lunedì 30 ottobre 2017

A CENTO ANNI DALL'OTTOBRE ROSSO


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Praticamente ignorato dai media il centenario della rivoluzione di ottobre. Eppure si è trattato dell'evento più importante dello scorso secolo e di uno dei più importanti della storia. Perché tanto imbarazzato silenzio su un evento, questo si, davvero “epocale”? Per cercare di capirlo occorre spendere qualche parola sul quei fatti lontani, ma sempre vicini.

Volontarismo o determinismo?

“La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (...). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie.”
Così Antonio Gramsci commentava la rivoluzione di Ottobre. I marxisti ortodossi pretendevano che la rivoluzione comunista fosse preparata da una lunga fase di sviluppo capitalistico, mai avrebbero accettato che il proletariato prendesse il potere in un paese arretrato, in larga misura contadino come la Russia. I bolscevichi hanno messo le cose a posto, afferma Gramsci. Hanno dimostrato che le fasi storiche si possono saltare. Il loro è stato il trionfo della volontà. Trionfo che è andato oltre la lettera del marxismo, ma ne ha attuato lo spirito. Perché il marxismo è teoria della rivoluzione oltre e prima che scienza e, in quanto teoria della rivoluzione, deve rendere possibile la vittoria del partito della rivoluzione proletaria.

Le parole di Gramsci evidenziano molto bene le controversie teoriche che fanno da sfondo al dramma dell'Ottobre russo.
Per i marxisti della seconda internazionale la rivoluzione d'Ottobre è semplicemente una eresia. E' facile per loro opporre ai bolscevichi citazioni su citazioni in cui Marx ed Engels affermano che il comunismo è la fase finale di un lungo processo storico, il salto dal regno della necessità a quello della libertà preparato e reso possibile da un lento modificarsi delle circostanze e degli uomini. “La rivoluzione proletaria è il movimento autonomo dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza”, aveva scritto Marx nel “Manifesto del partito comunista”. Ed è lo sviluppo del modo di produzione capitalistico che consente a questa rivoluzione “dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza” di affermarsi. Suoi presupposti sono la proletarizzazione e la radicalizzazione rivoluzionaria di gran parte della società. Sostituire a questo complesso processo l'azione risoluta di una avanguardia rivoluzionaria trasforma, affermano i socialdemocratici della seconda internazionale, il marxismo in blanquismo. Porta il movimento socialista alla disfatta, o alla degenerazione della rivoluzione in una dittatura giacobina che poco o nulla ha a che vedere con il socialismo.
C'è una buona dose di verità nelle analisi dei marxisti della seconda internazionale. Il marxismo ha sempre preteso di essere una scienza e di fondare le sue profezie sull'analisi oggettiva del modo di produzione capitalistico, delle sue tendenze di sviluppo e crisi. Ma c'è anche in quelle analisi una una formidabile dose di unilateralità. Perché se è vero che il marxismo è, pretende di essere, una scienza è anche, come giustamente vede Gramsci, un'arma nelle mani di chi si pone l'obiettivo di abbattere il capitalismo e costruire una società radicalmente nuova. Il marxismo unifica fatti e valori: la dinamica sociale, un fatto, porta “inevitabilmente” alla rivoluzione proletaria, un valore. Per realizzarsi però questo valore ha bisogno dell'azione della avanguardia cosciente del proletariato. Non è qui il caso di sottolineare troppo la contraddizione fra una dinamica sociale che dovrebbe avere uno sbocco “inevitabile” e la necessità di una azione cosciente che permetta la concreta affermazione di tale “sbocco”. Il fatto davvero importante, decisivo, è in fondo un altro. Il fine a cui la storia “spontaneamente” tende è per Marx, e per tutti i marxisti, un fine assoluto. Non si tratta di una società un po' migliore di quella attuale, di una democrazia più diffusa, una economia più produttiva, libertà civili meglio garantite, leggi davvero giuste. No, si tratta del rovesciamento radicale non solo dell'ordinamento sociale oggi esistente, ma di ogni tipo di ordinamento sociale così come fino ad oggi è stato inteso in vari modi. Il comunismo si identifica per Marx con l'estinzione dello stato e della necessità della mediazione politica; col “superamento” del lavoro inteso come mezzo per ottenere beni e servizi, quindi del calcolo economico e della economia politica; con la fine del diritto e della regolamentazione legislativa dei rapporti fra gli esseri umani. In una parola, il comunismo è la società perfetta, priva di qualsiasi tipo di contrasto, ed in questa società si afferma un tipo umano del tutto nuovo, privo dei difetti e delle meschinità che per millenni hanno caratterizzato gli esseri umani empirici. Il comunismo è il paradiso che abbandona la trascendenza per trasferirsi trionfalmente nella immanenza terrena. E' “l'enigma finalmente risolto della storia” aveva scritto il giovane Marx nei “manoscritti economico filosofici” del 1844. Il Marx maturo, “scientifico” non abbandonerà mai questa visione escatologica del fine comunista del genere umano.

