domenica 25 novembre 2018

POPPER E L'INDUZIONE


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Il problema di Hume

Il problema della inferenza induttiva è vecchio quanto la filosofia, o quasi. Si tratta innanzitutto di un problema logico. Per vederlo più da vicino basta confrontare due forme di sillogismo.


Sillogismo A

Tutti gli uomini sono mortali
Socrate è un uomo
Quindi Socrate è mortale

Questo tipo di sillogismo, il sillogismo perfetto di Aristotele, è sicuramente corretto e porta a conseguenze certe. Se è vero che tutti gli uomini sono mortali e se è vero che Socrate è un uomo è di certo vero che Socrate è mortale.


Sillogismo B

Tutti i corvi visti in Italia sono neri
Tutti i corvi visti in Francia sono neri
Tutti i corvi visti negli USA sono neri
Nessuno ha mai visto un corvo non nero
Quindi tutti i corvi sono neri.

A differenza che
A, B non costituisce una inferenza corretta. B non contiene alcuna contraddizione, ma in questo sillogismo la conclusione non deriva in maniera certa dalle premesse. Dal fatto che tutti i corvi sinora osservati siano neri e che nessuno abbia mai osservato un corvo bianco non deriva che tutti i corvi siano neri. Malgrado tutte le osservazioni resta sempre logicamente possibile che un domani si possa osservare un animale con tutte le caratteristiche del corvo ma di colore bianco invece che nero. A differenza della inferenza deduttiva esemplificata in A nella inferenza induttiva esemplificata in B fra premesse e conclusione esiste sempre un salto che toglie certezza alla conclusione stessa. La cosa non deve in alcun modo stupire. A è infatti un tipo di ragionamento solo analitico. La conclusione non fa altro che esplicitare ciò che era già implicitamente contenuto nelle premesse. Il fatto che Socrate sia mortale è già per intero contenuto nelle premesse “tutti gli uomini sono mortali” e “Socrate è un uomo”. In B invece la conclusione va oltre le premesse, vuole farci sapere qualcosa sul mondo che le premesse non esplicitano, ma è proprio questo "andare oltre" che pone un salto fra premesse e conclusione, togliendo a questa la certezza logica.

Dietro alla inferenza induttiva sta un presupposto: quello della stabilità, almeno relativa, del mondo. Nel mondo esistono alcune regolarità. Non siamo circondati dal caos, la nostra esperienza non è un informe susseguirsi di percezioni disordinate. Il mondo è, almeno in parte, ordinato e questo ordine rende possibile una esperienza comunicabile. Su questo si basa la inferenza induttiva: il salto dalle premesse alla conclusione è fondato perché il mondo è regolare, il futuro è simile al passato.
A questo punto si pone però il problema di come giustificare il presupposto della regolarità del mondo. David Hume lo affrontò con acutissimo rigore logico e giunse alla conclusione che un simile presupposto non è dimostrabile. Non lo si può fondare sui principi della logica formale perché nessuno di questi consente il passaggio dalla osservazione del presente alla predizione del futuro. Se invece si cerca di dimostrarlo facendo ricorso alla esperienza si cade inevitabilmente in un circolo vizioso. Il principio della regolarità del mondo si basa sulla inferenza induttiva e questa si basa a sua volta su questo principio. Il mondo è regolare perché osserviamo nel mondo delle regolarità. Possiamo dire che queste regolarità continueranno a ripetersi anche in futuro perché presupponiamo un mondo regolare.
Hume tuttavia non nega il ruolo fondamentale che l'induzione, e con lei il principio di causa, hanno nella vita di ognuno di noi. Si limita a sottolineare che l'uno e l'altra non sono razionalmente fondate; si basano su una arazionale associazione di idee. Constatiamo che ogni  mattino sorge il sole e giungiamo alla conclusione logicamente non fondata che
tutte le mattine il sole sorgerà. Ogni volta che ci avviciniamo al fuoco proviamo la sensazione del calore e stabiliamo che il fuoco è causa del calore. Se si lascia cadere un bambino dalla finestra di casa non c'è nessuna ragione logica, sostiene Hume, per aspettarsi che il bambino precipiti al suolo invece di rimanere sospeso in aria. Tuttavia le madri non gettano i bambini dalla finestra. E fanno bene, conclude il filosofo scozzese.
Non la logica ma l'associazione di idee fonda quindi l'inferenza induttiva, il principio di causa e con questi le scienze della natura. Ma fondando sulla associazione di idee il principio della regolarità del mondo e con esso la causalità lo stesso Hume ragiona in maniera causale: l'associazionismo causa la nascita nella nostra mente del principio di causa e con esso la convinzione che la natura non sia caotica. La stessa filosofia di Hume diventa in questo modo la risultante di un associazionismo arazionale e perde gran parte del suo valore euristico. Inoltre una scienza che si basi su una mera associazione di idee sembra incapace anche solo di avvicinarsi al vero, appare a qualcuno fondata sulla sabbia.


La risposta di Popper

Non è assolutamente possibile esaminare le risposte che la filosofia successiva ha dato al problema di Hume. Malgrado il grandioso tentativo kantiano di fondare la scienza, insieme, sulla ricerca empirica ed indiscutibili principi razionali a priori questo problema ha continuato a restare aperto e a porre domande alla speculazione filosofica. Domande che hanno trovato numerose risposte, ovviamente. Una delle più radicali è quella di karl Raimund Popper.

Popper è d'accordo con Hume quando il filosofo scozzese nega fondamento logico alla induzione, è però in disaccordo con lui quando sottolinea l'importanza che l'inferenza induttiva ha nella ricerca scientifica e, prima ancora, nella vita di tutti i giorni. Per Hume la scienza e la vita devono molto all'induzione, per questo vita e scienza mancano, in ultima analisi, di una solida base razionale. Popper non accetta la radicale derazionalizzazione operata da Hume, per questo nega radicalmente ogni importanza alla inferenza induttiva. Non è vero, afferma, che gli esseri umani usano l'induzione. Non lo fanno né nella scienza né nella vita.
L'induzione è solo un mito.
“L'induzione, cioè l'inferenza fondata su numerose osservazioni, è un mito. Non è né un fatto psicologico, né un fatto della vita quotidiana, e nemmeno una procedura scientifica (…) Il procedimento effettivo della scienza consiste nell'operare attraverso congetture, nel saltare alle conclusioni spesso dopo una sola osservazione (…). Le osservazioni e gli esperimenti reiterati fungono, nella scienza, da
controlli delle nostre congetture (…) costituiscono cioè dei tentativi di falsificazione” (1)
Come si vede il rifiuto della induzione è legato in Popper al rifiuto delle concezioni della epistemologia verificazionista. Le teorie scientifiche non possono essere verificate, considerate cioè vere, e questo per il semplicissimo motivo che non si può mai logicamente escludere che un domani si possano verificare fenomeni che le smentiscono.
Popper estende con grande coerenza alla logica probabilistica il suo rifiuto dell'induzione. In effetti il calcolo delle probabilità si basa, esattamente come la inferenza induttiva classica, sul presupposto di un mondo almeno relativamente ordinato, ma è proprio questo presupposto ad essere infondato. Non a caso quindi, dopo aver definito “un mito” l'induzione Popper aggiunge: “nulla di quanto detto sopra risulta minimamente alterato se affermiamo che l'induzione rende le teorie solo probabili, anziché certe” (2)
Se non possono essere verificate le teorie scientifiche possono però essere falsificate. Possono esserlo perché assumono la forma di enunciati universali del tipo “tutti i corvi sono neri” e questi, se non possono mai essere considerati confermati definitivamente dall'esperienza, possono essere falsificati dalla stessa. La scoperta di un solo corvo bianco falsifica l'asserzione secondo cui tutti i corvi sono neri.
Lo scienziato parte dai problemi, cercando di risolverli fa delle congetture, avanza delle ipotesi, elabora delle teorie. Infine sottopone tutto ciò a rigorosi controlli empirici. Se i controlli confutano le sue ipotesi, congetture e teorie queste vengono abbandonate, in caso contrario le si considerano corroborate dall'esperienza e vengono provvisoriamente conservate. In questo modo la scienza, e con lei la vita, quotidiana si liberano della fastidiosa dipendenza dalla inferenza induttiva che, anche se non contiene contraddizione alcuna, abbiamo visto essere logicamente non fondata. La scienza come la vita si basano sul gioco delle congetture e delle confutazioni, l'unico tipo di inferenza che mettiamo in atto è quella deduttiva. Faccio l'ipotesi che tutti gli uomini siano mortali e controllo se Socrate, che è un uomo, lo sia. Solo la deduzione conta. “...è possibile per mezzo di inferenze puramente deduttive (…) concludere dalla verità di asserzioni singolari alla falsità di asserzioni universali” (3)

Val la pena di sottolineare che Popper, anche se il suo interesse è prevalentemente gnoseologico, non si riferisce solo alla scienza. Parla invece, più in generale, della struttura della conoscenza. Gli esseri umani riescono a conoscere il mondo seguendo il metodo delle congetture e confutazioni. Fanno congetture e ne controllano i riscontri. Questo processo non è sempre cosciente, spesso è al contrario istintivo o semi istintivo. Popper lo estende addirittura a tutto il mondo animale. Ogni animale nasce con delle aspettative innate in base alle quali si rapporta al mondo circostante. In seguito alla risposta che l'ambiente da a queste aspettative si avrà un processo di adattamento o di non adattamento ambientale. Dall'animale all'uomo il processo è, nella sua struttura basilare, lo stesso. Al fine di risolvere determinati problemi si lanciano imput all'ambiente, ci si comporta cioè in un determinato modo. In base alle risposte che l'ambiente fornisce agli imput si scartano certi comportamenti e se ne confermano altri.
“Dall'emeba ad Einstein lo sviluppo della conoscenza è sempre il medesimo: tentiamo di risolvere i nostri problemi e di ottenere, con un processo di eliminazione, qualcosa che appaia più adeguato ai nostri tentativi di soluzione” (4)
A differenza di quella animale la conoscenza umana è razionalmente mediata ed espressa in un linguaggio simbolico. C'è una certa differenza fra una ipotesi scientifica ed il tentativo di aggredire una preda che si rivela troppo difficile da uccidere. Ma il procedimento è sempre lo stesso. Si fa un tentativo e si reagisce alla risposta che l'ambiente fornisce a questo. Dalla formica a Galileo, dall'emeba ad Einstein le cose sostanzialmente non cambiano. La natura, quanto meno quella animale, è fatta così.
Giusta o sbagliata che sia questa teoria di Popper, stupisce che un uomo del suo ingegno non si sia reso conto di fare, nel formularla, una classica inferenza induttiva. Per Popper infatti
tutti gli esseri umani, anzi, tutti gli animali, operano col metodo “prova ed errore”, o, per gli uomini, delle “congetture e confutazioni”. Cosa è una simile tesi se non una inferenza induttiva?
Qualcuno potrebbe rispondere che potremmo considerare la teoria di Popper a sua volta come una pura congettura falsificabile. Se lo facessimo dovremmo però ammettere che è stata ampiamente falsificata. Della induzione si può dire e pensare tutto ciò che si vuole, ma una cosa è certa: la quasi totalità delle persone comuni, moltissimi scienziati e molti filosofi, alcuni di enorme rilevanza, si pensi ad Aristotele, hanno creduto nella induzione e la hanno usata sia nelle loro ricerche che nella vita di tutti i giorni. Questo basta a falsificare la tesi secondo cui la induzione è solo un mito senza importanza alcuna,
neppure psicologica, nella vita e nel processo conoscitivo. Forse Aristotele e Bacone, Newton e Carnap sbagliavano a fidarsi delle inferenze induttive, ma di certo le usavano.

Luci ed ombre

Il falsificazionismo popperiano ha sicuramente molti meriti. Le teorie scientifiche devono poter essere falsificate dalla esperienza. Una teoria scientifica degna di questo nome deve indicare una classe di falsificatori potenziali, proibire certi fenomeni. Se qualcuno dei fenomeni che la teoria proibisce dovesse verificarsi questa andrebbe rifiutata o quanto meno seriamente ridiscussa.
La inconfutabilità non è un pregio ma un difetto: una teoria non può essere costruita in maniera tale da essere vera qualsiasi cosa accada. Le pagine de ”la società aperta e i suoi nemici” e “miseria dello storicismo” che Popper dedica alla critica di teorie inconfutabili sono probabilmente fra le migliori della sua vasta produzione teorica. Come si sa Popper considera teorie inconfutabili, quindi non scientifiche, il marxismo e la psicanalisi, oggi potrebbero esserlo le varie teorizzazioni del “riscaldamento globale” di origine antropica; più in generale, considera pure mitologie tutte quelle concezioni secondo cui la storia sarebbe retta da fatali leggi di sviluppo o di crisi.
E' anche apprezzabile la critica popperiana ad un certo neopositivismo dogmatico, quello che fa coincidere il significato di una proposizione col metodo della sua verificazione e ritiene quindi insensata la metafisica, tutta la metafisica. Popper ritiene non scientifica la metafisica, e la cosa è in fondo piuttosto ovvia, ma rifiuta di considerarla insensata. A domande sull'esistenza di Dio e dell'anima, il destino dell'uomo o la composizione ultima della materia non si può certo rispondere con metodologie verificazioniste. Ciò non le rende però prive di senso, al contrario.

Tuttavia nella sua polemica contro gli induttivisti Popper cade spesso a sua volta in posizioni dogmatiche. Non solo, leggendo le sue considerazioni polemiche si ha a volte la sgradevole impressione che sfondi delle porte aperte e polemizzi contro dei fantocci polemici.

Popper afferma che i sostenitori di una certa teoria dovrebbero cercare smentite, non conferme della stessa. E' facilissimo trovare conferme, afferma, meno facile, ma di assoluta preminenza, cercare le smentite di una teoria, metterla alla prova. Una simile polemica però è valida solo se riferita a coloro che cercano di costruire teorie che siano vere qualsiasi cosa accada, un po' come certe teorie del riscaldamento globale che vengono “confermate” dalle siccità come dalle alluvioni, dal crescere come dal decrescere delle temperature. Ma i verificazionisti seri non si comportano in maniera simile. Non costruiscono teorie tautologiche, vere per definizione. Affermano, esattamente come Popper, che in base a certe teorie si devono poter fare previsioni che l'esperienza può confermare o smentire. La ricerca seria di una conferma è, allo stesso tempo, ricerca di una falsificazione. Se dico che tutti i corvi sono neri e controllo i vari corvi che incontro cerco conferme al mio enunciato, ma cerco nel contempo delle possibili falsificazioni. La eventuale scoperta di un corvo bianco indurrà sia il verificazionista che il falsificazionista quanto meno a ridiscutere l'enunciato.


