martedì 6 agosto 2013

NIETZSCHE E LA MODERNITA'



Le reazioni della filosofia alla modernità ed alla crisi dei valori tradizionali che questa ha provocato sono state svariate. C’è chi ha accettato la modernità e la società aperta di cui essa è il correlato, rendendosi conto tuttavia di quanto fossero, e siano, reali i problemi che la sua vittoria ha creato. La reazione di gran lunga prevalente però è stata negativa. Il pensiero filosofico ha reagito alla perdita di centralità dell’uomo indotta dalla modernità cercando, molto semplicemente, di restaurare quella centralità. Che tale tentativo si sia concretizzato in un sistema che sostanzialmente giustifica l’esistente come quello di Hegel o in uno, quello di Marx, che colloca nel futuro la palingenesi globale del mondo e dell’uomo non ha poi, dal punto di vista strettamente speculativo, una importanza eccessiva. Tramite le filosofie della totalità l’assoluto rientra nel mondo e nella storia, l’uomo torna ad essere il protagonista di un disegno provvidenzialistico che gli restituisce, o gli restituirà, quel ruolo centrale che la rivoluzione scientifica gli aveva tolto; lo smembramento atomistico della società viene superato: la società torna, o tornerà, ad essere qualcosa di radicalmente diverso e superiore rispetto ai suoi membri, i comuni esseri umani.
Esiste un pensatore però che da un lato accetta senza riserve la sfida della modernità, anzi, considera positiva la crisi dei valori “sacri” che la modernità ha determinato. D’altro lato rifiuta decisamente tutte le “idee moderne”, tutti i valori di libertà, democrazia, eguaglianza, di cui la modernità si è fatta portatrice. Si tratta, com’è evidente, di Friedrich Nietzsche.

“Dio è morto” afferma Nietzsche e questa affermazione segna per il grande filosofo l’entrata nell’arena della storia dell’occidente del più inquietante degli ospiti: il nichilismo. “Dov’è Dio? Voglio dirvelo! Noi l’abbiamo ucciso, voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! Ma come abbiamo potuto farlo? Come abbiamo potuto bere tutto il mare? Chi ci ha dato la spugna per poter cancellare via l’intero orizzonte? Quale atto abbiamo compiuto per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Per dove si muove ora la terra? Per dove ci muoviamo noi? Non continuiamo a precipitare? E all’indietro, e di lato e per tutti i lati? C’è ancora un sopra e un sotto? Non andiamo errando come per un nulla infinito? Non alita su di noi lo spazio vuoto?” (1) Dio è morto, tutti i valori sono crollati. Siamo entrati nell’epoca del nichilismo. Cos’è il nichilismo? E’ la perdita di senso e di valore. “Cosa significa nichilismo?” si chiede Nietzsche in “la volontà di potenza” e risponde: “Significa che i valori supremi si svalutano. Manca uno scopo, manca una risposta al: perché?” (2)
Per secoli l’uomo ha pensato di essere il centro dell’universo, le sue azioni erano sanzionate come buone o cattive da una legge morale avente fondamento divino, è vissuto in comunità semi organiche in cui il posto di ognuno era sanzionato dalla autorità indiscutibile della tradizione. La rivoluzione scientifica e gli sviluppi successivi delle scienze da un lato, l’affermazione della società aperta di mercato dall’altro hanno messo in crisi questo insieme di certezze, opprimenti forse ma senza dubbio consolatorie. La crisi di queste certezze lascia letteralmente privo di punti di riferimento l’uomo. Quando Nietzsche, nel brano sopra citato si chiede se esistono ancora un sopra ed un sotto ha, letteralmente, ragione. La rivoluzione astronomica ha cancellato dall’universo il sopra ed il sotto e l’affermarsi della società individualistica di mercato ha cancellato il sopra ed il sotto dalla società. L’uomo deve fare da sé; in una società radicalmente desacralizzata avanza a tentoni privo di bussole e punti di riferimento. Soprattutto è ormai privo del più importante punto di riferimento, della fonte stessa del valore e della verità: il trascendente. Se Dio è la fonte suprema del bene, della verità e del senso la sua morte priva il mondo del senso, della verità e del bene. Irrimediabilmente.

