni francamente mostruose. Vediamo di esaminarla più a fondo.

L'utilitarismo afferma di partire dai fatti, dalla struttura della natura umana (e non solo) e dai comportamenti ad essa collegati. Però, è stato un grande filosofo vicino, in etica, all'utilitarismo, David Hume, ad affermare che non si possono derivare i valori dai fatti. Dal fatto, diamolo pure per assodato, che l'uomo mira al massimizzare il piacere ed a minimizzare il dolore non deriva che massimizzare piacere e minimizzare dolore sia un bene, nè che si debba massimizzare il piacere globale della società. Tizio potrebbe dire: “a me non interessa affatto che la somma dei piaceri sia globalmente superiore a quella dei dolori, mi interessa solo massimizzare il mio personale piacere”. In base a cosa, partendo dalle premesse di Bentham potremmo dire che costui sbaglia? Il richiamo alla natura umana, giusto o sbagliato che sia, qui non serve a nulla. Per stabilirlo abbiamo bisogno di un principio, di una norma che possa in qualche modo essere razionalmente giustificata.
Si potrebbe obiettare che l'utilitarismo non mira a stabilire cosa sia eticamente bene o male, si limita ad indicare cosa nei fatti gli uomini fanno per ottenere ciò che considerano un bene ed evitare ciò che considerano un male. La morale diventerebbe in questo caso una questione interamente di fatto, staccata da ogni considerazione su ciò che è valore. Sarebbe “morale”, le virgolette sono d'obbligo, ciò che in generale fa la maggioranza degli esseri umani. Una concezione abbastanza aberrante se si pensa a quanti eccidi e massacri sono stati appoggiati o quanto meno avallati da maggioranze.
Anche ammettendo una cosa simile inoltre la concezione utilitaristica resterebbe sospesa nel vuoto. E' quanto meno assai dubbio che il comportamento degli uomini miri, nei fatti, a realizzare il massimo piacere o il minimo dolore per il massimo numero. Anche tralasciando ogni perplessità riguardo ad un'etica induttivamente fondata, resta il fatto che i dati che dovrebbero avvalorare l'inferenza induttiva non sembrano in grado di sostenerla.
L'utilitarismo vorrebbe fare a meno di principi razionali, ma farne a meno è impossibile. La affermazione secondo cui occorre massimizzare l'utilità aggregata resta in questo modo una affermazione diretta, non ulteriormente analizzabile e giustificabile. La cosa può non essere troppo grave, in fondo. Qualsiasi discorso, ogni ricerca, arriva sempre a qualcosa di non ulteriormente giustificabile ne analizzabile. Lo stesso imperativo categorico è un dato, un fatto della ragione lo chiama Kant, qualcosa che si può solo constatare o accettare, non spiegare o dedurre.
Ma,il fatto che ci si imbatta sempre, prima o poi, in qualcosa di non ulteriormente analizzabile, ci esime dal criticare ogni cosa di cui si dica che è un “dato ultimo”? Con tutta evidenza,
no. Solo esaminando attentamente qualcosa e facendo ragionevoli obiezioni alle sue unterpretazioni è possibile stabilire se si tratti o meno davvero di un dato ultimo da constatare o accettare.
Il principio di non contraddizione è un dato ultimo, non ulteriormente analizzabile né dimostrabile. Il perché è sin troppo evidente: la dimostrazione, o la critica, del principio ne presuppone l'uso. Il principio di non contraddizione deve essere accettato se ci si vuole mantenere nei confini del discorso significante; se si intende uscire da tali confini si deve tacere, e non si può neppure cercare di criticarlo. E' almeno dubbio che un simile status spetti all'imperativo categorico di Kant, di certo non spetta al principio utilitaristico secondo cui il fondamento dell'etica starebbe nella massimizzazione del piacere e nella minimizzazione del dolore aggregati.

Il principio della massimizzazione del piacere aggregato (o della somma algebrica positiva o il meno negativa possibile fra piaceri e dolori) può in effetti essere sottoposto a molte, e ragionevoli, obiezioni.
Accenniamo solo telegraficamente alle più ovvie: è praticamente impossibile misurare con matematica precisione piaceri e dolori, e non tutti i piaceri e dolori sono dello stesso tipo. Il piacere che si prova ubriacandosi può seriamente essere paragonato a quello che ci da l'ascolto di un fuga di Bach? E, ammesso, che il paragone sia possibile, e che risulti superiore il piacere procuratoci dalle bevande alcooliche, è
giusto privilegiare un piacere di questo tipo?
Tralasciamo simili obiezioni, cui hanno cercato di rispondere anche eminenti filosofi utilitaristi, come John Stuart Mill, e veniamo a questioni più essenziali, a parere di chi scrive.
Il principio della massimizzazione del piacere aggregato parte da e si basa su una certa descrizione della natura umana, e non solo. Il punto di riferimento degli utilitaristi è la
sensibilità, la capacità di provare piacere e dolore. Ma, perché deve essere questo il punto di partenza?
La morale di Kant si basa su un principio razionale. Sulla base di quel principio discrimina nella natura fra coloro che sono in grado di instaurare fra loro rapporti etici e gli altri che non sono in grado neppure di concepire qualcosa come l'obbligazione morale. L'utilitarismo parte invece dalla natura. Ma, se si parte dalla natura, perché mai privilegiare, nella natura, gli esseri sensibili? Perché la
sensibilità deve avere tanta importanza? Perché non può averne ad esempio, la vita o addirittura la semplice esistenza?
Perché il fatto di provar piacere e dolore rende degno di tutela etica un topo mentre quello di
vivere, e di vivere per interi secoli, e raggiungere una altezza di svariate decine di metri, non fa di una sequoia un ente morale? E perché il fatto di esistere, e di esistere da millenni, a quasi novemila metri di altezza, non trasforma in un ente morale la vetta ghiacciata dell'Everest? O si stacca la morale dall'immediatezza della natura, la si basa sul fatto che ci sono enti capaci, almeno potenzialmente, di rispettarsi, o si immerge la morale nella natura. In questo modo però ogni distinzione nella natura non può che essere arbitraria. Dipende, a ben vedere le cose, dai gusti e dalla sensibilità di ognuno. Tizio ha in orrore il sangue ed il dolore, per lui la morte di un topo è uno spettacolo insopportabile, quindi attribuisce valore alla sensibilità. Caio ammira i grandi alberi, il solo fatto di vederne abbattere qualcuno lo riempie di dolore, quindi privilegia la vita. Sempronio adora le grandi montagne, per lui costruire un sentiero o una galleria significa “ferire”questi splendidi giganti, quindi privilegia l'esistenza. Hanno tutti e tre ragione, e tutti e tre torto. Forse la soluzione giusta, se si accetta un'etica naturalista, consiste nel non toccare nulla della natura, neppure un filo d'erba. Peccato che in natura ogni ente “tocchi”, e pesantemente, tutti gli altri. Lasciare assolutamente intatta la natura porta solo alla morte l'ente che vorrebbe che tutto restasse intatto. E la sua morte modifica della natura...

Già il punto di partenza dell'etica utilitarista appare del tutto arbitrario, incapace di fondare una morale universale, o quanto meno generalizzabile. Si leghi la morale alla sensibilità e la si deve agganciare ai sentimenti. Una volta agganciata ai sentimenti la morale perde però ogni valenza generale, anche solo
potenzialmente generale. Si spezzetta in una miriade potenzialmente infinità di morali private. E' quanto sta avvenendo nell'occidente in crisi di oggi.
Andiamo oltre. Diamo pure per assodato il principio della massimizzazione del piacere aggregato e poniamoci la seguente domanda: un simile principio è in grado di giustificare quelli che per noi sono intuitivamente comportamenti morali?
La stragrande maggioranza degli esseri umani considera cosa buona, ad esempio, aiutare una persona in procinto di annegare e cosa cattiva stuprare ed uccidere una bambina. Bene, il principio della massimizzazione del piacere aggregato è in grado di giustificare simili convinzioni? Ogni principio che pretenda di fondare o spiegare la morale deve essere in grado di fornire una giustificazione alle opinioni correnti su ciò che appare immediatamente buono o cattivo. Se in base ad un certo principio fossimo costretti ad ammettere che è bene uccidere un bambino o che è male salvargli la vita dovremmo abbandonare un simile principio, come abbandoneremmo un principio logico matematico che ci portasse a dire che due più due fa sei. Stabilito questo esaminiamo il principio utilitaristico.
Il principio base dell'utilitarismo è la massimizzazione del piacere globale o sociale. L'utilitarismo non parte da valutazioni sul valore intrinseco delle persone, sulla loro libertà o dignità. Rifiuta qualsiasi teoria, comunque formulata, sui diritti naturali degli individui. Tutto questo porterebbe a fumose forme di metafisica. L'utilitarismo parte dalle caratteristiche sensibili degli enti, dal piacere o dolore che questi possono provare. Le conseguenze sono ovvie: se un certo comportamento provoca nella società un piacere pari a 100 ed un dolore pari ad 80 quel comportamento è da considerarsi etico, se invece il piacere globale che questo comportamento causa è pari ad 80 ed il dolore pari a 100 si tratta di un comportamento non etico.
Però una simile concezione porta a conseguenza altamente anti intuitive. Poniamo che una gran folla di persone linci un ragazzo dalla pelle nera sospettato di stupro. Il linciaggio provoca un forte piacere in moltissime persone ed un altissimo dolore ad una sola persona. Il saldo fra piacere dolore globalmente considerati è sicuramente positivo, ma, possiamo da questo concludere che è giusto linciare una persona? Gli abitanti dell'antica Roma provavano certamente un forte piacere quando assistevano ai giochi gladiatori. Il dolore globale che questi provocavano a chi era costretto a battersi nell'arena era, in confronto, poca cosa. Questo non può farci concludere che la pratica dei giochi gladiatori fosse moralmente corretta. Possiamo anche esaminare il caso di un serial killer che uccide la sua vittima. Se il piacere del serial killer dovesse superare il dolore della sua vittima potremmo seriamente sostenere che il suo sia un comportamento morale?