Asimmetria

Un altro punto debole della epistemologia di Popper riguarda la presunta asimmetria fra verificazione e falsificazione.
Verifica e falsificazione non si collocano per Popper sullo stesso piano. Nessun enunciato universale può essere confermato dall'esperienza, ma può da questa essere falsificato. Questa asimmetria di fondo permette di costruire una epistemologia libera dalle debolezze logiche della inferenza induttiva e permette anche di interpretare la vita degli esseri umani (e non solo) senza fastidiosi richiami alla stessa. Ma è davvero tale questa asimmetria? Mi permetto di dubitarne. A mio avviso esiste invece una notevole simmetria fra verifica e falsificazione. Alle difficoltà cui vanno incontro, a diversi livelli, i verificazionisti si possono infatti opporre simili difficoltà che affliggono i falsificazionisti.

Popper afferma, giustamente, che l'esperienza non può confermare gli enunciati universali. Per quanti corvi neri si possano trovare l'enunciato “tutti i corvi sono neri” non potrà mai dirsi interamente confermato, non lo si potrà mai dichiarare, senza riserve,
vero.
L'esperienza non può quindi confermare gli enunciati universali, ma non può neppure falsificare gli enunciati esistenziali. Può l'esperienza falsificare l'enunciato “esiste un leone verde”? Con tutta evidenza no. Il fatto che nessuno abbia mai visto un leone verde non falsifica l'enunciato “esiste un leone verde” perché un bel giorno potrebbe essere avvistato un grosso felino, con la criniera e poderosi canini come tutti i leoni, ma di colore verde. L'enunciato “esiste un leone verde” potrebbe essere falsificato solo se fosse confermato l'enunciato universale “tutti i leoni non sono verdi” ma è precisamente questa verifica ad essere negata da Popper. Popper si rende conto della difficoltà ma non sa rispondere ad essa se non con la proposta di considerare metafisici gli enunciati esistenziali: “dovrò pertanto trattare le asserzioni strettamente esistenziali come non empiriche o metafisiche” (5). In questo modo le difficoltà sembrano superate, ma francamente non si vede come sia possibile considerare metafisica una asserzione del tipo: “esiste un leone verde”.

Un'altra asimmetria riguarda quelle che Popper definisce le difficoltà dell'induttivista. Per i verificazionisti il processo di conoscenza inizia con le osservazioni. Si osservano certi fenomeni, si riscontrano delle regolarità e si passa da queste alla formulazione di enunciati universali. Ma, si chiede Popper, come iniziare un processo simile? Cosa si deve cominciare ad osservare? Dei corvi che volano? Il cielo stellato? Un gruppo di ragazzi che giocano al pallone? Legato com'è alle osservazioni l'induttivista non può scegliere
cosa osservare.
Qui sembra che Popper polemizzi con un induttivista, non troppo intelligente, che nega ogni rilevanza al soggetto osservante. Ma, accantoniamo pure, per ora, questo discorso. Quello che mi preme sottolineare è che anche un eventuale falsificazionista poco intelligente (uno che nega qualsiasi rilevanza al mondo esterno) si trova di fronte ad una difficoltà simile. Il falsificazionista inizia con le congetture e cerca poi di sottoporle a controlli empirici rigorosi, dice Popper. Ma gli si potrebbe chiedere: “con
quali congetture inizia a lavorare il falsificazionista”? “La luna è una forma di formaggio”, “tutti i corvi sono bianchi”, “la terra gira su se stessa” sono tutte congetture che possono essere sottoposte a controllo empirico. Quale scegliere? Se il verificazionista (poco intelligente) non sa cosa osservare il falsificazionista (poco intelligente) non sa quale congettura avanzare. Siamo di fronte, di nuovo ad una difficoltà abbastanza simmetrica.

E veniamo alla asimmetria più importante, quella davvero fondamentale per Popper. Le teorie scientifiche ci dicono quali sono le leggi che governano i fenomeni naturali. Esistono, è vero, teorie che non parlano delle leggi di natura, ad esempio la teoria darwiniana della selezione naturale, ma in questa sede possiamo non tenerne conto. Le teorie che individuano, o cercano di individuare, determinate leggi di natura sono espresse tutte in termini generali. Non si riferiscono ad un singolo evento ma ad una serie indefinita di eventi, passati, presenti e futuri. Il principio di inerzia ad esempio vale per qualsiasi corpo, riguarda qualsiasi tempo e qualsiasi parte dello spazio. Queste leggi non possono per Popper trovare una conferma definitiva per i motivi che abbiamo già esaminato. Non possiamo dire che un giorno il movimento di un certo corpo non sia tale da contraddire il principio di inerzia. Possono però essere falsificate anche da una sola esperienza contraria. Se davvero il movimento di un corpo contraddicesse il principio di inerzia dovremmo rivedere tale principio. Qui la asimmetria appare nettissima.
La falsificazione è logicamente possibile, la verificazione no.
“la mia proposta” dice Popper, “si basa su una
asimmetria fra verificabilità e falsificabilità, asimmetria che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono essere contraddette da asserzioni singolari” (6).
Le teorie che parlano delle leggi di natura possono essere falsificate ma non verificate. La asimmetria qui è forte e riguarda il cuore della gnoseologia popperiana. Ma... è proprio vero che le teorie scientifiche espresse in asserzioni universali, cioè praticamente tutte, sono falsificabili dall'esperienza? In realtà le cose non stanno così, ed è lo stesso Popper ad ammetterlo.

Un fenomeno che potrebbe falsificare una teoria scientifica può essere spiegato in maniera tale da evitare la falsificazione della stessa. Poniamo che una teoria preveda che i pianeti del sistema solare debbano muoversi secondo certe orbite. Un giorno si scopre che un pianeta si muove in un'orbita diversa da quella che prevista. Questo falsifica la teoria? No. E sempre possibile infatti elaborare una teoria che spieghi la deviazione senza che sia necessario abbandonare la teoria originaria. La deviazione potrebbe essere conseguenza dell'influenza gravitazionale di un pianeta sconosciuto, o della presenza di un campo di forze non ancora esaminato o di altre cose. Si tratta delle famose “ipotesi ad hoc” che permettono di evitare la falsificazione di teorie da tempo accettate. Le ipotesi ad hoc sono state usate spesso nella storia della scienza, a volte con risultati soddisfacenti. Alcune deviazioni dell'orbita di Urano ad esempio sono state spiegate con l'ipotesi ad hoc secondo cui doveva esistere un altro, o altri, pianeti responsabili delle stesse. Poi è risultato che le ipotesi erano corrette e si sono scoperti Nettuno e Plutone. Altre volte le ipotesi ad hoc sono servite solo a ritardare lo sviluppo della scienza, ad esempio le ipotesi dei sempre più numerosi epicicli con cui i sostenitori del sistema tolemaico cercavano di spiegare fenomeni sempre più in contrasto con questo. A parte comunque ogni considerazione sul ruolo e l'importanza delle ipotesi ad hoc, quello che val la pena di sottolineare è il loro peso logico. Non è vero che le asserzioni universali possono essere falsificate da asserzioni singolari relative a fenomeni che le smentiscono, e questo per il semplice motivo che è sempre logicamente possibile elaborare teorie che spieghino quei fenomeni senza che occorra considerare falsificate le asserzioni universali. Le innumerevoli conferme di una teoria possono sempre essere smentite da un singolo fenomeno che le contraddica, ma quello stesso fenomeno può sempre essere spiegato in maniera tale da salvare la teoria che questo sembra contraddire. E come la conferma di una teoria non è mai definitiva non è mai definitiva la sua falsificazione. Ulteriori ricerche possono scoprire fenomeni che falsifichino la falsificazione e “riabilitino” la teoria originaria.

Popper si rende conto della importanza delle ipotesi ad hoc e fa l'esplicita proposta di non usarle. Dietro alla formulazione di ipotesi ad hoc per salvare determinate teorie si nasconde una concezione conservatrice della scienza. La scienza invece è in continuo movimento, conosce autentiche rivoluzioni. Salvare a tutti i costi teorie che l'esperienza dimostra fallaci blocca lo sviluppo scientifico. In seguito Popper assunse una posizione più moderata sulle ipotesi ad hoc. Nella scienza occorre anche una certa dose di conservatorismo. Prima di dichiarare falsificata una teoria è corretto esaminare le varie ipotesi che possono salvarla. Tuttavia il processo non può proseguire all'infinito. E' insensato continuare a proporre ipotesi sempre nuove e sempre meno plausibili al fine di salvare una teoria dalla falsificazione. La posizione di Popper è ragionevole, ma qui si sta affrontando il problema della
sostenibilità logica di ipotesi ad hoc, sempre nuove e sempre meno plausibili, formulate al solo fine di evitare la falsificazione di una teoria scientifica. Logicamente questo è sempre possibile. Certo, appare irragionevole la risposta che Simplicio da a Salviati alla conclusione del celebre “dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”: tutte le evidenze razionali ed empiriche sembrano confermare la teoria eliocentrica, ma può darsi che Dio abbia predisposto le cose in modo da farla sembrare vera mentre invece è falsa. Si tratta di una raffazzonata ipotesi ad hoc che Galileo finge di prendere sul serio, ma che tratta invece con sottile ironia. Altrettanto poco ragionevole appare però la pretesa che il fatto di aver sempre visto il sole sorgere al mattino non induca in me ragione alcuna per ritenere che anche domani mattina il sole sorgerà. Di nuovo, ci troviamo di fronte ad una sostanziale simmetria.

Popper induttivista?

Ne “
Popper e la scienza sulle palafitte” l'ex presidente del senato Marcello Pera (quando avremo di nuovo un filosofo presidente del senato?) sostiene che, malgrado tutta la polemica antiinduttivista, anche la metodologia di Popper è in realtà di tipo induttivo. Popper sostiene che se una teoria viene falsificata dall'esperienza la si deve, dopo accurati controlli, considerare falsificata. Le teorie che vengono falsificate devono essere abbandonate, quelle che invece resistono ai tentativi di falsificazione devono essere, provvisoriamente, accettate. Si accetta il sistema copernicano e si rifiuta quello tolemaico perché il primo, resistendo ai tentativi di falsificazione, è stato corroborato dall'esperienza, il secondo invece è stato contraddetto dalla stessa. Ma davvero un tale procedimento è possibile se si nega ogni valore al principio della regolarità, almeno parziale, del mondo e, di conseguenza, alla inferenza induttiva?
“Accettare o preferire una teoria” afferma Marcello pera, “significa stimare che essa è più vicina alla verità, più verosimile, di un'altra. Ma fare questa stima in base alla circostanza che la teoria ha resistito ai controlli più severi, significa ritenere che questi controlli forniscano un indizio della sua verosimilitudine e quindi, di nuovo, assumere che i controlli passati non saranno smentiti in futuro. (...) La regola di accettazione del razionalismo critico, che impone di accettare o preferire la teoria meglio controllata e più corroborata, è anch'essa, come la regola del rifiuto, una regola induttiva che presuppone un principio di induzione” (7)
E' difficile non concordare con Pera. In effetti, se
nulla mi fa pensare che il mondo sia retto da almeno qualche regolarità, se niente, dalla logica alla psicologia, può spingermi a ritenere che il domani sarà simile all'oggi, o che quanto meno esiste una certa probabilità che lo sia, se parto da questi presupposti perché mai dovrei abbandonare una teoria contraddetta dall'esperienza? L'esperimento che contraddice la teoria T vale solo per l'oggi, anzi, per l'ora, per questo istante. Se lo rifacessi fra cinque minuti il risultato potrebbe essere del tutto diverso. Perché allora devo considerare corroborata una teoria che non è stata contraddetta dall'esperimento e falsificata una che invece lo è stata? Se la regolarità dell'esperienza poggia su un niente poggia sul niente anche la metodologia scientifica popperiana.
E, di conseguenza, tale metodologia non può spiegare i successi indubbi della ricerca scientifica. Ammettiamo pure che il metodo, l'unico metodo, della ricerca scientifica sia quello delle congetture e confutazioni. Se la regolarità del mondo è una ipotesi del tutto infondata, anzi, non è neppure una ipotesi, è un
mito, come mai alcune, a differenza di altre, “congetture” hanno tanto spesso successo? Se il mondo è privo di qualsiasi regolarità congetture come “la luna è il satellite della terra” e “la luna è una forma di formaggio” sono assolutamente sullo stesso piano. Come mai allora solo la prima vene continuamente corroborata dai controlli empirici?
“La sola risposta corretta” a tale quesito, afferma Popper, “è quella più semplice: perché cerchiamo la verità anche se non possiamo mai essere certi di averla trovata, e perché sappiamo o crediamo false le teorie le teorie falsificate, mentre le teorie non falsificate possono essere considerate ancora vere” (8).
Come si vede la risposta non è tale. Non spiega come mai certe congetture superano molto spesso i controlli ed altre no. Semplicemente ribadisce che vengono considerate corroborate quelle che superano i controlli empirici e falsificate le altre. Una dichiarazione di fede più che una spiegazione.