Ma in Nietzsche non c’è alcun rimpianto di ciò che è crollato. Egli non cerca di reintrodurre nel mondo gli idoli che sono caduti, di restaurare in qualche modo i vecchi valori. Nietzsche non ama la modernità, ma non la ama per ragioni diametralmente opposte a quelle dei suoi critici romantici e/o rivoluzionari. Non protesta, come Tolstoi, contro le conquiste della tecnica in nome di vetusti valori che queste hanno espulso dal mondo. Per Nietzsche il crollo dei valori apre le porte al nichilismo ma questo è un fatto inevitabile, lo è perché quegli stessi valori erano nella loro essenza nichilisti, nichilisti contro la vita. Per secoli presunte verità, religione, morale hanno impedito la spontanea e rigogliosa affermazione della vita. La vita è ribollire di forze primordiali, dionisiaca ebbrezza creativa, passione istintuale, volontà di potenza. In Nietzsche come in Schopenhauer la vita è qualcosa di essenzialmente non razionale, non comprimibile in concetti, non incanalabile in un sistema di imperativi morali. Fu Socrate colui che per primo cercò di mettere la conoscenza razionale sopra la vita e per questo peccò contro la vita, cercò di comprimerla, di soffocarla sotto il peso schiacciante di una ragione scettica ed indagatrice. “Laddove in tutti gli uomini produttivi l’istinto è una forza creativo affermativa e la coscienza si rivela critica e dissuadente, in Socrate invece il critico è l’istinto e il creatore è la coscienza: una vera mostruosità per defectum. E invero noi avvertiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica sicché Socrate sarebbe da definire come lo specifico non mistico, nel quale la natura logica è, per superfetazione, tanto eccessivamente sviluppata quanto è nel mistico la sapienza istintiva. (..) Codesto istinto logico (…) mostra una veemenza naturale, quale la incontriamo, con nostro stupore e raccapriccio, solo nelle massime forze dell’istinto” (3). La ragione socratica si ritiene superiore a tutto, più forte della vita, che cerca di rendere intellegibile, e più forte della stessa morte. “l’immagine del Socrate morente, come un blasone dell’uomo che la conoscenza delle cause libera dal timore della morte, è sospesa sulla porta d’entrata della scienza, e ne ricorda a ognuno l’ufficio, che è quello, cioè, di far apparire intellegibile e quindi giustificata l’esistenza” (4). La pretesa socratica però è illusoria e non si tratta di una illusione priva di conseguenze. L’invadente ragione socratica crea un altro mondo accanto e contro il mondo terreno, un mondo “ideale” che impedisce lo spontaneo sviluppo del mondo autentico. Altri mondi fittizi sorgeranno sulla via aperta da Socrate; le religioni, prima fra tutte il cristianesimo, porranno, accanto e contro il mondo terreno altri mondi “più veri”, la morale cercherà di ingabbiare il rigoglioso scorrere della vita in un sistema opprimente di regole e proibizioni: “in quanto crediamo alla morale condanniamo l’esistenza” (5) afferma Nietzsche in “la volontà di potenza” e questa massima lapidaria esprime molto bene il nocciolo del suo pensiero. Le morali, ed in particolare la morale cristiana, altro non esprimono se non il risentimento del gregge, dei malriusciti, degli scarti della natura e della vita pieni di risentimento contro i migliori. “Il cristianesimo ha preso le parti di tutto quanto è debole, abbietto, malriuscito; della contraddizione contro gli istinti di conservazione della vita forte ha fatto un ideale; ha guastato perfino la ragione delle nature intellettualmente più forti insegnando a sentire i supremi valori dell’intellettualità come peccaminosi, come fonti di traviamento, come tentazioni” (6). La morale altro non è che la volontà di potenza di coloro che non riuscendo ad affermarsi cercano di imporre ai migliori vincoli e barriere travestendole da imperativi etici. In questo la morale è il sintomo più evidente della “decadence”, cioè del progressivo traviamento della vita.
Nietzsche dunque condanna come nichilisti quei valori e quegli ideali il cui crollo ha determinato l’insorgere del nichilismo. Il crollo di quegli ideali e di quei valori ha distrutto solo un mondo spettrale, un insieme di catene che impedivano il pieno dispiegarsi dell’esistenza. Eppure l’uomo sente vuoto il mondo senza quegli spettri e quelle catene, privo di valori egli vaga ora in un nulla infinito. L’uomo, l’uomo di oggi, non è in grado di accettare il nichilismo, di vivere gioiosamente in un mondo senza Dio e valori supremi. Nietzsche irride questi timori: l’immagine di un mondo ridotto a cieca forza vitale fa orrore a Schopenhauer, per Nietzsche invece dobbiamo accettare questo mondo, accettarlo pieni di ottimismo e gioia, dobbiamo esercitare in esso, in esso ed in nessun altro, la nostra volontà di potenza, anzi, accettare un mondo simile significa già esprimere la propria volontà di potenza. Il superuomo si afferma dopo la morte di Dio e proprio questo dobbiamo proporci per Nietzsche: superare l’abisso che separa l’uomo dal super uomo, diventare super uomini.