Ma le conseguenze anti intuitive dell'utilitarismo non si fermano qui. Concentrato sul piacere e sul dolore l'utilitarismo dimentica la elementare verità che molte cose, quasi unanimemente considerate moralmente repellenti, non sono necessariamente legate al dolore ed alla sofferenza, comunque, non sono considerate repellenti solo o principalmente
perché causano dolore e sofferenza. Procurare la morte di un proprio simile è una di queste.
Può esistere una morte indolore, addirittura “dolce”, questo rende moralmente non riprovevole chi la causa? Se voglio impossessarmi della eredità di Tizio e lo uccido somministrandogli del veleno che lo fa passare,
in maniera del tutto indolore, dal sonno alla morte, non sono comunque un assassino? Una bomba atomica può uccidere istantaneamente un numero mostruoso di esseri umani. Comunque la si rigiri, quale che sia il punto di vista da cui si parte, la pretesa utilitaristica di basare la morale sul calcolo del piacere e del dolore non regge ad un minimo di analisi critica.
La confutazione forse più nota dell'etica utilitaristica, quella che dobbiamo alla penna di Fedor Dostoevskij, riassume un po' tutte le principali obiezioni che a questa è possibile muovere.
Nel bellissimo dialogo fra Ivan ed Alesa dei “
fratelli Karamazov” Ivan chiede al fratello:
"Supponi che fossi tu stesso ad innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno solo una minuscola creatura (..) e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni?”
Se la massima felicità di tutto il genere umano si basasse sulle sofferenze di un solo bambino innocente noi potremmo accettarla? La risposta di Alesa alla domanda del fratello è un
no chiaro, definitivo. Nessuno ha diritto di far soffrire Tizio per rendere felici Caio e Sempronio. Ogni essere umano è un fine in se, ha la sua libertà e la sua dignità che devono essere rispettate. Nessun calcolo dei costi e dei benefici comparati può essere anteposto a questo fondamentale imperativo etico. Farlo vuol dire, molto semplicemente, uscire dai confini dell'etica.

Utilitarismo ed etica della responsabilità


A questo punto sorgono spontanei un sospetto ed alcune domande. Chi rifiuta l'utilitarismo non rischia di cadere in una etica dei principi pericolosamente astratta? E' possibile fare scelte etiche slegate da ogni valutazione delle loro conseguenze? Il principio “si faccia giustizia e perisca pure il mondo” può sembrare nobile, a prima vista, ma non sembra accettabile da parte di persone di buon senso. Accanto all'etica dei principi, ed in contrasto a volte con questa, c'è l'etica della responsabilità, quella che ci impone di considerare le conseguenze delle nostre azioni. Solo dei fanatici possono non farlo. Ed un fanatico è sempre un essere pericoloso, anche se l'oggetto del suo fanatismo è la morale.
Equiparare l'etica della responsabilità a quella utilitaristica è però scorretto. L'etica della responsabilità
non equipara la moralità alla ricerca del piacere, si basa comunque sul rispetto per gli enti morali, quegli enti cioè capaci di rapportarsi eticamente l'uno all'altro. Una simile etica però, a differenza dell'etica dei principi, prende in esame non solo l'atto conforme alla morale, ma anche le sue conseguenze.
Un paio di esempi possono meglio chiarire il concetto.
In un ospedale giacciono gravemente ammalati cinque ventenni. Due avrebbero bisogno di un trapianto di rene, altri due di polmone l'ultimo di cuore. Nello stesso ospedale viene a fare una visita di controllo un cinquantenne in buona salute. Se lo si uccidesse si potrebbero salvare cinque persone giovani sacrificando la vita di una persona di mezza età. Dal punto di vista dell'etica utilitaristica non ci dovrebbero essere dubbi: il cinquantenne va sacrificato per salvare cinque vite. Sia il sostenitore dell'etica dei principi che quello dell'etica della responsabilità non accetterebbero però un simile scambio. Il motivo è semplice. Ogni essere umano è un fine in se, a nessuno si può imporre di sacrificarsi per salvare altri. E' tristissimo che cinque ventenni debbano morire, ma se qualcuno fosse obbligato a morire al loro posto si cadrebbe nella barbarie.
Vediamo ora un altro caso. Sono alla guida della mia auto, in discesa. Ad un tratto mi accorgo che i freni non funzionano; l'auto è fuori controllo e sta per travolgere un gruppo di cinque bambini. Posso evitarli solo sterzando sulla destra, ma in questo caso ucciderei un bambino. E' giusto che sterzi? L'etica dei principi in questo caso non mi aiuta. E'
sempre e comunque un male uccidere un bambino, ma la situazione in cui mi trovo, e che non ho creato, mi impone di valutare le conseguenze del mio gesto. Con la morte nel cuore sterzo.
E' evidente la differenza fra i due casi. Nel primo si sacrifica volontariamente un essere umano per salvarne cinque, si nega il principio secondo cui ogni essere umano è un fine in se. Nel secondo la prospettiva cambia. Non non pretendo di decidere chi debba subire le conseguenze di una malattia, non cerco di sostituirmi alla natura ed alla sua casualità. Semplicemete scelgo fra le conseguenze di una azione che mi è imposta dalle circostanze, e che provocherà comunque dei lutti,  quelle che rappresentano il male minore.
Non nego il principio secondo cui ogni persona umana è un fine in se, scelgo di salvare da un pericolo mortale il maggior numero possibile di persone.

L'importanza dell'etica della responsabilità appare con particolare chiarezza nella questione dei “migranti”. I sostenitori dell'etica dei principi sono per l'illimitata accoglienza. “E' giusto accogliere” dicono, “quindi dobbiamo accogliere i migranti, tutti, sempre, comunque”. Chi sostiene l'etica della responsabilità invece richiama l'attenzione sulle conseguenze di una accoglienza illimitata. Ci troviamo in una situazione che ci è imposta da eventi in larga misura estranei alla nostra volontà e che miete comunque un gran numero di vittime. Come rapportarsi ad una simile situazione? Aprendo le porte a tutti col rischio di distruggere la nostra civiltà? O differenziando gli interventi? Accogliere chi davvero fugge da persecuzioni e guerre, respingere gli altri, operare, anche militarmente, per far cessare le guerre, lavorare per favorire una prospettiva di sviluppo in paesi che ne hanno disperato bisogno? Non si tratta, con tutta evidenza, di massimizzare il piacere aggregato ma di affrontare, tenendo conto delle conseguenze, una situazione negativa che siamo costretti a subire. A queste considerazioni val la pena di aggiungere che aiutare il prossimo è un dovere
ma non un dovere assoluto. La regola aurea è che ognuno deve costruirsi da se le condizioni per una vita decente. L'aiuto è una eccezione, un qualcosa di aggiuntivo che serve a far fronte a situazioni eccezionali per periodi di tempo non indefiniti. Io sono moralmente obbligato a soccorrere un ferito che giace in mezzo alla strada, non a prendermi cura di tutti i poveri di questo mondo. E' giusto sostenere chi ha perso il lavoro e ne cerca uno nuovo, non mantenerlo a vita. E' doveroso accogliere un dissidente politico che nel suo paese rischia la morte a causa delle proprie idee, non aprire le porte a tutti senza neppure chiedere i documenti. Trasformare l'aiuto e l'accoglienza in principi e doveri assoluti non ha solo conseguenze nefaste, ma distrugge altri principi, altri diritti ed altri doveri.
Naturalmente l'etica dei principi e quella della responsabilità possono entrare in conflitto. I dilemmi morali sono possibili. Possono realmente che crearsi situazioni in cui si debba prendere in seria considerazione la possibilità di violare essenziali diritti umani al fine di evitare il peggio. Se il sacrificio del bambino innocente di cui parla Dostoevskij fosse il prezzo da pagare non per la
felicità del genere umano ma per la sua salvezza davvero potremmo rispondere con un no? Le due diverse etiche possono quindi confliggere, ma si tratta di eccezioni, non della regola. Eccezioni perché entrambe le etiche pongono al centro di tutto la capacità dell'uomo di agire eticamente, capacità, meglio, possibilità, che lo rende “buono” o “cattivo”, “colpevole” o “innocente”. L'etica utilitaristica non pone questo al suo centro. Al centro dell'etica utilitarista troviamo non la dignità di un ente particolare, ma la natura sensibile, la possibilità di provare piacere o dolore. Questo trasforma il contrasto da eccezione in regola perché in natura il piacere dell'uno è, molto, molto spesso, il dolore dell'altro. Inesorabilmente.

Utilitarismo ed animalismo.

Se ne è già accennato: l'utilitarismo è una filosofia assai di moda negli ambienti dell'animalismo radicale, e non a caso. Chi trasforma gli animali in soggetti etici (perché
questa è la caratteristica distintiva dell'animalismo radicale) non può, con tutti gli sforzi, riuscire a dimostrare che un topo o una gallina possono concepire qualcosa come il bene ed il male e comportarsi di conseguenza. Molto spesso anzi la impossibilità degli animali di comportarsi in maniera etica è adottata come “difesa” degli stessi contro accuse che nessuna persona ragionevole dovrebbe muover loro.
“E' vero”, dice qualcuno, “il leone mangia la zebra, ma lo fa perché ha fame, perché è
costretto a farlo”. Ridicola difesa dello splendido predatore che solo qualche cretino può “accusare” di qualcosa per il fatto che divora, viva a volte, la zebra. Il leone non è “costretto” a divorare la zebra più di quanto la zebra non metta in atto una “legittima difesa” fuggendo, e condannando il grande felino a morire di fame, o cercando di colpirlo con qualche calcio, e i calci di una zebra non sono carezze. Zebra e leone si comportano secondo la loro natura, seguono in maniera immediata ed irriflessa stimoli ed istinti che col bene e con il male non hanno niente a che vedere. “Difenderli” è stupido tanto quanto “accusarli” di qualcosa. La natura è il regno dell'essere, estraneo al dover essere. Valutarla usando categorie etiche è quanto di più sciocco si possa immaginare.
I mistici dell'animalismo radicale, o almeno i più intelligenti fra loro, non cercano perciò di dimostrare che il comportamento animale segua o possa seguire direttive morali. Semplicemente fanno proprie le concezioni utilitaristiche che fondano la morale sulla sensibilità. In effetti, se il principio morale supremo è il massimo piacere per il massimo numero, gli animali fanno parte a pieno tutolo del mondo etico. E' vero che non sono in grado, a differenza dell'uomo, di calcolare piaceri e dolori ma si tratta di un inconveniente cui si può cercare di porre rimedio. Ed è vero che l'animale non può porsi la domanda del “perché mai” si dovrebbe cercare di massimizzare il piacere aggregato invece che soddisfare di volta in volta il proprio personale piacere. Ma, come già si è visto, questa è una domanda a cui gli stessi teorici della morale utilitarista non sono in grado di dare risposte soddisfacenti.
L'etica deve far si che si realizzi il massimo piacere per il massimo numero e in quel numero devono essere compresi gli animali, che, esattamente come l'uomo, sono in grado di provare dolore e piacere. L'utilitarismo, dichiarato o meno, è la filosofia dell'animalismo mistico e questo è coinvolto a pieno titolo in tutte le critiche, già esaminate, che è possibile rivolgere alla quella filosofia.