La regolarità del mondo

La filosofia di Popper, in particolare la sua insistenza sulle aspettative a priori di uomini ed animali nei confronti del mondo, pur non cadendo in forme nuove o tradizionali di soggerrivismo idealistico, da una grande rilevanza al soggetto.
Popper sottolinea spesso che il soggetto non è qualcosa di passivo, la sua mente non è qualcosa di simile ad un secchio, o a una tavoletta di cera su cui si imprime quanto viene dall'esterno. Il paragone fra la passività del soggetto ed secchio o la cera non è, a ben vedere le cose, particolarmente felice. E' grazie alle sue caratteristiche positive che il secchio può contenere l'acqua: se fosse costruito con materiale poroso o fosse tutto bucherellato non potrebbe contenere un bel niente. E una tavoletta di cera può conservare ciò che le viene impresso perché ha, di nuovo, certe caratteristiche positive: se fosse liquida come l'acqua nulla potrebbe restarle impresso, ma questi in fondo sono dettagli. Che il soggetto abbia anche un ruolo attivo nella costruzione dell'esperienza e della conoscenza è innegabile. Ma occorre stare attenti a non confondere azione positiva ed azione costitutiva. Una cosa è conservare, relazionare, unificare i dati empirici, altra cosa crearli, o, il che è quasi lo stesso, costruire da un mondo assolutamente caotico un universo ordinato. Il ruolo attivo del soggetto non elimina né dalla esperienza comune né dalla scienza un fondamentale momento di passività. Popper non lo nega. Si considera realista in filosofia e più di una volta afferma che è proprio l'esistenza di un mondo che non si identifica col soggetto a rendere possibile la falsificazione di teorie, ipotesi e congetture. Tuttavia insiste in certi momenti sul fatto che le osservazioni sono teoricamente indirizzate. I fatti sono intrisi di teoria, dice. Guardiamo sempre al mondo a partire da certe aspettative, ipotesi, teorie, in una parola, da certi punti di vista. Tutte cose ragionevoli, a condizione di non credere che guardare il mondo a partire da punti di vista o aspettative teoricamente indirizzate ci possa permettere di
plasmare i dati dell'esperienza sensibile. Se le cose stessero così lo stesso falsificazionismo andrebbe in crisi.

A parte le perplessità e le diverse possibili interpretazioni di questo o quell'aspetto della epistemologia popperiana esiste un punto fondamentale che occorre chiarire per dare su questa un giudizio equilibrato. Popper afferma di continuo che non esiste niente che possa fondare la credenza che il mondo sia almeno in parte regolare, che,
grosso modo, il futuro sia simile al passato. Nega addirittura che esista questa credenza ed in questo modo spoglia l'inferenza induttiva non solo di base logica ma anche di rilevanza psicologica. L'induzione è un mito e gli esseri umani non si comportano induttivamente: questo è un caposaldo del suo pensiero. E' ragionevole una simile posizione? Ed è possibile fondare, a partire da questa, un qualsiasi tipo di epistemologia, una qualsiasi teoria dell'esperienza? Credo sinceramente di NO.
Quando Popper sfida i suoi rivali a fondare in qualche modo la credenza sulla regolarità del mondo ricorda un po', lo dico col massimo rispetto, quegli scettici che chiedono a chi troppo scettico non è di “dimostrare” l'esistenza del mondo esterno. Ma esiste davvero la necessità di fondare o dimostrare cose simili? Voler “dimostrare” l'esistenza del mondo esterno è un po' come voler “dimostrare” il principio di non contraddizione. La cosa è del tutto impossibile perché qualsiasi dimostrazione presuppone l'esistenza e la validità di tale principio. Allo stesso modo, qualsiasi “dimostrazione” dell'esistenza del mondo esterno in realtà lo presuppone. Quando cerco di “dimostrare” l'esistenza del mondo parlo con una persona diversa da me, quindi che mi è esterna, e do per scontato che questa persona esista. Per cercare di “dimostrare” che il gatto che ho di fronte non è solo “sensazione in me” devo riferirmi al gatto. Se dico: “quel gatto è, o non è, solo sensazione in me” pongo già una distinzione fra me, le mie sensazioni ed il gatto, quindi presuppongo la sua esistenza autonoma. Le dimostrazioni logiche partono da certi dati assunti come premesse per giungere a certe conclusioni, ma i dati ultimi non possono essere dimostrati. “Non di tutto può darsi dimostrazione”, dice Aristotele nella “
metafisica”. Gli farà eco, circa 23 secoli dopo, Wittgenstein: “ad un certo punto la zappa si piega”, dirà il viennese. Non tutto può essere dimostrato, prima o poi la fila dei ragionamenti si deve fermare, se si cerca di proseguire “la zappa si piega”.

Si possono fare considerazioni simili sulla regolarità del mondo. Una certa regolarità del mondo è il presupposto fondamentale di ogni discorso, ogni teoria, ogni azione. Non si tratta, è bene sottolinearlo con la massima chiarezza, di una convenzione, o di una teoria, o di una ipotesi o di una congettura. Quando entro in un bar e prendo un caffè sono convintissimo che il caffè non si trasformerà, mentre lo bevo, in acido solforico. Questa non è una teoria, o una congettura, o una ipotesi, o una convenzione che stipulo col barista. E' un
dato originario della mia esperienza, è il presupposto di ogni teoria, ogni ipotesi, ogni congettura, ogni convenzione.
Siamo nel mondo, ne facciamo parte. Ed il mondo in cui siamo non è caotico, o non lo è totalmente. Il mondo in cui siamo è almeno in parte abbastanza regolare ed abbastanza regolare è anche il soggetto che è nel mondo. Tutti i discorsi sul soggetto che “ordina il mondo” dimenticano che
il soggetto è nel mondo e che per ordinare qualcosa il soggetto deve essere a sua volta abbastanza ordinato. I miei organi di senso sono parte del mondo e devono agire con una certa regolarità per potere in qualche modo ordinare i dati dell'esperienza sensibile; questi a loro volta devono avere una certa regolarità perché io possa ordinarli. Non è assolutamente possibile prescindere dal presupposto di un certo ordine del mondo e, nel mondo, del soggetto. Se si abbandona un simile presupposto tutto diventa insensato, inesprimibile, compresa la negazione di ogni ordine.
Il presupposto della regolarità del mondo può essere considerato una di quelle che il filosofo americano John Searle chiama le “posizioni predefinite”.
“Le posizioni predefinite sono quelle visioni che assumiamo in modo acritico, cioè in modo tale che qualsiasi allontanamento da esse richiede uno sforzo cosciente e un argomento convincente” (9).
Il fatto che Searle parli di accettazione “acritica” di tali posizioni non implica sulle stesse alcun giudizio negativo, al contrario. Queste posizioni sono assunte “acriticamente” perché sono spesso il presupposto della stessa formulazione delle critiche, il che non esclude, ovviamente, che si possa discutere anche delle posizioni predefinite. In effetti Searle stesso ne discute, ma lo fa in modo particolare: in qualche modo osservandole, allo stesso modo in cui Aristotele o Hegel discutono sul principio di non contraddizione: applicandolo nel momento stesso in cui ne discutono o lo criticano.

Leggendo Popper si ha a volte l'impressione che il filosofo viennese sottovaluti le conseguenze della negazione della regolarità del mondo e si accontenti di una interpretazione debole di questa negazione.
Se il mondo non fosse almeno un po' regolare, o se io non avessi alcun motivo per crederlo tale, non potrei elaborare ipotesi, congettura o teoria alcuna perché lo stesso significato delle parole potrebbe cambiare mentre io espongo una certa congettura. Meno ancora potrei cercare di falsificare una mia teoria perché i dati della esperienza sensibile varierebbero di continuo mentre io cerca di effettuare verifiche e controlli. E, prima ancora che ipotesi, congetture e teorie, la negazione radicale di ogni regolarità renderebbe impossibile la vita. Non credo che Popper abbia mai creduto
sul serio di non avere motivo alcuno di credere che buttandosi dalla finestra precipiterebbe a terra, o abbia considerato una simile eventualità solo una congettura da controllare. Popper ripete spesso che a volte saltiamo subito alle conclusioni, senza effettuare numerose osservazioni, sia nella ricerca scientifica che nella vita di tutti i giorni. E' verissimo, ma questo prova solo che la credenza in una certa regolarità del mondo è tanto diffusa che neppure cerchiamo di verificarla. La prima volta che ho mangiato il sushi non ho fatto numerosi esperimenti prima di convincermi che non mi avrebbe ucciso. Sono entrato in un ristorante giapponese, ho ordinato e ho gustato il sushi. E mi è piaciuto.
In realtà Popper, come dice Marcella Pera, è induttivista, come tutti. Lo è allo stesso modo in cui è realista, nei fatti, anche il filosofo più scettico. Lo è anche a livello teorico. Il falsificazionismo di Popper in realtà ammette una certa regolarità nel mondo. Ci ricorda però, giustamente, che, anche dentro a questa regolarità, non possiamo mai essere
assolutamente certi di nulla. Il sole sorge tutte le mattine, diciamo. Ma un bel giorno potrebbe davvero non sorgere, anzi, un giorno, fra milioni di anni, non sorgerà. Ogni teoria scientifica è vera sempre fino a prova contraria, come è fino a prova contraria falsa, perché un giorno si potrebbero fare scoperte che mettono in crisi ciò che si riteneva vero e “riabilitano” ciò che si riteneva falso. Il mondo non è caotico ma anche ciò che nel mondo è regolare può sempre riservarci delle sorprese. Anche ammettendo che tutto nel mondo sia retto da leggi invariabili è sempre possibile che si scopra prima o poi una nuova legge invariabile che mette in crisi le nostre convinzioni ed ha, magari, pesanti conseguenze sulla nostra vita di tutti i giorni. Facciamo benissimo a credere “acriticamente” nella regolarità del mondo, ma facciamo bene a conservare sempre quello spirito critico che ci permette le riserve mentali. Inteso in questo senso il falsificazionismo di Popper è del tutto ragionevole e non contrasta con un verificazionismo altrettanto ragionevole e non dogmatico. Purtroppo spesso Popper si allontana da questa interpretazione “debole” del suo pensiero.

Resta a questo punto da rispondere ad una domanda, forse la più importante. “E' possibile”, potrebbe chiedere qualcuno “che un bel giorno il mondo cessi di essere, almeno parzialmente, regolare cessi di esserlo in maniera totale, assoluta, radicale? Se ammettiamo che possiamo avere delle sorprese non potremmo imbatterci un giorno in una sorpresa radicale come questa?”.
Che rispondere ad una simile domanda? Semplicemente che si, una simile sorpresa è possibile. Il mondo può cessare di essere ordinato, può diventare caotico, a priori è impossibile negare una simile eventualità. Ma se questo avvenisse il mondo cesserebbe, molto semplicemente, di essere pensabile, comunicabile, dicibile. Svanirebbe.  E col mondo, l'oggetto, svanirebbe anche l'io di ognuno di noi, il soggetto. La nostra esperienza diverrebbe un caos di impressioni multicolori, svanirebbe e con essa svanirebbe la coscienza che ognuno di noi ha di se stesso quale soggetto. Tutti noi smetteremmo di esperire qualcosa, ed insieme smetteremmo di dire, pensare, ricordare qualcosa. Ci immergeremmo in una sorta di nulla.
Non si tratta in fondo di una ipotesi tanto peregrina, al contrario. E' assai vicina alla premessa maggiore del sillogismo perfetto di Aristotele: “tutti gli uomini sono mortali...
Tutti gli uomini sono mortali, quindi ognuno di noi viene da “qualcosa” che non può essere pensato né detto, né esperito. E che neppure può essere ricordato. Ed un giorno tornerà in quel “qualcosa”. La morte è questo, in fondo: il non dicibile, non pensabile, non esperibile, non ricordabile. Come diceva Wittgenstein: la morte non si vive, è il puro negativo di cui nulla può essere detto. Un mondo ridotto a puro caos è lo stesso: un nulla multicolore, o privo di ogni colore, di cui nulla possiamo dire.
Non abbiamo le parole per parlare di un mondo ridotto a caos. E se le parole ci mancano, dobbiamo solo tacere.









Note
1) K. Raimund Popper: Congetture e confutazioni. Il Mulino 1972 pag. 96. Sott. di Popper.
2) Ibidem pag. 96
3) K. R. Popper: Logica della scoperta scientifica. Einaudi 1970 pag. 23.
4) K.R. Popper: la conoscenza oggettiva. Citato in: Nicola Abbagnano Storia della filosofia, la filosofia contemporanea a cura di Giovanni Fornero. TEA 2000. pag. 156.
5) K.R. Popper: Logica della scoperta scientifica. Einaudi 1970 pag. 55.
6) Ibidem pag. 23 sott di Popper.
7) Marcello Pera: Popper e la scienza sulle palafitte. Laterza 1982 pag. 186 187
8) K.R. Popper: congetture e confutazioni Il Mulino 1972 pag. 101.
9) Jhon R. Searle: mente linguaggio e società Raffaele Cortina editore 2000. pag. 10.

lunedì 24 settembre 2018

ALIENAZIONE. SECONDA PARTE. MARX


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Fatti e valori


Sia Hegel che Marx rifiutano la classica divisione fra fatti e valori. Hume ammonisce, con logica sottile, che da un giudizio sui fatti non si può derivare un giudizio di valore. Dal fatto
"che X" non si può derivare “è bene, o male, che x”. Dal fatto che se sparo ad un essere umano non si può derivare il giudizio che sia male sparare ad un essere umano. Sulle orme di Hume Kant effettua una distinzione rigorosissima fra essere e dover essere. Una cosa è stabilire che le cose stanno così e così, cosa del tutto diversa decidere come mi devo comportare in rapporto ad una situazione in cui le cose stanno così e così. E' un fatto che se rubo a Tizio il suo denaro diventerò più ricco, ma la legge morale mi obbliga a non rubare. Il fatto che rubando divento ricco non fa diventare moralmente accettabile il furto. Hume e Kant sono molto distanti fra loro nel valutare quale sia il fondamento dell'agire etico. Per lo scozzese si tratta di un blando sentimento diffuso in quasi tutti gli esseri umani. Una forma di simpatia moderata e generalizzata verso i nostri simili che ci spinge a considerare sbagliate le azioni predatorie anche quando a subirle sono persone a noi del tutto sconosciute. Per il prussiano si tratta invece dell'imperativo categorico, un ordine che la nostra ragion pratica impartisce a noi stessi e ci obbliga al rispetto generalizzato. Entrambi tuttavia pongono uno iato, una tensione fra valore e fatto, negano qualsiasi legame logico fra giudizi di fatto e di valore.
Marx ed Hegel rifiutano una simile concezione. Mantenere uno iato fra fatto e valore vuol dire restare prigionieri di una angusta visione dualistica del mondo (chissà perché il dualismo deve sempre essere “angusto”). La concezione kantiana della non coincidenza fra essere e dover essere dà vita, secondo Hegel, ad un irrazionale processo all'infinito. Il dover essere cerca costantemente di adeguare a se il mondo senza mai riuscirci. Il valore tenta di moralizzare i fatti bruti ma questi mettono costantemente in atto una sordida resistenza a fronte di questo tentativo. La realizzazione del valore, la piena attuazione della “società dei giusti”, è un processo all'infinito, sempre rinnovato ma mai interamente concluso.
C'è del vero nella critica di Hegel e Marx, solo, non si vede cosa ci sia di “irrazionale” in una concezione che riconosce francamente i limiti della ragione umana, sia essa teoretica o pratica e, di conseguenza, ammette che la perfezione è un obiettivo fuori dalla portata dell'uomo. La totalità è fuori dalla nostra portata come lo è la perfetta adeguazione del mondo a valori umani. Ciò non esclude gli sforzi atti e migliorare costantemente le nostre conoscenze e ad adeguare, per quanto possibile, il mondo alle nostre esigenze etiche. Solo una visione assolutistica della ragione può far definire “angusti” ed “irrazionali” simili sforzi.