E’ possibile allora interpretare Nietzsche come un sostenitore della modernità? Nietzsche potrebbe forse dolersi per la desacralizzazione del mondo? I valori assoluti che la modernità ha fatto crollare non sono in fondo gli stessi che Nietzsche condanna senza mezzi termini? E’ vero, la modernità è pervasa di spirito illuminista mentre Nietzsche sottopone ad una critica serrata la pretesa razionalistica di spiegare tutto, ma, in primo luogo, Nietzsche non è contrario alla scienza ma solo alle sue assolutizzazioni, in secondo luogo nella stessa modernità sono presenti posizioni scettiche e anti sistematiche non troppo distanti in fondo da quelle di Nietzsche. Eppure sarebbe un errore radicale pretendere di trasformare Nietzsche in un sostenitore della modernità, lo sarebbe per una ragione assai più importante dell’atteggiamento critico del grande filosofo nei confronti della scienza. In realtà Nietzsche detesta la modernità perché vede nell’affermarsi delle idee moderne la più piena attuazione della morale del gregge. La moderna società di massa, liberale, democratica, venata di socialismo rappresenta per Nietzsche il trionfo del risentimento sociale, la attuazione più totale e ripugnante di quegli ideali di pietà e compassione che sono propri del cristianesimo e che gli fanno letteralmente orrore.
In “così parlò Zarathustra” Nietzsche racconta dell’incontro fra Zarathustra e due re in fuga dai loro regni. Ecco cosa dicono i re fuggiaschi al profeta solitario: “Meglio in verità vivere fra eremiti e caprai che non con la nostra plebe dorata, falsa, imbellettata, sebbene si chiami buona società. Sebbene si chiami “nobiltà”. In essa tutto è falso e marcio, e innanzitutto il sangue, grazie ad antiche e brutte malattie e rappresentanti dell’arte medica ancora peggiori delle malattie (..) E’ questo schifo che mi soffoca, che anche noi re siamo diventati falsi, ci siamo travestiti e paludati nell’antica e ingiallita pompa dei padri, medaglioni per i più stupidi e i più furbi e per chiunque eserciti traffici col potere!” (7). La crisi delle vecchie società fondate sul censo e il trionfo della società individualistica di mercato permettono alle masse di abbandonare la posizione subordinata in cui per secoli erano state relegate e di diventare in qualche modo il centro della società. Anche i migliori ora devono adulare i mediocri, gli stessi re devono inchinarsi di fronte al popolo, l’uomo comune è diventato il centro di tutto, il gregge sovrano. Ne “La volontà di potenza” Nietzsche esprime concetti assai simili, con buona pace di chi considera quest’opera una sorta di mistificazione postuma della sorella del filosofo. “Il guazzabuglio sociale, conseguenza della rivoluzione, dell’aver instaurato l’uguaglianza dei diritti, della superstiziosa credenza nella uguaglianza degli uomini. I portatori degli istinti di decadenza (del risentimento, del malcontento, degli impulsi distruttivi dell’anarchia e del nichilismo) compresi gli istinti servili, della viltà, del’astuzia e della canaglieria propri degli strati sociali tenuti a lungo in soggezione, si mescolano al sangue di tutti i ceti: dopo due, tre generazioni la razza è diventata irriconoscibile, tutto è diventato plebe. Ne risulta un istinto collettivo ostile alla selezione, ai privilegi di ogni genere, così forte, sicuro, duro, crudele che ben presto gli si sottomettono persino i privilegiati: chi vuole conservare il potere adula la plebe, deve avere la plebe dalla sua parte (…) l’ascesa della plebe significa ancora una volta l’ascesa dei vecchi valori” (8).
Nelle società organiche e censitarie la plebe stava al suo posto. La crisi di quelle società trasforma i plebei in cittadini ma in questo modo i plebei diffondono nella società tutta i germi della “decadence”. I critici rivoluzionari o reazionari della modernità avevano protestato contro la miseria che accompagna il sorgere della società di mercato, avevano denunciato il senso di sradicamento che accompagna la nascita ed il primo sviluppo del capitalismo. Anche coloro che accettavano (e accettano) la modernità e la società aperta avevano considerato gravi e reali i problemi che sorgono dal disgregarsi delle vecchie comunità organiche e semi organiche. Miseria, senso di sradicamento, emarginazione politica e sociale erano apparsi a molti caratteristiche ineliminabili delle società aperte di mercato, altri avevano considerato questi fenomeni gravi ma risolvibili problemi che accompagnano il loro sviluppo. Nietzsche ribalta completamente queste posizioni. Con incredibile anticipo sui tempi individua la caratteristica di fondo delle società aperte di mercato. Ben lungi dal fondarsi sulla miseria e l’emarginazione economica, politica e sociale delle masse le società aperte sono le prime autentiche società di massa della storia. L’economia è finalizzata sempre più al consumo di massa, la politica eleva a rango di nuova regina la pubblica opinione: inchieste di mercato e sondaggi d’opinione accompagnano tutte le fasi della vita politica ed economica delle società aperte. Con sguardo davvero d’aquila Nietzsche comprende alla perfezione che miseria, emarginazione, sradicamento sono fenomeni reali ma tutto sommato transitori della nuova società mentre il coinvolgimento pieno delle masse nella vita sociale politica ed economica ne costituisce la caratteristica essenziale. In qualche modo su questo tema si può paragonare Nietzsche a Von Mises, il grande economista austriaco che mostra con molta chiarezza come la produzione nel capitalismo sviluppato abbia come principale referente le classi popolari. Solo, ciò che per Von Mises è un fenomeno positivo fa letteralmente orrore a Nietzsche. Nietzsche ignora completamente l’enorme valore liberatorio dell’ingresso di milioni di esseri umani nel circuito della decisione politica, della produzione e del consumo. Nella società di massa egli vede unicamente imbarbarimento dei costumi, trionfo del risentimento sociale, volgarizzazione della società. L’uomo che accetta un nichilismo attivo e virile, che accetta di vivere in un mondo senza valori deve lottare per il ritorno di una società aristocratica, contro i valori moderni. “E’ necessario che gli uomini superiori dichiarino guerra alla massa! Non c’è luogo in cui i mediocri non si radunino per diventare padroni! Tutto ciò che rammollisce, addolcisce, valorizza il popolo o il femminino agisce a favore del suffrage universel, ossia del dominio degli uomini inferiori” (9). Anche se simili affermazioni possono apparire oggi quasi intollerabili esiste un fondo di verità in queste posizioni di Nietzsche. Che la società di massa sia costantemente esposta ai vizi dell’involgarimento e del conformismo che soffoca le individualità è vero. Lo hanno riconosciuto pensatori liberali come Tocqueville e Ortega y Gasset. Ma individuare i pericoli ed i problemi di una certa società è cosa ben diversa dal liquidare quanto di buono, ed è molto, questa società ha prodotto e produce. Il pensiero di Nietzsche però non è affatto attento a questo tipo di distinguo. Il filosofo tedesco li avrebbe con tutta probabilità considerati manifestazioni di spirito filisteo.

