
Una tradizione secolare ha teso ad identificare moralità ed altruismo. Anteporre gli altri a sé appare come il massimo della virtù morale, mettere invece il proprio io sopra quello degli altri è indicato come un comportamento negativo sia in ponderosi trattati di etica che nelle "quattro chiacchiere fra amici" in cui spesso si esprime un diffuso senso comune . Tizio pensa solo a se: "è un brutto egoista", Caio vive per gli altri: "che nobile altruista"!
Certo, è
difficile non ammirare chi si getta nel mare in tempesta per salvare
un suo simile in procinto di annegare; anche se possiamo comprendere
chi rifiuta di farlo, il suo comportamento ci appare comunque degno
di biasimo, esso potrà anche essere giustificato, ma mai ammirato. Da
sempre gli eroi sono oggetto di legittima ammirazione, ma questo
significa davvero che l'altruismo sia sempre e comunque moralmente
superiore all'egoismo? E' vera l'equazione che eguaglia l'altruismo
al bene e l'egoismo al male? Ed ancora, altruismo ed egoismo sono
così contrapposti come a prima vista può sembrare?
Sto passeggiando
lungo il mare in tempesta. Di buon umore guardo lo spettacolo delle
onde schiumose. Ad un tratto scorgo un uomo che sta per annegare. In
preda al terrore invoca aiuto. "Aiuto! salvatemi, annego!" Non esito, so
di non essere un gran nuotatore ma mi butto nelle onde bianche di
schiuma. Raggiungo il giovanotto in difficoltà, lo afferro e con
sforzi immani lo porto a riva. Sulla spiaggia una folla di curiosi ci
circonda e ci aiuta a riprenderci. Tutti mi lodano per il mio
coraggio ed il mio altruismo. Il giovane che ho salvato mi strige le
mani e mi ringrazia pieno di riconoscenza. "Se tu fossi stato un
egoista," mormora "io ora sarei morto.. grazie".
Certo, io sono
stato altruista e coraggioso e il giovane è salvo. Ma, al mio altruismo non si contrappone forse l'egoismo del giovane che ho salvato? Egli sapeva che io rischiavo di
morire se mi gettavo in mare, ma urlava disperato
invitandomi a farlo. Io ho avuto il coraggio di affrontare la morte,
lui di fronte alla morte ha cercato disperatamente chi lo aiutasse
mettendo a rischio la sua vita. Per il giovane che annegava l'unica
cosa che contava era la sua vita, in lui non c'era traccia di altruismo.
L'esempio un po'
provocatorio non intende sminuire il merito morale di chi rischia la
vita per salvare un suo simile, né intende bollare come immorale il
comportamento di chi in pericolo invoca l'aiuto dei suoi simili. Con
tale esempio si vuole solo sottolineare il fatto che l'altruismo può
esistere solo se esiste l'egoismo. Aiutare gli altri ha senso solo
se gli altri amano sé stessi, io posso essere altruista solo se
qualcun altro è egoista.
Questa
considerazione è quasi ovvia ma ha una conseguenza importante:
l’altruismo non può essere generalizzato. L’amore che
ognuno ha per se stesso costituisce la base indispensabile di ogni
comportamento altruistico. Un altruismo estremizzato e generalizzato
è logicamente contraddittorio. Pieno di amore verso i miei simili io
intendo aiutarli ma loro mi amano anch'essi, antepongono i miei
interessi ai loro e rifiutano il mio aiuto. Un perfetto altruista in
procinto di annegare non dovrebbe invocare il mio aiuto: "non
rischiare la tua vita per la mia, pensa a te!" dovrebbe gridare.
Incurante del pericolo, pieno di altruismo dovrebbe pregarmi di
essere egoista. Un mondo di egoisti è pensabile, potrà non piacerci
ma non esiste contraddizione alcuna in un mondo in cui ognuno pensi
solo a sé stesso. Un mondo di perfetti altruisti è logicamente
contraddittorio o è pensabile solo come mondo in cui nessuno agisca
mai. Pieni di assoluto amore per gli altri gli uomini di un simile
mondo cercherebbero tutti di aiutarsi l'un l'altro rifiutando
costantemente l'uno l'aiuto dell'altro. Il perfetto altruista può esistere
solo come eccezione, il suo comportamento non può mai diventare,
per dirla con Kant, una norma universale.