Sulle orme di Hegel Marx è convinto che la storia realizzi nel suo corso un valore ad essa immanente. L'alienazione è una tappa necessaria di questo corso. Nella e grazie alla alienazione si realizzano i presupposti che rendono possibile la futura liberazione. Una simile concezione si avvolge però, da subito, in inestricabili difficoltà. La alienazione è necessaria alla realizzare della libertà. Detto in altri termini questo significa che il male è indispensabile alla affermazione del bene. Ma se si accetta questo si deve ragionevolmente concludere che il male in realtà non esiste. Sfruttamento, schiavismo, eccidi di massa sono necessari alla realizzazione della libertà, non sono quindi un male, ma un bene. Ma è davvero “bene” qualcosa che si realizza tramite il male? Se uccido un innocente per impossessarmi del suo denaro e poter fare delle elemosine l'omicidio non rende immorale l'atto benefico che lo ha seguito? Un chirurgo che si procurasse un cuore da trapiantare uccidendo un essere umano potrebbe continuare ad essere definito un “benefattore”?
Si potrebbe obiettare che la liberazione, il bene, non era possibile in certe fasi storiche, ma qui non si tratta di valutare la realizzabilità del bene, ma la possibilità di considerarlo o non considerarlo tale. Ammettiamo pure, anche se lo si potrebbe discutere, che lo schiavismo fosse necessario allo sviluppo delle forze produttive, questo lo rende anche moralmente accettabile? Gli schiavi non avevano la possibilità di liberarsi, diamolo anche per scontato, avevano almeno la possibilità di considerarsi vittime di una ingiustizia? Se fossero vere le concezioni di Marx ed Hegel non avevano neppure questo diritto. Gli schiavi, e con loro le innumerevoli vittime delle innumerevoli mattanze della storia, non subivano nessuna “ingiustizia”. Non la subivano perché non esiste un valore che si contrappone ai fatti, qualcosa che l'uomo cerca, faticosamente e spesso inutilmente, di affermare nel mondo. Esistono valori che sono dentro i fatti e che da questi emergono. E tutte le nefandezze della storia altro non sono che “momenti” di questo emergere. “Momenti”, non ingiustizie, a meno che non si vogliano considerare “ingiustizia”, ad esempio, le doglie di un parto.

Tutte le concezioni secondo cui il bene (un valore) emerge “necessariamente” dal corso storico (una serie di eventi, di fatti) si basano in realtà su un tacito, e molto rassicurante, presupposto. Noi viviamo in un'epoca che vedrà, in tempi abbastanza brevi, la vittoria del valore. I valori emergono dall'andamento dei fatti e, guarda caso, l'epoca di questa “emersione” è... la nostra. Marx cerca di dare una spiegazione razionale di questa strana coincidenza quando afferma che “l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione” (1).
Se si pone,
oggi, il problema del superamento della alienazione vuol dire, afferma Marx, che oggi tale problema può essere risolto. Il fatto che Marx abbia scritto il “Manifesto del partito comunista” o “Il Capitale” dimostra che lo sbocco comunista della avventura umana è diventato, insieme, necessario e possibile (i profeti amano gli ossimori). Ma... ma altri, ben prima di Marx, avevano posto, e non solo teoricamente, il problema del “superamento della alienazione”, anche se lo definivano in termini diversi. Roma dovette spesso far fronte a rivolte di schiavi, l'utopia (o la distopia) di una società senza proprietà privata, gerarchica o egualitaria, ma in ogni caso rigidamente integrata, percorre un po' tutta la storia del pensiero: dalla Repubblica platonica alle profezie di Gioacchino Fiore, dalla “Utopia” di Thomas More, alla opprimente “Città del sole” di Tommaso Campanella, per finire con quelli che Marx ed Engels definiscono con una punto di disprezzo “socialisti utopisti”. Certo, Marx ritiene che la sua profezia non sia tale, si basi su una rigorosa indagine scientifica, ma c'è da chiedersi se sia davvero la scienza a fondare l'idea della conclusione comunista della storia o non sia piuttosto questa ad indirizzare quella.
Non si tratta di un dubbio illegittimo. In fondo a nessuno piace essere la vittima il cui sacrificio è “necessario” alla futura liberazione dell'uomo. Se il trionfo male è la condizione necessaria per la affermazione del bene è molto meglio che il male riguardi il passato. Noi siamo destinati al bene che “finalmente” è all'ordine del giorno della storia. Però... se ci sbagliassimo? Se la conclusione della storia, la società perfetta, riguardasse non noi ma chi verrà secoli, o millenni, dopo di noi? Se il
nostro male servisse alla felicità di chi avrà la fortuna di nascere nell'anno 4.000 sapremmo accettare senza reagire il sacrificio cui l'astuzia della ragione ci condanna? Rinunceremmo a cercare di cambiare le cose? Accetteremmo anche di fare a meno di definirci vittime della ingiustizia? Diremmo a cuor leggero che non stiamo subendo nessuna ingiustizia perché il male che ci colpisce altro non è che la condizione per la affermazione del bene, quindi è, esso stesso, bene? Mi permetto di dubitarne.

La concezione della storia che realizza nel suo corso valori ad essa immanenti è, in primo luogo, del tutto infondata dal punto di vista scientifico. La storia non è, non può essere, oggetto di previsione scientifica. Non può esserlo perché, per quanto possiamo saperne, non è predeterminata, e non è predeterminata perché la volontà umana gioca in essa il suo ruolo. Certo, le situazioni storiche oggettive sono importanti: a volte rendono relativamente facile, altre molto difficile, altre ancora impossibile la realizzazione di certi obiettivi, ma questo non trasforma il corso storico in una sorta di legge naturale. Nella storia sono possibili le previsioni, che solo raramente risultano pienamente azzeccate, ma non sono possibili le profezie. Meno che mai quelle profezie collegate a visioni globali dell'andamento storico: dal passato più remoto al più lontano futuro. Simili concezioni non hanno nulla di scientifico, e non sono, in fondo, neppure delle metafisiche della storia. Si tratta di
miti, a volte neppure di buoni miti.
In secondo luogo, e si tratta della obiezione più importante, non è eticamente ammissibile che una generazione abbia più diritti di un'altra. Una cosa è constatare che il corso della storia ha favorito certe generazioni a danno di altre, cosa del tutto diversa considerare “giusta” e “morale” una cosa simile. Anche ammettendo, e la cosa è semplicemente falsa, che i massacri di contadini messi in atto da Stalin “servissero” alla felicità di chi venne dopo di loro, non c'è alcun modo per considerare “giusti” tali massacri. Perché chi è nato nel 1960 avrebbe diritto ad una felicità pagata col sangue di chi è nato nel 1910? Come ricorda spesso Popper, nessuna generazione ha diritti particolari, nessuna può venire sacrificata al benessere dei posteri. Oltre ad essere scientificamente risibile la concezione di una storia a soggetto è moralmente repellente.
 


L'uomo fuori da se stesso.

L'alienazione è il momento della negatività, dell'essere di un ente fuori da se stesso. Nella dialettica hegeliana la natura è idea nella forma dell'altro da se. Nella storia il momento della alienazione segna la separazione fra uomo ed essenza umana. L'uomo alienato è un uomo che ha perso la sua umanità, privo di essenza umana è un
non uomo. Per capire questi concetti alquanto esoterici è bene non cadere in un errore. L'uomo alienato non è un uomo oppresso, imprigionato, reso schiavo. Un uomo a cui sia impedito sviluppare le sue migliori doti. Uno schiavo non è un non uomo, lo schiavismo non trasforma chi è costretto a subirlo in un ente negativo. Lo schiavo è un uomo in catene, un ente positivo il cui sviluppo viene impedito da chi lo tiene in schiavitù. Hegel e Marx non studiano le relazioni fra enti positivi, ma pretendono di esporre uno sviluppo in cui il momento della limitazione corrisponde all'uscita di un ente da se stesso.
Alienandosi l'uomo
cessa di essere tale, perde la sua essenza, diventa cosa. E la sua essenza alienata vive di vita propria, estranea e contrapposta a lui.
Per Marx i prodotti del lavoro umano non sono, appunto, prodotti, cose che servono all'uomo per soddisfare determinati bisogni. No, sono essenza umana nella forma di prodotto. Fino a che l'uomo in forma associata può decidere quanto e cosa produrre e a beneficio di chi, e per soddisfare quali bisogni, esiste legame fra l'uomo e la sua essenza in forma di cosa, non si ha alienazione. Ma quando, nella società di mercato, a decidere quanto, cosa, e a beneficio di chi si deve produrre è il gioco della domanda e dell'offerta l'uomo si separa dalla sua essenza, questa assume la forma di merce e vive di vita propria. L'uomo è fuori di se stesso, la sua esistenza si contrappone alla sua essenza che gli si è resa estranea.
"Gli economisti", afferma Marx nei
Manoscritti economico filosofici “riducono la proprietà privata nella sua forma attiva al soggetto, e quindi riducono l'uomo all'essenza (della proprietà privata) e insieme riducono a questa essenza l'uomo privato della sua essenza, la contraddizione della realtà corrisponde pienamente all'essenza contraddittoria che essi hanno conosciuto come principio” (2)
Gli economisti parlano dei fattori della produzione, delle loro relazioni e remunerazioni: salari, rendite e profitti e studiano come dalla combinazione di questi fattori possa scaturire la ricchezza sociale. Marx non cerca di mostrare quelli che a suo parere possono essere gli errori e le manchevolezze scientifiche di simili concezioni. Le considera semplicemente espressione della contraddittorietà della realtà sociale. Gli economisti danno forma teorica alla alienazione in atto nelle società di mercato ed in questo modo le stesse loro idee sono espressione di tale alienazione. L'uomo è ridotto ad “essenza della proprietà” ed in questo modo diventa un essere privo della
sua essenza, un mero negativo.

Qualcuno ha sostenuto che gli svolazzi hegeliani dei “
manoscritti” sono solo una civetteria filosofica del giovane Marx, superata nelle opere del Marx maturo. In effetti il Marx maturo mette in secondo piano la dialettica, si dedica allo studio rigoroso dell'economia politica. Smith e Ricardo sostituiscono Hegel nel ruolo di suoi interlocutori privilegiati e questo lo spinge a misurarsi seriamente con quella cosa molto volgare che sono i dati dell'esperienza sensibile. Tuttavia sarebbe scorretto ritenere che l'opera del Marx maturo “superi” la dialettica hegeliana, e con questa la teoria della alienazione. La dialettica è al contrario ben presente nientemeno che nel “Capitale”. La dialettica, e con questa il concetto di alienazione, stanno alla base della teoria marxiana del valore (il valore come lavoro cristallizzato, essenza umana in forma di cosa); affiora continuamente nella analisi marxiana delle forme fenomeniche della merce: merce come valor d'uso e valore di scambio, merce in forma di relativo e di equivalente, denaro come “equivalente universale”. Soprattutto, la tematica della dialettica e della alienazione appare con evidenza cristallina nel celeberrimo paragrafo del primo libro del “Capitale” dedicato al “feticismo della merce”.
Gli esseri umani lavorano all'interno di determinate relazioni sociali: il sarto scambia il prodotto del suo lavoro con quello del calzolaio perché esiste una certa divisione sociale del lavoro al cui interno operano sia il sarto che il calzolaio. Ma cosa sono in realtà i prodotti del lavoro di sarto e calzolaio? Ricordiamoci che le merci sono per Marx lavoro umano oggettivato e che il lavoro altro non è che essenza umana: abiti e scarpe sono oggettivazione di essenza umana, essenza umana in forma di cosa. Una volta immessa sul mercato questa essenza inizia però a vivere di vita propria. Si contrappone all'uomo di cui è essenza.
“l'uguaglianza dei lavori umani prende la forma reale dell'uguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza lavorativa umana prende tramite la sua durata nel tempo la forma della grandezza di valore di prodotti del lavoro, infine i rapporti fra i produttori, nei quali si affermano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, prendono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro” (3).
Il lavoro si cristallizza, diventa pura quantità. Le merci, oggettivazione di questo lavoro, si relazionano sul mercato le une alle altre come se fossero soggetti autonomi. Non è più l'uomo a decidere socialmente della produzione, questa è “decisa” sul mercato dalle merci resesi autonome dai loro produttori.
“Il segreto della forma di una merce” afferma Marx,”sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l'immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose e perciò ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale fra oggetti che esista al di fuori di loro. I prodotti del lavoro tramite questo quid pro quo, diventano merci, cose sensibilmente soprasensibili, ossia cose sociali” (4).
Le merci sono
cose sociali. Il rapporto fra le persone sarto e calzolaio diventa un rapporto fra abiti e scarpe. E non si tratta, si badi bene, di una semplice apparenza. Nella società di mercato le merci vivono realmente di vita propria e realmente gli esseri umani sono ridotti a cose: “Le relazioni sociali si manifestano per quello che sono: ossia non come rapporti direttamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti di cose tra persone e come rapporti sociali fra cose” (5)
Val la pena di sottolinearlo: gli uomini sono ridotti a cose non perché incatenati, ridotti in condizioni di abbruttente miseria, sottoposti a violenze e vessazioni. Tutto questo accade nella società capitalistica, ne costituisce anzi, per Marx, il carattere distintivo. Ma non è questa la radice essenziale della alienazione. Nella società di mercato l'uomo è alienato perché la società di mercato è una
realtà rovesciata, una realtà in cui i prodotti del lavoro sociale vivono di vita propria, separati dalle aspirazioni e dalle decisioni dei produttori. In questa realtà rovesciata l'uomo diventa mera appendice della cosa, anzi, diventa cosa egli stesso. E, attenzione, questa alienazione non riguarda solo la classe operaia, riguarda tutti gli attori della società capitalistica. Il borghese è alienato esattamente come alienato è l'operaio. L'operaio è solo lavoro, lavoro vivo che si oggettiva nella merce valorizzandola ma il capitalista, dal canto suo, “è soltanto capitale personificato. La sua anima è soltanto l'anima del capitale. Ma il capitale ha soltanto un unico istinto vitale, l'istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e che vive quanto più ne succhia” (6). L'operaio è solo personificazione del lavoro vivo che si materializza nelle merci, il capitalista del lavoro morto, del capitale inteso come valore che si autovalorizza indefinitamente. Entrambi non sono esseri umani autentici, sono non uomini che hanno fuori di se la loro umanità. Differenza essenziale fra loro è che l'operaio sente sulla sua pelle la drammatica sofferenza di questa situazione, il capitalista invece ne gode e vorrebbe eternizzarla. Entrambi alienati hanno reazioni del tutto opposte di fronte alla alienazione. Per questo è alla classe operaia che spetta il compito storico di rovesciare la realtà rovesciata, superare la alienazione.