Il rapporto di Nietzsche con la modernità è complesso. La modernità secolarizza il mondo, mette in crisi relazioni sociali consolidate da secoli, contribuisce potentemente alla morte di Dio ed al crollo dei valori supremi; in questo senso la modernità è l’araldo del nichilismo. Ma i valori che la modernità mette in crisi sono a loro volta nichilisti, nichilisti nel senso peggiore del termine, nichilisti contro la vita. In questo può forse intravedersi un giudizio positivo di Nietzsche sul ruolo della modernità, ma questo cauto giudizio positivo, se esiste, non porta il filosofo tedesco ad avvicinarsi in nessun modo al moderno. Non può farlo perché il moderno rappresenta per lui la più piena e intollerabile affermazione dei valori della “decadence”, cioè, di nuovo, di quanto di più nichilista, nichilista contro la vita, si possa immaginare. Il moderno secolarizza il mondo ma esalta l’umanità, mette in crisi modelli organici di società solo per creare una società democratico individualista pervasa e dominata dai valori della plebe. L’atomismo liberale rappresenta per Nietzsche il più pericoloso veicolo per la diffusione della mentalità plebea, dei valori plebei, della morale degli ultimi e dei malriusciti. L’unica alternativa possibile alla morte di Dio non è il ritorno ai vecchi valori. Nietzsche non contrappone al moderno la mielosa riproposizione di idilliache società pastorali pervase di bontà e solidarietà. Non contrappone alla vita come potenza la vita come amore, non critica l’aristocrazia del denaro perché aristocratica ma perché plebea, legata mani e piedi alle esigenze del gregge. Nell’era della morte di Dio bisogna contrapporre al nichilismo contro la vita il nichilismo della vita, ma solo un nuovo tipo umano può farsi sostenitore di questo nichilismo positivo: “deve venire alla luce una specie più forte, un tipo superiore le cui condizioni di nascita e di conservazione siano diverse da quelle dell’uomo medio. Il mio concetto, il mio simbolo per questo tipo è, come si sa, la parola superuomo (…) quest’uomo ha bisogno che gli sia ostile la massa, i livellati, ha bisogno di sentirsene distante: sta sopra di loro, vive di loro” (10). L’uomo di oggi non può vivere nel mondo privo di valori, non può accettare sino in fondo la ferrea logica della vita come volontà di potenza. “L’uomo è una corda” afferma Zarathustra “annodata tra l’animale e il superuomo, una corda tesa sopra l’abisso” (11).
E così l’alternativa di Nietzsche alla modernità si sostanzia nella proposta di una società brutalmente gerarchica, spietata con gli ultimi, lontanissima dagli ideali liberali, democratici e socialdemocratici di cui il moderno è pervaso. Una società gerarchica assai più che aristocratica, questo punto è essenziale per intendere bene il pensiero di Nietzsche. Perché gli aristocratici veri, i migliori, possono davvero affermarsi solo su una base di uguaglianza. Non esiste vero merito, autentica considerazione per i migliori senza una buona dose di uguaglianza diffusa. L’atleta migliore può essere considerato tale solo se batte i suoi avversari in una competizione giocata secondo regole uguali per tutti. Il grande imprenditore può affermarsi nella sfida concorrenziale solo se in questa tutti sono sottoposti alle stesse leggi, il grande artista, il genio possono veder riconosciuto il loro talento solo se esiste ed è garantita a tutti la libertà di pensiero ed espressione artistica. Senza base di uguaglianza non esiste competizione, concorrenza, scambio e scontro di idee, esiste solo lotta senza esclusione di colpi in cui a vincere non sono necessariamente i migliori. Ma è questo probabilmente il fondo del pensiero di Nietzsche. Migliore è ciò che la vita afferma essere tale e la vita è forza cieca, impulso non regolato da legge e regola alcuna, pura, fredda volontà, volontà di potenza (non a caso Nietzsche deve tanto a Schopenhauer). E’ questa fredda essenza del mondo che il superuomo deve accettare, senza riserve né piagnistei morali. Sarebbe ingeneroso oltre che stupido instaurare frettolosi parallelismi fra Nietzsche ed il nazismo. Tra l’altro Nietzsche, oltre a non essere per niente antisemita, detestava lo stato. Il grande filosofo era del tutto esente da quella venerazione superstiziosa per lo stato che pervade invece la filosofia di Hegel.Tuttavia non è possibile non intravedere luci sinistre dietro a molte affermazioni di Nietzsche, affermazioni che, si è cercato modestamente di dimostrarlo, non contrastano con l’essenza del suo pensiero. Per Nietzsche, come per molti altri grandi pensatori, si pensi a Marx, vale il detto che i grandi uomini commettono grandi errori. Grandi e gravidi di tragiche e devastanti conseguenze. Purtroppo.