Qualcuno
potrebbe obiettare che simili considerazioni non tengono conto di
alcuni comportamenti umani, poco frequenti, è vero, ma sublimi: il
comportamento dei santi ad esempio. Un santo in procinto di annegare
chiede aiuto, si potrebbe dire, non per aver salva la sua vita, ma per
dare a chi gli presterà soccorso l'occasione di meritarsi il
paradiso. Quella che a prima vista potrebbe sembrare una forma di
egoismo si rivela, ad una analisi più approfondita, una forma di
sublime altruismo. Ma è corretta una simile analisi? C'è da
dubitarne, a mio parere.
Un santo in procinto di annegare chiede aiuto per dare a chi lo soccorrerà l'occasione di compiere un nobile gesto e di meritarsi il paradiso, ammettiamo pure che una simile situazione possa crearsi, anche se è abbastanza improbabile. Ma salvare una vita è un nobile gesto che merita la ricompensa divina precisamente perché è giusto essere attaccati alla propria esistenza. Il santo vuole dare a chi lo soccorre l'occasione di compiere un gesto meritorio perché sa che è meritorio assecondare il desiderio di chi vuole conservarsi in vita. Alla base dello “stratagemma” del santo sta comunque il riconoscimento della importanza che ognuno attribuisce alla propria vita. Salvare un altro mi rende meritevole del paradiso perché l'altro tiene davvero ad essere salvato. Se l'altro, altruisticamente, non desse importanza alcuna alla propria esistenza perché dovrebbe essere meritorio salvarlo? E se io ritenessi che la mia esistenza è priva di importanza, perché solo quella degli altri conta, si potrebbe dire che compio un nobile gesto soccorrendo chi sta per annegare? Salvare una persona a cui non interessa essere salvata, e farlo senza avere alcun interesse per la propria salvezza, è un po' come regalare a Tizio qualcosa che non ha alcun valore né per Tizio, né per chi gli fa il regalo. C'è qualcosa di meritorio in simili comportamenti?
Un santo in procinto di annegare chiede aiuto per dare a chi lo soccorrerà l'occasione di compiere un nobile gesto e di meritarsi il paradiso, ammettiamo pure che una simile situazione possa crearsi, anche se è abbastanza improbabile. Ma salvare una vita è un nobile gesto che merita la ricompensa divina precisamente perché è giusto essere attaccati alla propria esistenza. Il santo vuole dare a chi lo soccorre l'occasione di compiere un gesto meritorio perché sa che è meritorio assecondare il desiderio di chi vuole conservarsi in vita. Alla base dello “stratagemma” del santo sta comunque il riconoscimento della importanza che ognuno attribuisce alla propria vita. Salvare un altro mi rende meritevole del paradiso perché l'altro tiene davvero ad essere salvato. Se l'altro, altruisticamente, non desse importanza alcuna alla propria esistenza perché dovrebbe essere meritorio salvarlo? E se io ritenessi che la mia esistenza è priva di importanza, perché solo quella degli altri conta, si potrebbe dire che compio un nobile gesto soccorrendo chi sta per annegare? Salvare una persona a cui non interessa essere salvata, e farlo senza avere alcun interesse per la propria salvezza, è un po' come regalare a Tizio qualcosa che non ha alcun valore né per Tizio, né per chi gli fa il regalo. C'è qualcosa di meritorio in simili comportamenti?
Comunque la si rigiri non può esistere altruismo se non c'è una
qualche forma di egoismo. Non ci piace il termine "egoismo"? Possiamo sostituirlo con "amor di se", le cose non cambiano cambiando le parole.
Spesso si ritiene che l'altruismo sia la l'unica base della cura per
gli altri, della carità, della solidarietà, insomma, di ogni tipo
di comportamento empatico nei confronti dei nostri simili.
