mercoledì 27 dicembre 2017

PALLE SU GERUSALEMME

Gerusalemme è una città santa per le tre religioni monoteiste.
Questo è come minimo inesatto. Gerusalemme è di certo città santa per l'ebraismo ed il cristianesimo. Lo è anche per l'Islam solo perché i musulmani la conquistarono oltre sei secoli dopo la morte di Cristo e, come pare sia loro abitudine, la dichiararono città santa per l'Islam. Secondo un simile criterio un giorno anche Roma potrebbe diventare città santa per l'Islam...

La risoluzione ONU del 1947 prevedeva uno statuto speciale per Gerusalemme. Questo viene violato dichiarando Gerusalemme capitale di Israele.
La risoluzione ONU del 29 Novembre 1947 prevedeva la creazione di due stati: Israele ed uno stato arabo; Gerusalemme avrebbe dovuto avere uno statuto speciale. Quella risoluzione fu accettata dagli dagli ebrei e rifiutata dagli arabi che iniziarono subito la guerra contro Israele. Gerusalemme fu attaccata dalle truppe Giordane e la sua parte orientale conquistata. La risoluzione del 1947 è stata stracciata dagli arabi. Chiedere che si ritorni a quella risoluzione sarebbe come se nel 1945 la Germania avesse chiesto che tornasse in vigore l'accordo di Monaco del 1938. La cosa è ancora più assurda se si pensa che neppure oggi gli arabi riconoscono la risoluzione 181 del novembre 1947. Infatti non riconoscono Israele e vorrebbero che Gerusalemme fosse capitale della Palestina. L'unico stato arabo che riconosce Israele, l'Egitto, non chiede, com'è del tutto ovvio, il ritorno alla situazione del 1948.

Gerusalemme deve essere aperta ai fedeli di tutte le religioni.
Verissimo, e lo è da quando, nel 1967, gli israeliani hanno strappato armi alla mano la città vecchia ai giordani. Nel periodo fra il 1948 ed il 1967 Gerusalemme è stata divisa e i luoghi santi aperti ai soli musulmani. Durante l'occupazione giordana vennero distrutte le 36 (trentasei) sinagoghe di Gerusalemme est.
Oggi, con Gerusalemme capitale di Israele, tutti i fedeli di tutte le religioni hanno libero accesso ai luoghi sacri. Se Gerusalemme diventasse capitale di un ipotetico stato palestinese la situazione cambierebbe radicalmente.

Gerusalemme dovrebbe diventare capitale di due stati: Israele e la Palestina.
A parte le precedenti considerazioni, i palestinesi NON riconoscono Israele. Hammas ne teorizza la distruzione, punto e basta. La ANP non parla di distruzione di Israele ma ne subordina il riconoscimento al rientro in terra israeliana di quattro, cinque milioni di profughi. Un po' come se un qualsiasi stato si impegnasse a riconoscere diplomaticamente l'Italia in cambio del rientro nel nostro paese di 40 milioni di “profughi”, cioè di figli, nipoti e pronipoti di persone che cinquanta o settanta anni fa preferirono abbandonare l'Italia. Un simile “riconoscimento” significherebbe la fine di Israele per quello che oggi questo paese è: lo stato che ha dato rifugio e protezione al popolo più perseguitato della storia.

Con la sua decisione Trump ha compiuto il “miracolo” di unificare gli stati arabi.
La risoluzione dell'ONU del 1947 che dava vita allo stato di Israele ha “unificato” gli stati arabi. Quando Israele nel 1967 ha sconfitto chi intendeva distruggerlo ha “unificato” gli stati arabi. Tutte le volte che Israele si difende “unifica” i suoi nemici. Li “unifica” per il semplice fatto di esistere. Israele scompaia dalla faccia della terra, in questo modo gli stati arabi non saranno più “unificati”. Ottima tattica!
Tra l'altro priva di fondamento. Gli stati arabi non sono stati affatto unificati dalla decisione di Trump, neppure sul tema caldo dei rapporti con Israele. Non hanno formato alcuna unione sacra né preso misure di ritorsione contro gli USA. Per ora ci sono state solo scontate proteste verbali, un bel po' di propaganda e qualche casino in piazza. In passato si era visto di molto peggio!

La decisione di Trump allontana la pace, rende più difficili i negoziati.
Quale pace, quali negoziati? Il nodo del problema non sono i territori o la stessa Gerusalemme. Il nodo è ISRAELE, il suo riconoscimento per quello che questo stato è: la patria degli ebrei. Il rifiuto di un simile riconoscimento da parte palestinese è totale. Parlare di pace che si allontana, negoziati che diventano impossibili è quindi pura, assoluta ipocrisia.
A parte questo, dove sta scritto che mostrarsi decisi allontana la pace? E' vero esattamente il contrario, è la politica della ritirata continua che allontana la pace e favorisce la guerra; lo dimostrano gli eventi che hanno preceduto lo scoppio del secondo conflitto mondiale. E lo dimostrano, al contrario, le vicende del rapporto fra Israele ed Egitto. L'Egitto ha combattuto tre guerre contro Israele e le ha perse tutte. Alla fine il leader egiziano Sadat ha compiuto un atto di coraggio e realismo ed ha riconosciuto lo stato ebraico, ricevendo in cambio il Sinai perso nella guerra dei sei giorni. Da allora è stata pace fra Israele ed Egitto. Però... però quando, nel 1967, Israele sconfisse gli aggressori egiziani i “realisti” occidentali parlarono di gesto che “allontanava la pace, rendeva impossibili i negoziati” e cose di questo genere...

Gerusalemme era già la capitale di Israele. Non occorreva che Trump peggiorasse le cose.
Cosi ragionano alcuni filo israeliani a cui Trump proprio non va giù. Gerusalemme deve essere la capitale di Israele, ma nessuno la deve riconoscere come tale. Deve esserlo in silenzio, di nascosto. Un po' come se il governo italiano pregasse i governi degli altri stati di non dire che Roma è la capitale d'Italia. “Roma è la nostra capitale, ma voi dite che la capitale è Casalpusterlengo”! Davvero fantastico!



Esiste il problema di Gerusalemme est e questo deve essere risolto da negoziati fra israeliani e palestinesi.

Trump si è limitato a riconoscere la realtà, cioè che Gerusalemme è la capitale di Israele, con i luoghi santi aperti a tutti. Ha esplicitamente lasciato a palestinesi ed israeliani il compito di definire i confini e lo status di Gerusalemme est.

Proviamo a metterci nei panni dei palestinesi...

E perché i palestinesi non provano una volta tanto a mettersi nei panni degli ebrei e degli israeliani? Assumere il punto di vista dell'altro è pratica lodevole, ma non può essere limitata ad una parte sola.

Per i palestinesi la nascita di Israele è stata una catastrofe, figuriamoci Gerusalemme capitale...
Perché mai la nascita, in un territorio enorme, di uno stato grande quanto la Lombardia, in una terra desertica, priva di ricchezze naturali, uno stato che sin dall'inizio ha garantito a tutti i suoi cittadini, ebrei o musulmani che fossero, tutti i fondamentali diritti, a partire dal diritto di praticare il proprio culto, perché mai la nascita di questo stato deve essere considerata una catastrofe? Non esistono spiegazioni economiche, sociali, politiche o nazionali per una simile reazione, tanto più che la nascita di Israele è stata accompagnata dalla nascita di uno stato arabo palestinese. L'unica spiegazione va cercata nel fondamentalismo religioso. Ma, con tutta la buona volontà di questo mondo, una simile motivazione non può essere condivisibile.

Tanto basta, direi.

venerdì 15 dicembre 2017

ABRAHAM YEHOSHUA: UN EBREO ISRAELIANO CONTRO ISRELE, E GLI EBREI


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Abraham B. Yehoshua ha assunto ultimamente alcune posizioni nettamente anti israeliane. Prima ha dichiarato di non essere più favorevole alla formula “due popoli due stati”. Occorre fondare uno stato binazionale che “superi” l'attuale Israele, ha detto. Poi ha assunto una posizione molto dura sulla decisione di Trump di riconoscere che Gerusalemme è la capitale di Israele, arrivando a paragonare il presidente americano a Nerone.
Yehoshua è uno scrittore importante, un intellettuale vero. Non è possibile sbarazzarsi delle sue posizioni con una alzata di spalle. Come mai un ebreo, israeliano, di Gerusalemme e, almeno in passato, sionista è arrivato ad assumere posizioni di fatto coincidenti con quelle dei peggiori nemici di Israele? Penso che possa aiutarci a capirlo un breve testo che lo scrittore ha dedicato anni fa all'antisemitismo: “Antisemitismo e sionismo”, Einaudi 2004.

La tesi che Yehoshua sostiene in questo suo scritto è molto chiara, anche se nascosta da ragionamenti spesso piuttosto contorti: sono gli ebrei i responsabili dell'antisemitismo, o, quanto meno, fra le responsabilità dell'antisemitismo alcune, ed importanti, riguardano direttamente gli ebrei, la loro tradizione, la loro cultura. Si, lo so, sembra incredibile che uno scrittore ebreo israeliano sostenga una tesi simile, ma le cose stanno esattamente così. Per rendersene conto occorre analizzare il contenuto del libro di Yehoshua.
Già il punto di partenza del romanziere di Gerusalemme è assai discutibile.
“La lezione della Shoa”, afferma, “ci costringe a compiere uno sforzo intellettuale maggiore per capire (ma, Dio ce ne guardi, non per giustificare) il meccanismo patologico che porta degli esseri umani a commettere crimini tanto orribili contro gli ebrei” (1).
“Capire ma non giustificare”, sembra quasi un mettere le mani avanti... Proseguiamo.
Una parte del processo che ci dovrebbe portare a “capire senza giustificare” l'antisemitismo, riguarda, a parere di Yehoshua, “la realtà ebraica e il modo in cui essa interagisce con il mondo che la circonda” (2).
Uno studio sulla cultura antisemita dovrebbe partire dalla analisi dell'antisemitismo. Dovrebbe cercare di capire dove affonda le sue radici questo autentico cancro dell'occidente, e non solo, quali mitologie, quali deliri irrazionalisti lo alimentano. Dovrebbe insomma partire dalla analisi della cultura dei carnefici e solo in seconda, o in terza, battuta dovrebbe occuparsi di quella delle vittime. Yehoshua fa esattamente il contrario. Tutta la sua attenzione è rivolta allo studio della identità ebraica, ed è in questa che il nostro autore cerca le cause profonde dell'antisemitismo.
“E' quindi necessario discendere fino alle radici dell'identità ebraica, scavare in profondità, per capire la pericolosa interazione patologica che talvolta si crea fra gli ebrei ed i loro vicini” (3).
Insomma, per capire l'antisemitismo occorre prima di tutto capire gli ebrei. Curiosa posizione, che ricorda i deliri di tanti occidentali che per capire il terrorismo islamico analizzano le “colpe” storiche, e non solo, dell'occidente.

Quale è la causa profonda dell'antisemitismo? Yehoshua rifiuta le tesi di chi vede in questo fenomeno una conseguenza dell'invidia che molti proverebbero nei confronti degli ebrei. E' vero che spesso gli ebrei sono riusciti a conquistare posizioni di assoluto prestigio nelle società che li ospitavano, ma a livello di massa sono rimasti una minoranza emarginata e molto spesso assai povera. Pensare che un gran numero di esseri umani potessero provare invidia nei confronti di persone in un simile stato è completamente fuorviante.
Alle radici dell'odio antisemita non sta l'invidia, sta qualcosa di più profondo, afferma Yehoshua: la paura. Gli ebrei fanno paura: questa la tesi di partenza di Abraham Yehoshua. Quale che sia la sua validità, fa sorridere che lo scrittore israeliano non si renda conto che contro la tesi della paura si possono avanzare le stesse obiezioni che è possibile avanzare contro quella dell'invidia. Chi invidierebbe una comunità di emarginati, poveri ed umiliati? Si chiede polemicamente Yehoshua. Ma con altrettante ragioni ci si può chiedere: a chi dovrebbero davvero far paura questi emarginati, umiliati e poveri?
Ma questi in fondo sono dettagli. Il punto fondamentale è legato alla domanda: perché mai gli ebrei farebbero paura? Quale è la causa di questo insano sentimento che starebbe dietro a tanti secoli di persecuzioni? La causa, risponde Yehoshua, va cercata dentro la identità ebraica, nella sua caratteristica principale. La causa è costituita dalla identificazione fra religione e nazionalità che, per Yehoshua, è tipica degli ebrei e solo di loro.