Note

1) F. Nietzsche: La gaia scienza. Citato: in Giovanni reale Dario Antiseri: Storia della filosofia. Bompiani 2008 pag. 52 53.

2) F: Nietzsche: La volontà di potenza. Bompiani 1996 pag. 9.

3) F. Nietzsche: La nascita della tragedia. Edizioni del “sole 24 ore” 2007 pag. 358-359

4) Ibidem pag. 366

5) F. Nietzsche: La volontà di potenza. Bompiani 1996 pag. 10

6) F. Nietzsche: L’anticristo. Citato in Reale-Antiseri op. cit. pag. 37

7) F. Nietzsche: Così parlo Zarathustra Rizzoli 1997 pag. 225

8) F. Nietzsche: la volontà di potenza. Bompiani 1996 pag. 473. Sottolineature di N.

9) Ibidem pag. 470. Sottolineature di N.

10) Ibidem pag. 476

11) F: Nietzsche: Così parlò Zarathustra. Rizzoli 1997 pag. 12



IL NICHILISMO DI SCHOPENHAUER



Arthur Schopenhauer non può, da un certo punto di vista, essere considerato un nemico della modernità, non contrappone un cosmo ordinato ed antropocentrico all’universo senza limiti della rivoluzione scientifica, né sogna, contro l’individualismo atomistico della società liberale borghese, il ripristino di forme organiche di organizzazione sociale. A livello politico il filosofo di Danzica fu un conservatore ostile non solo ad ogni rivoluzionarismo ma anche a qualsiasi proposito di ampie riforme dell’ordine sociale vigente. Convinto sostenitore della proprietà privata restò sempre assai distante dal nascente pensiero socialista. Un moderato sostenitore del moderno, conservatore e forse addirittura un po’ reazionario? Così possiamo definire Arthur Schopenhauer? No, assolutamente. Il pensiero del grande filosofo si contrappone in realtà in maniera radicale alla modernità. Contro l’appassionata difesa che la modernità compie del mondo terreno, dell’intelletto analitico, delle scienze empiriche, in una parola, del finito, la metafisica di Schopenhauer cerca di dimostrare, se di “dimostrazione” si tratta, che tutto questo mondo, oggetto degli studi, delle speculazioni e dei dibattiti di tanti filosofi e scienziati altro non è che un nulla. Con Schopenhauer il nulla diventa l’unica speranza di poter sconfiggere il dolore di cui il mondo è intimamente intriso, qualcosa di molto lontano, è evidente, non solo dall’ingenuo ottimismo di tanti illuministi ma anche dalle mistiche aspirazioni all’assoluto di molti romantici.