Non è quindi il caso di ripetere, con riferimento al radicalismo animalista, le varie critiche che si sono già mosse all'utilitarismo. Qui ci limiteremo ad esaminare alcuni degli argomenti “classici” del radicalismo animalista, e a rivelarne l'intima inconsistenza.
Proprio perché siamo uomini, dicono alcuni animalisti, abbiamo il dovere di trattare eticamente gli animali. L'argomento è interessante. Tutto dipende da come si intende quel “trattare eticamente”. Se vuole essere un invito a “trattar bene” gli animali non umani si può largamente concordare. Ma “trattar bene” non significa “trattare eticamente”, che richiama semmai al concetto di “
considerare esseri morali” gli animali. Se è questo il significato di “trattare eticamente” si cade in insuperabili aporie. Proprio perché collocato su un piano diverso dagli animali l'uomo dovrebbe “trattare eticamente” questi ultimi, ma “trattandoli eticamente” annullerebbe proprio la differenza di piano che è alla base del trattamento etico. L'aporia nasce dalla impossibilità di moralizzare ciò che è esterno all'area della morale, di eguagliare l'essere al dover essere. Se si eguaglia l'essere al dover essere si rende morale precisamente tutto ciò che nell'essere dovremmo giudicare non morale, se guardassimo all'essere usando categorie morali. Torturare un gattino solo per il piacere di ascoltare i suoi lamenti diventerebbe cosa morale, visto che gli istinti sadici esistono in natura, fanno parte dell'essere.
In realtà non si può, per motivi logici oltre che empirici, eguagliare l'essere al dover essere. L'uomo può ammirare ed amare la natura, non moralizzarla, per questo la può usare strumentalmente. Posso ammirare un ghiacciaio o una parete di roccia, ma guidare tranquillamente in autostrada, posso voler bene al mio cane, un animale, e dargli da rosicchiare l'osso di un altro animale, fotografare un camoscio e mangiare polenta e camoscio. Posso fare tutte queste cose perché
amo ma non moralizzo la natura. Si annulli la differenza fra amare e moralizzare e la gran maggioranza dei nostri comportamenti diventa inspiegabile. Tutti diventiamo dei mostri e degli assassini. Si, proprio tutti, a partire dai fanatici delle diete vegane che neppure si chiedono da dove vengano le verdure che loro preferiscono “eticamente” alla carne. Non sanno, o fingono di non sapere, che ogni metro di terreno coltivato è habitat sottratto agli animali.

Anche la gran parte delle altre assurdità cui approdano gli estremismi del radicalismo animalista hanno origine nella pretesa  di negare la differenza raddicale fra l'essere ed il dover essere. Così, quando i mistici dell'animalismo pretendono che l'uomo non invada le terre cui gli animali "hanno diritto" ci si può solo chiedere se davvero qualcuno possa seriamente pensare alla natura selvaggia come a qualcosa in cui sia presente una qualsiasi forma di diritto. Certo, l'uomo fa bene a lasciare intatti vasti spazi di natura selvaggia, ma lo fa, lo dovrebbe fare, in base ad esigenze umane che col “diritto” non hanno nulla a che vedere. Le terre selvagge sono caratterizzate da una spietata lotta per l'esistenza. Lotta per il cibo, gli accoppiamenti sessuali, il territorio, la supremazia nel branco. Il diritto non c'entra, per nulla.
E considerazioni simili possono essere opposte a coloro che invece invitano l'uomo a convivere in maniera sempre più ampia coi suoi amici a quattro zampe. Si tratta di un invito che può, almeno in parte, essere accolto, ma, di nuovo, si basa su esigenze umane, non sul diritto dei nostri amici e meno che mai su presunti diritti generalizzati di tutti gli animali, compresi quelli che troppo "amici" non sono. Ogni volta che accogliamo in casa nostra un cane o un gatto, e gli assicuriamo una vita piuttosto comoda, usiamo a questo fine, strumentalmente, altri animali. Chi ha dubbi in proposito può entrare in un negozio in cui si vendono prodotti per animali ed osservare ciò che è esposto sui loro scaffali. Anche a prescindere da queste considerazioni, la convivenza con gli animali da parte dell'uomo, per quanto amichevole, si basa sempre su una qualche forma di violenza che facciamo alla loro natura.
Alcuni giorni fa il mio cane si è ferito ad una zampa. Lo ho portato dal veterinario per curargliela. Ma lui, il mio cagnone, proprio non voleva saperne di farsi medicare. Abbiamo dovuto fare una faticaccia per disinfettargli la ferita e fasciargli la zampa. Lui mugolava, si agitava, non era aggressivo, ma resisteva alla nostra intollerabile violenza. E tale era, non poteva che essere, il nostro comportamento,
per lui. Se si sottopone un uomo adulto ad una cura contro la sua volontà si viola un suo diritto, non lo si rispetta come persona. Io ed il veterinario stavamo violando un diritto del mio cane? NO, ovviamente. Perchè Spyke, così si chiama, è un simpatico cagnone un po' rompiscatole, ma non è un soggetto etico. Non può esserlo, non perché abbia perso o debba ancora acquisire alcune caratteristiche essenziali della sua natura, ma per queste caratteristiche.

L'etica, lo si è visto, divide il mondo in due parti. Una limitata porzione in cui ha senso parlare di bene e di male, diritti e doveri, innocenza e colpevolezza, e un'altra amplissima zona in cui tutto questo è semplicemente insensato. Le obbligazioni etiche valgono solo all'interno di quella parte del mondo in cui l'etica ha senso. I rapporti fra chi è dentro e chi è fuori la sfera dell'etica possono essere di diversi tipi: strumentali, estetici, affettivi, competitivi,
ma non morali. L'utilitarsmo fonda la morale sul piacere ed il dolore e deve, partendo da un simile fondamento, ampliare indebitamente la "zona del mondo" in cui la morale ha senso. Soprattutto non può fare a meno di trasformare in soggetti morali gli animali non umani. Ma questa trasformazione porta ad insolubili contraddizioni e, se davvero fosse presa sul serio a livello pratico, avrebbe conseguenze devastanti, e lontanissime da tutto ciò che si possa itendere per etica. In effetti gli animali mirano, in maniera istintiva ed irriflessa, quasi esclusivamente a massimizzare il piacere ed a minimizzare il dolore. Proprio per questo il loro comportamento è al di fuori della morale. Non sopra o sotto, semplicemente fuori. Quella che si pretendeva essere una estensione della morale si rivela come una sua radicale negazione.

Il vero dell'utilitarismo


L'etica utilitarista non regge ad una disamina accurata. Da qualsiasi punto di vista la si esamini porta, a livello teorico, a contraddizioni insolubili e può avere a livello pratico, se presa seriamente, conseguenze a dir poco aberranti. Eppure c'è in questa etica un importante fondo di verità che contribuisce a spiegare come ad essa possano aver aderito fior di pensatori. Si tratta del fatto innegabile che nessuna etica può essere staccata dalla struttura sensibile dell'uomo. Una cosa è rifiutare il principio della massimizzazione aggregata del piacere e della aggregata minimizzazione del dolore, cosa del tutto diversa pensare di costruire una morale che non faccia riferimento all'uomo per quello che è: un essere empirico,
sensibile.
La morale di Kant, è noto, si basa sulla universalità. E' etica una norma che può essere universalizzata, diventare una legge avente portata generale. Ciò che vale per me deve valere anche per gli altri. L'etica kantiana proibisce l'auto esenzione. I principi morali danno vita a diritti che garantiscono tutti e a doveri che obbligano tutti, indipendentemente dal calcolo del piacere e del dolore globali. L'universalità: qui sta il valore perenne della morale di Kant, qui la sua enorme superiorità nei confronti di qualsiasi morale utilitaristica.
L'universalità della norma deve essere il requisito essenziale di qualsiasi etica, questo però non ci impedisce di porci la domanda:
cosa deve essere generalizzato? Kant ritiene che una domanda simile porti necessariamente l'etica verso l'utilitarismo; la morale deve riguardare solo la forma, mai il contenuto delle azioni umane. Si tratta però di una concezione che può avere, anch'essa, conseguenze aberranti.
La massima “rispettatevi gli uni con gli altri” può essere generalizzata, è vero. Ma, non può essere generalizzata anche la massima: “odiatevi gli uni con gli altri”? E' difficile che un imperativo come: “Massacratevi a vicenda” possa essere generalizzato, ma, se lo fosse, massacrarsi a vicenda diverrebbe qualcosa di etico? E, la impossibilità di generalizzare l'imperativo “massacratevi a vicenda” non è, a ben vedere le cose, una impossibilità
empirica, che con l'etica ha poco da spartire? Non è questa la sede per approfondire simili argomenti. Mi permetto, scusandomi, di rinviare chi fosse interessato al mio scritto “la morale di Kant” sul blog “secondo Giovanni”. Per venire al punto, si può cercare di rispondere alla domanda su cosa sia morale generalizzare: è morale generalizzare principi che riguardino l'uomo empirico, la sua vita, il suo benessere, la sua libertà.
Ogni essere umano ha diritto di non essere ucciso, né percosso o offeso. Ha diritto alla sua proprietà e a godere dei frutti del suo lavoro; nessuno lo può imprigionare senza un giusto motivo e, se accusato di qualcosa, deve essere giudicato da un tribunale competente ed imparziale. In una parola, ogni essere umano ha
diritto al generalizzato rispetto di tutti. Per questo motivo ha il dovere di rispettare in maniera generalizzata tutti i suoi simili.
Qui la generalizzazione non è scissa dai contenuti, si tutelano
in maniera generalizzata cose che interessano agli esseri umani empiricamente dati: la vita, l'integrità fisica, la proprietà.
Se si comportano secondo i precetti della morale (
SE...) gli uomini possono fondare una comunità di esseri liberi, capaci di rispetto ed obbligo reciproci. Sono tutelati da diritti ed obbligati da doveri che regolano in maniera generalizzata i loro rapporti. Una comunità simile costituisce, lo si è visto, una eccezione nel mondo. Non esiste, per quanto possiamo saperne, nella natura non umana ed esiste nel mondo umano solo in maniera minoritaria e parziale, più come potenzialità che come realtà di fatto.
Si tratta di qualcosa che va oltre la mera empiria
ma che non la trascende né la ignora. Solo l'uomo può obbedire al comandamento: “non uccidere”, e sappiamo che spesso e volentieri non gli obbedisce affatto. Quel comandamento non è qualcosa di “naturale” o, se lo è, riguarda quella piccolissima parte della natura che è l'uomo, e lo riguarda in tutti i sensi: lui solo ha il dovere, di non uccidere e lui solo ha il diritto di non essere ucciso. Ma il fatto che l'imperativo “non uccidere” non sia, in quanto tale, “naturale”, non implica che non riguardi l'uomo in quanto essere naturale, sensibile. Il soggetto dell'etica, di qualsiasi etica degna di questo nome, è e resta l'uomo, e l'uomo non è un angelo o un semidio, è un ente sensibile che abita nel mondo. L'utilitarismo valorizza questo aspetto della morale, e, in questo, non ha torto.
Fondare l'etica sulla sensibilità, elimina ogni differenza fra uomo e natura, quindi, in prospettiva, distrugge l'etica che è qualcosa di profondamente non naturale. Questo rende inaccettabile l'utilitarismo. D'altro canto, recidere ogni legame fra l'etica e uomo empiricamente dato trasforma l'etica in una idea fredda e lontana, incapace di regolare davvero le relazioni fra gli esseri umani. In un simile difetto cadono, spesso, le varie etiche dei principi, a partire dal quella kantiana.