Nella storia dell'occidente la nazione non si è mai identificata con la religione. Una religione, molte nazioni, e, al converso, una nazione, molte religioni sono i due fenomeni che per Yehoshua  hanno caratterizzato la storia occidentale. Per gli ebrei questo non è avvenuto. I legami nazionali fra gli ebrei sono oltremodo labili. Poco o nulla accomunava un povero contadino ebreo russo ad un ricco imprenditore ebreo statunitense. Il loro solo legame era religioso. In occidente si sono avute numerose nazioni cristiane, o addirittura cattoliche, e, per converso, all'interno di ogni nazione hanno convissuto membri di religioni diverse. Questo non è avvenuto per gli ebrei. In loro una estrema labilità dei legami nazionali ha sempre convissuto con un nucleo culturale unificante costituito dalla religione.
Di nuovo, la ricostruzione di Yehoshua appare quanto meno fortemente lacunosa. Che i legami nazionali fra gli ebrei siano sempre stati assai labili è vero, ma questo può dirsi di molte altre, se non di tutte, le nazionalità. E in tutte le nazionalità la religione è stata quanto meno uno degli elementi unificanti fra le persone. Ed è vero che sono esistite ed esistono molte nazioni caratterizzate dall'avere una unica religione, il cristianesimo ad esempio, ma questa è la naturale conseguenza del fatto che tale religione si è diffusa enormemente ed ha conquistato centinaia di milioni di esseri umani, che si sono organizzati in stati nazionali indipendentemente dalla religione di appartenenza; come si vede una situazione del tutto diversa da quella degli ebrei, piccolissima minoranza della popolazione mondiale. Non è vero invece che il principio “una nazione molte religioni” sia sempre stato applicato in occidente. E' vero esattamente il contrario. Basta pensare alle interminabili guerre di religione, ai massacri di “infedeli”,
alle innumerevoli persecuzioni degli ebrei di cui sono piene le storie dell'occidente e dell'islam, per rendersi conto che l'esclusivismo religioso non è di certo un monopolio ebraico, al contrario. Escludere dalla nazione i fedeli di altre religioni è stata una caratteristica peculiare della cristianità e dell'islam. Solo recentemente, e solo in occidente, questa è stata superata. Ed è stata superata anche dagli ebrei, anzi, da loro meglio che da altri.

Proseguiamo. L'identità ebraica, fondata sulla identificazione fra religione e nazionalità è nel contempo forte e sfuggente, evanescente e solida. Una sorta di identità virtuale, una presenza inafferrabile ma estremamente reale che spaventa, fa paura a chi ebreo non è. Lasciamo di nuovo la parola a Yehoshua. “La componente virtuale presente nell'ebreo, sviluppatasi intorno al doppio nocciolo, durissimo e denso, di nazionalità e religione, gli permette quindi di tendere le ali della sua identità sino a limiti distanti e indefiniti, rendendole sottilissime e facendo si che penetrino con facilità nell'identità di altri popoli senza che questi siano sempre in grado di riconoscere ciò che è insinuato in loro e senza la certezza di poterlo assimilare in modo soddisfacente” (4). Spiace dirlo ma qui Yehoshua sembra fare propri i peggiori miti dell'antisemitismo classico. La figura dell'ebreo forte e sfuggente, che si insinua ovunque ed ovunque tutto corrompe è stata caratteristica del nazismo, Yehoshua di certo lo sa bene. Non è allora un caso, forse, se si sente in dovere di specificare che tutto questo non giustifica in alcun modo gli antisemiti: “La comprensione del processo di interazione fra l'immaginario ebraico e quello gentile non assolve gli antisemiti dalla responsabilità morale dei loro crimini” (5)
Insomma, l'identità ebraica è tale da spaventare, fa paura, ma questo non giustifica chi reagisce in maniera inconsulta a questo sentimento, per il resto legittimo. La precisazione di Yeoshua sa tanto di “exusatio non petita”.
Del resto, se, a parere di Yehoshua, il carattere “pauroso” della identità ebraica non giustifica gli antisemiti e le persecuzioni, queste non eliminano le responsabilità degli ebrei. Lo stesso atteggiamento degli ebrei nei confronti dell'antisemitismo “risulta” dice Yehoshua, “piuttosto complesso. Da un lato vi è la rabbia e la paura, dall'altro un bisogno fortissimo di occuparsi di questo fenomeno, di ingigantirlo (!), perché serva da cemento rinsaldante nell'infrastruttura della elusiva identità ebraica”. (6)
Gli ebrei che che “ingigantiscono” il fenomeno dell'antisemitismo per rinsaldare la loro unità! Parole che ricordano le farneticazioni di un Ahmadynejad!
Ma non è tutto. L'identità insieme coesa e sfuggente degli ebrei costituisce per Yehoshua una sorta di chiave miracolosa in grado di spiegare tutto o quasi della vicenda del popolo più perseguitato della storia. La diaspora, ad esempio, non fu imposta agli ebrei, fu una loro scelta dolorosa “nevrotica, compiuta (…) perché, malgrado i i rischi, le sofferenze e le umiliazioni che essa comportava aiutava a risolvere il peso del conflitto (e del paradosso) insito nella loro identità. Solo nella diaspora infatti poteva sussistere un modus vivendi, uno status quo, una tregua tra i due diversi codici di comportamento: quello nazionale e quello religioso” (7).
Una nazione che si definisce soprattutto in base alla religione poteva vivere come tale solo nella diaspora! Come mai allora questa nazione - religione ebbe per secoli un proprio regno? E come mai nella diaspora nacque e si alimentò l'ideale sionista che tendeva appunto a dare una patria agli ebrei? Chi cercasse nel testo di Yeoshua una risposta a queste ovvie domande resterebbe molto deluso.

Non stupisce, date simili premesse, la conclusione a cui arriva Yeoshua. Val la pena di citare per esteso il brano che costituisce il punto centrale di tutto il suo discorso.
“Nel corso della storia anche noi ebrei siamo diventati cittadini di altre nazioni esigendo, a ragione, pieni diritti. Se altri popoli si fossero comportati come noi, vincolando l'appartenenza alla nazionalità a quella di una particolare religione, ciò non sarebbe stato possibile e noi avremmo dovuto abbandonare la diaspora e fare ritorno alla terra di Israele, oppure rassegnarci ad una condizione di eterni stranieri . In altre parole siamo noi a violare il principio di reciprocità nei confronti degli altri popoli e questo è moralmente sbagliato” (8 - sottolineatura mia).
Sarebbe fin troppo facile rispondere a queste incredibili affermazioni di Yehoshua ricordandogli che per secoli gli “altri popoli” non hanno affatto concesso agli ebrei i “pari diritti”, ed in medio oriente questi non vengono loro concessi neppure oggi. O che il “ritorno alla terra di Israele” è stato per secoli una scelta tragicamente impossibile, o ancora che poche minoranze hanno cercato con più convinzione di quella ebraica di integrarsi nei paesi di appartenenza, e nessuna di loro ha dato alla cultura di questi paesi un contributo paragonabile neppure alla lontana con quello della comunità ebraica. Sarebbe facile, ma non basta.

Al di la di tutte le polemiche occorre misurarsi con il piccolo grumo di verità che sta dentro le argomentazioni di Yehoshua, tipico grumo di verità che serve sempre a mascherare e a rendere più digeribili le peggiori menzogne.
E' vero che nella definizione della identità nazionale ebraica la religione gioca un ruolo maggiore che non in quella di altre nazioni. In questo non c'è nulla di strano o negativo. Cosa caratterizza l'identità nazionale? Un insieme di fattori che, a ben vedere e cose, variano da nazione a nazione. Linguaggio, storia, legame con un territorio, tradizioni, usi e costumi, valori condivisi, religione. In una certa nazione prevalgono certi fattori, in un'altra certi altri. Certe nazioni sono deboli perché sono deboli i legami che le uniscono. Nell'Islam ad esempio il legame nazionale è secondario rispetto a quello religioso che unifica o divide i musulmani indipendentemente dal fatto che siano iracheni o iraniani, sauditi od algerini. Nei paesi occidentali sono importanti i legami linguistici, territoriali e storici, del resto erosi da processi migratori incontrollati. Gli ebrei sono stati divisi, sparsi per il mondo, privi di un loro territorio, per circa due millenni. Nulla di strano se hanno potuto, e saputo, conservare la loro identità proprio riferendosi alla comune religione ed alla tradizione ad essa connessa. In questo non c'è nulla di particolarmente negativo, nulla che richiami ad alcun esclusivismo settario. Se una nazione si definisce prevalentemente in base alla tradizione religiosa è chiaro che chi non fa parte di quella tradizione non fa parte di quella nazione, esattamente come una nazione che si definisca prevalentemente in base alla lingua non può considerare suoi membri coloro che non parlano quella lingua.
Il richiamo alla comune tradizione ha permesso agli ebrei, a tutti gli ebrei, compresi quelli non credenti o agnostici, di conservare la loro identità. Ma questo non ha impedito loro di integrarsi nei paesi di appartenenza, di diventare, rimanendo ebrei, ottimi cittadini tedeschi, o francesi o americani e di dare, val la pena di ripeterlo, alla cultura, alla politica, all'arte, alla musica, alla economia, dei paesi ospitanti un contributo che è impossibile sopravalutare; un contributo talmente grande che i paesi che hanno cacciato gli ebrei sono stati profondamente danneggiati dalla loro scelta sciagurata.
E il legame con una tradizione prevalentemente religiosa non ha impedito agli ebrei, quando questi hanno finalmente avuto un loro stato, di organizzare in maniera laica, democratica e liberale le relazioni fra i cittadini. Certo, un musulmano od un buddista israeliani non possono definirsi ebrei, come potrebbero? Ma possono definirsi israeliani e come tali hanno tutti i diritti ed i doveri di tutti i cittadini israeliani, ovviamente se non seguono le sirene del fondamentalismo omicida. Il problema vero non è costituito da quale sia il cemento che fa si che una nazione sia tale. Il problema davvero importante è costituito da come questa nazione organizza il proprio stato, se ne ha uno, dai diritti e dai doveri che in questo stato sono concessi ai cittadini, per farla breve, dai livelli di libertà, democrazia, diritti civili che lo caratterizzano. E in questo gli ebrei, ed il loro stato, non devono ricevere lezioni da nessuno.

Yehoshua è probabilmente un liberal e come tale deve trovare particolarmente insopportabile il fatto che una nazione possa definirsi soprattutto in base al legame con una tradizione religiosa. Ed è automaticamente portato a collegare un simile tipo di identità nazionale con l'esclusivismo, il separatismo e chissà, forse, sotto sotto, con una inconfessabile capacità di corrompere ogni ambiente sociale.