Schopenhauer si rifà esplicitamente a Kant, che spesso definisce “un gigante” e questo solo fatto basta ad impedirci di assimilare semplicisticamente il suo pensiero ad una qualche forma di irrazionalismo. Schopenhauer però valorizza al massimo proprio quell’aspetto del pensiero di Kant che lascia più perplessi: la contrapposizione fra fenomeni e cosa in sé. Per Schopenhauer questo è il nocciolo del criticismo kantiano, la sua scoperta più feconda: “Il merito maggiore di Kant è la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé” (1). Ed Il filosofo di Danzica interpreta questa scoperta fondamentale di Kant (che per molti rappresenta invece uno dei punti deboli del suo sistema) in maniera tale da trasformarla in qualcosa di abbastanza estraneo al pensiero del filosofo prussiano. Per Schopenhauer la distinzione kantiana fra fenomeni e noumeni riduce sostanzialmente ad illusione il mondo fenomenico, fa di esso qualcosa di privo di autentico essere. Riducendo a fenomeno il mondo empirico Kant, a parere di Schopenhauer, ha esposto in maniera completamente nuova “la stessa verità che già Platone ripete instancabilmente, esprimendola nel suo linguaggio per lo più così: questo mondo che appare ai sensi non ha vero essere ma solo un incessante divenire, esso è e anche non è, e la percezione di esso non è tanto una conoscenza quanto un’illusione” (2). Distinguendo fenomeno e noumeno Kant riprenderebbe addirittura le antiche dottrine della filosofia indiana secondo cui “il mondo visibile in cui siamo” sarebbe “un incantesimo evocato, una mutevole parvenza, in sé priva di consistenza, paragonabile all’illusione ottica o al sogno (...) Kant non solo espresse la stessa dottrina in una maniera completamente nuova ed originale ma ne fece anche (…) una verità dimostrata e incontestabile” (3) Ora, quali che siano le incongruenze della separazione kantiana fra fenomeni e noumeni, è certo che non era affatto intenzione di Kant ridurre ad illusione il mondo fenomenico. Questo appare invece realissimo in Kant, tanto reale da essere l’unico mondo davvero conoscibile sì che per il filosofo prussiano la conoscenza teoretica si ferma al mondo fenomenico e l’umana ragione cade in insuperabili aporie non appena si spinga al di la dei suoi limiti. Per Kant fenomeno non è insomma affatto sinonimo di illusione ed anche se esiste molto di discutibile nella contrapposizione kantiana fra fenomeni e cosa in sé l’interpretazione che di essa dà Schopenhauer è quantomeno forzata.
L’interpretazione di Schopenhauer del fenomenismo kantiano è fortemente marcata di soggettivismo. Il nostro filosofo esprime senza mezzi termini questa concezione proprio all’inizio del “Mondo come volontà e rappresentazione”: “Il mondo è la mia rappresentazione: questa è una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e conoscente sebbene l’uomo soltanto possa tradurla nella coscienza riflessa, astratta (…) egli [l’uomo] non conosce né il sole né la terra ma sempre e solo un occhio che vede il sole e una mano che sente una terra; il mondo che lo circonda esiste solo come rappresentazione, cioè sempre solo in rapporto ad un altro, al portatore della rappresentazione che è egli stesso” (4) ed ancora: “tutto quello che in qualche modo appartiene o può appartenere al mondo è inevitabilmente affetto da questo suo essere condizionato dal soggetto ed esiste solo per il soggetto. (…) questa verità non è nuova (..) Berkeley fu il primo che la enunciò decisamente: egli si è in tal modo conquistato un merito immortale verso la filosofia” (5). Il mondo che ci circonda non cessa in questo modo per Schopenhauer di essere oggettivo, ma è oggettivo solo in relazione al soggetto in cui si rappresenta; scomparso il soggetto anche il mondo scompare; è illuminante a questo proposito il riferimento a Berkeley che a suo tempo aveva fatto coincidere l’essere col percepire. Esattamente come per Kant anche per Schopenhauer il mondo fenomenico è “costruito” dal soggetto. Il mondo è esteso nello spazio ed i suoi eventi si dipanano nel tempo ma spazio e tempo non sono nel mondo, sono nel soggetto che ordina il mondo, ed ancora, gli eventi del mondo si succedono secondo rapporti di causa – effetto (Schopenhauer riduce alla sola causalità le categorie kantiane) ma, di nuovo, il principio di causa, da lui chiamato principio di ragione, è solo nel soggetto. Grazie a spazio, tempo e causalità il mondo non è un caos ma qualcosa di ordinato ed intellegibile, grazie ad essi sono possibili le scienze e le teorie scientifiche acquistano il loro valore di verità. Ma questo mondo ordinato ed intellegibile non è il mondo come esso realmente è, è solo il mondo come nostra rappresentazione, l’oggetto in rapporto al soggetto, l’oggetto quale rappresentazione nel soggetto.

Il concetto di “rappresentazione” però, specie nella versione che ne dà Schopenhauer, è profondamente contraddittorio. L’uomo non conosce il sole né la terra afferma Schopenhauer ma sempre solo un occhio che vede il sole ed una mano che sente la terra, ma, non sono anche l’occhio e la mano delle rappresentazioni? Spazio tempo e causalità non sono nel mondo, sono nel soggetto che sente ed ordina il mondo, afferma Schopenhauer, ma questo soggetto senziente ed ordinante non è anche lui nel tempo e nello spazio? Non sono anche le sue azioni (o moltissime delle sua azioni) causalmente determinate? Il soggetto ordina categorialmente il mondo, afferma Schopenhauer sulle orme di Kant, ma per fare questo non deve egli già essere categorialmente ordinato? Se il soggetto ordina il mondo chi ordina il soggetto? Il fenomenismo di Schopenhauer, come quello di Kant, non può uscire da queste contraddizioni senza negare sé stesso. Il filosofo di Danzica del resto se ne rende perfettamente conto ed infatti afferma che il vero soggetto conosce tutto senza poter essere oggetto di conoscenza alcuna e di nuovo si nota qui la vicinanza fra Schopenhauer e Kant, ma, chi è questo “vero” soggetto? Il soggetto noumenico? Il soggetto in sé? Ma questi altro non è che una x sconosciuta, un ente che conosce sé stesso in maniera del tutto diversa da come realmente egli è e che conosce il mondo in maniera del tutto diversa da come il mondo è realmente. Definire in questo modo il soggetto noumenico significa di fatto escluderlo dal mondo, ridurlo ad un nulla insignificante. Se si riflette sul soggetto noumenico questi scompare e resta il soggetto fenomenico, l’essere umano che vive qui ed ora nel mondo e che appunto per questo non può essere ridotto a rappresentazione.
Né le cose si fermano qui. Il principio di ragione non solo ordina il mondo, ma conferisce valore di verità alle proposizioni delle scienze empiriche. Il mondo prende la forma che gli dà il nostro intelletto e questo fa si che le conclusioni cui giungono le scienze siano valide, nell’ambito del mondo fenomenico e solo in quello, ovviamente. Sorge però a questo punto un problema di cui Schopenhauer si rende perfettamente conto. Le scienze della natura affermano che il mondo, non il mondo noumenico ma il nostro volgare mondo empirico, esisteva quando non c’era alcun essere senziente né tanto meno pensante, esisteva milioni e milioni di anni prima che comparissero le prime forma di vita. Il principio di ragione garantisce il valore di verità delle teorie scientifiche ma queste negano che il mondo possa esistere solo in rapporto al soggetto in cui opera il principio di ragione. Il tempo è nel soggetto che ordina temporalmente gli eventi ma in questo ordinare il soggetto scopre che sono accaduti eventi ben prima che esistesse un qualsiasi soggetto. E’ lo stesso Schopenhauer ad esporre, con grande onestà intellettuale, i termini del dilemma: “Da una parte l’esistenza di tutto il mondo dipende necessariamente dal primo essere conoscente (..) dall’altra vediamo che questo primo animale conoscente dipende altrettanto necessariamente e in modo assoluto da una lunga catena a lui precedente di cause ed effetti in cui esso medesimo rientra come un piccolo anello. Queste due vedute contraddittorie a ciascuna delle quali in realtà noi siamo condotti con uguale necessità potrebbero veramente essere dette un’antinomia della nostra facoltà conoscitiva” (6) Questa antinomia, e con questa tutte quelle cui si è fatto accenno in precedenza, tuttavia può essere superata a parere di Schopenhauer, può essere superata se si approfondisce l’analisi e si passa dallo studio del mondo come rappresentazione allo studio del mondo in sé, del fondamento intellegibile e soprasensibile del mondo empirico. Perché, a differenza di Kant, Schopenhauer ritiene che la cosa in sé sia conoscibile, che si possa stabilire cosa realmente è l’essenza del mondo.