Non ci vuole molto per rendersi conto che un fine simile non può essere abbandonato da chi realmente crede alla sua realizzazione. Non si rinuncia al paradiso per il piatto di lenticchie di una società buona ma piena di terrene imperfezioni. Marx aveva creduto di poter fondare scientificamente la profezia della realizzazione di questo fine, in realtà la aveva sin dall'inizio fondata non sulla scienza ma sulla dialettica hegeliana. In ogni caso il reale movimento della società non confermava né la prima né la seconda. Gli operai veri, i lavoratori in carne ed ossa, erano disposti a lottare, anche duramente, per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, ma non per realizzare l'assoluto. Quando i marxisti ortodossi della seconda internazionale contrapponevano al volontarismo dei bolscevichi l'analisi scientifica di Marx commettevano quindi un errore madornale: non si rendevano conto che quella analisi “scientifica” si dimostrava ogni giorno di più come sbagliata. I marxisti ortodossi non intendevano abbandonare il fine assoluto, ma continuavano a ripetere che questo sarebbe stato reso possibile dal movimento “spontaneo” ella società. I bolscevichi avevano capito che questo movimento non realizzava alcun fine assoluto e, dando prova di fanatica determinazione, avevano deciso di sostituire la loro azione ad una evoluzione sociale che andava in direzione opposta ai loro desideri. I bolscevichi orgogliosamente contrapponevano il valore della loro azione concreta alle astratte teorie dello sviluppo storico. I marxisti ortodossi contrapponevano al volontarismo leninista un richiamo alle leggi della storia che appariva sempre più smentito dalla storia reale. A fronte della rivoluzione reale messa in atto dai bolscevichi si richiamavano ad una una rivoluzione irreale. Nel contrasto fra Lenin e Kautsky è il primo ad essere davvero realista; il secondo, malgrado tutti i suoi richiami al materialismo ed alla scienza, è un idealista.

Il fine assoluto e la sua realizzazione

Il fine assoluto di Marx non si realizzava; in realtà non poteva realizzarsi perché posto al di la delle possibilità umane. Si tratta di un fine non accidentalmente, ma radicalmente, ontologicamente impossibile. Di fronte a questo dato di fatto erano possibili solo due alternative: o abbandonare il fine, ed è quello che dopo lunghe esitazioni faranno gli esponenti delle varie socialdemocrazie europee, o cercare di imporlo alla società tutta, comprese le classi che si ritenevano rivoluzionarie. Ed è la scelta che faranno Lenin ed i bolscevichi.
Se l'evoluzione sociale non va nella direzione del socialismo-comunismo al diavolo l'evoluzione sociale. Questa la scelta di Lenin e dei bolscevichi. In fondo anche l'azione di un partito determinato, formato da rivoluzionari di professione, fa parte dell'evoluzione sociale, anche le sue scelte sono parte della storia. Prendendo il potere ed imponendo a tutte le classi la loro politica i bolscevichi dimostrano che la rivoluzione è possibile. La loro vittoria “dimostra” la correttezza “scientifica” del loro operare. E poco importa se questo operare si concretizza in leggi liberticide, repressione generalizzata, introduzione su vasta scala del lavoro forzato. Poco importa che la loro “costruzione del socialismo” ricordi, come farà notare Katsky a Trotzkij, la costruzione delle piramidi d'Egitto. Il partito ha il compito storico di realizzare il fine, e lo farà, costi quel che costi.