Gli ebrei hanno saputo conservare la loro identità riuscendo nel contempo ad integrarsi ampiamente nelle società ospitanti. Questa loro caratteristica positiva è stata invece fonte di sospetto ed ostilità. E' questo che andrebbe analizzato, questo il problema, il male misterioso da cercare di capire. Yeoshua invece preferisce mettere sul banco degli imputati la "identità ebraica", la sua identità. Come un grande ebreo antisemita, Karl Marx, anche Yehoshua pensa probabilmente che esista una “questione ebraica” ed ha un suo modo di risolverla: eliminare il legame fra nazione e religione ebraica. Se l'ebraismo è nazionalità, “allora che sia tale, senza alcuna condizione di credo religioso. E se religione allora che sia aperta anche a persone di altra nazionalità” (9).
Insomma, lo scrittore di Gerusalemme propone che l'ebreo cessi di essere tale, visto che in tutte le pagine del suo saggio, ed in molti dei suoi romanzi, non fa altro che mettere in risalto il legame fra ebraismo e tradizione religiosa. Non c'è nulla di male in questa proposta, sia ben chiaro. Le identità culturali e nazionali, religiose o non religiose che siano, possono nascere e morire, rinforzarsi e dissolversi. Solo, appare strano che un ebreo si auguri la dissoluzione dell'ebraismo nel momento stesso in cui questo è sotto attacco da parte del fondamentalismo islamico. Ed è semplicemente indecente che si ritenga di aver trovato nella tradizione ebraica la causa vera di due millenni di persecuzioni.
Soprattutto, questa visione “liberal” è alla base delle proposte politiche di Yehoshua riguardo ad Israele. Come si è detto Yehoshua non crede più alla prospettiva "due popoli due stati", al suo posto propone una Israele (magari con un nome di verso) binazionale, uno stato ebraico – palestinese del tutto diverso da ciò che Israele è oggi ed è stato nei settanta anni della sua vita.
Israele è già ora uno stato liberal democratico, plurinazionale e tollerante in materia religiosa. Da questo punto di vista la proposta di Yehoshua non contiene nulla di nuovo. Ma è anche lo stato che ha dato rifugio e protezione al popolo più perseguitato della storia. E' potuto essere questo, anche se molti suoi cittadini non ebrei ne sognano la fine, perché la sua componente ebraica è sempre stata largamente maggioritaria. Ora Yehoshua propone candidamente una Israele abitata da, diciamo, sei milioni di ebrei e dieci milioni di palestinesi, senza minimamente chiedersi quale sarebbe in un simile stato il destino degli ebrei. Da buon “liberal” immagina che tutti gli esseri umani basino le loro azioni sulla tolleranza, il rispetto, il riconoscimento reciproco e paritario di diritti e doveri. Ed è convinto che per nessuno la religione si trasformi in politica, che nessuno vagheggi in qualche modo la teocrazia. Insomma, crede che il mondo sia abitato da liberal come lui, con qualche eccezione, ad esempio i cattivissimi Trump e Nattanyauh. Così può favoleggiare su uno stato “palestinese” simile ad una sorta di Svizzera medio orientale, senza integralismi, odi religiosi, pieno di amore di tutti per tutti. Un quadretto che farebbe solo ridere se non nascondesse una realtà tragica. La “Svizzera medio orientale” vagheggiata da Yehoshua sarebbe il teatro di nuove persecuzioni anti ebraiche, forse di un nuovo olocausto. Ma questo non preoccupa il nostro “liberal”. Come tanti altri occidentali politicamente corretti anche lo scrittore israeliano si è costruito un islam moderato, laico, tollerante e lo ha messo al posto di quello reale. Nel caso di Yeoshua questa immagine melensa e zuccherosa viene a sostituire una realtà che più che altrove è impastata di violenza, intolleranza, antisemitismo violento e fanatico. E questo non depone a favore dello scrittore, ovviamente.

Abraham B. Yehoshua è uno scrittore importante, val la pena di ripeterlo. Un romanzo come “Il signor manu” ricostruisce a ritroso il formarsi della identità ebraica con ammirevole acutezza e disincanto. Per questo le sue posizioni sono particolarmente gravi e destinate ad offrire spunti ed armi polemiche ai nemici di Israele. Non quelli che vogliono uno “stato binazionale”: non esistono troppi personaggi simili, a parte Yehoshua ed altri intellettuali lontani dal mondo. Le offrono a coloro che oggi strillano “Palestina libera”, intendendo con questo la fine dello stato di Israele, o che vogliono “buttare a mare” gli ebrei. Nel loro sonno politicamente corretto persone come Yehoshua non si avvedono di questi personaggi, li hanno eliminati dalla scena. La scena però è loro, piaccia o non piaccia la cosa agli intellettuali del politicamente corretto. Per questo noi, che intellettuali non siamo, che non abbiamo l'erudizione profonda né la grande abilità nello scrivere che invece è patrimonio di Yehoshua, abbiamo tutto il diritto di dire a questo signore: “la rispettiamo come scrittore, ma ci permettiamo di non rispettare affatto le sue considerazioni storiche e filosofico politiche.”
Torni ai suoi romanzi, è molto meglio!




NOTE

1) Abraham B. Yehoshua: Antisemitismo e sionismo, Einaudi 2004 pag. 28.
2) Ibidem pag. 28
3) Ibidem pag. 29
4) Ibidem pag. 49
5) Ibidem pag. 55
6) Ibidem pag. 47
7) Ibidem pag. 79
8) Ibidem pag. 81.
9) Ibidem pag. 89

lunedì 13 novembre 2017

NUMERI E DINOSAURI


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Qualcuno in Italia si è ricordato del centenario della rivoluzione d'Ottobre: i ruderi del comunismo. Dopo aver marciato a Mosca questi dinosauri hanno marciato di nuovo, a Roma, ricordando i vecchi, gloriosi, 10 giorni che sconvolsero il mondo. Uno dei loro leader, Marco Rizzo, intervistato, ha negato con forza che il comunismo reale sia costato al genere umano, più o meno, 100 milioni di vittime.
“Cosa significa”, ha detto Rizzo, “affermare che il comunismo ha prodotto 100 se non addirittura 120 milioni di morti (...)? Nulla. In primo luogo perché si tratta di numeri gonfiati e privi di riscontro storiografico attendibile.”
Numeri privi di riscontro. Certo, nessuno li ha contati uno ad uno quei morti, esattamente come nessuno ha mai contato una per una le vittime del nazismo. Tra l'altro nei vari paradisi dei lavoratori era molto, molto difficile effettuare indagini oggettive ed equilibrate. Le uniche cifre disponibili erano quelle diffuse dalle autorità ufficiali, e tanto dovrebbe bastare per insospettire persone dotate di normale buon senso.
Ma non si tratta affatto, come il signor Rizzo lascia intendere, di cifre buttate li a caso. La scrittrice e saggista cinese Jung Chang e suo marito Jhon Halliday calcolano le vittime del maoista “gran balzo in avanti” in maniera estremamente accurata: confrontano il numero dei morti, fornito dalle statistiche ufficiali, negli anni immediatamente precedenti e successivi il periodo 1958 - 1961. La media dei decessi nei tre anni precedenti il 1958 è pari a 1,08% della popolazione totale. Quella dei tre anni successivi al 1961 è dell'1%. Nei quattro anni del “gran balzo in avanti” le percentuali dei morti furono del 1,20%, 1,45%, 4,34% e 2,83. In quegli anni ci fu, per riassumere, una eccedenza di morti pari a 37,67 milioni. Queste cifre sono sufficientemente accurate a parere del signor Rizzo?
Ma, sono da addebitare al regime quei morti? Sicuramente SI. Mao mise in atto una politica di autentica spoliazione delle campagne. I contadini vennero obbligati ad entrare nelle comuni popolari dove lavoravano praticamente come schiavi. Il raccolto veniva quasi completamente loro sottratto. Mao intendeva incrementare le esportazioni di generi alimentari per finanziare il programma di riarmo atomico della Cina, e non indietreggiò di fronte a nulla.
“Durante i due anni critici”, il 1958 ed il 1959”, ricorda Juang Chang in Mao, la storia sconosciuta, “le sole esportazioni di cereali, che ammontarono quasi certamente a sette milioni di tonnellate, avrebbero potuto fornire l'equivalente di oltre 840 calorie al giorno per 38 milioni di persone: la differenza fra la vita e la morte”.
Val solo la pena di aggiungere che simili politiche terroriste furono messe in atto anche in URSS. Lo storico sovietico Roy Medved, non un “anticomunista viscerale”, potremmo definirlo un comunista riformatore, calcola in circa 22 milioni di morti le vittime del solo stalinismo. E ricorda che negli anni del grande terrore nella sola Mosca si fucilavano circa 2000 persone al giorno!

Ma il signor Rizzo non si limita a contestare le cifre sulle vittime del comunismo, aggiunge polemicamente acute considerazioni sulle vittime del capitalismo.
“Quanti sono” si chiede, “i morti causati dalle guerre capitalistiche in duecento anni? Quanti quelli delle carestie, determinate dalle politiche imperialiste nel continente africano? Quanti morti ha prodotto l’assenza di assicurazioni sociali e sanitarie per i lavoratori nella democratica America? Se ragionassimo con gli stessi criteri che si vogliono applicare ai “morti del comunismo” non c’è alcun dubbio, il capitalismo è il sistema più criminale della storia”.
Molto interessante. Il signor Rizzo prima stabilisce che tutte le guerre sono causate dal “capitalismo”, quindi mette i morti di tutte le guerre degli ultimi due secoli a carico di questo sistema. Ideologia, contrasti dinastici, nazionalismi, fanatismo religioso, tutto scompare. Resta solo la cupidigia borghese tesa ad allargare senza sosta i mercati, in una parola, il “capitalismo”, e questo è responsabile di ogni guerra e di tutte le sue vittime.
Sono a carico del “capitalismo” anche i morti delle guerra fra stati comunisti come la Cina, il Vietnam e la Cambogia, o le vittime provocate dalle innumerevoli guerre civili che dilaniano l'Islam? E che dire della seconda guerra mondiale nel cui scoppio sono evidentissime le responsabilità dell'URSS? I morti causati dall'aggressione sovietica alla Polonia, divisa in parti eguali fra Stalin ed Hitler, sono da addebitare al “capitalismo”? Gli ufficiali polacchi massacrati a Katyn sono da mettere in carico alla “borghesia internazionale”? E che dire di quelli causati dal modo con cui Stalin condusse la guerra, a partire dalla sottovalutazione criminale dei pericoli di attacco tedesco? l'URSS ha avuto nel secondo conflitto mondiale, da sola, quasi altrettanti caduti di tutte le altre potenze messe insieme. Colpa della furia hitleriana, certo, ma anche della totale insensibilità di Stalin per le sofferenze del suo popolo. Anche questo è a carico dell'economia di mercato?

Considerazioni analoghe si possono fare per le altre cause di morte che il signor Rizzo ascrive alla “cupidigia capitalistica”.
Se in paesi sottosviluppati, in cui il capitalismo di fatto non esiste, la speranza di vita è molto bassa la colpa di chi sarà mai? Domanda inutile... sarà del... capitalismo! E se in quei paesi scoppia una carestia la responsabilità è di certo dell'imperialismo capitalista, anche se si tratta di paesi di fatto marginalizzati dal mercato mondiale, semmai è questo il loro problema!
Si prenda la classifica mondiale dei paesi per speranza di vita (aggiornata al 2014) I primi dieci sono tutti paesi capitalisti. Al primo posto si situa il Giappone, con una speranza di vita di 82,5 anni, al secondo l'Italia, al quinto la Svizzera. La Cina è al posto numero 83, la Corea del Nord occupa il numero 122. Negli Usa, che pure sono indietro nella classifica, posto n. 29, si vive in media quasi 80 anni, in Corea del nord 69, se i dati forniti da questo democratico paese sono attendibili, cosa quanto meno dubbia. Ma di questo non si occupa il signor Rizzo: preferisce mettere in conto al capitalismo le morti per malattia degli americani poveri non coperti da polizza sanitaria.

