venerdì 21 agosto 2020

IL COLEOTTERO DI WITTGENSTEIN

  Coleotteri - Mille Animali

Scrive Ludwig Wittgenstein in “Ricerche filosofiche”:

“Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c'è qualcosa che che noi chiamiamo 'coleottero'. Nessuno può guardare nella scatola dell'altro; e ognuno dice di sapere cos'è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. Ma supponiamo che la parola 'coleottero' avesse tuttavia un uso per queste persone! Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non farebbe parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe essere vuota.” (1)

Qui Wittgenstein sta affrontando il tema del linguaggio privato. Il linguaggio si riferisce alle nostre sensazioni, indica cosa c'è dentro ogni parlante, affermano i teorici del linguaggio privato. Se dico: “vedo una macchia rossa” mi riferisco alla mia sensazione di rosso, a qualcosa di privato che è, e non può che essere, solo mio. Il linguaggio esprime gli stati interni, ma ogni stato interno è solo della persona che parla, di quella e di nessun'altra. Se Tizio dice a Caio: “provo dolore” Caio può capire cosa significhi la frase di Tizio? Partendo dai presupposti del linguaggio privato la risposta non può che essere no. Il dolore di Tizio è solo il suo dolore, esattamente come il coleottero chiuso nella sua scatola è solo il suo coleottero. Il linguaggio però è qualcosa che relaziona gli esseri umani. Se una certa parola per me significa qualcosa deve significare lo stesso anche per gli altri, se le cose non stessero così non esisterebbe comunicazione, quindi neppure linguaggio. Ma come è possibile una simile generalizzazione partendo dai presupposti del linguaggio privato?
“Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so cosa significa la parola 'dolore', non debbo dire la stessa cosa anche agli altri? E come posso generalizzare quest'unico caso in maniera così irresponsabile?” (2)
Se le parole significano i miei stati interni come posso generalizzarne il significato?come possiamo io e Tizio comunicarci il significato di parole come “dolore” o “rosso” se “rosso” o “dolore” sono qualcosa di assolutamente interno, di mio, o di suo? Se le parole si riferiscono a stati interni allora il modello “oggetto – designazione diventa insensato.
“Se si costruisce la grammatica dell'espressione di una sensazione secondo il modello 'oggetto e designazione', allora l'oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante” (3).
L'oggetto di designazione scompare: è come il coleottero chiuso nella scatola, qualcosa che nessuno conosce tranne il proprietario della scatola e che pertanto non può essere oggetto di discorso, comunicazione, linguaggio.

Parlando del linguaggio privato Wittgenstei polemizza implicitamente col Cartesio delle “Meditazioni metafisiche”. In queste Cartesio si misura col dubbio, un dubbio totale, onnicomprensivo. Io non posso esser certo di nulla, afferma Cartesio. Gli oggetti che vedo, sento e tocco potrebbero essere solo un insieme di sensazioni, o di rappresentazioni, il nome in fondo poco conta, in me. Certo, quando vedo un albero o il mare sono del tutto certo che qui c'è l'albero e lì il mare, ma anche quando sogno ho la sensazione di vivere una vita reale, circondato da oggetti reali, eppure... sto sognando. Come faccio allora ad essere indubitabilmente certo dell'esistenza del mondo che mi circonda, del mio stesso corpo? Non posso esserlo, questa la desolante conclusione di Cartesio. Anzi, non posso esser certo neppure di verità che da sempre appaiono indubitabili, come le verità matematiche. Potrebbe infatti esserci un genio maligno che mi induce continuamente in errore su tutto. Cartesio immagina un essere pensante solo, tragicamente solo, in un oceano tenebroso di dubbio. L'esistenza del mondo fisico e degli altri esseri umani, le stesse verità matematiche non poggiano su alcuna incrollabile base di certezza. Il dubbio cartesiano sfocia coerentemente nel solipsismo più radicale e distruttivo.
“ Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niun luogo e che tuttavia io senta tutte queste cose e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io giudico qualche volta che altri mi ingannino anche nelle cose che credono di sapere con la maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che io mi inganni tutte le volte che fo l'addizione di due e di tre, o che enumeri i lati di un quadrato o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile...” (4)
Una simile, malvagia volontà di inganno non può essere attribuita a Dio, si affretta ad aggiungere Cartesio, perché Dio è infinitamente buono, si può tuttavia supporre “che vi sia non già un vero Dio che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo genio non meno astuto e ingannatore che possente che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi” (5).
“Salvata”, per ovvi motivi, la bontà divina la X pensante di Cartesio si ritrova, sola, immersa nel dubbio cosmico.
Sappiamo quale è per Cartesio la via d'uscita da una simile, angosciosa, situazione. C'è qualcosa d cui non posso dubitare: il fatto di stare dubitando, quindi pensando. Ma se penso esisto, di questo posso essere assolutamente certo. Lo stesso genio ingannatore non può distruggere questa mia incrollabile certezza.
“Non v'è dunque dubbio che io esisto, s'egli mi inganna; e m'inganni fin che vorrà, egli non potrà mai fare che io sia nulla, fino a che penserò di essere qualcosa” (6)
Penso, esisto, questa la verità prima, incrollabile. Una verità che riguarda i miei stati interni e solo quelli. Una volta raggiunta questa base incrollabile Cartesio procede dimostrando l'esistenza di Dio e, come conseguenza, del mondo, dei corpi, delle altre menti e degli altri esseri umani. Il dubbio solipsistico è battuto ed il sapere posto su una granitica base di certezza.
Non è questa la sede per seguire il complesso itinerario cartesiano, né per esaminare le varie obiezioni cui questo è stato sottoposto, né ancora per cercare di avanzare risposte a vari argomenti scettici (quello del sogno, ad esempio). Quello che qui interessa sottolineare è la assoluta preminenza accordata da Cartesio agli stati interni. Di ciò che è in me non posso dubitare. Non so se esista l'albero ma so di provare la sensazione, o l'impressione, dell'albero.
C'è però una cosa di cui Cartesio sembra non rendersi conto: del fatto di usare, per esprimere il suo dubbio solipsistico, il linguaggio privato. Di conseguenza Cartesio salva dal dubbio una cosa molto importante: la costanza di significati del linguaggio stesso.
Dubito di tutto, afferma Cartesio, ma non dubita del fatto che parole come “dubbio”. “pensare”, “verità”, “genio ingannatore” ed altre conservino il loro significato nel corso del tempo. Cartesio arriva a scoprire la base incrollabile di ogni certezza nel cogito, ma ci arriva usando un linguaggio che non può essere altro che il suo linguaggio privato, basato su sensazioni e ricordi di sensazioni. Se l'interno ha la assoluta preminenza sull'esterno il linguaggio con cui il pensante si esprime deve essere il linguaggio interno, il suo discorso un dialogo con se stesso.
Ma è possibile una cosa simile? Qui si innesta la critica di Wittgenstein.