La scelta dei bolscevichi è senza ritorno. Una volta che la avranno fatta dovranno andare avanti, a tutti i costi. Nessun sacrificio, e nessun crimine, apparirà a loro troppo grande pur di conservare il potere, e di usarlo per forgiare a loro piacimento l'uomo e la società. Sono tre le motivazioni che spingono i bolscevichi a proseguire nella loro azione senza ripensamento alcuno, malgrado tutto.
In primo luogo una concezione della società in cui ogni contrasto, ogni forma di pluralismo è assimilata allo scontro a morte fra sfruttatori e sfruttati. Imprenditori e commercianti, tecnici ed ingegneri, contadini parcellari ed impiegati, tutti gli strati non operai e, in definitiva, chiunque si sia conquistato un tenore di vita anche solo decente è uno “sfruttatore”, un “nemico del popolo” e come tale va trattato.
In secondo luogo una filosofia per cui l'uomo che vive in una società non comunista è irrimediabilmente alienato. L'uomo che vive qui ed ora nel mondo è in realtà un non-uomo, un essere miserabile che ha fuori e contro di se la propria essenza umana. Un essere le cui idee, sentimenti, desideri sono sostanzialmente disumani. Un essere simile non merita rispetto. Non lo merita neppure se fa parte delle classi che si ritengono “rivoluzionarie”. Certo, si possono usare questi enti alienati, le loro idee, bisogni e desideri ai fini della propaganda e dell'azione politica, ma se occorre reprimerli non sono lecite remore umanitarie di alcun tipo. Il fine dei comunisti non è soddisfare i desideri degli uomini vecchi, ma realizzare l'uomo nuovo, l'angelo comunista.
Infine la concezione del fine assoluto, della trasfigurazione integrale del mondo, della società e dell'uomo. Il famoso salto marxiano dal regno della necessità in quello della libertà.
Identificazione del pluralismo con i rapporti di sfruttamento, teoria della alienazione, esaltazione del fine assoluto formano un tutt'uno che spiega e motiva le scelte dei bolscevichi. Ed in questo, va detto, questi rivoluzionari di professione sono sostanzialmente fedeli allo spirito del marxismo. Per Lenin come per Marx il comunismo è lo sbocco glorioso dell'avventura terrena dell'uomo. Con la sua concezione di una storia a programma Marx è convinto che questo sbocco si possa realizzare limitando le “doglie del parto”. Lenin riconoscerà senza esitazioni che il fine va imposto alla storia e che le “doglie” saranno particolarmente dolorose. Ma non deflette di un centimetro. Questa è la differenza sostanziale fra Lenin e Marx. Importante certo, ma non decisiva.

La grande occasione

Il partito deve saper cogliere l'occasione per rafforzarsi, indebolire i partiti nemici (i bolscevichi hanno nemici, non avversari) e prendere il potere. E l'occasione viene. Non in qualche paese capitalisticamente avanzato, ma in quello più arretrato di tutti: la Russia zarista.
Lo scoppio della grande guerra accentua tutti i contrasti interni all'impero zarista. La classe operaia vede peggiorare le sue condizioni di vita. Le nazionalità mal sopportano il centralismo grande russo. I contadini sono affamati di terra. La guerra diventa ogni giorno più insopportabile per il popolo tutto. E dopo che la rivoluzione di febbraio ha fatto crollare lo zarismo esiste un irrisolto problema istituzionale. Tutti invocano una assemblea costituente che stabilisca la legge fondamentale della Russia. Intanto nelle fabbriche, nei villaggi e nelle stesse fila dell'esercito assemblee di di operai, contadini, soldati eleggono i propri rappresentanti. Nascono i soviet, organismi di una confusa democrazia economico-assembleare. La dirigenza russa del partito bolscevico è incerta sul da farsi. Zinov'ev, Kamenev e Stalin sono per l'appoggio al governo provvisorio retto dal frivolo Kerenskij. Lenin li bombarda dalla lontana Svizzera con lettere di fuoco in cui ribadisce: “nessun appoggio al governo provvisorio”. Tornato in patria ingaggia una lotta durissima dentro il suo partito e lo porta sulle sue posizioni. Controllo operaio, diritto delle nazionalità all'auto decisione, terra ai contadini, pace sono i punti portanti del suo programma. E a coronamento di tutto uno slogan di enorme efficacia: tutto il potere ai soviet. I bolscevichi, Lenin compreso, avevano fatto propria anche la parola d'ordine della assemblea costituente, che mal si combina con la rivendicazione di tutto il potere ai soviet, ma dei rivoluzionari di professione come loro non si preoccupavano troppo della coerenza. Sia la rivendicazione della assemblea costituente che quella del potere ai soviet rafforzavano, insieme a tutte le altre, il partito bolscevico, e questa era per loro l'unica cosa che contasse davvero.