In realtà quando si parla delle morti causate dal comunismo non ci si riferisce ai caduti per incidenti sul lavoro, o ai morti per malattia imputabili ad un cattivo sistema sanitario. I cento milioni di morti non includono le vittime di Cernobyl o quelle per incidenti in qualche modo ascrivibili ad una economia assolutamente inefficiente. Non comprendono neppure i soldati sovietici caduti nel corso del secondo conflitto mondiale, anche se molti di loro sarebbero da imputare alla conduzione staliniana dello stesso, e neppure i caduti cinesi nella guerra di Corea. Quei cento milioni di morti comprendono solo le vittime di specifiche politiche criminali messe in atto dai vari Stalin, Mao, Pol Pot, Castro eccetera.
Comprendono i caduti nei campi di lavoro forzato, o di “rieducazione”, i tristemente famosi gulag e laogai, comprendono i contadini morti di fame a causa delle requisizioni dei raccolti, della “eliminazione del Kulak in quanto classe”, della collettivizzazione forzata dell'agricoltura in URSS ed in Cina. Comprendono le vittime dei Kmer rossi, i cambogiani deportati nelle campagne e costretti a massacranti lavori forzati. Comprendono, per fare un esempio specifico, i 250.000 (DUECENTOCINQUATAMILA) lavoratori forzati caduti in meno di due anni durante la costruzione di un canale fra il mar baltico ed il mar bianco, opera che alla fine si rivelerà del tutto inutile, ma fortemente voluta da Stalin. Di questa opera parla Solzgenicyn in “arcipelago gulag”. Di certo il grande scrittore non è simpatico al signor Rizzo. Bene, ammettiamo, per pura comodità di ragionamento, che Solzgenicyn abbia esagerato, che i morti siano stati non 250.000 ma “solo” 25.000. Ebbene, il signor Rizzo è in grado di citare la costruzione di una sola grande opera in un qualsiasi paese capitalistico che sia costata in meno due anni non 25.000 ma “solo” 2.500 morti? Non credo...
Ed ancora, quei cento milioni di morti comprendono i militanti fucilati dei partiti non bolscevichi, gli operai spediti in Siberia o al plotone di esecuzione per avere scioperato, o i contadini giustiziati per aver rubato un pugno di grano. Comprendono anche le vittime della grandi purghe, moltissimi comunisti. Fra loro ci sono i marinai di Kronstad, prima definiti “eroi della rivoluzione”, poi fatti giustiziare in massa da Trotzy. Comprendono lo stesso Trotzky, dopo Lenin il principale organizzatore del colpo di mano dell'Ottobre. Comprendono numerosi stalinisti e maoisti, come Kirov, il cui omicidio che diede inizio alla fase più selvaggia delle purghe fu probabilmente organizzato da Stalin, o Sorgo Ordzonikidze, vecchio compagno d'armi del tiranno georgiano, suicidatosi nel 1937, quando capì che Stalin aveva deciso di eliminarlo, o come Lin Piao, prima fanatico diffusore del libretto rosso poi “traditore” del comunismo maoista. Il signor Rizzo parla, bontà sua, degli “errori” del socialismo reale. Un simile accenno ad “errori” sarebbe bastato negli anni 30 a spedirlo al plotone di esecuzione. Se fosse vissuto nel “paese dei lavoratori”!
E' inutile continuare. Il signor Rizzo si è chiesto dove si arriverebbe se si applicassero al capitalismo i criteri di conteggio delle vittime che qualcuno applica al comunismo. E' vero precisamente il contrario: se si applicassero al comunismo i criteri che il signor Rizzo usa col capitalismo i morti per comunismo non sarebbero 100 milioni, questa cifra dovrebbe essere almeno raddoppiata, o triplicata. E tanto basta.

Per concludere un'ultima considerazione. Le società democratiche dell'occidente, che è abbastanza riduttivo definire semplicemente come “capitaliste”, non sono di certo perfette. I loro sistemi politici sono difettosi, i diversi sistemi sanitari, assicurativi o fiscali spesso degni di critiche; in esse esistono corruzione e violenza. Insomma sono tutto meno che “paradisi”.
La accumulazione originaria capitalista dal canto suo è costata enormi sofferenze ad una grande quantità di esseri umani, ed anche oggi l'economia di mercato non è di certo un meccanismo perfetto. Inflazione, disoccupazione, spesa pubblica abnorme, diavolerie di una finanza fuori controllo, incertezza del futuro: l'elenco dei problemi delle moderne economie occidentali è lungo, e nulla assicura che saranno risolti positivamente.
Però una cosa è possibile dirla. Queste economie, grazie anche all'intervento della politica, si sono dimostrate in grado di auto riformarsi. I confini della democrazia si sono allargati consentendo a tutte le classi sociali di far sentire la loro voce . Alcune fondamentali rivendicazioni dei lavoratori sono state soddisfatte, sia pure al prezzo di lotte a volte aspre. Piaccia o non piaccia ai nostalgici dell'ottobre rosso, oggi la classe operaia, e più in generale i lavoratori, sono sostanzialmente integrati nel sistema, il che non vuol dire che non abbiano loro interessi da difendere e valori da propugnare, significa però che questi non sono un fattore di crisi permanente del sistema stesso. La lotta di classe insomma non ha distrutto il sistema, lo ha aiutato a trasformarsi ed in definitiva è finita col rafforzarlo.
Non si può dire lo stesso del comunismo. E' bastata un po' di trasparenza, la concessione di un minimo di libertà personali, una piccola crepa nel muro di Berlino ed il sistema è imploso miseramente su se stesso. E' rimasto in piedi in Cina, solo grazie alla trasformazione in una incredibile mistura di liberismo economico e autoritarismo politico, o in un paesi come la Corea del nord, non a caso aggressivo, chiuso al mondo e sempre più simile ad un lager a cielo aperto. Questa parabola del comunismo dovrebbe far riflettere le persone che vogliono affiancare la ragione alla fede.
Non ce ne sono però, fra i nostalgici di Stalin, Mao e Pol Pot.

lunedì 30 ottobre 2017

A CENTO ANNI DALL'OTTOBRE ROSSO


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Praticamente ignorato dai media il centenario della rivoluzione di ottobre. Eppure si è trattato dell'evento più importante dello scorso secolo e di uno dei più importanti della storia. Perché tanto imbarazzato silenzio su un evento, questo si, davvero “epocale”? Per cercare di capirlo occorre spendere qualche parola sul quei fatti lontani, ma sempre vicini.

Volontarismo o determinismo?

“La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (...). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie.”
Così Antonio Gramsci commentava la rivoluzione di Ottobre. I marxisti ortodossi pretendevano che la rivoluzione comunista fosse preparata da una lunga fase di sviluppo capitalistico, mai avrebbero accettato che il proletariato prendesse il potere in un paese arretrato, in larga misura contadino come la Russia. I bolscevichi hanno messo le cose a posto, afferma Gramsci. Hanno dimostrato che le fasi storiche si possono saltare. Il loro è stato il trionfo della volontà. Trionfo che è andato oltre la lettera del marxismo, ma ne ha attuato lo spirito. Perché il marxismo è teoria della rivoluzione oltre e prima che scienza e, in quanto teoria della rivoluzione, deve rendere possibile la vittoria del partito della rivoluzione proletaria.

Le parole di Gramsci evidenziano molto bene le controversie teoriche che fanno da sfondo al dramma dell'Ottobre russo.
Per i marxisti della seconda internazionale la rivoluzione d'Ottobre è semplicemente una eresia. E' facile per loro opporre ai bolscevichi citazioni su citazioni in cui Marx ed Engels affermano che il comunismo è la fase finale di un lungo processo storico, il salto dal regno della necessità a quello della libertà preparato e reso possibile da un lento modificarsi delle circostanze e degli uomini. “La rivoluzione proletaria è il movimento autonomo dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza”, aveva scritto Marx nel “Manifesto del partito comunista”. Ed è lo sviluppo del modo di produzione capitalistico che consente a questa rivoluzione “dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza” di affermarsi. Suoi presupposti sono la proletarizzazione e la radicalizzazione rivoluzionaria di gran parte della società. Sostituire a questo complesso processo l'azione risoluta di una avanguardia rivoluzionaria trasforma, affermano i socialdemocratici della seconda internazionale, il marxismo in blanquismo. Porta il movimento socialista alla disfatta, o alla degenerazione della rivoluzione in una dittatura giacobina che poco o nulla ha a che vedere con il socialismo.
C'è una buona dose di verità nelle analisi dei marxisti della seconda internazionale. Il marxismo ha sempre preteso di essere una scienza e di fondare le sue profezie sull'analisi oggettiva del modo di produzione capitalistico, delle sue tendenze di sviluppo e crisi. Ma c'è anche in quelle analisi una una formidabile dose di unilateralità. Perché se è vero che il marxismo è, pretende di essere, una scienza è anche, come giustamente vede Gramsci, un'arma nelle mani di chi si pone l'obiettivo di abbattere il capitalismo e costruire una società radicalmente nuova. Il marxismo unifica fatti e valori: la dinamica sociale, un fatto, porta “inevitabilmente” alla rivoluzione proletaria, un valore. Per realizzarsi però questo valore ha bisogno dell'azione della avanguardia cosciente del proletariato. Non è qui il caso di sottolineare troppo la contraddizione fra una dinamica sociale che dovrebbe avere uno sbocco “inevitabile” e la necessità di una azione cosciente che permetta la concreta affermazione di tale “sbocco”. Il fatto davvero importante, decisivo, è in fondo un altro. Il fine a cui la storia “spontaneamente” tende è per Marx, e per tutti i marxisti, un fine assoluto. Non si tratta di una società un po' migliore di quella attuale, di una democrazia più diffusa, una economia più produttiva, libertà civili meglio garantite, leggi davvero giuste. No, si tratta del rovesciamento radicale non solo dell'ordinamento sociale oggi esistente, ma di ogni tipo di ordinamento sociale così come fino ad oggi è stato inteso in vari modi. Il comunismo si identifica per Marx con l'estinzione dello stato e della necessità della mediazione politica; col “superamento” del lavoro inteso come mezzo per ottenere beni e servizi, quindi del calcolo economico e della economia politica; con la fine del diritto e della regolamentazione legislativa dei rapporti fra gli esseri umani. In una parola, il comunismo è la società perfetta, priva di qualsiasi tipo di contrasto, ed in questa società si afferma un tipo umano del tutto nuovo, privo dei difetti e delle meschinità che per millenni hanno caratterizzato gli esseri umani empirici. Il comunismo è il paradiso che abbandona la trascendenza per trasferirsi trionfalmente nella immanenza terrena. E' “l'enigma finalmente risolto della storia” aveva scritto il giovane Marx nei “manoscritti economico filosofici” del 1844. Il Marx maturo, “scientifico” non abbandonerà mai questa visione escatologica del fine comunista del genere umano.

Non ci vuole molto per rendersi conto che un fine simile non può essere abbandonato da chi realmente crede alla sua realizzazione. Non si rinuncia al paradiso per il piatto di lenticchie di una società buona ma piena di terrene imperfezioni. Marx aveva creduto di poter fondare scientificamente la profezia della realizzazione di questo fine, in realtà la aveva sin dall'inizio fondata non sulla scienza ma sulla dialettica hegeliana. In ogni caso il reale movimento della società non confermava né la prima né la seconda. Gli operai veri, i lavoratori in carne ed ossa, erano disposti a lottare, anche duramente, per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, ma non per realizzare l'assoluto. Quando i marxisti ortodossi della seconda internazionale contrapponevano al volontarismo dei bolscevichi l'analisi scientifica di Marx commettevano quindi un errore madornale: non si rendevano conto che quella analisi “scientifica” si dimostrava ogni giorno di più come sbagliata. I marxisti ortodossi non intendevano abbandonare il fine assoluto, ma continuavano a ripetere che questo sarebbe stato reso possibile dal movimento “spontaneo” ella società. I bolscevichi avevano capito che questo movimento non realizzava alcun fine assoluto e, dando prova di fanatica determinazione, avevano deciso di sostituire la loro azione ad una evoluzione sociale che andava in direzione opposta ai loro desideri. I bolscevichi orgogliosamente contrapponevano il valore della loro azione concreta alle astratte teorie dello sviluppo storico. I marxisti ortodossi contrapponevano al volontarismo leninista un richiamo alle leggi della storia che appariva sempre più smentito dalla storia reale. A fronte della rivoluzione reale messa in atto dai bolscevichi si richiamavano ad una una rivoluzione irreale. Nel contrasto fra Lenin e Kautsky è il primo ad essere davvero realista; il secondo, malgrado tutti i suoi richiami al materialismo ed alla scienza, è un idealista.

Il fine assoluto e la sua realizzazione

Il fine assoluto di Marx non si realizzava; in realtà non poteva realizzarsi perché posto al di la delle possibilità umane. Si tratta di un fine non accidentalmente, ma radicalmente, ontologicamente impossibile. Di fronte a questo dato di fatto erano possibili solo due alternative: o abbandonare il fine, ed è quello che dopo lunghe esitazioni faranno gli esponenti delle varie socialdemocrazie europee, o cercare di imporlo alla società tutta, comprese le classi che si ritenevano rivoluzionarie. Ed è la scelta che faranno Lenin ed i bolscevichi.
Se l'evoluzione sociale non va nella direzione del socialismo-comunismo al diavolo l'evoluzione sociale. Questa la scelta di Lenin e dei bolscevichi. In fondo anche l'azione di un partito determinato, formato da rivoluzionari di professione, fa parte dell'evoluzione sociale, anche le sue scelte sono parte della storia. Prendendo il potere ed imponendo a tutte le classi la loro politica i bolscevichi dimostrano che la rivoluzione è possibile. La loro vittoria “dimostra” la correttezza “scientifica” del loro operare. E poco importa se questo operare si concretizza in leggi liberticide, repressione generalizzata, introduzione su vasta scala del lavoro forzato. Poco importa che la loro “costruzione del socialismo” ricordi, come farà notare Katsky a Trotzkij, la costruzione delle piramidi d'Egitto. Il partito ha il compito storico di realizzare il fine, e lo farà, costi quel che costi.