Il linguaggio privato si riferisce agli stati interni del soggetto unificati e di volta in volta richiamati dalla sua memoria. Ma, lo si è visto, con l'argomento del coleottero, gli stati interni sono solo e inesorabilmente privati. Se il termine “coleottero” significasse ciò che solo io vedo, l'ospite della mia privatissima scatola, inaccessibile a tutti tranne che a me, se questo fosse il suo significato, tale termine non potrebbe far parte di un discorso intersoggettivo. Tutti, o molti, sanno cosa significa “coleottero”, usano questo termine nel linguaggio di tutti i giorni, ma, se il discorso sul linguaggio privato è fondato, questa è solo una illusione. Il “tuo” coleottero è qualcosa di assolutamente diverso dal “mio” e nessun paragone è possibile fra i due. Io e te che parliamo di coleotteri in realtà facciamo discorsi che non significano nulla. Il linguaggio privato, che Cartesio usa senza probabilmente rendersene conto, rende insensata la comunicazione fra soggetti diversi. Questa però non è una critica definitiva al dubbio cartesiano. Cartesio infatti accetta di buon grado, all'inizio delle sue “meditazioni”, l'isolamento solipsistico. Il suo soggetto che dubita è solo al mondo, dialoga con se stesso. E' solo più avanti, con la scoperta del “cogito” e la dimostrazione dell'esistenza di Dio che si apre al discorso con gli altri. Però... però è possibile questo iniziale dialogo con se stesso? La domanda è fondamentale ed a questa Wittgenstein risponde: NO. Il linguaggio privato non distrugge solo la possibilità di un discorso intersoggettivo, rende impossibile anche il dialogo del soggetto con se stesso, mina l'unità dell'io pensante quindi anche la possibilità stessa del pensiero.
“Immaginiamo” scrive Wittgenstein sempre nelle ricerche filosofiche, “una tabella che esista solo nella nostra memoria, per esempio, un vocabolario. Mediante un vocabolario possiamo giustificare la traduzione di una parola X con una parola Y. Ma sarà il caso di parlare di giustificazione anche quando questa tabella venga consultata solo nell'immaginazione? Ebbene, si tratterà appunto di una giustificazione soggettiva. Ma la giustificazione consiste nell'appellarsi ad un ufficio indipendente. Posso però anche appellarmi al ricordo di un altro. Per esempio, non so se mi sono impresso esattamente nella memoria l'ora di partenza del treno e, per controllare l'esattezza di questo ricordo richiamo alla memoria l'immagine dei fogli dell'orario delle ferrovie. Non ci troviamo qui di fronte allo stesso caso? No; perché questo procedimento deve effettivamente evocare il ricordo esatto. Se non fosse dato controllare l'esattezza dell'immagine mentale dell'orario ferroviario, come potrebbe questa confermare l'esattezza del ricordo precedente? (sarebbe come acquistare più copie dello stesso giornale per assicurarci che le notizie in esso contenute siano vere)”. (7)
Il soggetto di Cartesio è solo con le sue sensazioni che si trasformano immediatamente in ricordi. Ogni controllo sulla esattezza dei ricordi si basa sul confronto fra un ricordo e l'altro, si tratta quindi di un controllo che non porta a nulla, non può garantire certezza alcuna, esattamente come comprare più copie dello stesso giornale non ci permette di verificare l'esattezza di quanto quel giornale riporta. Il discorso di Wittgenstein qui non è affatto contrario a quella cosa che alcuni filosofi disprezzano in massimo grado: il senso comune. Ognuno di noi ricorda qualcosa perché controlla costantemente i propri ricordi con la corposa realtà del mondo. So dove si trova casa mia perché ci vivo gran parte del mio tempo. Ricordo cosa pensa una tal persona perché parlo spesso con lei. Ricordo cosa dice Kant nella prima critica perché ogni tanto do un'occhiata ad un vetusto volume. Se cerco un indirizzo in una città che che non visito da moltissimo tempo consulto una mappa o chiedo informazioni. Ogni ricordo si rapporta al mondo, è ricordo del mondo. Si riduca tutto a ricordo e a ricordo di ricordo e non solo non si ha più diritto di parlare di esattezza dei ricordi, ma la stessa unità dell'io ricordante si sfalda.