Il programma di Lenin mira decisamente a spingere la Russia verso la rivoluzione proletaria. E' sulla base di questa prospettiva che avviene, dopo anni di polemiche, la riconciliazione fra Lenin ed un brillante intellettuale marxista ebreo: Lev Davidovic Bronstein, detto Trotzkij. Il programma leninista consente ai bolscevichi di conquistarsi un consenso di certo non maggioritario, e neppure troppo esteso, ma comunque considerevole. Così quando conquistano il palazzo d'inverno e sciolgono il governo provvisorio non ci saranno troppe proteste. Ha ragione Martov, capo dei menscevichi, ad affermare al congresso panrusso dei Soviet che quella dei bolscevichi non è una rivoluzione ma un colpo di mano. Tuttavia se questo colpo di mano non gode di un appoggio di massa, non provoca neppure, almeno per il momento, grandi opposizioni. E tanto basta ai bolscevichi.
Il resto è storia nota. Uno dopo l'altro, rapidamente, i partiti non bolscevichi vengono sciolti, la libertà di stampa appena conquistata viene abolita, ogni opposizione repressa. I soviet diventano un semplice strumento nella mani del partito; nella assemblea costituente, votata dopo il colpo di mano dell'ottobre, i bolscevichi si ritrovano in minoranza, nettamente staccati dai socialisti rivoluzionari. E sciolgono l'assemblea costituente.
Il potere ai soviet si trasforma nel potere al partito, e poi al comitato centrale del partito, e poi all'ufficio politico, e poi ad una sola persona. Un dittatore onnipotente.
Se si osservano gli eventi dell'ottobre russo si nota come una nemesi. Gli operai, o quanto meno quelli più radicalizzati, volevano il controllo operaio. Avranno la più dura disciplina sul lavoro. Le nazionalità invocavano l'autonomia, Lenin aveva loro promesso l'autodeterminazione. Dovranno subire il più spietato centralismo grande russo. I contadini volevano la terra. Dovranno subire prima la requisizione forzata dei raccolti, poi, dopo la parentesi della NEP (nuova politica economica), il massacro dei “kulaki”, i contadini considerati “benestanti”, e la collettivizzazione forzata dell'agricoltura. Tutti volevano la pace, tutti avranno invece lunghi anni di spietata guerra civile.

Chirurgia sociale

Conquistato il potere in una società semidistrutta i bolscevichi si dimostreranno capaci di mantenerlo. Le forze a loro contrarie sono disorganizzate, atomizzate, prive di leadership. Quando scoppia la guerra civile i bianchi sono troppo schiavi dei loro pregiudizi di classe per fare l'unica cosa che consentirebbe loro di egemonizzare le masse contadine e di conquistare la vittoria: una coraggiosa riforma agraria. Per tutta la durata della guerra i contadini mantengono una posizione di sostanziale neutralità, con a volte una certa, tiepidissima, simpatia per i rossi. Gli operai non vogliono unirsi ai sostenitori della reazione, ma appena possono protestano duramente contro i bolscevichi. Il comunismo di guerra è caratterizzato da spaventevoli repressioni anti operaie. Uno sciopero può costare il plotone d'esecuzione. Nel 1921 i marinai di Kronstad, eroi dell'ottobre rosso, insorgono. La loro parola d'ordine è molto chiara, e tragicamente illusoria: “viva i soviet, a morte i bolscevichi”. Saranno sconfitti e decimati da indiscriminate fucilazioni. A guidare la repressione è Lev Trotskij.
Intanto cresce un nuovo strato sociale che in qualche modo si avvantaggia del nuovo stato di cose e gli fornisce un minimo di base: una diffusa, sempre più potente burocrazia di partito. Il suo leader è Stalin.