Universalizzazione e legame con l'uomo empirico. La morale si muove, deve muoversi, fra questi due capisaldi. L'utilitarismo, con tutti i suoi difetti che è inutile ripetere, ci richiama alle esigenze dell'uomo empirico, qualsiasi etica dei principi che voglia prescinderne cade, anch'essa, in insolubili aporie ed ha, anch'essa, conseguenze aberranti.
La morale è difficile, in tutti i sensi. Lo è perché è molto difficile seguire i suoi dettami, e lo è anche perché è difficile darle una soddisfacente sistemazione teorica. In fondo, come potrebbe non essere difficile? E' una invenzione umana, anche se è una delle loro invenzioni che gli esseri umani hanno usato di meno.

domenica 14 febbraio 2016

ISRAELE E LA PENA DI MORTE




Lo sanno tutti. Israele è praticamente in guerra dal giorno della sua nascita, cioè da circa 68 (SESSANTOTTO) anni.
Ebbene, nel corso di tutta la storia di questo stato UN SOLO civile è stato giustiziato. Si tratta del criminale nazista Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili della “soluzione finale del problema ebraico”, responsabile della morte di alcuni milioni di esseri umani. In precedenza, nel corso della guerra del 1948, era stato fucilato Meir Tobianski, un soldato israeliano accusato e riconosciuto colpevole di tradimento. Si confronti questo dato con quanto è avventuto in tempo di guerra in altri eserciti. E' noto che sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale furono numerosissimi i casi di fucilazione di soldati accusati di diserzione, viltà o tradimento. Dopo la disfatta di Caporetto ci furono nell'esercito italiano numerosi casi di “decimazione” di truppe considerate poco affidabili. Nella seconda guerra mondiale la repressione di soldati ed ufficiali nell'esercito sovietico raggiunse picchi di incredibile brutalità. Bastava interpretare male un ordine per finire di fronte al plotone d'esecuzione, o, nel migliore dei casi, in Siberia.

Anche nei periodi in cui è ufficialmente non in guerra lo stato di Israele deve sopportare uno stillicidio continuo di attentati terroristici. Eppure non un solo terrorista è stato fucilato nello stato ebraico, neppure uno di quegli “eroi” che si divertono ad ammazzare civili innocenti in autobus o pizzerie. Come ha invece reagito ad atti terroristici il paese che per decenni molti degli attuali nemici di Israele hanno considerato il “paradiso dei lavoratori”?

Il 30 Agosto 1918 Fanny Kaplan, una militante socialrivoluzionaria, sparò alcuni colpi di pistola a Lenin, ferendolo senza però ucciderlo. La militante socialista rivoluzionaria era esasperata dalla brutale repressione messa in atto dai bolscevichi contro tutti i partiti rivali e dalle fucilazioni di un gran numero di militanti anarchici. In Gennaio Lenin aveva sciolto la assemblea costituente, col pretesto che era stata votata in un momento politico “diverso” e non era quindi più rappresentativa della realtà sociale russa (in casi simili nei paesi normali si indicono, al massimo, nuove elezioni). In effetti i bolscevichi detenevano nella assemblea, da loro convocata, di 175 seggi su un totale di 707.
L'attentato a Lenin fu seguito da una repressione di incredibile brutalità. Circa 1300 (MILLETRECENTO) persone furono fucilate nella sola Pietrogrado. Venne emanato il decreto sul terrore rosso: rinforzava la Ceka e deva licenza di deportare in campi di concentramento i presunti “controrivoluzionari” e di fucilare senza processo gli “insorti”.
Inutile aggiungere che ci sono forti dubbi sull'attentato a Lenin. Alcuni sostengono che sia stato il risultato di una faida interna al partito bolscevico. Fanny Kaplan venne condannata ai lavori forzati ma fu fucilata poco tempo dopo nel sotterraneo del carcere in cui era reclusa.

Il primo dicembre 1934 venne assassinato a Leningrado Sergej Mironovič Kirov, un fedele compagno d'armi di Giuseppe Stalin. L'attentatore era Leonid Nikolaev, un giovane vicino agli anti stalinisti di sinistra. Dopo la destalinizzazione il caso Kirov venne riaperto ed oggi è quasi unanimemente accettata la tesi di chi sostiene che si sia trattato di un complotto staliniano. Stalin temeva la crescente popolarità di Kirov, un potenziale rivale che era meglio toglier di mezzo, e mirava a creare il pretesto per una mostruosa ondata di purghe che eliminasse tutti i possibili oppositori nel partito. In effetti la repressione seguita all'omicidio di Kirov fu tra le più brutali della storia. Lo storico sovietico Roy Medvedev racconta in “lo stalinismo” che durante le grandi purghe c'erano periodi in cui nella sola Mosca venivano fucilate più di 2.000 (DUEMILA) persone al giorno.

Se dalla storia passiamo alla cronaca le cose cambiano poco. In stati come l'Iran, l'Arabia saudita, la Corea del Nord, la Cina, i boia lavorano alacremente . Si mandano sulla forca non solo gli assassini, ma le adultere, gli omosessuali, i “nemici dello stato”. A Gaza dopo processi farsa sono fucilati, spesso e volentieri, presunti “collaborazionisti” con Israele.
Da quanto afferma la rete risulta che In
Iran la pena di morte è prevista per omicidio, adulterio, stupro, omosessualità, blasfemia, estorsione, corruzione ed altri casi ancora, compreso, fino al 2004, il consumo di alcool. Secondo il codice penale iraniano, fino al 2004 i maschi sopra i 15 anni e le femmine sopra i 9 potevano essere giustiziati. Nel 2004 è stata vietata l'esecuzione di minori di 18 anni, ma il decreto non è stato rispettato. Il 19 luglio 2005 due ragazzi di 18 e 16 anni sono stati impiccati in Iran per lo stupro di un bambino di 13 anni avvenuto nel 2004, quando i presunti assassini avevano rispettivamente 17 e 15 anni. C'è chi sospetta che l'accusa di stupro sia una montatura e che il vero motivo delle impiccagioni sia da ricercarsi nella omosessualità dei due giovani,.
Se non ci si fida dei dati che la rete riporta si può fare riferimento ad una associazione “insospettabile” per gli occidentali politicamente corretti: “
nessuno tocchi Caino”. Questa da notizia che nel periodo che va dal Luglio 2013 al Giugno 2015 sono state giustiziate in Iran circa 2.000 persone. Nel 2014 in Cina, sempre per la stessa associazione, le esecuzioni capitali sono state circa 2.400. Nel corso dello stresso anno sono state 33 negli USA, da sempre indicati al pubblico disprezzo per il persistere della pena di morte. Negli USA, forse è il caso di ricordarlo, la pena di morte riguarda non adultere od omosessuali ma i responsabili di omicidi particolarmente efferati.

Non è il caso di continuare d affastellare numeri. E' notorio che in paesi come la Cina, la Corea del Nord, l'Iran, l'Iraq, l'Arabia saudita, il Pakistan il boia deve fare gli straordinari. In Israele no. Nello stato ebraico chi fa il boia deve cercarsi un secondo lavoro o rischia di morire (destino beffardo!) di fame. Eppure si tratta di uno stato letteralmente circondato da centinaia milioni di fanatici che vorrebbero semplicemente cancellarlo dalla carta geografica. Uno stato in guerra da quasi settanta anni. In guerra non per controversie territoriali od economiche, in guerra per la propria pura e semplice sopravvivenza.
Ma è contro questo stato che si mobilitano di continuo i “democratici” ed i “progressisti” di mezzo mondo. Gli stessi che fingono di non vedere i boia sempre al lavoro in Iran o in Pakistan si indignano se un soldato israeliano spara ad un giovane palestinese che tentava di accoltellarlo. Panciuti navigatori in rete diventano esperti in arti marziali di fronte a simili casi. Il soldato non doveva sparare, doveva difendersi cercando di disarmare l'aggressore con qualche mossa di krav maga! Profondi intellettuali danno loro man forte. I coltelli palestinesi, come i missili di Hammas, sono armi giocattolo, che vergogna che i “nazisti israeliani” osino sparare a dei ragazzini che si divertono con simili, innocui balocchi!
E non solo di questo si tratta. I prodotti israeliani che vengono dai “territori occupati” (occupati al termine della guerra dei sei giorni, in cui una coalizione di stati arabi ha cercato di annientare Israele) quei prodotti dicevo, devono essere “marchiati”, anche se non si marchiano, ad esempio, i prodotti che vengono da quella parte dell'Isola di Cipro che la Turchia, ma non la Grecia e la comunità internazionale, riconosce come sua. E se c'è qualche manifestazione culturale o sportiva subito si mobilitano i “democratici” e chiedono che Israele non possa partecipare. E c'è il BDS che pretende che tutti i prodotti israeliani vengano boicottati, e ci sono, naturalmente, fior di intellettuali che passano il tempo a denunciare le “brutalità” dello stato ebraico e fior di laici che condannano il carattere “religioso” di Israele, ma che non hanno nulla da dire sulle repubbliche islamiche la cui la costituzione è il Corano.
Ed anche gli ebrei non israeliani sono nel mirino. Certo, i nemici di Israele non sono antisemiti, solo anti sionisti. Però, se un ebreo prende la parola in qualche pubblica manifestazione è bene accetto solo se, prima di ogni altra cosa, si dichiara “critico” di Israele. Insomma, i nemici di Israele non sono antisemiti, loro amano gli ebrei, a condizione che si tratti di ebrei come Moni Ovadia...