Simili concezioni hanno avuto, ed ancora hanno per qualcuno, un certo valore emotivo, ma hanno anche un reale valore conoscitivo? Per Marx le merci si rendono autonome dai produttori e vivono sul mercato di vita propria, diventano
cose sociali. Cosa significa questo con precisione? Vediamo.
Io sono calzolaio, le scarpe che ho prodotto vengono vendute sul mercato a persone che non ho mai conosciuto. Nel contempo acquisto, sempre sul mercato, un abito prodotto da un sarto a me del tutto ignoto. Il rapporto di scambio fra scarpe ed abito sarà determinato dalla domanda e dall'offerta degli stessi. Se molte persone vogliono abiti e questi sono relativamente scarsi e se, nel contempo, poche persone vogliono scarpe e queste sono relativamente abbondanti il valore degli abiti rispetto a quello delle scarpe salirà. Prima per avere un abito bastavano tre paia di scarpe, ora ne occorreranno quattro ( per non allungare il discorso tralascio il fondamentale momento monetario). Tutto questo significa che scarpe ed abiti si sono resi autonomi dagli esseri umani? Che si relazionano fra loro come cose sociali mentre sarti e calzolai sono ridotti al rango di non – uomini, mere cose?
NO, non significa questo. Il valore degli abiti sale rispetto a quello delle scarpe per il semplicissimo motivo che un certo numero di esseri umani desidera gli abiti più delle scarpe, ritiene che il bisogno di indossare abiti abbia maggiore importanza, o urgenza, rispetto a quello di indossare scarpe. Le merci si scambiano in base a determinati rapporti quantitativi, ma dietro a quei rapporti ci sono i gusti, le esigenze, le aspirazioni degli esseri umani. Il rapporto di scambio fra le merci altro non è che relazione fra i loro valori d'uso. Scambio scarpe con abiti perché ho scarpe a sufficienza ed ho invece bisogno di abiti. Accetto di pagare un certo prezzo per le scarpe perché considero accettabile privarmi di una certa quantità di beni (o di denaro, il che in ultima analisi è lo stesso) pur di godere della utilità che le scarpe sono in grado di assicurarmi. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la “essenza umana cristallizzata”, le “cose sociali” o i “rapporti cosali fra uomini e sociali fra cose”. Scarpe ed abiti, libri e bistecche, sedie e tavoli, strumenti musicali e farmaci non sono “essenza umana cristallizzata”, sono prodotti del lavoro umano, oggetti, cose che l'uomo costruisce per soddisfare sue determinate esigenze e che si scambiano in base al valore relativo che produttori e consumatori attribuiscono ad ognuno di questi prodotti. Si potrà discutere sulla efficienza o inefficienza di una società fondata sullo scambio, sulla sua capacità di soddisfare davvero il maggior numero possibile di umane esigenze, o sulla sua maggiore o minore adeguatezza agli imperativi dell'etica, ma tutto questo non ha nulla a che vedere con la alienazione. Davvero si può pensare che una economia di mercato segni la “alienazione dell'uomo da se stesso” mentre una economia pianificata rappresenti il “ritorno a se” degli esseri umani? L'uomo che sceglie carne e pesce, frutta e verdura ai banchi del mercato sarebbe un non - uomo mentre il poveretto che riceve, dopo ore di coda, la tessera annonaria da un oscuro burocrate e grazie a quella può avere certe quantità di viveri sarebbe l'uomo conciliato con se stesso. Tutto questo è semplicemente mitologia, pessima mitologia, mitologia ideologica. 


Contraddizioni e pericoli

La teoria della alienazione, almeno in Hegel, cerca di rispondere ad una domanda vecchia come il mondo, comune alle speculazioni dei filosofi ed alla fede dei credenti. Come, quando, perché è sorto il mondo? Quella che nella rivelazione cristiana è la creazione diventa nella filosofia di Hegel la alienazione. La creazione intesa come atto volontario di un Dio persona diventa in Hegel l'uscita dell'idea da se stessa, la sua mutazione dialettica nell'essere altro da se. In Marx questo aspetto della teoria della alienazione si eclissa fino a scomparire. La alienazione rientra per intero nella storia, nasce e viene superata dentro il divenire storico degli esseri umani. Resta in Marx la visione escatologica della storia che lega la teoria della alienazione alla profezia di una radicale trasfigurazione degli esseri umani. L'uomo esce da se ma rientra in se al termine del corso storico. Rientra in se quale essere completamente rigenerato, privo di ogni egoismo, di qualsiasi tipo di spirito prevaricatore. Al termine di un dramma che vede l'uomo vagare privo della sua essenza l'uomo riacquista la propria essenza umana, ma, riacquistandola, va, di nuovo, oltre se stesso, si trasforma in un angelo, o in un semidio.

Come tutte le concezioni ideologiche, o mitico ideologiche, anche la teoria della alienazione è un autentico groviglio di contraddizioni. Ed è, soprattutto, densa di pericoli.
La alienazione rappresenta, lo si è già visto, una fase del processo storico. Fase necessaria, destinata però ad essere superata dalla successiva riunificazione dell'uomo con se stesso. Uscito da se l'uomo torna a se, recupera la sua essenza umana dopo averla perduta. Ma come può un ente che è fuori di se, un ente alienato, desiderare il superamento della sua condizione alienata? L'uomo alienato
non è, val la pena di ripeterlo, un uomo oppresso, tenuto in catene, impossibilitato a sviluppare quanto di meglio c'è in lui. Un uomo tenuto prigioniero può desiderare e desidera liberarsi dalle sue catene appunto perché queste lo opprimono in quanto uomo. Ci si può ribellare contro qualcosa quando questo qualcosa opprime e limita ciò che siamo. Un uomo che vive in un abbruttente miseria desidera un certo livello di benessere, lo schiavo vuole essere libero, ognuno pretende il rispetto dei sui simili. Ma si può desiderare il benessere, la libertà, il rispetto, proprio in quanto si è uomini. La propria umanità è il presupposto della lotta per la propria emancipazione. Ma l'uomo alienato non è propriamente un uomo, un ente positivo che desidera realizzare appieno la sua positività. E' un non uomo, un ente negativo che, appunto perché tale, ha desideri, aspirazioni, bisogni che appartengono per intero al suo essere negativo. I desideri, i bisogni, le aspirazioni di un ente negativo, alienato, non possono essere che il riflesso della sua alienazione, non possono contenere alcun anelito alla liberazione. Se desidero recuperare la mia essenza vuol dire che in realtà non la ho davvero persa, che almeno qualcosa, qualcosa di importante, di questa è rimasto in me. Vuol dire che sono oppresso, non alienato. Se invece ho perduto ciò che fa di me un uomo non potrò mai aspirare a tornare ad esser tale. Pensare che un uomo alienato, un ente che è fuori di se, possa aspirare alla sua umanità è un po' come pretendere che un cane abbia l'aspirazione a frequentare l'università.

A ben vedere le cose la contraddizione che stiamo esaminando è la stessa che attraversa un po' tutta la concezione marxiana del corso storico e della sua “inevitabile” conclusione liberatoria.
Marx nega l'esistenza di una natura umana extra storica. L'uomo è il prodotto ella storia e, nella storia, del suo momento socio economico. Certo, Marx afferma nella “
Ideologia tedesca” che “le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”, ma subito dopo aggiunge: “Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo ed ogni generazione trova come qualcosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come “sostanza” ed “essenza dell'uomo”, di ciò che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto che questi filosofi (…) si ribellano ad essa”. (7)
Gli uomini contribuiscono a fare le circostanze, ma il loro contributo si fonda su una base reale, su una somma di forze produttive e relazioni sociali, che ne determina in ultima analisi la natura e la portata. Non esiste una natura umana che si relaziona in determinate circostanze al quadro socio economico che gli uomini stessi hanno costruito. La base sociale non è minimamente disturbata, ricorda ironicamente Marx dalle idee dei filosofi (ma anche Marx è un filosofo...). Il rapporto uomo struttura socio economica è in realtà il rapporto di questa struttura con se stessa perché l'uomo ne è, in ultima istanza, il prodotto.
Meno che mai è possibile ipotizzare un contrasto reale, una interazione effettiva fra quadro socio economico e quel particolare prodotto della natura umana che sono le
idee. Lo abbiamo visto: per Marx le idee dei filosofi non disturbano la base socio economica, anzi:
“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca storica le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza
materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti presi come idee...” (8).
Le idee altro non sono che l'espressione dei rapporti sociali dominati presi come idee
. Ogni rapporto fra idee e mondo, idee e valore di verità, coerenza logica, capacità esplicativa scompare. Le idee sono espressione della società classista e strumento di chi in questa società occupa la posizione dominate. C'è da chiedersi: quale sarà allora lo status delle idee di Karl Marx? Quale il loro valore di verità, la loro coerenza, la loro capacità esplicativa? La riduzione delle idee a mero riflesso del quadro socio economico o, peggio, strumento delle classi dominati, cade inevitabilmente in inesorabili aporie.
Ma, al di la e prima di tutte le aporie, resta irrisolto in questa concezione il problema che abbiamo già visto: come è possibile la liberazione dell'uomo se questo altro non è che il prodotto di un certo sviluppo storico? Perché il proletario dovrebbe volere il comunismo se la sua stessa natura è forgiata dal capitale? Quale idea di liberazione dal dominio di classe è mai possibile se le idee sono l'espressione teorica degli interessi delle classi dominanti? Delle due l'una: o la rivoluzione proletaria è mero esplodere di istinti puramente animali, belluini, non illuminati da alcuna teoria, e non si vede come in questa ipotesi, esplicitamente negata da Marx, dalla rivoluzione possa sorgere un mondo migliore, oppure le idee sono condizione indispensabile della rivoluzione, e in questo caso non si capisce come sia possibile una teoria rivoluzionaria, e meno ancora come questa possa conquistare esseri umani ridotti a mero “momento” del divenire storico, anzi, meri momenti “
alienati” dello stesso. La riduzione dell'uomo alla storia rende inesplicabile proprio la storia. Si neghi la autonomia, parziale ovviamente, limitata, ma tutto nel mondo è limitato e parziale, si neghi, dicevo, questa autonomia della natura umana ed in questa del suo prodotto peculiare: il pensiero e le idee, e proprio la storia, proprio lo sviluppo, l'evoluzione o la involuzione socio economia degli uomini diventano un mistero insolubile.

Questa contraddizione del pensiero marxista è rimasta a lungo nascosta, e non ha avuto evidenti conseguenze pratiche per due motivi. Il primo è di natura teorica e consiste nella confusione fra alienazione, o, il che è quasi lo stesso, riduzione dell'uomo a “momento” dello sviluppo socio economico da una parte ed oppressione dall'altra. Il concetto di oppressione rimanda alla concezione di una natura umana oppressa: di un ente positivo colpito ed umiliato nella sua positività. La riduzione dell'uomo a momento “alienato” del movimento socio economico della storia nega invece, o nella migliore delle ipotesi riduce drasticamente, l'importanza di tale autonomia. La confusione fra questi due concetti ha celato a lungo la contraddizione insita nel secondo.
Il secondo è di natura pratica. Fino a quando il soggetto rivoluzionario (o presunto tale) doveva vivere in condizioni di estrema miseria ed oppressione, fino a quando era privo di alcuni elementari diritti, a partire da quello di voto, costretto ad un lavoro opprimente, sottopagato, la distinzione fra alienazione ed oppressione poteva interessare al massimo i filosofi. La classe operaia era alienata perché oppressa: l'operaio era ridotto a non uomo nel senso che non erano umane le sue condizioni di vita e di lavoro. E proprio per questo l'operaio si ribellava. Scioperava, chiedeva più salario, meno orario, migliori condizioni di lavoro, diritti civili e politici, riforme sociali. Marx non dubitava che tutto questo avrebbe portato ad una rivoluzione sociale comunista. A questo punto le contraddizioni della sua dottrina sarebbero state risolte dalla storia e sarebbero diventate una mera curiosità filosofica.
Le cose però sono andate diversamente da come Marx ed i suoi seguaci avevano previsto. La classe operaia, grazie anche alle sue lotte, è riuscita gradualmente ad ottenere buone condizioni di vita e lavoro senza che questo scardinasse i meccanismi del “sistema”. I ceti intermedi non sono scomparsi, al contrario, invece della loro prevista proletarizzazione si è avuto l'imborghesimento di una parte consistente della classe operaia. Riforme soprattutto nel campo della sanità e della previdenza hanno difeso gli strati meno abbienti dalle inevitabili turbolenze del mercato. E, come risultato di tutto questo, qualcosa che fuoriusciva del tutto dagli schemi marxiani:  la classe rivoluzionaria, considerata la negazione vivente del sistema capitalistico, ha dimostrato di non essere affatto intenzionata a fuoriuscire dallo stesso. Certo, nel corso della storia dell'ultimo secolo ci sono stati momenti di forte tensione sociale. Nei paesi ad alto sviluppo industriale questi non sono però mai sfociati in movimenti rivoluzionari di massa. Gli operai, quelli veri, hanno dimostrato di volere riforme, buone condizioni di lavoro, salari adeguati; il superamento della alienazione e la società perfettamente armonica li hanno lasciati ai filosofi.