Cartesio non è uno scettico, al contrario, vuole fondare la scienza su alcune indubitabili certezze. Parte dal dubbio per raggiungere una verità indubitabile su cui costruire l'edificio del sapere. Il suo punto di partenza sono gli stati interni perché è convinto della loro assoluta superiorità rispetto alle percezioni esterne. Ma, come sottolinea Roger Scruton in “filosofia moderna compendio per temi”, questa convinzione si basa su una illusione grammaticale. Cartesio riduce tutto ai suoi stati interni, qualcosa di unicamente, rigorosamente “suo”, e, senza neppur rendersi conto dell'incongruenza, cerca di esprimerli usando un linguaggio pubblico, intersoggettivo, l'unico che possa avere un senso.
Per Cartesio l'unica, indubitabile verità è il “cogito”. Penso, esisto, su questo il genio malefico non può ingannarmi. Kant sosterrà, nella “confutazione dell'idealismo” aggiunta alla seconda edizione della “critica della ragion pura” che l'io pensante può avere coscienza della sua permanenza nel tempo solo se inserto in un mondo di oggetti permanenti che esistono fuori di lui, nello spazio. Wittgenstein sottoporrà ad ulteriore critica il “cogito” cartesiano contestando la possibilità stessa del linguaggio privato, l'unico che il soggetto solipsistico di Cartesio possa usare (ma che in realtà non usa perché il linguaggio non può essere privato)
Il linguaggio non può che essere pubblico, questo è il punto decisivo. Un linguaggio non è qualcosa che appartenga ai singoli soggetti, al contrario relaziona fra loro i diversi soggetti. Senza una pluralità di parlanti (e pensanti, e scriventi) non esiste linguaggio. E non esiste senza regole grammaticali, sintattiche, semantiche, pubbliche. La parola “demone” ha quel certo significato perché questo è fissato nelle regole del linguaggio e prima ancora negli atteggiamenti di coloro che di quel linguaggio fanno uso. La proposizione. “Giovanni è un uomo” ha senso. “Giovanni perlopiù metafisica” invece non ha senso alcuno perché l'accostamento a casaccio di parole contravviene ad ogni regola pubblica del linguaggio e, prima ancora, perché nessuna comunità di esseri razionali si esprime in modo simile, a meno che qualcuno non voglia fare esempi di non senso o divertirsi a dire cose insensate (la supercazzola).

Ribadire che il linguaggio è qualcosa di pubblico non risolve però tutti i problemi. Gli stati interni esistono, ovviamente. Noi non vediamo le immagine mentali del mondo ma il mondo tramite le nostre immagini mentali. Questo elimina la possibilità del soggettivismo scettico ma anche di ogni tentativo di ridurre l'essere umano ai suoi comportamenti, eliminando il “mentale”. Un simile eliminazione non è solo assai discutibile sul piano scientifico, ma porta ad un radicale impoverimento dell'uomo, lo trasforma in un robot privo di anima. Il mentale, l'interno esistono quindi; ognuno di noi sente di essere vivo e, da vivo, il centro unificante della propria esperienza, Ma come entra l'interno, per definizione privato, soggettivo, in un linguaggio pubblico? Questa la difficoltà.