C'è poco da scherzare. Uno stato da sempre in guerra, letteralmente assediato, tormentato dal terrorismo, riesce a non essere brutale, mantiene l'essenziale delle libertà civili, garantisce a tutti la libertà religiosa, ripudia di fatto la pena di morte. Eppure è sempre, costantemente sotto accusa. Sotto accusa non da parte dei fanatici che lo vorrebbero cancellare, no, sotto accusa da parte di occidentali. E non di occidentali vecchi rottami del nazifascismo, no, da parte di persone che si dichiarano “democratiche, laiche e progressiste”.
L'eclissi della ragione che sta dietro un simile, incredibile fenomeno fa paura. E' una sorte di folle istinto di autodistruzione che l'occidente si porta dentro da tempo e che emerge periodicamente quando ci sono di mezzo gli ebrei. Eppure la storia ha dimostrato sin troppo bene dove portino le eclissi della ragione.

domenica 7 febbraio 2016

LA NATURA DIVINIZZATA E NEGATA

L'atteggiamento prevalente in occidente nei confronti della natura è semplicemente schizofrenico.
Da un lato la natura è divinizzata. A sentire certi discorsi si avrebbe la sensazione di riascoltare vecchie speculazioni panteistiche, se non fosse per l'abisso che separa, ad esempio, la filosofia di un Bruno o di uno Spinoza dalle sciocchezze che tanti presunti intellettuali si divertono a sparare in qualche talk show televisivo. La natura è la nostra buona madre, una sorta di benigna divinità che si prende amorevolmente cura di noi. Vivere secondo natura dovrebbe essere la massima aspirazione dell'uomo, che purtroppo, preso dalla sua folle sete di dominio, rifiuta di “stare al suo posto” ed infligge alla sua mamma affettuosa terribili ferite; e non capisce, lo stolto, che in questo modo danneggia irreparabilmente se stesso.
D'altro lato si riduce spesso e volentieri la natura a mera “convenzione sociale”. La natura non esiste indipendentemente dall'uomo, non si tratta di un “prius” ontologico in cui
ci troviamo e che ci condiziona. No, la natura è sempre e solo in rapporto con noi e non esiste al di fuori di questo rapporto. Anche qui, se non fosse per la differenza abissale che separa le speculazioni elevate dalle idiozie, tornerebbero alla mente le parole di Marx sulla natura intesa come “corpo inorganico dell'uomo”, o sulla “unità dialettica” fra “uomo naturalizzato” e “natura umanizzata”.
Da un lato la natura come divinità, quindi, dall'altro la stessa natura come “fatto antropologico” o “convenzione sociale”. Apparentemente si tratta di due concezioni inconciliabili, in realtà sono talmente conciliabili da essere spesso sostenute dalle stesse persone. Cosa rende possibile una simile, stranissima conciliazione? Semplice, la sostituzione della natura vera con la sua melensa immagine ideologica,
il rifiuto della realtà.

“L'uomo distrugge la natura”. Lo si sente ripetere in continuazione, come si sente ripetere in continuazione l'esortazione a tornare a vivere in armonia con la natura o con il “creato”. C'è un grumo di verità in simili affermazioni e di senso in certe esortazioni, ma si tratta di quel grumo di senso e verità che da sempre riesce a rendere digeribili le sciocchezze.
Noi tutti attribuiamo una valenza quasi sempre negativa al termine “distruzione della natura”, dimenticando però che quel termine ha valenza negativa solo se inteso nel suo significato
umano.
Se partiamo da un punto di vista umano ha un senso parlare di “distruzione della natura” ed ha senso la valenza negativa che spesso,
spesso, non sempre, attribuiamo ad una simile attività. Diciamo “distruggere la natura” e pensiamo con riprovazione ai vandali che radono al suolo un bosco di abeti o versano petrolio in un mare cristallino. Solo i più estremisti estendono la condanna agli operai che costruiscono una casa o una strada. Ma, a parte ogni distinzione fra chi è fanaticamente estremista e chi non lo è, è chiaro che ogni discorso sulla “distruzione della natura” è sensato solo se parte da un punto di vista umano. Si abbandoni questo, si provi a guardare le cose da un presunto “punto di vista della natura”, ed il discorso perde qualsiasi senso. Per noi è “distruzione” l'inquinamento di un bel mare cristallino, per la “natura” questa è solo una “trasformazione”. Per noi è negativo che un bosco di abeti sia raso al suolo, per la “natura” in questo non c'è assolutamente nulla di negativo. In natura la “distruzione” riguarda solo il passaggio dall'essere al nulla, evento misterioso, di cui poco o nulla siamo in grado di dire, come poco o nulla siamo in grado di dire del passaggio opposto, dal nulla all'essere. Entro la sfera dell'essere in natura ci sono trasformazioni, non distruzioni ed è la natura stessa ad operare le trasformazioni che noi definiremmo più catastrofiche. Un tempo i ghiacci arrivavano quasi all'equatore, poi si sono ritirati, poi si sono di nuovo estesi. Dove ora ci sono montagne un tempo si estendevano i mari, ed i grandi giacimenti di petrolio e carbone sono stati un tempo rigogliose foreste. Se dalla nostra piccola, insignificante, terra, allarghiamo lo sguardo agli spazi cosmici le cose diventano ancora più inquietanti. Ogni secondo nascono o muoiono nell'universo nuove stelle e pianeti, fra un po' di tempo, qualche milione di anni, pare, un attimo nella vita del cosmo, il sole, tanto amato dagli ecologisti mistici, collasserà e distruggerà la terra o almeno, ogni traccia di vita sulla terra, con tanti saluti a chi afferma che “Dio ci ha concesso l'uso del pianeta solo quali suoi rispettosi ospiti”. Anche ammettendo che spesso siamo ospiti poco rispettosi direi che farci sloggiare con un bel disastro cosmico non sembra molto adatto ad una divinità benigna.
A parte l'ironia,
per la “natura” in simili trasformazioni non c'è nulla di terrificante o catastrofico. Per la natura che i mari siano “cristallini” o “inquinati”, che l'aria sia “salubre” o “velenosa”, che esistano o non esistano la vita ed il genere umano non fa differenza alcuna. Per noi, per noi uomini, la cosa ha una certa importanza, solo per noi. Se si tiene conto di questo, è chiaro che le lamentele moralistiche di chi si erge a difensore della natura contro la “umana volontà di potenza” equivalgono a pura idiozia. La cosa appare tanto più evidente se si pensa che anche l'uomo è parte e prodotto della natura. Ci sono voluti milioni di anni di spietata selezione naturale per produrre l'animale uomo. Chi accusa l'uomo di essere un cancro, il malefico distruttore dell'ambiente, con chi se la prende, di preciso? Se siamo un cancro è nella nostra natura comportarci come un cancro. Non ci si può mettere dal punto di vista della natura e condannare uno dei suoi prodotti più complessi ed elaborati. Fra le varie armi di distruzione di massa, oltre a terremoti, uragani e buchi neri che inghiottono stelle e pianeti, la natura ha costruito anche l'uomo. Lamentarsene ha poco senso per chi crede nella sua infinita saggezza.

E quale è, con precisione, il senso dei continui, pressanti inviti a tornare a vivere “in armonia” ed “in pace” con la natura? Se con questo si intende che l'ambiente è un bene prezioso da tutelare, si tratta di ovvie verità. Chi scrive ama la natura, possibilmente incontaminata e selvaggia, e si trova benissimo quando è al suo cospetto. Ma star bene in un ambiente incontaminato non equivale affatto a vivere nei limiti di un ecosistema, al contrario. A parte il fatto che ci si trova a proprio agio in un ambiente selvaggio solo se si sa che si può far ritorno, al momento opportuno, in altri ambienti, per niente selvaggi, a parte un simile, piccolo, dettaglio, la conservazione dell'ambiente è, a ben vedere le cose, quanto di meno “naturale” posso immaginarsi. La storia naturale è storia di continue, spesso catastrofiche, modifiche ambientali, e la lotta per la sopravvivenza che caratterizza tutta la natura vivente non è guidata, per quel che ne possiamo sapere, da nessuna provvida mano che abbia di mira la superiore “armonia del tutto”. La tutela dell'ambiente è, di nuovo, un valore
umano, qualcosa a cui noi, in quanto umani teniamo o possiamo tenere e che va armonizzato (questa volta è lecito usare questo verbo spesso abusato) con altri nostri valori ed esigenze.
Noi abbiamo interesse alla natura, ma non siamo mere componenti di qualche ecosistema, non possiamo vivere come parti subordinate di una totalità che ci sovrasta e determina le nostre azioni. L'uomo è l'ente che
va oltre, oltre l'immediatezza puramente naturale, oltre l'ecosistema in cui si trova, oltre i risultati del suo stesso operare. E' nella sua natura essere così. L'uomo non può adeguarsi semplicemente all'ambiente, lo modifica. E se deve stare attento alle conseguenze negative (per lui) di tale modifica, non vi può rinunciare. Se lo facesse non sarebbe uomo, non ci sarebbero un linguaggio, una storia, una civiltà. Se lo avesse fatto nessuno oggi parlerebbe di “armonia con la natura” né di necessità, umana necessità, di salvaguardare l'ambiente.