Proprio a questo punto si è evidenziata tutta la pericolosità della teoria della alienazione. I presunti “soggetti rivoluzionari” rifiutavano di esser tali. La classe operaia affermava di voler difendere i propri interessi nell'ambito del sistema democratico parlamentare, era e dichiarava di essere una forza sociale fra le altre, non la negazione dialettica del capitalismo. Che atteggiamento assumere di fronte ad un fatto tanto sconvolgente?
Si sa come sono andate le cose. La parte maggioritaria della socialdemocrazia è giunta, al termine di un faticoso percorso, a mettere in soffitta Marx. Le componenti rivoluzionarie del marxismo invece non si sono rassegnate. E la teoria della alienazione ha fornito loro ottime armi teoriche per non rassegnarsi.
E' vero, gli operai non sono rivoluzionari, ma gli operai sono, come i borghesi, esseri umani alienati, enti negativi. Nella sua
essenza l'operaio è rivoluzionario, ma in quanto uomo alienato l'operaio vive al di fuori della sua essenza. In lui essenza ed esistenza sono divise e contrapposte: cosa privilegiare, l'essenza rivoluzionaria o l'esistenza riformista, subordinata al capitale?
L'interesse
vero dell'operaio è la rivoluzione, ma in quanto uomo alienato l'operaio accetta e fa propria l'ideologia borghese. Questa gli è instillata dai leader riformisti del movimento socialista, dai media in mano al nemico di classe, dalle idee dominanti che sono sempre le idee della classe dominante. Possono i rivoluzionari accettare il punto di vista medio della classe di cui difendono gli interessi? Farlo vorrebbe dire accettare puramente e semplicemente le idee della classe dominante, cessare di essere rivoluzionari.
Lenin contrappone il partito portatore della coscienza proletaria autentica alla coscienza alienata maggioritaria nel movimento operaio. E contrappone la “scienza sociale” di cui il partito è custode all'andamento reale della società. La società non si semplifica, i ceti intermedi non scompaiono, i contadini si dimostrano attaccati alla piccola proprietà; tutto questo rende inattuale la rivoluzione... non fa niente il partito saprà sfruttare l'occasione buona ed
imporre alla società il suo programma rivoluzionario. Invece di essere lo sbocco finale del movimento sociale la rivoluzione sarà imposta alla società, ma in questo non c'è nulla di male, nulla di sbagliato: si tratta di una società alienata che deve essere superata.
Il movimento del '68 doveva estremizzare in maniera parossistica queste concezioni. La classe operaia è integrata, l'evoluzione sociale rispecchia molto poco le previsioni marxiane, “quindi” occorre contrapporsi globalmente alla società. Viviamo in un mondo alienato, popolato da fantasmi esangui con bisogni, desideri, gusti, pulsioni, aspirazioni non umane. Crolli allora globalmente questo mondo. I teorici della contestazione globale, unici non alienati fra gli esseri umani, si contrappongono frontalmente al mondo rovesciato. Gli uomini del mondo reale non meritano alcun rispetto, tutta la loro vita è segnata dalla alienazione, nulla in loro si salva. Sono non umani quando lavorano come quando vanno a fare la spesa, quando leggono come quando hanno rapporti sessuali, quando votano come quando mangiano. Alla alienazione globale si contrappone l'ideologia della contestazione globale, la pretesa totalitaria di giudicare e condannare gli stili di vita di tutti, e cercare di imporre a tutti un nuovo, “liberatorio” stile di vita. Non a caso l'idolo dei contestatori sessantottini sarà il Mao della rivoluzione culturale.

Apparentemente la teoria della alienazione è molto liberatoria: l'uomo fuori da se deve recuperare la sua umanità, tornare ad essere davvero uomo. Ma si tratta di un abbaglio legato alla confusione, di cui si è già parlato, fra alienazione ed oppressione. Si può provar simpatia, sentirsi solidali, partecipare alle lotte di un uomo oppresso. Lo si può fare perché lo si considera, e lo si sente, uno di noi, un nostro simile. In nome di questa vicinanza si detestano le catene che lo opprimono.
Nulla di simile però può succedere con un uomo alienato. L'uomo alienato non è, propriamente, un uomo, è un non - uomo, un ente negativo con cui chi alienato non è non condivide nulla. La simpatia verso l'uomo alienato non si basa sulla condivisione di una comune natura umana. No, si basa sul giudizio intorno al
destino di chi subisce la alienazione. L'uomo alienato supererà la alienazione e, superandola, aprirà all'umanità le chiavi del regno, darà vita alla società perfetta. In quanto tale l'uomo alienato non merita alcun rispetto e considerazione. A meritare considerazione e rispetto è il fine verso cui la sua esistenza alienata si pensa lo spinga. La alienazione è un momento necessario dello sviluppo storico che sarà superato nella società perfetta che attende il genere umano. Per questo coloro che credono nella società perfetta, gli intellettuali rivoluzionari, condividono le lotte, sostengono gli obiettivi dell'uomo alienato. Non appena però quest'uomo negativo si comporta in modo diverso da quanto previsto dagli intellettuali rivoluzionari questi dimostrano nei suoi confronti un incredibile disprezzo. Quando gli operai russi cominceranno ad agire diversamente da quanto stabilivano i loro “liberatori” bolscevichi questi non esiteranno ad imporre loro una spietata disciplina sul lavoro. I contestatori sessantottini riempivano di insulti i lavoratori “integrati”, quindi (QUINDI!) “alienati” che desideravano solo l'utilitaria, ferie pagate e salari decenti. Gli pseudo intellettuali di sinistra dei nostri giorni definiscono sprezzantemente “analfabeti funzionali” i tanti lavoratori convinti che esista un nesso ben preciso fra immigrazione clandestina ed aumento di criminalità ed insicurezza.
Gli intellettuali raffinati non amano gli esseri umani (a loro parere) alienati, amano ciò che questi dovrebbero, sempre a loro parere, diventare. E se le cose non seguono le loro previsioni il loro disprezzo nei confronti degli “alienati” emerge in tutta la sua ampiezza.
Non c'è, non può esserci
nulla, ma proprio nulla, di liberatorio nella teoria della alienazione perché un uomo fuori di se, un ente negativo, non può essere oggetto di amore, rispetto e, meno che mai, di liberazione. Io lotto per liberare me stesso quando contrappongo l'esigenza di libertà per il mio essere positivo alle catene che lo opprimono. Ma l'alienato non può contrapporre il suo essere positivo alle catene che lo opprimono perché non è un essere positivo, è un uomo privo di essenza umana. L'alienato si “libera” diventando qualcosa di essenzialmente diverso da ciò che è: era non uomo diventa uomo, non libera la sua natura, la trasfigura. I teorici della alienazione vogliono trasfigurare, non liberare l'uomo. L'unica “liberazione” a cui mirano davvero è quella della loro immensa boria intellettuale.





NOTE

1) K. Marx: prefazione a “per la critica dell'economia politica”. Editori Riuniti 1969 pag. 5 – 6.
2) K. Marx. Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 103.
3) K. Marx: Il capitale. Avanzini e Torraca 1965 pag. 69.
4) Ibidem pag. 69
5) Ibidem pag 70. Sottolineatura di Marx.
6) Marx “Il capitale”, citato in Leszek Kolakowski: Nascita sviluppo e dissoluzione del marxismo. Sugar 1976 pag.304 - 305 Sottolineature. Mie.
7) K Marx: L'ideologia tedesca. Editori Riuniti 1972 pag. 30.
8) Ibidem pag. 35 36 sottolineature di Marx.

domenica 23 settembre 2018

ALIENAZIONE. PRIMA PARTE. HEGEL


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La dialettica nel finito


Per comprendere a fondo il concetto di alienazione in Hegel è bene partire dalla sua dialettica finito - infinito.
Hegel parte dal concetto di limite. Ogni ente finito è limitato da qualcosa e nel contempo limita qualcosa che è altro da lui.
“Qualcosa, dunque, è un immediato esserci riferentesi a se stesso, ed ha il suo limite anzitutto come contro l'altro. Cotesto limite è il non essere dell'altro, non del qualcosa stesso; il qualcosa limita in esso il suo altro. Ma l'altro è esso stesso in generale qualcosa. Dunque il limite, che il qualcosa ha contro l'altro, è anche limite dell'altro come qualcosa, è il suo limite con cui esso tiene lungi da se il primo qualcosa come suo altro, ossia è un non essere di quel qualcosa. Così il limite non è soltanto non essere dell'altro, ma anche non essere così dell'uno come dell'altro qualcosa, epperò del qualcosa in generale” (1)
Nel linguaggio contorto di questa brano si intravede subito il succo del metodo hegeliano. Hegel parte da concetti molto semplici, addirittura banali. Ogni ente limita ed è limitato da altri enti, il campo A limita il campo B ad esso confinante ed è nel contempo da esso limitato. Sin qui il discorso è comprensibilissimo, non contrasta col senso comune.
Hegel però identifica gli enti reali e gli enti logici e questo lo porta distante anni luce dalla comprensibilità del senso comune, ed anche dalla scienza autentica.
Come non si è mai stancato di ricordare un importante filosofo italiano, Lucio Colletti, nel mondo reale non esistono enti negativi. Il freddo è reale e è positivo come il caldo, i debiti non sono crediti negativi ma qualcosa di reale e positivo come questi. Il negativo esiste nel pensiero, nella logica. Di Tizio il pensiero può affermare e negare qualcosa, dire e contraddire. Tizio è un uomo e non è un cane. Affermazione e negazione contribuiscono, insieme, alla determinazione di un ente. Questo, va da se, non porta in alcun modo alla negazione del principio di non contraddizione. Il pensiero non può infatti, pena la caduta nell'assurdo, affermare e negare la stessa cosa di un ente nel contempo e dallo steso punto di vista. E' corretto dire che Tizio è un uomo e non è un cane, ma sarebbe assurdo, ce lo ricorda Aristotele, dire che Tizio è e non è un uomo, o un cane.
L'affermare ed il negare, il dire ed il contraddire, si riferiscono ad enti extralogici, gli estremi della relazione logica. Ma Hegel, lo si è già detto, rifiuta questa estrinsecità della logica rispetto al mondo, trasforma in positivi e negativi logici gli enti che la logica relaziona con affermazioni e negazioni. In questo modo il fatto che alla determinazione di un ente contribuiscano sia le affermazioni che le negazioni diventa unità di positivo e negativo, loro fusione dialettica.
Tornando all'esempio dei campi confinanti, il fatto che il campo A limiti il campo B trasforma il campo A in unità di essere e non essere. A è se stesso ma nel suo limitare non è B. B a sua volta è se stesso ma non è A. Entrambi quindi sono e non sono contemporaneamente e il loro limite è nel contempo il loro essere (perché il limite determina il qualcosa) ed il loro non essere (perché limitando il qualcosa il limite è il suo non essere).
“Il qualcosa è dunque (…) il limite contro un altro qualcosa. Se non che il qualcosa ha il limite in lui stesso ed è qualcosa per la mediazione di quello, che è insieme anche il suo non essere. Il limite è la mediazione, per cui qualcosa ed altro, tanto è quanto non è” (2)
Il campo A limita il campo B e viceversa. A con la sua forma limita B e B con la sua limita A. Ognuno è se stesso e non è l'altro. Per la normale logica fondata sul principio di non contraddizione e sulla differenza fra relazione logica ed enti relazionati tutto questo non crea particolari problemi. Ma Hegel rifiuta questo tipo di logica. I campi A e B per lui sono diventati, insieme, degli enti determinati e dei positivi e  negativi logici. Così dal fatto che A sia se stesso e non B discende che è insieme un positivo ed un negativo; limitando B diventa essere e non essere, ma NON essere A e non B (questa è normale logica formale, relazionale) diventa unità dialettica di A e B, essere e non essere insieme. Lo stesso avviene di B. A e B si richiamano e si respingono a vicenda, sono nello stesso tempo separati ed uniti, essere e non essere l'uno l'altro e l'altro l'uno. Ognuno si definisce e si determina tramite il rimando al suo altro. A si definisce in B e B in A, ma A è non - B e B non – A. Definendosi in B, A si definisce in non -A, e lo stesso può dirsi di B. Ognuno quindi è se stesso e il suo negativo, sintesi dialettica di se ed altro da se. E il loro limite, quello che concorre a determinarli in quanto enti positivi è nel contempo l'essere ed il non essere di entrambi. Come si vede ad andare in pezzi in questo slalom è il principio di non contraddizione.