La scelta dei bolscevichi è senza ritorno. Una volta che la avranno fatta dovranno andare avanti, a tutti i costi. Nessun sacrificio, e nessun crimine, apparirà a loro troppo grande pur di conservare il potere, e di usarlo per forgiare a loro piacimento l'uomo e la società. Sono tre le motivazioni che spingono i bolscevichi a proseguire nella loro azione senza ripensamento alcuno, malgrado tutto.
In primo luogo una concezione della società in cui ogni contrasto, ogni forma di pluralismo è assimilata allo scontro a morte fra sfruttatori e sfruttati. Imprenditori e commercianti, tecnici ed ingegneri, contadini parcellari ed impiegati, tutti gli strati non operai e, in definitiva, chiunque si sia conquistato un tenore di vita anche solo decente è uno “sfruttatore”, un “nemico del popolo” e come tale va trattato.
In secondo luogo una filosofia per cui l'uomo che vive in una società non comunista è irrimediabilmente alienato. L'uomo che vive qui ed ora nel mondo è in realtà un non-uomo, un essere miserabile che ha fuori e contro di se la propria essenza umana. Un essere le cui idee, sentimenti, desideri sono sostanzialmente disumani. Un essere simile non merita rispetto. Non lo merita neppure se fa parte delle classi che si ritengono “rivoluzionarie”. Certo, si possono usare questi enti alienati, le loro idee, bisogni e desideri ai fini della propaganda e dell'azione politica, ma se occorre reprimerli non sono lecite remore umanitarie di alcun tipo. Il fine dei comunisti non è soddisfare i desideri degli uomini vecchi, ma realizzare l'uomo nuovo, l'angelo comunista.
Infine la concezione del fine assoluto, della trasfigurazione integrale del mondo, della società e dell'uomo. Il famoso salto marxiano dal regno della necessità in quello della libertà.
Identificazione del pluralismo con i rapporti di sfruttamento, teoria della alienazione, esaltazione del fine assoluto formano un tutt'uno che spiega e motiva le scelte dei bolscevichi. Ed in questo, va detto, questi rivoluzionari di professione sono sostanzialmente fedeli allo spirito del marxismo. Per Lenin come per Marx il comunismo è lo sbocco glorioso dell'avventura terrena dell'uomo. Con la sua concezione di una storia a programma Marx è convinto che questo sbocco si possa realizzare limitando le “doglie del parto”. Lenin riconoscerà senza esitazioni che il fine va imposto alla storia e che le “doglie” saranno particolarmente dolorose. Ma non deflette di un centimetro. Questa è la differenza sostanziale fra Lenin e Marx. Importante certo, ma non decisiva.

La grande occasione

Il partito deve saper cogliere l'occasione per rafforzarsi, indebolire i partiti nemici (i bolscevichi hanno nemici, non avversari) e prendere il potere. E l'occasione viene. Non in qualche paese capitalisticamente avanzato, ma in quello più arretrato di tutti: la Russia zarista.
Lo scoppio della grande guerra accentua tutti i contrasti interni all'impero zarista. La classe operaia vede peggiorare le sue condizioni di vita. Le nazionalità mal sopportano il centralismo grande russo. I contadini sono affamati di terra. La guerra diventa ogni giorno più insopportabile per il popolo tutto. E dopo che la rivoluzione di febbraio ha fatto crollare lo zarismo esiste un irrisolto problema istituzionale. Tutti invocano una assemblea costituente che stabilisca la legge fondamentale della Russia. Intanto nelle fabbriche, nei villaggi e nelle stesse fila dell'esercito assemblee di di operai, contadini, soldati eleggono i propri rappresentanti. Nascono i soviet, organismi di una confusa democrazia economico-assembleare. La dirigenza russa del partito bolscevico è incerta sul da farsi. Zinov'ev, Kamenev e Stalin sono per l'appoggio al governo provvisorio retto dal frivolo Kerenskij. Lenin li bombarda dalla lontana Svizzera con lettere di fuoco in cui ribadisce: “nessun appoggio al governo provvisorio”. Tornato in patria ingaggia una lotta durissima dentro il suo partito e lo porta sulle sue posizioni. Controllo operaio, diritto delle nazionalità all'auto decisione, terra ai contadini, pace sono i punti portanti del suo programma. E a coronamento di tutto uno slogan di enorme efficacia: tutto il potere ai soviet. I bolscevichi, Lenin compreso, avevano fatto propria anche la parola d'ordine della assemblea costituente, che mal si combina con la rivendicazione di tutto il potere ai soviet, ma dei rivoluzionari di professione come loro non si preoccupavano troppo della coerenza. Sia la rivendicazione della assemblea costituente che quella del potere ai soviet rafforzavano, insieme a tutte le altre, il partito bolscevico, e questa era per loro l'unica cosa che contasse davvero.

Il programma di Lenin mira decisamente a spingere la Russia verso la rivoluzione proletaria. E' sulla base di questa prospettiva che avviene, dopo anni di polemiche, la riconciliazione fra Lenin ed un brillante intellettuale marxista ebreo: Lev Davidovic Bronstein, detto Trotzkij. Il programma leninista consente ai bolscevichi di conquistarsi un consenso di certo non maggioritario, e neppure troppo esteso, ma comunque considerevole. Così quando conquistano il palazzo d'inverno e sciolgono il governo provvisorio non ci saranno troppe proteste. Ha ragione Martov, capo dei menscevichi, ad affermare al congresso panrusso dei Soviet che quella dei bolscevichi non è una rivoluzione ma un colpo di mano. Tuttavia se questo colpo di mano non gode di un appoggio di massa, non provoca neppure, almeno per il momento, grandi opposizioni. E tanto basta ai bolscevichi.
Il resto è storia nota. Uno dopo l'altro, rapidamente, i partiti non bolscevichi vengono sciolti, la libertà di stampa appena conquistata viene abolita, ogni opposizione repressa. I soviet diventano un semplice strumento nella mani del partito; nella assemblea costituente, votata dopo il colpo di mano dell'ottobre, i bolscevichi si ritrovano in minoranza, nettamente staccati dai socialisti rivoluzionari. E sciolgono l'assemblea costituente.
Il potere ai soviet si trasforma nel potere al partito, e poi al comitato centrale del partito, e poi all'ufficio politico, e poi ad una sola persona. Un dittatore onnipotente.
Se si osservano gli eventi dell'ottobre russo si nota come una nemesi. Gli operai, o quanto meno quelli più radicalizzati, volevano il controllo operaio. Avranno la più dura disciplina sul lavoro. Le nazionalità invocavano l'autonomia, Lenin aveva loro promesso l'autodeterminazione. Dovranno subire il più spietato centralismo grande russo. I contadini volevano la terra. Dovranno subire prima la requisizione forzata dei raccolti, poi, dopo la parentesi della NEP (nuova politica economica), il massacro dei “kulaki”, i contadini considerati “benestanti”, e la collettivizzazione forzata dell'agricoltura. Tutti volevano la pace, tutti avranno invece lunghi anni di spietata guerra civile.

Chirurgia sociale

Conquistato il potere in una società semidistrutta i bolscevichi si dimostreranno capaci di mantenerlo. Le forze a loro contrarie sono disorganizzate, atomizzate, prive di leadership. Quando scoppia la guerra civile i bianchi sono troppo schiavi dei loro pregiudizi di classe per fare l'unica cosa che consentirebbe loro di egemonizzare le masse contadine e di conquistare la vittoria: una coraggiosa riforma agraria. Per tutta la durata della guerra i contadini mantengono una posizione di sostanziale neutralità, con a volte una certa, tiepidissima, simpatia per i rossi. Gli operai non vogliono unirsi ai sostenitori della reazione, ma appena possono protestano duramente contro i bolscevichi. Il comunismo di guerra è caratterizzato da spaventevoli repressioni anti operaie. Uno sciopero può costare il plotone d'esecuzione. Nel 1921 i marinai di Kronstad, eroi dell'ottobre rosso, insorgono. La loro parola d'ordine è molto chiara, e tragicamente illusoria: “viva i soviet, a morte i bolscevichi”. Saranno sconfitti e decimati da indiscriminate fucilazioni. A guidare la repressione è Lev Trotskij.
Intanto cresce un nuovo strato sociale che in qualche modo si avvantaggia del nuovo stato di cose e gli fornisce un minimo di base: una diffusa, sempre più potente burocrazia di partito. Il suo leader è Stalin.

E' stato detto che la rivoluzione d'ottobre apre in Russia una fase di guerra civile che durerà per decenni. C'è molto di vero in una simile affermazione. Tutta l'esperienza bolscevica è in effetti una esperienza di guerra. Guerra contro la borghesia ovviamente, ma non solo. Guerra contro gli strati intermedi, contro gli intellettuali. Guerra contro gli operai che perderanno ogni diritto per diventare mere pedine di un processo di industrializzazione talmente duro che a confronto l'accumulazione originaria capitalistica appare una esperienza umanitaria. Soprattutto guerra contro i contadini nei cui confronti Stalin attuerà politiche che possono a giusta ragione definirsi, al di la dei cavilli giuridici, di genocidio. Il volontarismo economico di Lenin prima e di Stalin poi trasformerà in cimiteri le campagne, devastate da carestie mai viste in precedenza; ricomparirà il cannibalismo. Addirittura guerra del partito contro se stesso, quando Stalin colpirà senza pietà non solo gli oppositori interni, ma anche i suoi stessi seguaci e decimerà le file della burocrazia che pure lo sostiene.
Guerra, in definitiva, del partito contro la società nel suo complesso, costretta a subire una delle più imponenti, e sanguinarie, operazioni di chirurgia sociale della storia. E, con la guerra, lo sviluppo di una repressione spaventosa. Il sistema dei campi di lavoro forzato assumerà proporzioni ciclopiche. Il lavoro. forzato sarà portato da Stalin a livelli che  superano abbondantemente quelli delle piramidi d'Egitto

Quanto al fine assoluto, alla società perfetta... lo stato che doveva estinguersi diventerà il più terrificante apparato burocratico di ogni tempo. Il calcolo economico non sarà “superato” dalla diffusione generalizzata del benessere. Sarà semplicemente ignorato da una economia di comando basata sulla generalizzazione della penuria. La legge nella sostanza sparirà, è vero, ma non per lasciare posto a rapporti umani autoregolati. La legge sparirà perché il potere assoluto e capriccioso del dittatore non deve incontrare limite legale alcuno. Come era facile prevedere l'utopia non si realizzerà. L'uomo nuovo non nascerà dalle ceneri di quello vecchio.
E non è affatto casuale tutto questo. Chi contrappone la fulgida bellezza dell'ideale comunista alla tragedia dei gulag non capisce che proprio nella bellezza del primo si trovano le radici dei secondi. Chi vuole a tutti i costi costruire il paradiso non può edificare altro che l'inferno. L'unica cosa relativamente nuova che l'assalto al cielo dei bolscevichi produrrà saranno montagne di cadaveri.