Dovrebbe essere chiara l'origine di tanti errori e di tanta confusione. Sta tutta nella concezione di una natura umanizzata e personalizzata. La natura non è più la totalità dell'essere, mossa da leggi che nulla hanno a che vedere quelli che per noi sono valori. No, la natura è una super persona che parla, sente e pensa. Una persona che si prende amorevolmente cura di noi, ma che spesso si sente “offesa” da certi nostri comportamenti e che a volte ci rende pan per focaccia. Da una parte sta l'uomo, di cui si dimentica che, se
forse non è solo natura, è di certo, ed in misura preponderante, anche natura. Di fronte a questa strana creatura considerata, a seconda dei casi, semplice parte della natura o suo implacabile nemico, sta la super persona natura, con cui dobbiamo vivere in tenera armonia. Si tratta, con tutta evidenza, di una concezione prescientifica, addirittura prefilosofica della natura. Una concezione mitica.
E' chiaro come da questa concezione mitica della natura possano derivare tutti gli errori del radicalismo animalista. Se la natura è una sorta di super persona, una provvida amica umanizzata, perché mai non dovrebbero esserlo coloro che nella natura sono, tutto sommato, i più simili a noi? L'animalismo radicale trasforma in soggetti etici gli animali, elimina nella natura la differenza fra chi è capace di intendere i concetti di bene e di male, e quindi è passibile di elogio o di condanna morale, e chi invece si muove in un ambito in cui questi concetti sono semplicemente privi di senso.
In natura la vita si conserva solo grazie alla morte. In questo il bene ed il male, la innocenza e la colpevolezza, la bontà e la cattiveria non c'entrano assolutamente nulla. Il radicalismo animalista moralizza ciò che sta fuori, non sopra o sotto,
semplicemente fuori, dall'area di ciò che è etico, cadendo in insuperabili aporie. Non porta, ovviamente, gli animali al livello dell'uomo, rischia solo di di portare l'uomo al livello degli animali. Danneggia l'uomo e snatura gli animali.
Per Hegel, d'accodo su questo, una volta tanto, con Kant, la libertà inizia dove finisce la natura. La libertà non esiste almeno per quanto possiamo saperne, nella natura non umana perché la libertà significa scelta, progetto consapevole, capacità di distinguere il bene dal male e prima ancora di formulare i concetti di male e di bene. L'uomo è in larga misura un essere naturale, a tutti gli effetti, ma ha, forse (
FORSE) questa libertà. Questo non significa che sia sempre e comunque più “nobile” degli altri esseri naturali: spesso l'uomo è semplicemente ignobile. Però, qui sta il punto, ha senso definire “ignobile” un uomo e condannarlo per questo. Non ne ha nessuno invece definire in tal modo una valanga od una pianta rampicante, una mantide religiosa od un serpente a sonagli. La vera discriminante nella natura è quella che divide l'area al cui interno è sensato parlare di etica da tutto il resto. Eliminare questa distinzione distrugge l'etica e mistifica la natura.

Val la pena di ripeterlo: la natura è la nuova divinità dell'occidente in crisi. E' bella, affettuosa, armonica. Ama la vita ed è dispensatrice di vita, come se la morte non fosse uno degli eventi più naturali. Tutto sembra adeguarsi a questa visione, dal linguaggio alla pubblicità. Il termine “naturale” è diventato quasi sinonimo di “sano”, come se non fosse “naturale” anche il virus HIV, un prodotto è buono se è “naturale”, quanto al cibo, se è naturale è salubre e facilmente digeribile, come se i funghi velenosi non esistessero in natura. La vita poi... più è “naturale” più è dolce e dominata da sentimenti amichevoli, come se tutta la natura vivente non fosse caratterizzata da una feroce lotta per la sopravvivenza. E naturalmente, contrapposta a questa melassa di naturale bontà, sta la malvagità umana. Tutto ciò che è “artificiale” è guardato con sospetto. Artificiale sta per insalubre, pericoloso, prevaricatore, come se le medicine o i diritti universali non fossero una invenzione (o una scoperta?) umane.
Evviva la natura quindi, ed abbasso le pretese egoistiche degli esseri umani! Questo è lo slogan dominante nel sonnacchioso occidente di questo inizio secolo. Però, però basta allargare un po' la visuale e le cose cambiano, e molto.
Tutti esaltano la natura, ma molti di coloro che si riempiono la bocca di lodi per tutto ciò che è, o si pensa sia, “naturale”, negano alcune delle caratteristiche essenziali, basilari della natura stessa.
Cosa è più intimamente, essenzialmente naturale della differenza sessuale? Si tratta di qualcosa di cui è difficile sopravalutare l'importanza, legata com'è alla riproduzione delle specie. Una differenza che negli umani e forse, chissà, anche in alcuni animali superiori, non è solo fisica ma anche psicologica. Una differenza che si fa sentire anche nel linguaggio, nella stessa logica (genere e numero, singolare e plurale, maschile e femminile...) ed ha ripercussioni di vario tipo un po' in tutti i campi della vita sociale ed individuale. Eppure questa differenza fondamentale oggi è negata a gran voce da molti, semplicemente irrisa dai politicamente corretti.
Viviamo nella società unisex, la differenza sessuale non esiste come fattore rilevante, si tratta di una differenza secondaria, priva di conseguenze importanti, una mera differenziazione nell'ambito dei giochi erotici. Un maschio ed una femmina possono fare sesso in un certo modo, due maschi o due femmine, o tre maschi e quattro femmine, o un maschio od un femmina da soli fanno sesso in maniera diversa, tutto qui. La riproduzione della specie, il rapporto coi figli, la psicologia... tutte sciocchezze! La maternità e la paternità sono un fatto antropologico, culturale: si possono avere un padre ed una madre oppure due padri o due madri. Domani, chissà, si potranno avere tre padri o quattro madri, forse tre padri
e quattro madri, tutti insieme: dipenderà dalle “convenzioni sociali”. La natura,che fino ad un attimo prima veniva riempita di osanna, cessa di esistere, viene ad essere integralmente assorbita nella cultura.
Prima tutto ciò che era umano veniva guardato con sospetto, ora la più basilare fra le differenza naturali viene ridotta a fatto “antropologico” ed il tutto con nonchalace, come se niente fosse! E naturalmente il rifiuto della differenza sessuale si trasferisce alla riproduzione della specie. Il legame fra sesso e riproduzione viene ad essere spezzato. Si possono avere figli senza sesso, basta affittare un utero o il seme di un donatore. Sono omosessuale, vivo col mio compagno ma voglio soddisfare il mio desiderio di paternità. Cosa faccio? Inietto il mio (o del mio compagno) seme nell'utero di una ragazza che generosamente, e dietro pagamento, lo mette a mia disposizione, ed il gioco è fatto... sono, insieme, padre e gay! Il mio bambino ha due padri (ne ha uno solo veramente, ed ha una madre che non conoscerà
mai, ma questi sono dettagli secondari). Alla riproduzione della specie si sostituisce la sua produzione. C'è qualcosa di “naturale” in tutto questo?
La negazione della differenza sessuale è legata alla questione omosessuale anche se non coincide con questa. La omosessualità è una forma minoritaria di sessualità, una sessualità non normale nel senso che non è di norma praticata dalla gran maggioranza degli esseri umani e che non è legata alla procreazione.
NON si tratta di qualcosa di “perverso” o “innaturale”. La omosessualità esiste in natura, quindi è ridicolo definirla “contro natura”, quanto alla “perversione”, si tratta di una sciocchezza: tutte le forme di sessualità sono accettabili se non prevaricatorie e violente. Ma gli occidentali politicamente corretti non si limitano a reclamare il sacrosanto diritto degli omosessuali a praticare la loro sessualità, vorrebbero trasformare questa in qualcosa di “normale”, tanto “normale” da essere legata alla paternità ed alla maternità. E qui la rivendicazione dei diritti diventa idiozia, perché nessuno ha “diritto” di essere padre o madre, non più di quanto ne abbia ad essere sano, bello o intelligente. E diventa, questa si, violenza alla natura, tentativo ridicolo di eliminare la dimensione naturale degli esseri umani, sostituire a questa una normalità fasulla, artificiosa, innaturale nel senso vero, peggiore, del termine.

L'atteggiamento dell'occidente politicamente corretto nei confronti della natura appare a prima vista schizofrenico. Esaltazione della natura e suo stravolgimento, pretesa che l'uomo torni ad essere la semplice componente del “suo ecosistema” e riduzione della natura a umana convenzione. Si tratta di posizioni talmente lontane che sembra impossibile che vengano sostenute, spesso, dalle stesse persone. Eppure è proprio così che vanno le cose.
Però, se ne è già accennato, la contraddizione è più apparente che reale. La natura che i mistici dell'ecologismo amano tanto è infatti ben diversa da quella reale. Si tratta non della natura ma della sua immagine ideologica. Una natura amichevole, tenera, piena di attenzioni per il nostro benessere. Una natura da cui è stato cancellato ogni elemento tragico, o anche solo conflittuale. Non la natura della scienza, immota, lontana, estranea ai valori che per noi sono importanti, e neppure la natura della filosofia, spesso organizzata in grandi sistemi in cui l'uomo ha tutto sommato una parte secondaria. A ben vedere le cose neppure la natura antropocentrica del pensiero cristiano. Perché è vero che nella concezione cristiana l'uomo, creato “ad immagine e somiglianza di Dio”, ha il diritto di servirsi della natura, ma, almeno dalla caduta in poi, il "servirsi della natura" è per l'uomo qualcosa di estremamente duro e faticoso, e aperto a rischi sempre nuovi. La natura degli odierni mistici dell'ambientalismo è ben diversa: si adatta plasticamente e senza problemi all'uomo ed ai suoi desideri. Anche se gli ecologisti mistici polemizzano costantemente contro l'antropocentrismo la loro natura è antropocentrica, e lo è nella maniera più sciocca ed ingenua che si possa concepire. Nulla è infatti più ingenuamente antropocentrico di una natura che sarebbe pronta e realizzare una benefica armonia con l'uomo, se solo l'uomo accettasse le sue generose offerte (ma l'uomo che rifiuta l'armonia non fa, pure lui, parte, della natura?). A ben vedere le cose gli ecologisti mistici ripropongono il mito dell'Eden, sognano una natura in cui l'uomo possa vivere felice, liberato dal duro fardello di guadagnarsi da vivere “col sudore della propria fronte”. Solo che quello dell'Eden è, appunto, solo un mito, il richiamo ad un'epoca lontanissima ed irreale che, se anche fosse esistita, in nessun modo può tornare ad esistere. Riproporlo trasforma semplicemente la natura in un cartone animato, e gli animali in pupazzi di peluche.
Questa natura – cartone animato può essere plasmata all'infinito, è in grado con la sua superiore “armonia” di adeguarsi d ogni nostra esigenza, realizzare ogni nostro desiderio. Non c'è contraddizione alcuna fra la divinizzazione pagana di “madre natura” e la teorizzazione del sesso come “fatto culturale”. Non c'è perché la “madre natura”degli ecologisti mistici è una natura fasulla, madre si, ma madre che vizia i suoi figli, esaudisce ogni loro capriccio. La natura – cartone animato diventa qualcosa di simile al banco di un supermercato, in cui basta allungare la mano per trovare ciò che si desidera. Una strano super mercato però, in cui non si ha l'obbligo di passare alla cassa per pagare.
Ma occorre sempre pagare, in un modo e nell'altro, ciò che si prende. Il mondo non è fatto per adeguarsi ad ogni nostra esigenza, meno che mai per soddisfare tutti i nostri desideri, anche quelli più capricciosi. Molti occidentali vivono, credono di vivere in un mondo fasullo, in un cattivo cartone animato. Sognano e rifiutano di svegliarsi, e se per caso si svegliano cercano subito di riaddormentarsi. Detestano la realtà, non la vogliono vedere.
Peccato che la realtà abbia il pessimo difetto di non tirarsi indietro per farsi sostituire dai sogni. Non può farlo, non sarebbe reale se lo facesse.

venerdì 5 febbraio 2016

FATTI O INTERPRETAZIONI?