Il discorso diventa più chiaro se affrontiamo le considerazioni di Hegel sugli elementi base dello spazio euclideo.
Punto, linea e solido appaiono per quello che sono solo fuori dai loro limiti, afferma Hegel.
“La linea appare qual linea soltanto fuori dal suo limite, fuori dal punto; la superficie come superficie fuori dalla linea; il solido come solido soltanto fuori dalla superficie sua, che lo limita” (3)
Per vedere qualcosa di spazialmente esteso devo pormi fuori dal suo limite, questo è ovvio. Se resto confinato nel punto non posso vedere la linea, nella linea non posso vedere il piano e dentro il solido non mi è dato di vedere la sua figura nello spazio esterno. Il punto però non è solo il limite della linea, ma anche il suo “cominciamento”, nel senso che un punto che si muove forma la linea. E la linea non è solo il limite della superficie, né la superficie è solo il limite del solido. La linea muovendosi forma la superficie e questa, muovendosi, forma il solido. Punto, linea e superficie sono quindi limite e fondamento dell'altro da se. Il punto limita la linea ma nel contempo la crea, e lo stesso si può dire della linea nei confronti della superficie e della superficie nei confronti del solido. Fino a questo punto chi usa la logica formale non ha nulla da obiettare. Un punto fermo è il limite della linea mentre un punto in movimento crea la stessa. Ed il medesimo discorso si può fare per linea e superficie. Ma qui iniziano le acrobazie dialettiche di Hegel. Il fatto che il punto sia nel contempo limite ed elemento costitutivo della linea e che si possa vedere il punto solo ponendosi oltre esso, sulla linea, viene interpretato da Hegel come tendenza del punto ad andare oltre se stesso, a mutarsi nel suo negativo.
“Così il punto è questa sua propria dialettica consistente nel farsi linea, la linea la dialettica del farsi superficie, la superficie quella di farsi spazio totale” (4).
Linea e punto possono vedersi solo da fuori di se stessi, dice Hegel, a ragione, ma questo non dimostra altro che l'uomo può conoscere qualcosa solo se si rapporta dal di fuori a questo qualcosa, lo osserva da un certo punto di vista assunto come dato. Hegel rifiuta un simile approccio “estrinseco” alla conoscenza. La linea deve scaturire dal punto, la superficie dalla linea ed il solido dalla superficie e questo “scaturire” fa del punto unità di essere e non essere una linea, della linea unità di essere e non essere di una superficie, e della superficie unità di essere e non essere di un solido. Punto, linea, superficie e solido trapassano continuamente uno nell'altro per il solo fatto che muovendosi ognuno genera l'altro e che ognuno può essere conosciuto da un soggetto solo se questo si pone al loro esterno, in uno spazio tridimensionale dato.
Posso immaginare un punto che si muove e forma una linea, ma questo non mi porta ad eguagliare o ad “unificare dialetticamente” in alcun modo linea e punto né a stabilire che un punto debba necessariamente essere in movimento. A livello teorico posso solo dire che se un punto si muove forma una linea. Così facendo però io pongo, di nuovo, la separazione fra soggetto pensante ed ente pensato: aggiungo al concetto di punto quello di movimento. Per Hegel invece il movimento del punto deve scaturire necessariamente dal suo concetto, non deve essere una “aggiunta estrinseca” dell'intelletto. Il fatto che un punto si muova formando una linea deriva, per Hegel, dal concetto di punto e questo fa si che punto e linea coincidano ed insieme, non coincidano. In questo modo scompare, è vero, ogni “estrinsecità", ma scompare anche ogni possibilità di attribuire un senso alle parole perché i concetti di linea e di punto significano qualcosa solo se uno non trapassa nell'altro, è se stesso e non l'altro.
Meno che mai una simile necessità di passaggio fra punto, linea, superficie e solido è in qualsiasi modo concepibile nello spazio empirico. Io posso dire che Genova ha certe coordinate, che dista tot chilometri da Roma e che ha una certa estensione e nulla fa si che le coordinate “trapassino” nella distanza e questa nella superficie. Posso capire qualcosa sulle coordinate di Genova se la parola “coordinate” ha e non ha nel contempo lo stesso significato di “distanza”? E cosa posso capire della superficie di Genova se questa ha e non ha lo stesso senso di “distanza da Roma”? Non esiste alcuna necessità logica di passare dal punto alla linea e da questa alla superficie e da questa ancora al solido. La necessità logica di Hegel altro non è che un correre dietro all'”estrinseco” far muovere punto linea e superficie. Con questa rincorsa Hegel conferisce, è vero, una apparenza di necessità ai concetti geometrici, ma lo fa a prezzo di far perder loro il proprio significato. Hegel resta comprensibile, a fatica, solo perché usa il principio di non contraddizione nel momento stesso in cui lo distrugge con la sua dialettica.

Tutto il discorso di Hegel su punto linea, superficie e solido si concretizza in un punto fondamentale: il concetto di limite mira ad auto trapassarsi. Il limite spinge all'altro da se, è irrequieto, tende a superarsi. C'è qualcosa di vero in una simile affermazione: se esiste un limite c'è qualcosa oltre quel limite, gli enti limitati hanno a che fare con altri enti posti fuori ed oltre di loro.
Il discorso di Hegel ha una sua parziale validità. La ragione è includente, relazionante. Un concetto si definisce anche tramite altri concetti, questo tuttavia, lo si è già visto, non viola il principio di non contraddizione, non trasforma gli enti reali in positivi e negativi logici e non conferisce a questi la determinatezza degli enti reali. L'isola non è il mare che la circonda, anche se questo la lambisce. L'uomo non è il cane, la morte non è la vita. Solo partendo dalla positività di ogni ente la ragione può stabilire le sue relazioni con gli altri, siano queste di limitazione reciproca, di armonizzazione o di scontro.  Nessun ente empirico è il negativo dell'altro né costituisce con l'altro alcuna unità dei contrari né si definisce tramite l'altro. Due enti che si limitano a vicenda lo fanno in quanto enti positivi. l'Italia confina con la Francia ma Italia e Francia non si definiscono l'una con l'altra solo perché sono confinanti. E' vero il contrario: i loro confini hanno una certa configurazione perché Italia e Francia sono due realtà in se positive. E' stata la storia di entrambe, la loro forza e debolezza, la natura del loro territorio a determinare il tipo di confine che esiste fra loro.
Hegel invece trasforma, il relazionamento in movimento dialettico, unità dei contrari, quindi rimando continuo da un concetto all'altro, con una alternanza di significati che finisce per rendere incomprensibile il discorso, o lo renderebbe incomprensibile se Hegel non continuasse ad usare, malgrado tutto, il principio di non contraddizione. Da un lato trasforma gli enti logici in enti reali, “l'è questo” e il “non è quello” logici in ESSERE e NON ESSERE reali. Dall'altro fa diventare enti logici gli enti reali. L'isola reale, empirica, diventa momento del relazionamento logico fra i concetti di isola e mare, mentre le relazioni logiche fra i concetti di isola e mare diventano essere e non essere reali. E' evidente come, partendo da un simile procedimento, Hegel possa passare dalla tendenza ad andare oltre il limite alla unità di un ente con l'altro da se, di essere e non essere.

Ma quale è la base, il fondamento di tanti slalom dialettici? Hegel, lo ha ricordato più volte Colletti riferendosi anche a Trendelemburg, effettua un continuo un passaggio dagli enti reali agli enti logici,  e viceversa, perché profondamente convinto che il finito non sia vero essere. L'empirico, il finito deve essere assimilato all'idea perché non è vero, autentico essere. Da qui la trasformazione degli enti reali in enti logici. L'ente logico dal canto suo deve avere la determinatezza degli enti reali, non può restare una astrazione indeterminata. Da qui il passaggio contrario. Alla base di tutto resta quella che sempre il Colletti definisce la concezione negativa del finito.
“L’idealismo nella filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere al finito un vero essere” (5) Afferma Hegel e in queste poche parole è forse compreso il sunto di tutto il suo poderoso sistema. Tutto il suo discorso sul limite che si trascende lo porta precisamente a questo: il limitato è finito, ma il finito è irrequieto, tende a trascendersi, è la contraddizione in se stesso, che deve risolversi.
“Il qualcosa posto col suo limite immanente come la contraddizione di se stesso, dalla quale è indirizzato e cacciato oltre a sé è il finito” (6))

La dialettica finito – infinito.

“Le cose finite sono, ma la lor relazione a se stesse è che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a se si mandano al di là di se stesse, al di la del loro essere. Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine” (7)
Qui Hegel riprende il discorso sugli enti limitati. La loro verità sta nell'unione con l'ente che li limita, il loro negativo. L'ente limitato è ed insieme non è. Tuttavia il discorso di Hegel subisce qui una modifica interessante. Non si parla ora di enti finiti limitati da altri enti finiti, ma del finito in quanto tale, del limite che il finito incontra perché finito, indipendentemente dagli enti che lo limitano o possono limitarlo.
“Il finito non solo si muta”, afferma Hegel, “come il qualcosa in generale, ma perisce; e non già è soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l'essere delle cose finite, come tale, sta nell'avere per loro essere dentro di se il germe del perire: l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte” (8)
Il finito è caduco, perituro, temporale, suo destino è la morte. Ma può, si chiede Hegel, questo perituro esser considerato tutta la realtà?
In un primo momento il finito sembra escludere da se il suo altro, l'infinito. Si contrappone all'infinito quale finito, lo esclude.
“La caducità delle cose non potrebbe perire che nel loro altro, nell'affermativo. Così si staccherebbe dalle cose la loro finità. Ma questa finità è per lor qualità immutabile, non trapassante cioè nel suo altro, non trapassante nel suo affermativo. E così è eterna” (9)
Il finito in quanto finito non può trapassare nell'altro da se, nell'infinito, afferma la sua positività escludente. In questo modo però il finito diventa eterno, trascende se stesso. Nel suo contrapporsi all'infinito il finito si rifiuta di perire, cessa in qualche modo di essere finito. “Tutto sta a vedere”, prosegue Hegel “se la caducità persiste oppure se la caducità e il perire perisce” (10)
Un finito che si mantenga in quanto finito si eternizza, rifiuta di finire, contraddice se stesso. Ma non si tratta di una contraddizione dialettica, capace di risolversi in una più ampia unità, si tratta della pretesa di contrapporre in maniera permanente il finito all'infinito. Da un lato sta il finito e dall'altro, ad esso contrapposto, l'infinito. Dio e mondo, tempo ed eternità, finito ed infinito si spartiscono lo spazio dell'essere e stanno in eterno contrasto l'uno con l'altro. Questa contrapposizione però porta a risultati paradossali. Da un lato, lo si è visto, il finito diventa eterno, dall'altro l'infinito in qualche modo “finisce”, diventa limitato perché esclude da se il finito.
Il finito che si contrapponga in maniera esclusiva all'infinito è un finito che rifiuta di finire. L'infinito che escluda da se il finito è un infinito limitato, quindi finito. Il tendere continuo del finito all'infinito ed il continuo sfuggire di questo a quello dà vita a quello che Hegel chiama il cattivo infinito, il progresso all'infinito, di cui è espressione l'infinito matematico. Un infinito succedersi di numeri che non si conclude mai. Ma il finito, per esser davvero tale, deve finire, e trapassare nell'infinito; e l'infinito per esser davvero infinito deve comprendere in se il finito.
Il superamento della contraddizione si ha nel vero infinito, unità dialettica di finito ed infinito; l'infinito che comprende in se quale suo momento il finito.
“L'infinito”, afferma Hegel, “ha un doppio senso, di esser uno di quei due momenti (e a questo modo è cattivo infinito) e di esser l'infinito in cui quei due, l'infinito stesso ed il suo altro, non sono che momenti. La maniera dunque, come l'infinito è nel fatto è di esser il processo dov'esso si abbassa ad essere soltanto una delle sue determinazioni, di contro al finito (e con ciò ad essere, esso stesso, nient'altro che l'un dei finiti) e di togliere questa differenza di se da se stesso nell'affermazione di se e d'essere per questa mediazione come veramente infinito” (11)
Il vero infinito comprende in se il finito, è un infinito con dentro di se tutte le determinazioni, le particolarità del finito. E' il superamento del finito che si pretende eterno e dell'infinito limitato dal finito. E del loro inseguirsi che si realizza ne cattivo infinito del progresso all'infinito. “L'immagine del progresso all'infinito”, prosegue Hegel, “è la linea retta”, il vero infinito invece “Come vera infinità ripiegata in se la sua immagine diventa il circolo, la linea che ha raggiunto se stessa, che è chiusa ed interamente presente, senza punto iniziale né fine” (12).
L'infinito come totalità chiusa in se stessa, non però una totalità astratta, priva di determinazioni, totalità interamente determinata, meglio, determinata nella sua astrazione ed astratta nelle sue determinazioni. Unità dei contrari, di nuovo.

E' difficile non riconoscere la straordinaria abilità di cui Hegel fa mostra in questo stretto slalom dialettico. Ma basta una riflessione un po' approfondita per cogliere la natura sofistica delle sue argomentazioni.
Il finito che si perpetua come tale è un finito che rifiuta di finire, afferma Hegel. Questo però è un altro esempio di quella sostanzializzazione dell'astratto di cui Hegel fa continuamente mostra. Non esiste un ente che sia “il finito”. Esistono enti finiti: uomini o gatti, mari o montagne, quadri o filosofi. Sono questi che finiscono, non “il finito”. Se affermo che l'uomo è un ente finito il fatto che da millenni gli uomini continuino a nascere e morire non trasforma nessun essere umano in un “finito che si eternizza”. Se l'universo nel suo complesso durasse in eterno vorrebbe dire che l'universo in quanto totalità di enti finiti non sarebbe temporalmente finito; nella sua illimitata durata, darebbe vita e quello che Hegel chiama il cattivo infinito: l'illimitato succedersi dei giorni e dei movimenti di stelle e pianeti. Una successione di enti finiti potrebbe non avere mai fine temporale. L'infinito della serie starebbe accanto alla finitezza dei suoi membri. Il finito resterebbe finito e l'infinito infinito, senza alcun passaggio dall'uno all'altro. Esattamente il contrario del risultato delle dialettica hegeliana.

Ancora meno soddisfacente appare l'altra parte del discorso di Hegel, quella in cui si afferma che un infinito che non comprenda in se il finito sarebbe a sua volta finito, limitato dalla semplice esistenza del finito.
Esiste un infinito matematico, anzi esistono numerosi, infiniti, infiniti matematici che restano tali malgrado la presenza accanto a loro del finito e di altri infiniti. L'insieme dei numeri naturali è infinito anche se si trova a dover convivere con l'insieme dei numeri primi, o con quello dei numeri pari o dispari, pure infiniti ed anche se i matematici in carne ed ossa che studiano questi insieme nascono e periscono, come tutti gli enti finiti. Certo, ad Hegel questi infiniti non piacciono, sono esempi di “cattivo infinito”, ma non basta definire “cattiva” qualcosa per mostrarne l'inconsistenza o addirittura la impossibilità logica. Per Hegel l'infinito deve comprendere tutto per essere tale, ma questo non è affatto compreso nel concetto di infinito. Se Dio esiste fuori dal tempo e dello spazio la sua infinità non viene neppure scalfita dal fatto che esistono esseri spaziali e temporali, esattamente come l'infinità della serie dei numeri pari non è per nulla compromessa dal fatto che esista la serie infinita dei numeri dispari. D'altro canto la totalità che tutto comprende potrebbe benissimo non essere infinita. E' molto significativo a questo proposito l'esempio hegeliano del circolo come immagine della vera infinità. Il circolo, o la sfera, sono illimitati ma non infiniti. Camminando su una superficie sferica non mi imbatto mai in ostacoli che interrompano il mio cammino, ma prima o poi mi trovo nel punto da cui sono partito. L'illimitatezza di sfera e circolo convive con la loro finitezza. E, a ben vedere le cose, né il circolo né la sfera sono davvero illimitati. Il circolo è illimitato in uno spazio ad una dimensione, la sfera in uno spazio a due. La dimensione verticale pone limiti alla sfera come quella bidimensionale ne pone al cerchio. Qualsiasi ente illimitato in uno spazio ad N dimensioni diventa limitato in uno spazio a dimensioni N+1.