E' stato detto che la rivoluzione d'ottobre apre in Russia una fase di guerra civile che durerà per decenni. C'è molto di vero in una simile affermazione. Tutta l'esperienza bolscevica è in effetti una esperienza di guerra. Guerra contro la borghesia ovviamente, ma non solo. Guerra contro gli strati intermedi, contro gli intellettuali. Guerra contro gli operai che perderanno ogni diritto per diventare mere pedine di un processo di industrializzazione talmente duro che a confronto l'accumulazione originaria capitalistica appare una esperienza umanitaria. Soprattutto guerra contro i contadini nei cui confronti Stalin attuerà politiche che possono a giusta ragione definirsi, al di la dei cavilli giuridici, di genocidio. Il volontarismo economico di Lenin prima e di Stalin poi trasformerà in cimiteri le campagne, devastate da carestie mai viste in precedenza; ricomparirà il cannibalismo. Addirittura guerra del partito contro se stesso, quando Stalin colpirà senza pietà non solo gli oppositori interni, ma anche i suoi stessi seguaci e decimerà le file della burocrazia che pure lo sostiene.
Guerra, in definitiva, del partito contro la società nel suo complesso, costretta a subire una delle più imponenti, e sanguinarie, operazioni di chirurgia sociale della storia. E, con la guerra, lo sviluppo di una repressione spaventosa. Il sistema dei campi di lavoro forzato assumerà proporzioni ciclopiche. Il lavoro. forzato sarà portato da Stalin a livelli che  superano abbondantemente quelli delle piramidi d'Egitto

Quanto al fine assoluto, alla società perfetta... lo stato che doveva estinguersi diventerà il più terrificante apparato burocratico di ogni tempo. Il calcolo economico non sarà “superato” dalla diffusione generalizzata del benessere. Sarà semplicemente ignorato da una economia di comando basata sulla generalizzazione della penuria. La legge nella sostanza sparirà, è vero, ma non per lasciare posto a rapporti umani autoregolati. La legge sparirà perché il potere assoluto e capriccioso del dittatore non deve incontrare limite legale alcuno. Come era facile prevedere l'utopia non si realizzerà. L'uomo nuovo non nascerà dalle ceneri di quello vecchio.
E non è affatto casuale tutto questo. Chi contrappone la fulgida bellezza dell'ideale comunista alla tragedia dei gulag non capisce che proprio nella bellezza del primo si trovano le radici dei secondi. Chi vuole a tutti i costi costruire il paradiso non può edificare altro che l'inferno. L'unica cosa relativamente nuova che l'assalto al cielo dei bolscevichi produrrà saranno montagne di cadaveri.