Non esistono fatti, solo interpretazioni”, ebbe a dire il vecchio Nietzsche. Da allora la lista di coloro che negano l'esistenza dei fatti è diventata ogni giorno più lunga. E naturalmente si sono moltiplicati a dismisura gli equivoci. “Non esistono i fatti puri, l'assoluta oggettività” si è ripetuto fino alla noia. “I fatti sono sempre selezionati, ordinati a priori, dipendono dalle nostre aspettative e dalla struttura delle nostre facoltà conoscitive” è stato ripetuto. Anche un pensatore razionalista e liberale come Popper si è unito al coro di chi nega l'oggettività dei fatti. La sensibilità che ci mette in contatto coi fatti è sempre imbevuta di teoria, ha scritto più volte il padre del razionalismo critico. Non esiste una oggettività del dato di fatto perché questo è sempre esaminato a partire da premesse teoriche. Per chi è inseguito da un criminale un sentiero fra i boschi è una via di fuga, per chi vuole fare due passi un piacevole strumento di relax. L'empirismo, che vuole partire dai dati di fatto dell'esperienza sensibile dimostra così, da subito, la sua illusorietà.
Tutte questa posizioni si basano però su equivoci che val la pena di esaminare.

I teorici della riduzione dei fatti alle interpretazioni accusano spesso i loro rivali di sostenere la tesi dei “puri fatti”, privi di qualsiasi relazione con il soggetto e le sue facoltà conoscitive. Si è già visto come simili accuse si basino, nella migliore delle ipotesi, su equivoci. E' ovvio che possiamo conoscere solo ciò che entra in relazione con le nostre facoltà conoscitive. Se per “puro fatto” si intende ciò che accade senza avere alcun possibile rapporto con noi allora i puri fatti non esistono. In questo caso però non esistiamo neppure noi e le nostre facoltà conoscitive. Anche noi e le nostre facoltà siamo qualcosa di oggettivo. Che noi si esista è un fatto e sono fatti oggettivi le nostre relazioni col mondo. Chi nega i fatti afferma, in fondo, che noi e le nostre facoltà esistiamo solo... in rapporto alle nostre facoltà conoscitive: un cane che si morde la coda.
Facili polemiche a parte, è ovvio che possiamo conoscere solo ciò che può relazionarsi con noi, ma questo non elimina l'oggettività delle nostre conoscenze. Io posso vedere solo ciò che il mio occhio è in grado di vedere, questo non implica che l'albero che vedo nel mio giardino sia l'“interpretazione visiva” che dell'albero fa il mio occhio. Ciò che il realismo nega non è il rapporto fra il mondo e le facoltà conoscitive ma l'esse percepii, quel principio cioè secondo il quale le cose esistono solo se, e quando, e finché le percepiamo. Io vedo solo ciò che posso vedere ma ciò che vedo è qualcosa che esiste anche quando io non la guardo. Se così non fosse il primo a non esistere sarebbe il mio occhio, che non guardo né vedo mai.
Allo stesso modo il realismo non nega che il soggetto e le sue facoltà contribuiscano alla conoscenza del mondo, nega che esista una barriera insuperabile fra la cosa non percepita e quella oggetto di esperienza, che le cose in se stesse siano assolutamente misteriose, confinate in un universo privo di contatti col nostro, salvo trasformarsi, una volta che “noi” le percepiamo, (ma come possiamo percepirle?) nell'usuale oggetto di esperienza.
Io non posso vedere tutti i colori dello spettro, i daltonici non vedono certi colori che io vedo, i cani vedono il mondo in bianco e nero, pare. Con tutto ciò io, un daltonico ed un cane vediamo qualcosa che esiste oggettivamente nel mondo. E se io, il daltonico ed un cane vediamo una rosa è possibile stabilire in cosa i nostri occhi differiscano, quali colori i nostri occhi percepiscono e quali no e fin dove questi occhi contribuiscono alla formazione dell'immagine visiva della rosa. Una simile analisi è possibile perché gli occhi miei, del daltonico e del cane sono oggettivi come la rosa.

Coloro che negano i fatti cadono da subito in un errore basilare. Confondono le interpretazioni, o le aspettative, o le teorie di cui i fatti sarebbero intrisi, con le categorie, kantianamente intese.
Secondo Kant la nostra esperienza sensibile è organizzata categorialmente. La formula è leggermente esoterica ma descrive qualcosa che non è per niente misterioso. Se io non fossi in grado di organizzare l'insieme delle mie percezioni la mia esperienza si frantumerebbe. Se non considerassi sempre lo stesso ente il libro che sto leggendo, o non collegassi con nessi causali il fuoco al calore, o addirittura se in ogni momento scordassi ciò che è avvenuto nel momento precedente avrei una esperienza unitaria? No, ovviamente. Tutto questo non contrasta col realismo perché nessuna unificazione dei dati dell'esperienza sensibile sarebbe possibile se il mondo fosse un fluttuare evanescente privo di qualsiasi ordine e regolarità. Tuttavia è vero anche il contrario: l'ordine e la regolarità del mondo non darebbero vita ad una esperienza ordinata senza l'azione unificante che il soggetto mette in atto tramite le categorie. Le categorie contribuiscono a creare una esperienza oggettiva e universalmente comunicabile. E' dentro a questa esperienza che si formano le aspettative, si elaborano le teorie, si costruiscono le interpretazioni. Confondere le categorie grazie alle quali, meglio, grazie anche alle quali, l'esperienza diventa qualcosa di oggettivo e comunicabile, con le teorie, le aspettative o le interpretazioni è quindi un errore grossolano. Io posso dire: “il sole sorgerà domani”, oppure: “l'acqua bolle a 100°”, oppure ancora: “Kant ha scritto X, ma intendeva Y” solo operando in un mondo che ha la sua regolarità, in una esperienza già unificata. Lo scolaretto che legge una poesia senza capirci nulla e il sottile ermeneuta che sottopone i versi al vaglio della sua critica operano entrambi dentro una esperienza unitaria. Il libro di poesie che leggono è lo stesso per entrambi, esattamente come l'albero nel giardino di casa mia è lo stesso per un analfabeta come per il più esperto dei botanici. Chi sottolinea il contributo del soggetto alla regolarità del mondo non afferma nulla di decisivo contro il realismo. Se cerca di dimostrare che tutto è interpretazione a partire dalla regolarità dell'esperienza costui cade però in un banale equivoco. Confonde l'unità dell'esperienza con alcune fra le varie forme che questa unità può assumere: anticipazioni, teorie, interpretazioni.

I fatti non sono mai “puri”, dicono in molti, sono sempre intrisi di teoria, o di interpretazioni, vengono selezionati in base ad aspettative. Cosa vogliono dire di preciso certe affermazioni? Se con queste si intende che qualcosa per essere un fatto deve poter entrare in un possibile rapporto con noi e le nostre facoltà, o avvenire in una esperienza ordinata, simili asserti, lo si è visto, sono veri ma, in fondo, banali.
Cos'altro possono allora voler dire? Forse che tutto nel mondo è costituito da teorie, aspettative, interpretazioni? Difficile sostenerlo. In realtà ci imbattiamo praticamente tutti i giorni in fatti che non hanno legame alcuno con le nostre aspettative, né sono intrisi di alcuna teoria. Esco in macchina, mi fermo ad un semaforo e ad un tratto sento una gran botta: un'auto dietro la mia mi ha tamponato. Mi “aspettavo” forse un simile evento? O questo ha una qualche relazione con mie teorie sugli incidenti automobilistici? Qualcuno potrebbe dire che io collego causalmente il botto all'urto, ma questo ha a che fare con la struttura categoriale della nostra esperienza, cosa ben diversa da aspettative e teorie, e comunque il botto e l'urto ci sarebbero anche se io non li collegassi: ci sono stati anche per il mio cane che viaggia in auto con me, e non è molto esperto in categorie kantiane. Qualcun altro potrebbe dire che io interpreto in un certo modo urto e botto, ad esempio, li qualifico incidente stradale, stabilisco che chi mi ha tamponato ha torto e gli chiedo con quale compagnia è assicurato. Tutto vero, ma non ha nulla a che vedere col fatto che io aspettavo tranquillamente che il semaforo mi desse via libera e ad un tratto ho sentito un gran botto, e che la parte posteriore della mia auto è tutta ammaccata.
Per chi è inseguito da un criminale una strada nel bosco è una via di fuga, per chi vuole rilassarsi un bel sentiero in cui passeggiare, si è detto. Verissimo, e allora? Anche essere inseguiti o aver voglia di rilassarsi sono fatti, ed è un fatto che ci siano la via di fuga o il piacevole sentiero, e che attraversino un bosco. Forse chi fugge avrebbe preferito essere su un'auto in autostrada, questo non cambia le cose. O forse il fuggitivo interpreta il bosco come un luogo fatato che indurrà il criminale a smettere di inseguirlo. Può essere, ma questa interpretazione gli salverà la vita solo se il bosco è davvero un luogo fatato in grado di rabbonire il criminale inseguitore.
O forse simili enunciati vogliono dire che i fatti che vediamo sono diversi a seconda delle nostre anticipazioni, teorie o interpretazioni? Intesa in senso debole una simile affermazione contiene indubbi elementi di verità. Noi osserviamo sempre il mondo, e ne ordiniamo gli aventi, a partire da un certo punto di vista, non c'è nulla di strano in questo. Ma gli eventi osservati e classificati non diventano per questo una nostra “costruzione”. C'è invece chi sostiene qualcosa di simile. Ad esempio, che i fatti osservativi non potevano a suo tempo decidere delle divergenze fra tolemaici e copernicani perché i sostenitori della vecchia e della nuova astronomia, guardando gli stessi pianeti e la stessa volta celeste, non osservavano in realtà le stesse cose. I fatti erano diversi per loro e ognuno trovava in questi le conferme che cercava. Questo però è molto bizzarro ed è smentito dalla storia delle scienza. In realtà l'astronomia tolemaica iniziò ad entrare in crisi perché un numero sempre maggiore di osservazioni la smentiva, il che basta a dimostrare che non è vero che i fatti sono tali solo a partire da certe teorie o anticipazioni. I tolemaici cercarono di salvare la loro teoria introducendo in questa sempre nuove correzioni (attenzione, erano i fatti ad imporre le correzioni) fino a quando qualcuno cambiò radicalmente il quadro teorico di riferimento e tutto andò, provvisoriamente, a posto. Del resto, se davvero i fatti non potessero confutare alcuna teoria tutte le teorie potrebbero essere considerate vere, con conseguenze piuttosto disastrose dal punto di vista pratico. Bere superalcoolici fa bene a chi soffre di pancreatite, posso buttarmi dal sesto piano e volare, la luna è una forma di formaggio. Tutto questo avrebbe lo stesso valore di verità delle più elaborate teorie scientifiche e a nulla varrebbero le evidenze empiriche che smentiscono simili fantasie. Una situazione piuttosto strana, ammettiamolo.