La cosa in sé altro non è per Schopenhauer che la volontà. Se il nostro corpo altro non fosse, afferma Schopenhauer, che un oggetto fra gli altri oggetti, una rappresentazione accanto alle altre allora ogni passaggio dal mondo fenomenico al mondo noumenico ci sarebbe inesorabilmente interdetto. Ma il nostro corpo non è solo rappresentazione fra altre rappresentazioni, noi sentiamo nel nostro corpo qualcosa che non è riducibile a rappresentazione alcuna, sentiamo “scorrere” in esso la volontà. Dentro di noi sentiamo un aspirare, un volere, un tendere a qualcosa che condiziona imperiosamente tutta la nostra vita, anzi costituisce la base stessa del nostro vivere, e costituisce anche la porta strettissima che ci porta a conoscere l’essenza profonda del nostro essere e con questa dell’essere del mondo: la volontà: “Se dunque il mondo corporeo dev’essere qualcosa di più di una mera rappresentazione, dobbiamo dire che esso, al di fuori della rappresentazione, cioè in se quanto alla sua intima essenza, è ciò che noi troviamo immediatamente in noi stessi come volontà” (7). La volontà essenza ultima del mondo è però per Schopenhauer qualcosa di totalmente diverso dalla volontà che conosciamo in quanto fenomeni. La volontà che ci è data immediatamente nella nostra esperienza è qualcosa che si manifesta temporalmente, che è indirizzata verso enti del mondo sensibile, che è mossa da motivi. Voglio quel certo oggetto, sposare quella donna, ottenere un risultato, voglio far carriera, vincere una gara sportiva, scrivere un libro, voglio, posso volere, tante cose, questa è la volontà nel mondo come rappresentazione. Ma questa volontà fenomenica si basa su un altro tipo di volontà, la volontà noumenica. Questa è assolutamente semplice, aspaziale ed atemporale, priva di ogni molteplicità, non è un tendere, non è mossa da motivo alcuno. “La volontà come cosa in sé si trova (..) fuori dal dominio del principio di ragione in tutte le sue forme ed è per conseguenza assolutamente priva di fondamento, benché ognuno dei suoi fenomeni sia in tutto e per tutto sottomesso al principio di ragione; essa è inoltre libera da qualsiasi molteplicità, benché i suoi fenomeni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli; essa stessa è una: non a ogni modo come uno è un oggetto, la cui unità viene riconosciuta solo in contrapposto ad una possibile molteplicità; neanche come uno è un concetto, che è sorto dalla molteplicità solo per astrazione: bensì è una come ciò che si trova fuori del tempo e dello spazio, del principium individuationis, ossia della possibilità della molteplicità” (8). Per Platone il tempo è l’immagine mobile dell’eternità, la volontà di Schopenhauer è qualcosa di simile alla eternità platonica. L’eternità è eterno presente che si rende accessibile alla sensibilità come tempo: attimo presente che continuamente si perde nel passato e tende al futuro. La volontà di Schopenhauer è una x fuori dal tempo, dallo spazio e dalla causalità che diviene un qui che si differenzia da un , un ora che collega senza sosta il passato al futuro, un ente che si differenzia dagli altri enti, un volere che è mosso da cause o da motivi e che tende verso qualcosa.
Introducendo la volontà noumenica però non solo non si risolvono le aporie del concetto di “rappresentazione” cui si è fatto cenno in precedenza ma si va incontro ad altre difficoltà. Con quale legittimità possiamo passare dalla volontà fenomenica a quella noumenica? Una volontà che è la volontà di un certo ente, che si manifesta nel tempo e nello spazio, che è spinta da motivi, aspira a qualcosa si determinato può rimandarmi ad una volontà assolutamente semplice, fuori da tempo, spazio e causalità? Ed ancora, come può questa volontà noumenica “cristallizzarsi” nel mondo sensibile, manifestarsi come rappresentazione? Rappresentazione in chi, visto che tutti gli enti fenomenici, uomo compreso, sono rappresentazioni? E se la volontà è fuori dal tempo allora l’atto del suo manifestarsi è presente in essa ab eterno, è anch’esso fuori dal tempo nella volontà; ma se qualcosa è presente nella volontà questa non perde inesorabilmente la propria assoluta semplicità? O la volontà può essere ridotta all’atto del suo manifestarsi fenomenico? Ma questo non eguaglia la volontà noumenica alla sua manifestazione? Si potrebbe continuare nel cercare debolezze e contraddizioni in questa parte del capolavoro di Schopenhauer, pure assolutamente fondamentale nella economia di tutta l’opera. Sarebbe però una esercitazione forse inutile e di certo ingenerosa. Affrontando il problema dei rapporti fra volontà noumenica e volontà fenomenica Schopenhauer sta affrontando il realtà uno dei temi più spinosi della metafisica occidentale. E’ lo stesso problema che si pone Platone quando cerca di passare dal mondo delle idee a quello della molteplicità e del divenire, o Plotino quando cerca di dedurre il molteplice dall’Uno, o Agostino quando cerca di spiegare in termini comprensibili la creazione del mondo e col mondo dello spazio e del tempo, da parte di Dio. Affrontare simili problemi conduce inevitabilmente a difficoltà insolubili quando non ad autentiche aporie e Schopenhauer non fa eccezione. Inoltre ciò che è davvero attuale nella sua opera non è il tentativo di soluzione dei massimi problemi metafisici quanto le indicazioni che da essa vengono intorno ai problemi dell’uomo. E’ a queste comunque che va prestata, a parere di chi scrive, la maggiore attenzione.