Giustificazioni e silenzi

Quale che sia il giudizio che se ne può dare la rivoluzione d'Ottobre resta uno degli eventi più importanti della storia. Eppure pochi ne parlano in occasione del suo primo centenario. Se si fa eccezione per vecchi rottami del comunismo staliniano che ripropongono in questa occasione i loro squallidi e ridicoli slogan, il più diffuso tentativo di giustificare i
crimini dell'esperienza sovietica si riduce a questo: pur con tutti i suoi orrori quella esperienza ha dato vita ad un imponente movimento di massa che ha contribuito molto all'emancipazione degli oppressi. C'è un piccolo frammento di verità in una simile affermazione, ma si tratta del tipico grumo di verità che altro non fa che rendere più accettabili le menzogne.
Certo, dall'ottobre rosso è nato il mito dell'ottobre, esattamente come dalla azione spietata di Stalin è nato il mito del “padre dei popoli”. Ma quale è il giudizio che si deve dare di quel mito e dei movimenti di massa che ha suscitato? In fondo anche il fascismo ed il nazionalsocialismo hanno dato vita ad imponenti movimenti di massa...
Laddove quel mito e quei movimenti di massa hanno vinto non c'è stata, per nessuno, alcuna emancipazione. Il comunismo maoista è stato ancora più sanguinoso di quello staliniano. Il dramma della Cambogia resta probabilmente insuperato.
E dove invece quei movimenti di massa legati al mito sono stati costretti all'opposizione? Anche in quei casi il bilancio è tutt'altro che positivo. La presenza di un movimento comunista di massa ha impedito per decenni che l'Italia diventasse una democrazia normale, caratterizzata dall'avvicendarsi non traumatico di forze diverse alla guida del paese. Considerazioni simili possono farsi per la Francia. Certo, movimenti popolari di estrema sinistra sono riusciti a volte a strappare ai vari governi riforme anche positive, ma si tratta precisamente di quelle stesse riforme che Lenin a suo tempo considerava piatti di lenticchie. Il merito dei movimenti comunisti sarebbe stato quello di conquistare alcuni frammenti di riforme che da sempre facevano parte dei programmi socialdemocratici. Quale che sia il giudizio sulla loro bontà, occorrevano forse decine di milioni di morti per ottenerli? A parte la mostruosità che una simile domanda sottintende, è molto facile obiettare che queste riforme e, più in generale, un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori, sono state ottenute prima e meglio che altrove proprio nei paesi in cui il movimento comunista non ha mai avuto dimensioni di massa.
Per farla breve, usare il mito dell'ottobre per cercare in qualche modo di salvare qualcosa della esperienza dello stesso è solo un giochetto sofistico di scarsa rilevanza.


Non è un caso allora che la reazione più diffusa di fronte al centenario dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” sia un  lugubre ed imbarazzato silenzio.
Gran parte degli esponenti della italica sinistra hanno militato in partiti che furono entusiastici sostenitori dell'ottobre rosso. E non intendono far sapere troppo dove affondano le loro radici culturali.
Non c'è nulla di male nell'essere stati comunisti, o fascisti, o qualsiasi altra cosa. Tutti commettiamo errori. Chi però ha ieri esaltato Stalin e Mao, o Lenin, o Trotzki ed ha oggi cambiato idea, e per di più è ancora impegnato in politica, ha il dovere di dire chiaramente in cosa ieri sbagliava e quando, come e perché ha corretto i propri errori. Non si tratta di chiedere abiure, solo di pretendere onestà intellettuale.
Questa invece manca, totalmente. Persone che fino a non troppi anni fa sfilavano esponendo ritratti di Mao o di Stalin appaiono oggi in TV e ci parlano di democrazia parlamentare, garanzie liberali, economia di mercato... come se niente fosse! Ieri strillavano: “Lenin Stalin Mao Tze Tung”, oggi discettano sui poteri della BCE con candida nonchalace. E il comunismo? Il loro comunismo? “Non so, non saprei, il comunismo? Di cosa si tratta? Scusi, non lo conosco...”.
Non solo, questi personaggi si offendono se qualcuno osa ricordar loro che il comunismo è esistito, ed ancora esiste in qualche paesello.
“Il muro di Berlino è crollato perbacco, smettiamola di parlare del comunismo!” sbottano spesso. Veramente non è crollato il “muro di Berlino”, è crollato il comunismo che quel muro aveva costruito. Non per impedire che qualcuno entrasse nei paradisi dei lavoratori, ma per impedire che da quei paradisi i lavoratori fuggissero. Ma non se ne può parlare. Nel 1989 l'esperienza iniziata nel 1917 si concludeva, almeno nel suo paese di origine ed in molti altri. Si concludeva lasciandosi alle spalle decine di milioni di morti, economie devastate, società atomizzate e distrutte. Ma NON se ne deve parlare, e chi ne parla è un “bieco reazionario”. Per decenni il comunismo è stato presentato come il futuro radioso del genere umano. Dopo il 1989 qualcuno ha deciso che il comunismo non è crollato, semplicemente non è mai esistito.
Ottimo motivo per parlarne. Per ricordare in occasione del suo centenario quell'evento importantissimo e tragico che è stato l'ottobre rosso.

venerdì 29 settembre 2017

SOCRATE E LO IUS SOLI.


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Pentiloni. Salve o Socrate, è un vero piacere incontrarti.
Socrate. Buona giornata caro Pentiloni. Il piacere è tutto mio. Ma... qualcosa non va? Ti vedo scuro in volto.
P. Si o Socrate. Sono davvero indignato per il comportamento di Al Pano. Pensa, quell'ingrato, dopo che gli abbiamo regalato una sontuosa poltrona da ministro, ci ripaga rifiutandosi di votare una legge giusta e massimamente civile come quella dello ius soli.
S. In effetti Al Pano sembra interessato solo a non perdere troppi voti, forse teme che nella prossima legislatura non potrà più essere ministro. Però... in fondo siete stati voi a volerlo come alleato...
P. Necessità politiche caro Socrate. In ogni caso, mi fa molto piacere che sullo ius soli tu sia d'accordo con me.
S. Veramente io non ho detto di essere d'accordo sullo ius soli...
P. Non dirmi, o Socrate, che sei contrario! Lo ius soli è una legge di civiltà!
S: Legge di civiltà dici?
P. Lo dico e lo affermo con forza!
S. Quindi chi è contro lo ius soli è incivile?
P. Non so, ma di certo chi si oppone ad un provvedimento civile molto civile non è.
S. Capisco
P. E mi sembra anche piuttosto razzista.
S. Fammi capire nobile amico. Tu dici che quella sullo ius soli è una legge di civiltà...
P Ma si!
S. E chi vuole che sia mantenuta la attuale legge è incivile e razzista?
P. Certo, è così.
S. Allora tu sostieni che da circa 70 anni il nostro paese è incivile e razzista...
P. Perché?
S. Beh... se la attuale legge sulla cittadinanza è razzista ed incivile mi pare incivile e razzista il paese che la adotta, non trovi?
P. Hai ragione, così stanno le cose.
S. Però, il paese è stato governato dalle sinistre, per molti anni; come mai non hanno abolito una legge incivile e razzista?
P. Anche noi commettiamo errori a volte.
S. Certo, chi non ne commette? Però, dimmi, come mai la corte costituzionale non ha mai abolito la attuale legge sulla cittadinanza? Ti sembra logico che una legge razzista ed incivile non sia dichiarata in contrasto con la costituzione più bella del mondo?
P. Socrate, possibile che quando si parla con te si debbano sempre subire i tuoi giri di parole ed i tuoi sofismi? Avremo sbagliato noi, avrà sbagliato la corte, poco importa. L'importante ora è che la legge sullo ius soli sia approvata. Ce lo impone la civiltà.
S. Va bene. Però, dimmi, perché giudichi tanto importante per la civiltà lo ius soli?
P. E me lo chiedi? Dimmi o Socrate, ti sembra giusto che i compagni di scuola dei nostri figli, i loro compagni di banco e di giochi siano privi di un diritto tanto fondamentale come la cittadinanza? Non ti sembra che una cosa simile sia una intollerabile ingiustizia?
S. Non so... dimmi o Pentiloni, la legge sullo ius soli concede la cittadinanza a chi è nato in Italia da genitori stranieri, se almeno uno dei genitori si trova nel nostro paese da almeno cinque anni, sbaglio?
P. Non sbagli.
S. Allora, in base al tuo ragionamento si potrebbe dire: “vi sembra giusto che non sia considerato cittadino italiano un bambino che è compagno di banco di vostro figlio e gioca con lui, ma i cui genitori stranieri non risiedono in Italia da cinque anni?”
P. Ma che razza di sofismi ti inventi o Socrate!
S. Nessun sofisma ottimo amico. Se è valido l'argomento del compagno di banco e di giochi si dovrebbe concedere la cittadinanza ad ogni bambino che frequenti una scuola o un campo di calcio, o un centro ricreativo, indipendentemente dalla permanenza in Italia dei genitori...
P. Forse un giorno ci arriveremo, intanto cominciamo a far questo passo avanti che cancella una mostruosa ingiustizia!
S. Se ci volete arrivare dovreste dirlo, a meno che non siate bloccati dal timore di perdere voti, come Al Pano. Ma, perché continui a parlare di mostruosa ingiustizia?
P. Ma è tanto semplice! Privare della cittadinanza innocenti bambini ti sembra bello?
S. Scusa, ma oggi un bambino che non abbia la cittadinanza italiana è discriminato a scuola?
P. No
S. Se viene portato al pronto soccorso lo si respinge?
P. No
S. Sapresti dirmi quale è il principale diritto che si acquisisce con la cittadinanza?
P. Il diritto di voto.
S. Ed un simile diritto interessa forse i bambini? A me sembra che si possa votare solo quando si raggiunge la maggiore età. I bambini non c'entrano un bel nulla, direi.
P. O Socrate, le tue mi sembrano vane sofisticherie. Certo, il diritto di voto non interessa i bambini, ma ponendo in questi termini il problema tu ignori la cosa principale, il vero, grandissimo pregio della legge sullo ius soli.
S. Veramente sei stato tu, amico mio, a tirar fiori i bambini, ma la cosa forse non è rilevante. Per questo ti chiedo di spiegarmi, se lo vuoi, in che consiste questa grande importanza e questo altissimo pregio della legge sullo ius soli. Sono davvero ansioso di scoprirlo.
P. Con lo ius soli si agevola l'integrazione dei tanti migranti che generosamente accogliamo nella nostra società. Grazie allo ius soli l'integrazione diventa più facile, quindi aumenta la sicurezza e si diffondono ovunque modi più civili di umana convivenza.
S. Bellissime parole le tue, ma, scusami, lasciano in me qualche perplessità.
P. Sempre con queste perplessità. Cosa non ti convince in ciò che ho detto?
S. Dimmi o Pentiloni, a tuo parere si conosce la medicina perché si ha una laurea in medicina o si ha una laurea in medicina perché si conosce la medicina?
P. Che razza di discorsi astrusi e del tutto fuori argomento!
S. Se sono fuori argomento lo vedremo fra breve. Permettimi un'altra domanda: si è ingegneri perché si sanno fare i calcoli ingegneristici o si sanno fare ingegneristici calcoli perché si è ingegneri?
P. Che domande! Direi che si ha una laurea in medicina perché si conosce la medicina, e si è ingegneri perché si sanno fare i calcoli che competono agli ingegneri.
S. Anche io la penso così. Ed è così anche in altre cose, mi pare. Ad esempio, si ha il brevetto di pilota perché si sa guidare un aereo, non si sa guidare un aereo perché si ha il brevetto di pilota.
P. Certo! Ma cosa c'entrano questi discorsi?
S. Dimmi, a tuo parere si è integrati perché si ha la cittadinanza o si ha la cittadinanza perché si è integrati?
P. Astruserie! Sofismi!
S. Non direi. La scelta è molto semplice: bisogna dare la cittadinanza a chi è davvero integrato nella nostra società o bisogna considerare integrato colui a cui è stata data la cittadinanza?
P. Di nuovo fai il sofista o Socrate. Tu dimentichi che dando la cittadinanza si agevola la gente ad integrarsi.
S. Strano discorso mi pare il tuo. Tu forse daresti una laurea in medicina a chi nulla sa del corpo umano, per agevolare i suoi studi in anatomia?
P. Direi di no.
S. E voleresti su un aereo pilotato da una persona a cui è stato dato il brevetto di pilota per “agevolare” i suoi studi?
P. Avrei dei problemi a farlo, lo ammetto...
S. Però sei pronto a dare la cittadinanza italiana a persone niente affatto integrate nella nostra società solo per “agevolare” la loro integrazione.
P. Ma sono cose diverse! Con pericoli ben diversi per la gente!
S. Questo è da vedere. Tanti terroristi in Francia, Inghilterra e Belgio erano a tutti gli effetti cittadini inglesi, francesi e belgi, a cui era stata concessa la cittadinanza, chissà, forse per “agevolare” la loro integrazione...
P. Stai facendo volgare propaganda o Socrate, non è da te.
S. Sto solo cercando di analizzare razionalmente fatti.
P. No, stai esagerando. Confronti la cittadinanza con lauree e brevetti, come se di cose simili si trattasse.
S. Non dico che la cittadinanza sia come una laurea, dico che, come una laurea o qualsiasi altra attestazione, deve essere la fase finale di un processo, non quella iniziale.
P. Ma pretendi troppo dalla cittadinanza. Parli di lunghi processi, vorresti che chi diventa cittadino italiano fosse italiano al cento per cento, ma in questo modo confondi cose diverse: il concetto di cittadinanza con quello di nazionalità.
S. Ottimo amico, sono d'accordo con te nel ritenere che i concetti di cittadinanza e di nazionalità siano diversi. Il primo è un concetto giuridico, il secondo culturale.
P. Finalmente rinsavisci o Socrate.
S. Se tu contribuisci a farmi avvicinare al vero te ne sono molto grato caro Pentiloni. Però, vedi, a me sembra che i due concetti, anche se diversi siano strettamente collegati.
P. In che modo?
S. Acquistando la cittadinanza si acquisiscono tutti i dritti e tutti i doveri dei cittadini italiani vero?
P. Certo!
S. E si contribuisce con il voto alla formazione delle leggi cui gli italiani sono sottoposti, vero?
P. Ma si!
S. Chi ha la cittadinanza italiana si può definire italiano a tutti gli effetti?
P. E come no?
S: Ma dimmi, che caratteristiche deve avere un essere umano per esser considerato cittadino italiano?
P. Di nuovo strane domande.
S. Potremmo considerare italiano chi non sa dire neppure una parola nella nostra lingua?
P. Ne dubito.
S. O chi non si riconosce in alcuna delle nostre tradizioni, non è interessato alla nostra cultura, non condivide i valori su cui si fonda la nostra civile convivenza?
P. Non sembra...
S. O chi non ha alcun interesse per il nostro territorio e nel caso malaugurato che venissimo aggrediti si rifiutasse di difendere quella cosa che si chiama Italia? Lo potremmo definire italiano costui?
P. Ma non lo so! Che razza di discorsi fai o Socrate!
S. Sto solo cercando di dire che per avere la cittadinanza occorrono dei presupposti e molti di questi sono riconducibili al concetto di nazionalità. Ecco perché considero diversi ma collegati i due concetti. Si può essere cittadini italiani se in qualche modo, almeno in parte, si è culturalmente italiani. Non mi sembra ci sia nulla di astruso in questo.
P. Forse, ma tu come sempre esageri. Io pretendo molto meno. Mi basta che sia assicurata l'obbedienza alle leggi.
S. Quindi per te se una persona obbedisce alle eleggi italiane può essere considerata italiana?
P. Direi di si. E aggiungo che se esaminiamo le cose da questo punto di vista emerge un altro vantaggio dello ius soli: approvando questa legge sarà più facile obbligare, o spingere, i migranti ad obbedire alle leggi. E ci guadagneranno la sicurezza, l'ordine e la civile convivenza.
S. Sono perplesso.
P. Lo sei sempre!
S. Dimmi nobile amico. Se un cittadino giapponese di passaggio in Italia commette un omicidio viene processato in Italia?
P. Ovviamente si.
S. E prima di processarlo gli si deve concedere la cittadinanza italiana?
P. Assolutamente no.
S. Questo perché tutti coloro che sono in Italia, cittadini o meno che siano, sono tenuti a rispettare le leggi italiane?
P. Si, è per questo.
S. Ma se questo è vero, e tu lo ammetti, come puoi dire che si concede la cittadinanza per costringere, o spingere, i migranti ad osservare le leggi? Le leggi devono essere comunque osservate, da tutti.
P. Mi fai venire il mal di testa...
S. E aggiungo che non è una buona tattica dare qualche regalo in cambio della osservanza delle leggi. Tu osservi la legge e io ti regalo la cittadinanza, ti sembra che un simile modo di agire aumenti il rispetto per la legge?
P. Così, a naso non mi sembra, ma...il mio mal di testa sta aumentando.
S. A me pare che sia un po' come ritenere che favorisca l'integrazione concedere la cittadinanza a chi non è integrato. Sei d'accordo?
P. Non so. Oh che forte emicrania!
S. Mi spiace per il tuo mal di testa, amico mio, non era e non è di certo mia intenzione procurartelo. Come sai il mio solo desiderio è avvicinarmi al vero. Posso chiederti ancora una cosa, se la tua emicrania me lo consente?
P. Prova
S. Concedere a qualcuno la cittadinanza per spingerlo ad osservare la legge non rischia di trasformare la legge in oggetto di scambio?
P. Cioè?
S. Io ti concedo la cittadinanza e tu in cambio osservi la legge. Non ti pare che in questo modo la legge smetta di essere ciò che regola in maniera uguale per tutti le relazioni fra gli esseri umani per diventare oggetto di contrattazione, qualcosa cui si obbedisce solo se si ha una contropartita giudicata sufficiente.?
P. Detta come la dici tu potrebbe anche essere così.
S. E ti sembra che questo favorisca l'ordine, la sicurezza e la civile convivenza?
P. Basta o Socrate, i tuoi sofismi mi sono diventati insopportabili e la testa sta per scoppiarmi. Ti saluto.
S. Spero che in breve tempo la tua testa possente possa ricominciare a funzionare a pieno regime. Se vuoi possiamo riprendere domani la discussione.
P: Assolutamente no o Socrate. Addio!
S. Arrivederci nobile amico.