Soprattutto, si ritengono interpretabili unicamente in base
all'altruismo le politiche tese, in genere, ad alleviare le
sofferenze dei più deboli, o dei bisognosi, o dei meno fortunati.
Ancora una volta però le cose sono leggermente diverse, e più
complesse.
Si parla di altruismo e subito si pensa al benestante che
generosamente aiuta il suo simile che versa in difficoltà
economiche. Certo, chi aiuta i bisognosi compie un bel gesto
altruistico; non mi pongo la domanda se lo faccia anche per
soddisfare la sua interiore vanità, si tratta di una domanda poco
importante, in fondo, e a cui è impossibile dare una
risposta certa: chi può stabilire cosa passi davvero nella testa e
nel cuore di un altro? Aiutare un essere umano che versa in
difficoltà economiche è dunque un atto altruistico, diamolo per
assodato, ed è altruistico il sentimento di pena e di dolore che
proviamo quando vediamo qualcuno che soffre, per povertà, o per
malattia, o per la morte di una persona cara. L'altrui dolore ci fa
star male e questo è qualcosa di altruistico. Però, a pensarci
bene, non dovrebbe essere possibile, in nome di un altruismo totale e
generalizzato, che chi sta male sia felice della altrui felicità?
Tizio è povero in canna, è malato ed ha perso di recente un figlio,
ma la sola vista di Caio che nuota nel benessere, gode di ottima
salute ed è circondato dall'affetto dei figli, lo rende felice.
Basta pensare ad una simile situazione per comprendere quanto
l'altruismo totale e generalizzato sia contrario a quelli che sono
gli aspetti basilari, immodificabili, della natura umana. Ed una
simile situazione non è solo profondamente innaturale, non ci appare
solo empiricamente impossibile, è anche auto contraddittoria. Tizio
è un perfetto altruista e, malgrado la sua povertà, è felice per
la felicità di Caio, ma Caio, altruista come Tizio, è profondamente
infelice per la miseria in cui Tizio versa. Separato dall'egoismo
l'altruismo diventa immediatamente aporetico e da vita a situazioni in qualche modo simili il paradosso del mentitore. Solo
se esiste ed è generalizzato l'amore per se stessi ha senso l'amore
per gli altri, ed hanno senso gli atteggiamenti ed i
comportamenti fondati sulla cura e la solidarietà. L'altro è se
stesso prima di essere altro, può essere altro solo se è se stesso,
e chi ama l'altro lo può fare solo se lo considera in se un valore,
se accetta l'amore che l'altro prova per se.
Da quanto detto dovrebbe risultare chiaro perché sono profondamente errate tutte le concezioni che predicano l'unità di io e tu, la loro integrazione priva di residui. Queste concezioni sono errate perché non riconoscono il valore dell'io, della sua autonomia. Il singolo essere umano ha rapporti con gli altri ma non può essere sempre e comunque il complemento di tutti gli altri. Fra io e tu c'è similitudine, ma anche differenza. Fra loro può esistere, e molto spesso esiste, integrazione, ma può esserci opposizione, a volte, e a volte reciproca estraneità. L'autonomia del singolo costituisce un ostacolo insormontabile alla perfetta integrazione di tutti i singoli. Il “libero sviluppo di ognuno come condizione del libero sviluppo di tutti”, di cui parla il “Manifesto” di Marx ed Engels, è una formula affascinante ma ingannatrice. Il libero sviluppo di ognuno non corrisponde, o non corrisponde sempre, al libero sviluppo di tutti perché l'”ognuno” non si identifica, ne può sempre armonizzarsi, col “tutti”; ed il ”tutti” a sua volta altro non è che l'insieme di tanti “ognuno”, ognuno dei quali (si scusi il bisticcio di parole) ha la sua autonomia, è intimamente legato alla propria irriducibile diversità. Non è un caso allora che la famosa integrazione armonica di io e tu, ognuno e tutti, si sia sempre realizzata nella forma dell'organicismo totalitario. Gli “io”, e i “tu”, e gli “ognuno” sono stati forzatamente assimilati al “tutti”. I singoli esseri umani, sono diventati mere parti subordinate di una totalità onnicomprensiva. L'unità dialettica di io e tu, ognuno e tutti si è dissolta perché le libere soggettività sono state distrutte, assorbite nel nuovo super organismo sociale. La “volontà generale”, che pretendeva di identificarsi con tutte le volontà particolari, le ha alla fine distrutte. Il particolare è morto, ed è rimasto il generale.