Ciò che Hegel chiama “infinito” andrebbe piuttosto chiamato “assoluto”. L'assoluto non solo comprende tutto ma comprende tutto da tutti i punti di vista. Nell'assoluto non esistono il “qui” ed il “la”, “l'ora” ed il “dopo”. Né esiste lo spazio monodimensionale accanto allo spazio ad N dimensioni. Esistono tutti questi spazi compenetrati l'uno nell'altro, identici e nel contempo diversi fra loro.
L'assoluto è il tutto in tutto, diceva Aristotele, ma precisamente per questo è inesprimibile, impensabile, indicibile. Hegel invece vuole l'assoluto senza l'inesprimibilità, il superamento del principio di non contraddizione ed insieme il suo mantenimento come premessa di ogni discorso sensato, ma è proprio questa coesistenza fra non contraddizione e contraddizione ad essere vietata dal principio di non contraddizione.
Soprattutto Hegel vuole che il finito sia compreso nell'infinito, e vuole che sia compreso in questo precisamente in quanto finito, con tutte le caratteristiche del finito. Io sono mortale e con la mia mortalità sono compreso nell'infinito, sono suo “momento”. Ma è questo ad essere logicamente impossibile. Perché quando io, come mortale, sarò morto all'infinito mancherà un suo “momento”: quello del me stesso vivo. O il finito, trapassando nell'infinito, perde le sue caratteristiche, ed allora resta di fatto fuori dall'infinito, o le mantiene, ed allora è proprio questo mantenimento ad inquinare l'infinitezza dell'infinito.

Il discorso hegeliano sul finito come “momento” dell'infinito appare, ad una visione superficiale, plausibile solo perché lo si interpreta in maniera... non hegeliana.
Qualcuno può essere spinto ad interpretare l'hegeliana presenza del finito nell'infinito come una sorta di sottoinsieme compreso in un insieme più ampio. L'insieme “infinito” contiene al suo interno il sottoinsieme “finito”, un po' come l'insieme “italiani” comprende in se il sottoinsieme “genovesi”. Ma basta pensarci un attimo per capire quanto un simile paragone sia fallace. L'insieme “italiani” comprende in se il sottoinsieme “genovesi” precisamente perché si tratta di un insieme limitato. “Italiani” comprende “genovesi” perché da “italiani” sono scomparse le caratteristiche peculiari che distinguono i genovesi dai napoletani e questi dai sardi. L'insieme maggiore può comprendere in se sottoinsiemi di dimensioni minori perché è un insieme più generico. Per far parte dell'insieme “italiani” basta avere la cittadinanza italiana, non è necessario essere nati a Genova, o a Milano. Proprio per questa indeterminatezza un simile insieme può comprendere in se numerosi sottoinsiemi.
Detto diversamente, per far parte dell'insieme “italiani” occorre esser nati a Genova, O a Milano, O a Napoli eccetera. L'insieme maggiore può risolversi in una serie di disgiunzioni. Ma questo è un altro modo per dire che questo insieme è limitato dalla sua genericità: se per farne parte posso essere nato a Genova O a Milano, vuol dire che posso farne parte quali che siano le particolarità legate al mio luogo di nascita. Ci vuol poco per capire che un simile insieme non ha nulla a che vedere con l'infinito, meglio, con l'assoluto hegeliano che rifiuta in linea di principio ogni esclusione ed ogni limitazione.

Non val la pena di continuare a lungo nel cercare le incongruenze logiche del discorso hegeliano. Queste del resto sono connaturali alla sua filosofia. Hegel vuole collegare finito ed infinito, pretende che la sua filosofia sia il momento culminante della autoesposizione della idea assoluta. Per far questo deve “superare” il principio di non contraddizione. E' facile alla fin dei conti per chi usa questo principio far notare le contraddizioni in cui cade il suo discorso. Hegel potrebbe facilmente rispondere accusando i suoi critici di restar legati ad una concezione angusta e superata della logica. Il gran vantaggio di chi pensa di aver “superato” il principio di non contraddizione è proprio questo: tale “superamento“ gli consente di continuare ad usarlo quando gli fa comodo, e di abbandonarlo quando non gli fa più comodo. E' scorretto un simile procedimento? Penso proprio di si. Ma è anche alla base del concetto stesso di alienazione che anche molti critici di Hegel hanno fatto proprio.

Alienazione.

La particolarità di Hegel, e di tutti i filosofi della totalità, è questa: lui non parla del mondo, o dell'idea, sono l'idea ed il mondo che parlano attraverso di lui. Molti filosofi e tutti gli scienziati si rapportano al mondo. Lo esaminano da un certo punto di vista cercando di comprenderlo e interpretarlo. Il loro è un pensiero sul mondo, ma pensare sul mondo come se questo fosse un che di esterno al pensiero, un dato della sensibilità, vuol dire per Hegel restare invischiati nelle trappole dell'intelletto riflettente, quello che divide e separa: soggetto e oggetto, essere e pensiero, razionale e sensibile. A chi accetta un simile procedimento la totalità resta preclusa per sempre. Ma per Hegel solo nella totalità sta il “vero”. Una totalità che non sia, val la pena di ripeterlo, qualcosa di astrattamente “generale”, una idea che escluda da se le determinatezze del finito. Al contrario, la totalità hegeliana comprende tutto, ma proprio tutto, è la totalità assoluta, e per questo il solo “vero”.
“La scienza pura perciò (…) contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppure la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro pensiero (…) Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. Lungi quindi dall’essere formale, lungi dall’essere priva di quella materia che occorre ad una conoscenza effettiva e vera cotesta scienza ha anche un contenuto che, solo, è l’assoluto vero, o, se si voglia ancora adoperare la parola materia, che, solo, è la vera materia, una materia, però, la cui forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero e quindi l’assoluta forma stessa. La logica perciò è da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in se e per se senza velo (13).
L'idea assoluta è la totalità che si autodetermina. Si parte da concetti generalissimi, essere, nulla, divenire e da questi si passa ad altri, sempre più determinati. Un concetto richiama l'altro e si risolve nell'altro. Questo a sua volta richiama il primo e torna ad esso. Il passaggio costante dall'uno all'altro si risolve in un nuovo concetto che a sua volta si scinde e si ricompone. Ciò che poteva apparire come un vuoto “generale” si arricchisce di una multicolore molteplicità di determinazioni. Tale molteplicità però coincide a sua volta con la quiete vuota della generalità astratta. Il vero è l'intero che rivela se a se stesso. E dove lo rivela? Dove il processo di autoesposizione dell'idea raggiunge la sua assoluta, cristallina consapevolezza? E' ovvio: nella filosofia di Hegel. Hegel è il portavoce, meglio, la voce dell'assoluto, ne esprime la piena autocoscienza. Esattamente come Marx esprime nella sua filosofia la autocoscienza della storia, meglio, l'autocoscienza della storia che si manifesta come autocoscienza della classe operaia.

Questo sistema deve però affrontare uno scoglio assai arduo: quello del passaggio dall'idea alla natura. Alla natura materiale, al mondo sensibile la cui accidentalità va inclusa nel movimento della idea assoluta. Come può ciò che idea non è essere nel contempo idea? Come può esserlo, questo è il punto, conservando tutto il peso della sua accidentalità? Il mondo sensibile va conservato con tutte le sue caratteristiche. Hegel rifiuta di considerare “illusione” il mondo sensibile, vuoto “non essere” contrapposto al pieno essere del mondo ideale. Il sensibile è reale, ma la sua realtà “vera” è, appunto, quella di esser parte dell'idea, momento del suo svolgimento dialettico.
Per chi si mantenga fedele al principio di non contraddizione tutto questo è semplicemente assurdo, ma Hegel ritiene che il suo sistema possa contenere, insieme, la contraddizione e la non contraddizione, come se unificare non contraddizione e contraddizione non fosse già, in se, qualcosa di intimamente contraddittorio, che esclude da subito il principio di non contraddizione. Comunque, una volta che contraddizione e non contraddizione siano anch'esse diventate “momenti” dello svolgimento dell'idea diventa relativamente facile per Hegel passare dall'idea alla natura sensibile. Il passaggio dall'idea alla natura segna il momento della
alienazione dell'idea da se stessa. L'idea diventa altro da se e si autodetermina come natura sensibile. La natura sensibile è l'idea nella forma del suo essere altro.
La natura si è dimostrata come l'idea nella forma dell'essere altro. Poiché l'idea è per tal modo la negazione di se stessa, ossia è esterna a se, la natura non è esterna solo relativamente, rispetto a quest'idea (…) ma l'esteriorità costituisce la determinazione nella quale essa è come natura” (14)
La natura è caratterizzata dalla esteriorità spazio temporale. Un ente non è l'altro, è fuori dall'altro, è sottoposto ad un divenire i cui momenti sono uno prima o dopo l'altro, ed in questa esteriorità la natura non è idea, meglio,
è e non è idea: è idea nella forma di non idea.
“La natura considerata in sé, nell'idea, è divina; ma nel modo in cui
essa è, l'esser suo non risponde al suo concetto, essa è, anzi, la contraddizione insoluta. Il suo carattere proprio è questo, di esser posta, di esser negazione” (15)
La natura è la contraddizione irrisolta, la mera negazione, l'essere che non corrisponde al concetto. In una parola, il momento della
alienazione. Momento che verrà superato nella filosofia dello spirito che si articolerà a sua volta nella storia.
Nella teologia cristiana la natura è creazione divina. Nella teologia filosofica di Hegel la natura è dentro l'idea divina, suo momento negativo destinato ad essere superato. L'accidentale ridiventa in questo modo necessario, il sensibile viene, insieme, conservato e superato. Il panlogismo hegeliano conserva tutto. Ma “deforma”, se così si può dire, tutto ciò che conserva. Lo deforma perché la caratteristica ineliminabile dell'accidentale è di essere irriducibile al necessario; ciò che fa del sensibile ciò che è consiste precisamente nel suo
essere dato, qualcosa di cui si può dir solo: “è così e così”. Se il sensibile è altro dall'idea la sua alterità consiste precisamente nel non poter in alcun modo esser ricondotto all'idea. Si può analizzare il sensibile, cercare di razionalizzarlo, instaurare relazioni fra gli enti sensibili, ma questi oppongono sempre ai tentativi di razionalizzazione la propria alterità. I dati della esperienza sensibile possono in qualsiasi momento smentire la più accreditata teoria scientifica. Questa che per qualsiasi scienziato è quasi una banalità costituisce la smentita senza appello della pretesa hegeliana di ricondurre il dato, l'accidentale nel movimento della idea assoluta.

L'alienazione è centrale nel sistema di Hegel. Rappresenta il momento della scissione, della separazione. Quindi il momento della determinazione sensibile dell'idea. Momento che verrà ovviamente superato, anzi, che è già, sin dall'inizio, superato. Perché, a differenza che in Marx, in Hegel lo svolgimento dialettico non è temporale ma logico, meglio, è insieme logico e temporale. La temporalità è momento della autoesposizione dell'assoluto, ma questa è sempre conchiusa in se stessa. La calma totalità con cui si conclude la logica di Hegel non viene
dopo il puro essere privo di determinazioni con cui questa inizia. Tutto ciò che è divisione, determinazione, questo e non quello, viene ridotto a momento di un processo circolare in cui ogni punto è insieme, l'inizio e la fine del tutto.
Marx andrà “oltre” questa concezione di Hegel. La filosofia che in Hegel rischiara a cose fatte il cammino dell'assoluto in Marx diventa impegno per il futuro. Il superamento dell'alienazione caratterizzerà, profetizza Marx, la prossima fase del processo storico. In Marx la alienazione nasce, si realizza e sarà superata
nel tempo, storicamente. Anche in Hegel la alienazione si realizza, e viene superata, nella storia, essa ha però nella natura un suo momento fondamentale. Marx invece presta poca e superficiale attenzione alla natura; in lui la alienazione è un prodotto storico. E' collegata alla divisione in classi della società umana e, soprattutto, alla affermazione della economia di mercato. E sarà superata quando l'umanità raggiungerà il comunismo, meta finale del suo peregrinare terreno.
In ogni caso la categoria della alienazione conferisce alla speculazione filosofica un pesantissimo carattere di necessità. Che la si consideri logicamente o temporalmente, tale categoria rimanda alla necessità sia del corso storico, sia, prima ancora, della e nella natura. Necessità nella natura, si badi, che non è riconducibile alla ricerca empirica, alla formulazione di leggi che in ogni momento l'esperienza può contraddire. Necessità che pretende slegare la scienza della natura dal suo fondamentale momento empirico - sperimentale sostituendola con artificiosi, quando non francamente ridicoli, schemi a priori. E necessità del corso storico che si traduce, non può non tradursi, nella pretesa di conoscerne a priori l'andamento.
Malgrado sia Hegel che Marx definiscano “scientifici” i loro sistemi tutto questo non ha, con tutta evidenza, nulla a che vedere con la scienza.


NOTE


1) Hegel: scienza della logica. Laterza 1981 pag 125.
2) Ibidem pag 126. Sot. Di Hegel.
3) Ibidem pag. 126.
4) Ibidem pag. 127.
5) Ibidem pag. 159
6) Ibidem pag. 128
7) Ibidem pag 128. Sot. di Hegel.
8) Ibidem.
9) Ibidem pag 129 Sot. Di Hegel
10) Ibudem sott. Di Hegel
11) Ibidem pag 152, Sot. Di Hegel
12) Ibidem pag 153 Sot. di Hegel.
13) Ibidem pag 31. Sott. di Hegel
14) Hegel: enciclopedia delle scienze filosofiche, in “I grandi filosofi: Hegel. Ed “il sole 24 ore” 2006. pag. 480. Sottolineature di Hegel.
15) Ibidem pag. 481. Sottolineature di Hegel.