mercoledì 13 settembre 2017

EMANUELE FIANO E LA CENSURA DELLE IDEE.


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Non si devono tollerare gli intolleranti
, non si può permettere che qualcuno usi la democrazia per distruggerla.
In base a queste considerazioni, del tutto condivisibili, la legge sulla punizione della apologia del fascismo proposta dall'onorevole Fiano può risultare accettabile.
Bisogna però porsi una domanda: in che modo occorre non tollerare gli intolleranti? Intuitivamente, ci si può rapportare agli intolleranti in tre modi.
1) Punire le loro azioni.
2) Vietare che esprimano le proprie idee.
3) Inibire loro qualsiasi forma di attività politica.

Il punto UNO può apparire scontato, ma merita due parole di approfondimento. Nei paesi democratici esistono, o possono esistere, forze politiche che, pur predicando cose aberranti, partecipano alla competizione elettorale. In una democrazia queste forze sono tollerate, ma ad una fondamentale condizione: nel caso giungano a governare non possono legalmente mettere in atto, in tutto o in parte, il loro programma.
Un partito legato ad ideologie totalitarie può presentarsi alle elezioni, teoricamente le può anche vincere, ma non può, fino a che la democrazia esiste, attuare le sue concezioni ed i suoi programmi. Questa è la fondamentale caratteristica che differenzia i normali partiti democratici dai partiti estremisti, di destra o di sinistra. Un partito liberale, o popolare, o socialdemocratico può governare ed attuare il programma che ha presentato agli elettori, un partito comunista o fascista no.
Per farlo deve scardinare la struttura istituzionale esistente e se non ne è in grado deve rinunciare ad attuare i suoi programmi, o una loro parte essenziale.
A mio parere questa situazione particolare in cui vengono collocate in democrazia le forze politiche non democratiche è più che sufficiente, in periodi normali, per tenerle a bada. “Dite pure ciò che vi pare, ma sappiate che se cercherete nei fatti di distruggere la democrazia e le fondamentali libertà civili noi ve lo impediremo, anche con la forza, se occorre”. Questo è il modo con cui i democratici ed i liberali si rapportano a chi democratico e liberale non è. Ed è un buon modo di non tollerare gli intolleranti.
Certo, esistono delle eccezioni. Non credo che in Gran Bretagna nel 1940 si potesse tollerare l'esistenza di un partito filo nazista o la propaganda di idee nazi fasciste. Ma, appunto di eccezioni deve trattarsi. Una cosa sono le leggi che valgono in periodi normali, altra quelle che si è obbligati a far valere in periodi che normali non sono. Se si tiene conto di questo una conclusione appare scontata: nel periodo che stiamo vivendo il fascismo non rappresenta un serio pericolo per le istituzioni democratiche. La situazione attuale non è normale, è vero, ma non a causa di un inesistente pericolo fascista. Semmai ci si dovrebbe chiedere se sia giusto, in una fase come l'attuale, continuare a tollerare la propaganda fondamentalista islamica. Sono mille volte più pericolose le moschee politicizzate che non i circoli di “forza nuova”. Però da questo orecchio persone come l'onorevole Fiano sembrano non sentirci.

Qualcuno potrebbe chiedersi: perché reprimere solo le azioni? Non è meglio reprimere le idee? Elimina le idee cattive ed avrai eliminato le cattive azioni.
No, non è per niente giusto un simile discorso. Non lo è perché la repressione delle idee è comunque una limitazione gravissima di quel fondamentale valore che è la libertà di pensiero. A volte può essere inevitabile limitare un simile valore, ma far diventare regola quella che deve restare una limitata eccezione distrugge in prospettiva uno dei cardini della nostra civiltà. Tutti i diritti sono limitati, e nella pratica ogni valore trova limiti alla sua attuazione. Il rispetto per la vita umana è un valore fondamentale, ed è fondamentale il diritto alla vita che ognuno di noi ha. Ma in guerra questo valore e questo diritto devono subire limitazioni gravi. Però, una cosa è ammettere che lo stato possa obbligare i cittadini a rischiare la vita in guerra, cosa del tutto diversa autorizzare i membri della polizia a fucilare senza processo il primo che passa. Non credo occorra dilungarsi oltre su cose tanto intuitive.
E poi, quali idee si dovrebbero punire? La citazione di un testo di Carl Schmitt rappresenta una “apologia del nazismo"? Se qualcuno si dice d'accordo con Nietzsche quando questi afferma: “se devi incontrare una donna prendi la frusta” compie apologia del fascismo? Il nazismo non è affatto un fungo velenoso nato dall'oggi al domani, privo di presupposti culturali. Nel suo mirabile libro “Le origini culturali del terzo Reich” George L. Mosse, filosofo e storico delle idee tedesco di origini ebraiche, dimostra che la ideologia malata del nazismo ha radici profonde nella cultura europea. I suoi antecedenti vanno cercati nell'irrazionalismo che si espande sul finire del diciannovesimo secolo nel continente e soprattutto in Germania. Ora, esprimere idee irrazionaliste, condividere la critica alla scienza ed all'industrialismo che caratterizzò molti movimenti culturali europei rischia di fare etichettare qualcuno come “neonazista”?
Il discorso è ancora più chiaro se si passa all'analisi del comunismo. Poniamo che un governo di destra proibisca la “apologia del comunismo”. Cosa dovrebbe proibire un simile provvedimento? Si potrebbero continuare a leggere le opere di Lenin? E quelle di Marx? A rigore queste andrebbero proibite. Ma, visto che molte radici del pensiero marxiano risalgono ad Hegel, anche il vecchio Wilhelm andrebbe proibito, e così via...

Conosco una possibile obiezione. Questi sono grandi intellettuali, nulla a che vedere con l'apologia! Ma è una sciocchezza.
Proprio perché si tratta di grandi intellettuali li si dovrebbe considerare, nell'ottica dei censori, più pericolosi! Quattro scemi che fanno il saluto romano o agitano il pugno chiuso sono una cosa. Le pagine di grandi intellettuali che formano le menti delle persone capaci di pensare un'altra, molto più importante e, per gli amici della censura, pericolosa. Censurare gli slogan ma non i ragionamenti, le idiozie ma non le considerazioni profonde è una colossale baggianata. Se ci si mette sul piano della censura si imbocca una strada da cui non si può tornare indietro. Non basta reprimere qualche ragazzotto poco intelligente, bisogna tagliare la lingua alle persone intelligenti, e non a poche, a molte, moltissime. Questo ci insegna la storia, a partire da quella del nazismo.
E poi, chi è davvero fascista? Chi decide se una certa frase, un certo pensiero sia “nazista” o solo conservatore, “fascista” o semplicemente nazionalista? Chi, sull'altro versante, stabilisce se una certa teoria sia “comunista” o solo socialdemocratica? Lo sanno tutti. Per i comunisti chi non è d'accordo con loro è sempre un “bieco fascista”. Chi si oppone alla immigrazione senza limiti è “razzista”, “sciovinista” e, naturalmente “fascista”. Salvini è fascista, la Meloni pure. Berlusconi è stato paragonato ad Hitler, Trump idem. Sull'altro versante ci sono stati anticomunisti per i quali un mite socialdemocratico era un pericoloso bolscevico. Si puniscano le idee e si innesca un processo pericolosissimo: chiunque potrà cercare di far fuori i nemici politici appiccicandogli etichette indesiderate.