Giustificazioni e silenzi

Quale che sia il giudizio che se ne può dare la rivoluzione d'Ottobre resta uno degli eventi più importanti della storia. Eppure pochi ne parlano in occasione del suo primo centenario. Se si fa eccezione per vecchi rottami del comunismo staliniano che ripropongono in questa occasione i loro squallidi e ridicoli slogan, il più diffuso tentativo di giustificare i
crimini dell'esperienza sovietica si riduce a questo: pur con tutti i suoi orrori quella esperienza ha dato vita ad un imponente movimento di massa che ha contribuito molto all'emancipazione degli oppressi. C'è un piccolo frammento di verità in una simile affermazione, ma si tratta del tipico grumo di verità che altro non fa che rendere più accettabili le menzogne.
Certo, dall'ottobre rosso è nato il mito dell'ottobre, esattamente come dalla azione spietata di Stalin è nato il mito del “padre dei popoli”. Ma quale è il giudizio che si deve dare di quel mito e dei movimenti di massa che ha suscitato? In fondo anche il fascismo ed il nazionalsocialismo hanno dato vita ad imponenti movimenti di massa...
Laddove quel mito e quei movimenti di massa hanno vinto non c'è stata, per nessuno, alcuna emancipazione. Il comunismo maoista è stato ancora più sanguinoso di quello staliniano. Il dramma della Cambogia resta probabilmente insuperato.
E dove invece quei movimenti di massa legati al mito sono stati costretti all'opposizione? Anche in quei casi il bilancio è tutt'altro che positivo. La presenza di un movimento comunista di massa ha impedito per decenni che l'Italia diventasse una democrazia normale, caratterizzata dall'avvicendarsi non traumatico di forze diverse alla guida del paese. Considerazioni simili possono farsi per la Francia. Certo, movimenti popolari di estrema sinistra sono riusciti a volte a strappare ai vari governi riforme anche positive, ma si tratta precisamente di quelle stesse riforme che Lenin a suo tempo considerava piatti di lenticchie. Il merito dei movimenti comunisti sarebbe stato quello di conquistare alcuni frammenti di riforme che da sempre facevano parte dei programmi socialdemocratici. Quale che sia il giudizio sulla loro bontà, occorrevano forse decine di milioni di morti per ottenerli? A parte la mostruosità che una simile domanda sottintende, è molto facile obiettare che queste riforme e, più in generale, un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori, sono state ottenute prima e meglio che altrove proprio nei paesi in cui il movimento comunista non ha mai avuto dimensioni di massa.
Per farla breve, usare il mito dell'ottobre per cercare in qualche modo di salvare qualcosa della esperienza dello stesso è solo un giochetto sofistico di scarsa rilevanza.


Non è un caso allora che la reazione più diffusa di fronte al centenario dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” sia un  lugubre ed imbarazzato silenzio.
Gran parte degli esponenti della italica sinistra hanno militato in partiti che furono entusiastici sostenitori dell'ottobre rosso. E non intendono far sapere troppo dove affondano le loro radici culturali.
Non c'è nulla di male nell'essere stati comunisti, o fascisti, o qualsiasi altra cosa. Tutti commettiamo errori. Chi però ha ieri esaltato Stalin e Mao, o Lenin, o Trotzki ed ha oggi cambiato idea, e per di più è ancora impegnato in politica, ha il dovere di dire chiaramente in cosa ieri sbagliava e quando, come e perché ha corretto i propri errori. Non si tratta di chiedere abiure, solo di pretendere onestà intellettuale.
Questa invece manca, totalmente. Persone che fino a non troppi anni fa sfilavano esponendo ritratti di Mao o di Stalin appaiono oggi in TV e ci parlano di democrazia parlamentare, garanzie liberali, economia di mercato... come se niente fosse! Ieri strillavano: “Lenin Stalin Mao Tze Tung”, oggi discettano sui poteri della BCE con candida nonchalace. E il comunismo? Il loro comunismo? “Non so, non saprei, il comunismo? Di cosa si tratta? Scusi, non lo conosco...”.
Non solo, questi personaggi si offendono se qualcuno osa ricordar loro che il comunismo è esistito, ed ancora esiste in qualche paesello.
“Il muro di Berlino è crollato perbacco, smettiamola di parlare del comunismo!” sbottano spesso. Veramente non è crollato il “muro di Berlino”, è crollato il comunismo che quel muro aveva costruito. Non per impedire che qualcuno entrasse nei paradisi dei lavoratori, ma per impedire che da quei paradisi i lavoratori fuggissero. Ma non se ne può parlare. Nel 1989 l'esperienza iniziata nel 1917 si concludeva, almeno nel suo paese di origine ed in molti altri. Si concludeva lasciandosi alle spalle decine di milioni di morti, economie devastate, società atomizzate e distrutte. Ma NON se ne deve parlare, e chi ne parla è un “bieco reazionario”. Per decenni il comunismo è stato presentato come il futuro radioso del genere umano. Dopo il 1989 qualcuno ha deciso che il comunismo non è crollato, semplicemente non è mai esistito.
Ottimo motivo per parlarne. Per ricordare in occasione del suo centenario quell'evento importantissimo e tragico che è stato l'ottobre rosso.