Il generale in quanto tale però non esiste. Non esiste un super organismo sociale, né una “volontà generale” distinta da qualche volontà particolare. E così queste misteriose entità metafisiche: l'organismo sociale, la volontà generale, finiscono inesorabilmente per incarnarsi in un particolare individuo. La “società” parla per bocca di un uomo, di un singolo essere umano, e, allo stesso modo, la volontà generale si identifica, né può essere diversamente, con la volontà di un uomo. Il circolo si chiude. L'unità dialettica di io ed altro si distrugge, l'io viene assimilato nella totalità organica e questa viene ad identificarsi, alla fin fine, con la volontà di un singolo, un super singolo che si arroga il diritto di parlare a nome della storia, o della classe, o della nazione, o della volontà generale. Chi nega il singolo nella sua autonomia si ritrova alla fine a fare i conti con qualche presunto super uomo.
Da quanto detto dovrebbe risultare chiaro perché sono profondamente errate tutte le concezioni che predicano l'unità di io e tu, la loro integrazione priva di residui. Queste concezioni sono errate perché non riconoscono il valore dell'io, della sua autonomia. Il singolo essere umano ha rapporti con gli altri ma non può essere sempre e comunque il complemento di tutti gli altri. Fra io e tu c'è similitudine, ma anche differenza. Fra loro può esistere, e molto spesso esiste, integrazione, ma può esserci opposizione, a volte, e a volte reciproca estraneità. L'autonomia del singolo costituisce un ostacolo insormontabile alla perfetta integrazione di tutti i singoli. Il “libero sviluppo di ognuno come condizione del libero sviluppo di tutti”, di cui parla il “Manifesto” di Marx ed Engels, è una formula affascinante ma ingannatrice. Il libero sviluppo di ognuno non corrisponde, o non corrisponde sempre, al libero sviluppo di tutti perché l'”ognuno” non si identifica, ne può sempre armonizzarsi, col “tutti”; ed il ”tutti” a sua volta altro non è che l'insieme di tanti “ognuno”, ognuno dei quali (si scusi il bisticcio di parole) ha la sua autonomia, è intimamente legato alla propria irriducibile diversità. Non è un caso allora che la famosa integrazione armonica di io e tu, ognuno e tutti, si sia sempre realizzata nella forma dell'organicismo totalitario. Gli “io”, e i “tu”, e gli “ognuno” sono stati forzatamente assimilati al “tutti”. I singoli esseri umani, sono diventati mere parti subordinate di una totalità onnicomprensiva. L'unità dialettica di io e tu, ognuno e tutti si è dissolta perché le libere soggettività sono state distrutte, assorbite nel nuovo super organismo sociale. La “volontà generale”, che pretendeva di identificarsi con tutte le volontà particolari, le ha alla fine distrutte. Il particolare è morto, ed è rimasto il generale.
Il generale in quanto tale però non esiste. Non esiste un super organismo sociale, né una “volontà generale” distinta da qualche volontà particolare. E così queste misteriose entità metafisiche: l'organismo sociale, la volontà generale, finiscono inesorabilmente per incarnarsi in un particolare individuo. La “società” parla per bocca di un uomo, di un singolo essere umano, e, allo stesso modo, la volontà generale si identifica, né può essere diversamente, con la volontà di un uomo. Il circolo si chiude. L'unità dialettica di io ed altro si distrugge, l'io viene assimilato nella totalità organica e questa viene ad identificarsi, alla fin fine, con la volontà di un singolo, un super singolo che si arroga il diritto di parlare a nome della storia, o della classe, o della nazione, o della volontà generale. Chi nega il singolo nella sua autonomia si ritrova alla fine a fare i conti con qualche presunto super uomo.