Nelle righe precedenti ho scritto una grossa inesattezza, me ne rendo conto. Ho parlato, accanto al fascismo ed al nazismo, del comunismo. E sul comunismo, ovviamente, la legge proposta dall'onorevole Fiano non dice assolutamente nulla.
Ma proprio questo la rende, oltre che stupida ed illiberale, anche profondamente ipocrita.
Non è mia intenzione fare approfondite considerazioni di filosofia politica sul fascismo, il nazismo ed il comunismo. Le differenze fra queste ideologie sono numerose quanto le loro affinità. Una cosa però è certa: l'esperienza storica concreta di tutte ha lasciato in eredità al genere umano una serie enorme di lutti.
Secondo lo storico sovietico Roy Medved, di certo non un “anticomunista viscerale”, le vittime dirette ed indirette dello stalinismo sono almeno 22 milioni. Se si guarda alla Cina di Mao questo numero va moltiplicato per tre, forse addirittura per quattro. Il regime di Pol Pot dal canto suo ha provocato la morte di un buon quarto della popolazione cambogiana. Si tratta di cifre mostruose, sicuramente superiori a quelle addebitabili al nazismo, anche se occorre tener conto, ai fini di una valutazione seria, della breve durata di quest'ultimo. Per onestà occorre riconoscere che il bilancio storico del fascismo italiano è sicuramente molto meno tragico. E per quanto numerose possano essere le differenze fra comunismo, nazismo e fascismo di certo tutte queste ideologie sono lontane anni luce dai valori della democrazia occidentale.
Quindi, se la proibizione della apologia del fascismo e del nazismo è fatta per tutelare la democrazia, perché non punire in maniera altrettanto severa la apologia del comunismo? Quanto meno del comunismo reale, quello che si è concretamente attuato nella storia? Perché agitare un ritratto del duce dovrebbe essere punito mentre dovrebbe essere perfettamente legittimo agitarne uno di Stalin, Mao o Pol Pot?

In realtà la legge Fiano non ha nulla a che fare con la difesa della democrazia contro un inesistente pericolo fascista. E' invece un meschino tentativo di creare difficoltà ai rivali politici del PD e di recuperare qualche voto a sinistra.
Grazie a questa legge (se sarà approvata in maniera definitiva) si potrà cercare di tacitare le critiche sempre più aspre che piovono sul PD specie sul tema della immigrazione agitando lo spauracchio del “fascismo” da punire. Non si rendono conto, le persone come Fiano, che sono proprio simili provvedimenti ed un simile modo di agire che possono far diventare reale il pericolo fascista, oggi solo fantomatico. Si criminalizzi una vasta area politica critica nei confronti del PD, ma di certo lontana dal fascismo e si otterrà il solo risultato di far crescere a destra forme estremizzate di protesta. Può avvenire col “fascismo” qualcosa d molto simile a quanto può avvenire col “razzismo”. Difendere una immigrazione senza limiti, chiudere gli occhi sui problemi gravissimi che questa crea, negare ogni legame fra immigrazione degrado e terrorismo, tutto questo è destinato in prospettiva, ad alimentare forme nuove di razzismo.
Dare del “fascista” a tutti coloro che a questa politica si oppongono rischia di dar fiato precisamente a chi si vuole combattere.
Ma l'onorevole Fiano queste cose non le capirà mai.

lunedì 12 giugno 2017

I PASSERI DI MAO

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Nel Maggio del 1958 Mao Tze Tung lancia il “gran balzo in avanti”. La Cina deve diventare in tempi brevissimi una grande potenza industriale e, soprattutto, militare. Nel giro di pochi anni paesi come la Gran Bretagna e gli USA devono essere “superati”. E' un programma molto ambizioso, come raggiungere simili risultati? La risposta di Mao è di disarmante semplicità: i cinesi devono lavorare, lavorare ed ancora lavorare. Ma non basta: occorre importare dai paesi “fratelli”, URSS in primis, impianti industriali e tecnologia, soprattutto militare. E per pagare queste importazioni la Cina ha un solo mezzo: esportare derrate alimentari, prodotti agricoli.
I contadini devono quindi essere privati della quasi totalità raccolto. Mao non prevede nessun investimento per incrementare la produttività agricola: si limita a costringere i contadini a lavorare come muli e a privarli di tutto ciò che producono. Il suo è sostanzialmente un gigantesco programma di lavoro forzato o semplicemente schiavistico. Stalin lo aveva già fatto, Mao lo rifà su scala ancora più ampia. E mostruosa.
Non è il caso di esporre qui le vicende terrificanti di quella esperienza. Rimando chi fosse interessato al libro : Mao la storia sconosciuta” (Longanesi) della scrittrice cinese Jung Chang (autrice del bellissimo romanzo “i cigni selvatici”) e del marito di lei Jon Halliday. Un ottimo libro, una eccezione importante nel desolante panorama editoriale dell'occidente politicamente corretto.

Vorrei invece concentrare l'attenzione su un singolo, piccolo episodio. Un episodio secondario in fondo, che ha avuto conseguenze enormemente meno tragiche di tanti altri, ma nel suo piccolo molto, molto significativo.
“Per salvaguardare i cereali” scrive la Chang “a Mao venne l'idea di sbarazzarsi dei passeri, divoratori dei chicchi. Li indicò come uno dei quattro flagelli da eliminare insieme con topi, zanzare e mosche e mobilitò l'intera popolazione perché agitasse bastoni e scope e facesse un gran baccano per spaventarli ed impedir loro di posarsi sulle culture, dopodiché, caduti a terra per la stanchezza, sarebbero stati catturati ed uccisi” (1).
Non sono affetto da misticismo ecologico ed animalista e so che, a differenza di quanto pensano i mistici, l'agricoltura sopprime un numero consistente di animali: qualcuno preferisce ignorarlo ma le diete vegetariane e vegane si basano sulla soppressione di animali almeno quanto quelle onnivore. Questo premesso, non si può non restare colpiti dall'incredibile disprezzo per la natura di una simile direttiva: in tutta la storia a nessuno, credo, è mai venuto in mente di distruggere una intera specie di uccelli per salvaguardare i raccolti.

Ma è sugli esseri umani, non sui passeri, che intendo concentrare l'attenzione. Proviamo a pensarci: per giorni e giorni centinaia di milioni di cinesi fecero, tutti, la stessa cosa: un gran baccano per impedire ai passeri di posarsi al suolo. Nessuno di noi, credo, conosce due sole persone che facciano per un giorno intero la stessa cosa. La vita quotidiana di ogni persona è diversa da quella di qualsiasi altra. Anche i soldati in una caserma o i detenuti in una prigione non fanno tutti le stesse cose per tutto il giorno. Anche in stati decisamente autoritari la vita degli esseri umani è in qualche modo personalizzata. Nella Cina di Mao no. Centinaia di milioni di cinesi, tutti insieme, per giorni e giorni fecero tutti un gran baccano per far morire di stanchezza i passeri: il più numeroso popolo del mondo si era trasformato in una immensa squadra di esagitati intenti a fare un chiasso d'inferno. Difficile, penso, immaginare qualcosa di più mostruoso.
Ma questa mostruosità ebbe almeno risultati positivi? Fu davvero utile all'agricoltura? NO, ovviamente.
Una cosa è impedire con vari mezzi ai passeri di posarsi sui raccolti, determinandone in questo modo indirettamente la morte di un certo numero, cosa del tutto diversa la distruzione della specie dei passeri, e con questa di una quantità enorme di altri uccelli. Gli uccelli non si cibano solo di chicchi di cereali ma anche di parassiti, insetti e piccoli animali dannosi alle culture. L'eliminazione dei passeri, e non solo, portò alla moltiplicazione esponenziale di insetti ed animali dannosi, con esiti catastrofici per l'agricoltura.
Ricordano la Chang ed Halliday: “All'ambasciata sovietica di Pechino arrivò una richiesta da parte del governo cinese (…). In nome dell'internazionalismo socialista, si leggeva: per favore, inviateci appena possibile 200.000 passeri dall'estremo oriente russo” (2)
Centinaia di milioni di cinesi erano stati mobilitati per far gran baccano, una quantità enorme di passeri ed altri uccelli era stata distrutta, poi, in gran segreto, i passeri vennero reintrodotti in Cina in nome dell'internazionalismo proletario e della fraterna amicizia fra Cina e URSS, amicizia che, sia detto per inciso, era destinata a durare ancora per poco.

Quello dei passeri è solo un episodio, un piccolo ma emblematico episodio. Dimostra molto semplicemente che sotto Mao i cinesi erano degli schiavi di fatto. E nient'altro.
Schiavi spesso destinati a morte certa.
Il gran balzo in avanti distrusse praticamente l'agricoltura cinese e non dotò affatto la Cina di una struttura industriale neppure lontanamente paragonabile a quella dei paesi capitalisti che Mao intendeva “superare”. Solo nel dopo Mao, grazie alla apertura, non certo priva di ombre, alla economia di mercato la Cina è diventata davvero una grande potenza industriale.
In compenso la politica delle requisizioni selvagge causò quella che può essere definita la più grande carestia di ogni tempo.
“La carestia a livello nazionale iniziò nel 1958 e terminò nel 1961, raggiungendo l'apice nel 1960. (…). Durante la carestia alcuni furono costretti al cannibalismo. Uno studio condotto dopo la morte di Mao (e subito soppresso) sulla contea di Fengyang, nella provincia di Ahnui, registrò sessantatre casi di cannibalismo soltanto nella primavera del 1960, compreso quello di una coppia che strangolò e mangiò il proprio figlioletto di otto anni. (…). Nei quattro anni del gran balzo in avanti e della carestia morirono di fame e di lavoro circa 38 milioni di persone”. (3)
38 MILIONI. E non si tratta di una cifra tarocca, quelle le diffondeva il regime di Mao. E' ricavata dalle statistiche relative al numero dei decessi negli anni del gran balzo in avanti paragonati a quelli degli anni immediatamente precedenti e successivi. In quei maledetti quattro anni il numero delle morti crebbe paurosamente, secondo le statistiche ufficiali. Ed il gran balzo è solo un episodio di quella grande, immane follia sanguinaria che è stata il comunismo maoista.

Ma agli occidentali progressisti il maoismo piaceva, ad alcuni piace ancora.
Ricordo che, tanti anni fa, ero ancora un ragazzo, mi capitò di vedere un documentario sulla Cina. Mi pare fosse di Sergio Zavoli, ma posso sbagliare. Si parlava fra le altre cose dello sterminio dei passeri. Con voce dolce il giornalista raccontava delle centinaia di milioni di cinesi che, tutti insieme, fecero per giorni un gran chiasso ed uccisero passeri ed altri uccelli in quantità industriale. “Certo”, diceva più o meno il giornalista, “a noi una cosa simile appare lesiva della libertà personale, però... alla fine i passeri furono distrutti”. Dimenticava di aggiungere: “con gran danno per l'agricoltura”.
A NOI lo spettacolo di centinaia di milioni di esseri umani trasformati in cagnolini addestrati che obbediscono tutti insieme ad ogni ordine del capo appare leggermente mostruoso, ma una cosa simile va benissimo per i cinesi. Il fine giustifica i mezzi perbacco, specie se i mezzi riguardano esseri umani giallastri e con gli occhi a mandorla. Come al solito, gratta un po' il democratico progressista, dolce e relativista, e vien fuori il razzista.
Ed oggi gli stessi che ieri esaltavano Mao sono esaltati dai media come i campioni di una Italia e di un occidente aperto, democratico. La signora Luciana Castellina, ex dirigente del gruppo del “Manifesto”, grande ammiratrice di Mao e della rivoluzione culturale, tuona in TV contro chi difende la legittima difesa. E in occasione della sua recente scomparsa di Dario Fo, a suo tempo entusiasta ammiratore di Mao Tze Tung e di Giuseppe Stalin, è stato presentato come un campione della libertà e della democrazia.
Dei contadini cinesi costretti al cannibalismo, e dei passeri, non parla nessuno.
E poi ci chiediamo perché l'occidente è in crisi.




NOTE

1) Jung Chang Jon Halliday: Mao la storia sconosciuta. Longanesi 2006 pag 506.
2) Ibidem pag. 507.
3) Ididem pag. 515