Chi sostiene che i fatti non esistono è spesso interessato alla storia. La storia, dice, è il regno delle interpretazioni e chi la narra non parte da zero, ma da interpretazioni precedenti dei suoi eventi. Si può concordare, ma, ancora una volta, si tratta di considerazioni abbastanza banali. In effetti, come potremmo cercare di interpretare un determinato evento storico partendo da zero? Si studia la storia partendo da determinati interessi, la stessa scelta del tema di studio presuppone un interesse teorico e questo a sua volta rimanda a certe concezioni generali, quindi a precedenti interpretazioni. Il punto però è un altro. Dato per scontato che si introducono sempre, in ogni ricerca storica, determinate anticipazioni, certe ipotesi di partenza, resta la domanda: gli eventi, i documenti possono confermare o smentire le nostre ipotesi e le nostre anticipazioni? Introdurre delle anticipazioni vuol dire esaminare i fatti in maniera tale che questi non possano che confermarle? Gli eventi che lo storico cerca di ricostruire sono intrisi di di interpretazioni, si dice, ma, di quali interpretazioni? Di quelle di cui intendiamo dimostrare la validità o di altre, che altri prima di noi o indipendentemente da noi hanno elaborato? La distinzione non è da poco. Se i fatti che dovrebbero confermare una certa interpretazione sono “plasmati” a partire dalla interpretazione stessa, questa sarà sempre giusta, ma il suo valore euristico sarà pari a zero.
Poniamo che un certo storico sia convinto che il ruolo delle singole personalità nella storia sia praticamente nullo e che tutto dipenda dalla struttura socio economica di un certo paese in una certa epoca. Poniamo che, partendo da questa concezione generale, il nostro storico inizi a scrivere una storia del nazismo. Visto che i fatti sono “plasmati” dalle interpretazioni, compresa quella la cui validità andrebbe confermata, il nostro storico scriverà una storia del nazismo ignorando del tutto o quasi le vicende personali di Hitler. Riempirà decine o centinaia di pagine con statistiche sui livelli di disoccupazione e di inflazione nella repubblica di Weimar, descriverà gli scioperi ed i vari scontri fra imprenditori ed operai, ci darà un quadro interessante della situazione dei quartieri popolari nelle più grandi città tedesche, ma non dirà una parola su Hitler, o lo farà apparire una sorta di fantoccio nelle mani del grande capitale tedesco. Qualcuno può seriamente pensare che la sua sarà una buona storia del nazismo?
Quello che vale per la ricerca storica vale anche, mutatis mutandis, per le teorie scientifiche. I dati osservativi sono sempre intrisi di teoria, afferma spesso Popper, ma, questo “essere intrisi” cancella la datità, la oggettività del fatto? Se, partendo da una certa teoria affermo che il sole sorge ad oriente, il legame fra la mia affermazione e certe teorie annulla l'oggettività del sorgere ad oriente del sole? Inoltre, come ricorda Marcello Pera in “Popper e la scienza sulle palafitte”, anche dando per scontato che i fatti siano intrisi di teoria, resta la domanda essenziale: di quale teoria si tratta? Di quella che i fatti dovrebbero confermare o smentire o di altre teorie, teorie di sfondo che tutti almeno provvisoriamente accettano e che diventano, in un certo senso, dei fatti? Se i fatti che dovrebbero corroborare o falsificare una teoria sono selezionati, o addirittura “costruiti” a partire dalla teoria stessa questa diventa inconfutabile. Ma la inconfutabilità non è affatto un pregio delle teorie scientifiche, è anzi il loro peggior difetto. Ce lo ricorda proprio Popper, che pure ha fatto eccessive concessioni a coloro che negano i fatti o tolgono loro qualsiasi autonomia.

Esaminiamo queste due proposizioni:
A: Non esistono fatti puri. I fatti sono sempre costruiti a partire da teorie, anticipazioni o interpretazioni.
B: Esistono fatti puri. Teorie, anticipazioni o interpretazioni non contano quando si esaminano i fatti.
Come faranno i sostenitori di A e di B a cercare di provare la veridicità delle proprie rispettive tesi? Semplice, esamineranno, ad esempio, il lavoro degli scienziati e degli storici per vedere se il loro modo di operare può essere portato a sostegno di A o di B. Ma questo prova almeno una cosa: che A e B sono fatti la cui validità o non validità è oggetto di indagine. Tutti i discorsi sui fatti che non esisterebbero perché costruiti a partire da teorie o interpretazioni dimenticano che anche le teorie e le interpretazioni sono dei fatti. E' un fatto che qualcuno dica che i fatti non esistono e qualcun altro replichi che questi invece esistono. E' un fatto che Nietzsche abbia detto che “non esistono fatti, solo interpretazioni”, ed è un fatto che i primi positivisti logici avessero una fiducia sconfinata nei dati elementari d'esperienza. Una teoria scientifica costruita a partire da certe anticipazioni è un fatto come lo è un'altra che si pretende elaborata senza alcun presupposto teorico. Se i fatti non esistono la stessa polemica con chi teorizza la assoluta neutralità del fatto diventa insensata: almeno questa teorizzazione deve infatti esser considerata un dato di fatto per essere sottoposta a critica. Chi nega l'esistenza dei fatti si trova nella stessa scomoda posizione di chi afferma che non esiste la verità e cerca poi di dimostrare che la sua affermazione... è vera. Si taglino i ponti col realismo e col mondo, quindi con fatti ed eventi, e ci si trova immersi fino al collo nella aporie più distruttive.

La non esistenza dei fatti rende completamente privi di significato termini come “fatti” e “interpretazioni”. L'interpretazione è sempre interpretazione di qualche fatto. Se dico: “X significa Y” mi riferisco da subito, e direttamente, al fatto che X. Se dico che un fulmine rappresenta l'ira di Dio assumo come dato l'evento del fulmine. Il fulmine è qualcosa che sia il credente che lo scettico vedono più o meno allo stesso modo, il manifestarsi dell'ira di Dio è invece una attribuzione di significato che soddisfa solo il credente. Fatti ed interpretazioni si esprimono anche linguisticamente in maniera del tutto diversa. Se dico: “il sole sorge tutte le mattine ad oriente” descrivo un fatto, dicendo invece che “il sorgere del sole rappresenta il risveglio quotidiano della vita” effettuo una interpretazione. Se volessi trasformare in fatto tale interpretazione dovrei dire: “il sorgere del sole è il quotidiano risveglio della vita”. Ovviamente qualsiasi fatto può diventare oggetto di innumerevoli interpretazioni, ma lo può diventare solo conservando il suo status di fatto e le diverse interpretazioni possono confrontarsi fra loro solo richiamandosi a fatti di vario tipo.
Lo stesso moltiplicarsi delle interpretazioni del resto non può essere illimitato. Se lo fosse le stesse interpretazioni cadrebbero nel non senso. Si può dire che A significa B, che a sua volta significa C e così via, ma, fino a dove può continuare questo rimando di significati? Interpretare vuol dire attribuire un certo significato ma questo è possibile solo se e fino a quando i termini conservano un loro significato. Se il significato di ogni termine rimanda ad altro in un processo indefinito i termini perdono ogni significato e l'interpretazione diventa impossibile. Se tutto è interpretazione sono interpretazione anche le interpretazioni e le interpretazioni delle interpretazioni e così via, all'infinito. In questo modo diventa impossibile stabilire il senso di ogni interpretazione, il discorso si avvita su se stesso e si cade nel più radicale nichilismo. Se si eliminano i fatti scompaiono senso e riferimento delle parole, e con questi le interpretazioni.
Ma, checchè ne dicano i nichilisti più o meno mascherati, i fatti esistono. Esistono perché esiste il dato. Il dato: qualcosa che non dipende da noi, in cui ci imbattiamo, che non costruiamo, di cui possiamo solo constatare l'esistenza. Negare i fatti equivale a negare il dato, ma il dato primario, essenziale è quello della esistenza. L'esistenza, la  mia come quella degli altri e del mondo, è un fatto. Un fatto che precede logicamente, oltre che empiricamente, ogni costruzione, ogni schema ed ogni interpretazione. Qualcosa deve esistere per costruire od essere costruito, interpretare od essere interpretato. E deve esistere avendo già, in partenza, come iniziale dato di fatto, una certa unità, una qualche organizzazione. Anche se il mondo fosse tutto una costruzione del soggetto dovrebbe esistere un soggetto sufficientemente unitario per poter operare una simile costruzione e questo è già un fatto.
Ma siamo molto restii ad accettare tutto questo, specie oggi, nel post moderno occidente in crisi. Tendiamo a credere, o vogliamo credere, che tutto nel mondo, sia nel bene, sia, soprattutto, nel male, dipenda da noi. L'enfasi con cui i fatti vengono negati dipende probabilmente da una certa, megalomania piuttosto diffusa negli ambienti accademici e “colti” dell'occidente. Gli stessi che strillano contro la “umana arroganza” sembrano davvero convinti che l'uomo sia l'artefice, o il distruttore, la morale non cambia, del mondo
Stranezze di un occidente sempre più schizofrenico...