Può aiutarci a risolverla la distinzione di Wittgenstein fra sintomi e criteri.
Il sintomo indica l'esistenza di qualcosa, il criterio rappresenta la condizione identificativa di questo qualcosa. Il fumo può essere sintomo di un incendio, ma le fiamme che divorano un bosco, il fumo che oscura il cielo, il crepitio del legno descrivono la situazione che designiamo col termine “incendio”.
Scrive John Searle in “vedere le cose come sono”:
“Wittgenstein fa notare che dobbiamo distinguere fra 'criteri' e 'sintomi'. Se vedo un uomo che, mentre stringe il proprio fianco, fa delle smorfie, potrei inferire che egli ha male al fianco. Sta manifestando i sintomi del provare dolore. Ma se vedo un uomo che è appena stato investito da un'automobile e posso vedere la sua gamba che viene tirata sotto dall'automobile e lo sento urlare dal dolore, allora ciò che osservo in questo caso non sono i sintomi del dolore; questa è (...) una situazione che chiamiamo 'provare dolore' ” (8)
Il sintomo ci fa inferire qualcosa, il criterio mostra la situazione in cui è lecito dire che questo qualcosa esiste. Se Tizio dice di sentire dolore allo stomaco posso inferire che forse egli ha una gastrite, me se urla, si contorce, ha conati di vomito non faccio nessuna inferenza fra questi comportamenti ed il suo stato interno chiamato “dolore”. Dico semplicemente: “Tizio prova dolore” perché la sua situazione è quella cui ci riferiamo con le parole “provare dolore”.
Ovviamente possiamo sbagliarci. Tizio si può dimenare ed urlare e non provare dolore: sta fingendo; ma, appunto, sta fingendo di provare dolore, esibisce i criteri del dolore, ne simula la situazione. Potrebbe essere, continua Searle riferendosi all'esempio dell'uomo investito da una macchina “ che tutto l'accaduto fosse parte di un film di Holliwood (…) ma è importante notare che (...) la scena recitata è precisamente quella di un uomo che 'prova dolore'. Vale a dire: in questo caso (…) il gioco linguistico dell'attribuire dolore è tale che questo è un caso che legittimamente chiamiamo dolore perché i criteri sono soddisfatti” (9).
Gli stati interni esistono ed hanno la massima importanza, ma quando ci relazioniamo gli un agli altri altri usando un linguaggio pubblico non mettiamo in atto alcuna inferenza fra le cose che i nostri interlocutori ci dicono ed i loro stati interni. Semplicemente sappiamo ciò di cui noi e loro stiamo parlando perché comprendiamo il linguaggio che stiamo usando ed  i criteri che di questo fanno parte. Se Tizio mi dice che è appena stato dal dentista ed ora ha mal di denti capisco ciò che dice, non effettuo alcuna inferenza per arrivare al suo stato interno, so, senza dubbio alcuno, cosa sia il dolore che prova
Molte tesi sia del “primo” che del “secondo” Wittgenstein sono discutibili ovviamente. L'attacco alla possibilità stessa della metafisica presente nel “tractatus” non mi pare accettabile e Il suo insistere, nelle “ricerche” sullo stretto rapporto fra significato e giochi linguistici può portare, forse, a forme inaccettabili di relativismo. Con tutto questo Wittgenstein resta, a modesto parere di chi scrive, uno dei più grandi, forse il più grande, pensatore dello scorso secolo. Il suo attacco al linguaggio privato è fondamentale per smontare il nichilismo solipsistico dello scetticismo radicale, ed in una direzione simile vanno, sempre a modesto parere di non esperto, le sue riflessioni sulle proposizioni di senso comune cui lavorò sino a due giorni prima di morire.
In un'epoca di imbecilli “post - qualcosa” (post moderni, post comunisti, post liberali, post politici, post industriali, post filosofi) seguire Wittgenstein nel suo stile telegrafico è spesso assai arduo, ma assomiglia al respirare l'aria pura di montagna mentre si effettua una faticosa escursione. Si è stanchi, sudati, i muscoli dolgono. Ma ci si sente sottilmente appagati.



Note
1) L. Wittgenstein: Ricerche filosofiche in “i grandi filosofi Wittgenstein”. Ed sole 24 ore 2007 pag. 405.
2) Ibidem pag. 405
3) Ibidem pag. 406

4) R. Descartes: Meditazioni metafisiche. La Nuva Italia 1983 pag. 21.
5) Ibidem pag. 22
6) Ibidem pag. 27
7) L. Wittgenstein, op. cit. pag.397 - 398. Sottolineature di W.
8) John Searle: Vedere le cose come sono. Raffaele Cortina editore 2015 pag. 231.
9) Ibidem pag. 231 sottolineatura di S.