Il mondo come rappresentazione è l’oggettivazione della volontà, il suo manifestarsi nel tempo, nello spazio e nella causalità.. Al livello più elementare la volontà si oggettiva nella natura inorganica, poi prende la forma di vita. Il mondo organico, vegetale ed animale, è volontà di vivere, volontà cieca, fine a sé stessa, priva di ogni idealità, di alcun fine che non sia la indefinita conservazione di sé stessa. Tutto in natura è lotta afferma Schopenhauer: “Nella natura vediamo dappertutto contesa, lotta e alternarsi della vittoria (…) Ogni grado di oggettivazione della volontà contende all’altro la materia, lo spazio, il tempo (…) Questa lotta universale diventa visibile nel modo più chiaro nel mondo animale che ha per suo stesso nutrimento il mondo vegetale e nel quale stesso ogni animale diventa a sua volta preda e nutrimento di un altro (…) potendo ogni animale conservare la propria esistenza solo con la costante soppressione di una estranea; sicché sempre la volontà di vivere si nutre di sé stessa ed è in forme diverse il suo proprio nutrimento” (9).
Le pagine che Schopenhauer dedica alla natura sono decisamente belle oltre che profonde e rivelano tra l’altro una conoscenza abbastanza approfondita, anche se velata da vitalismo romantico, della scienza del suo tempo. Ciò che affascina nella visione che il grande filosofo ha della natura è il suo pessimismo disincantato, l’accettazione scevra da illusioni di un mondo che in fondo gli fa orrore. Schopenhauer era quello che noi oggi potremmo definire, magari con qualche forzatura, un animalista, era tra l’altro un gran cinofilo ed amava i cani forse più degli esseri umani, verso cui non provava eccessive simpatie. Tuttavia nulla di questa simpatia per gli animali e più in generale per la natura traspare dalle pagine che le dedica. Da queste emerge invece la visione di una natura del tutto estranea ed indifferente a ciò che noi chiamiamo bene o male, giusto o ingiusto; un mondo agitato da una lotta sorda e generalizzata, una volontà cieca di continuare ad esistere e, a livello più alto, di continuare a vivere, volontà che agisce sempre, ovunque, perennemente fine a sé stessa.
E, ovviamente, Schopenhauer non esclude il mondo umano dall’incessante e cieco tendere della volontà. L’uomo costituisce l’oggettivazione più complessa della volontà di vivere, nell’uomo l’individualità prevale sul puro appartenere ad una specie, il singolo è più importante del tutto. Ma anche l’uomo è nella sua essenza volontà. La vita umana è un costante aspirare a qualcosa, un volere insaziabile che si pone sempre nuovi obiettivi e non è mai pago del loro raggiungimento. Desideriamo qualcosa, lottiamo per averla, una volta che riusciamo ad ottenerla ci sembra di essere felici ma si tratta di una illusione che svanisce rapidamente. Ottenuta una cosa ne vogliamo subito un’altra e così via, insensatamente, all’infinito. La nostra vita è un tendere costantemente inappagato, un volere che non trova mai pace perché il suo oggetto si sposta in avanti nel momento stesso in cui ci muoviamo per raggiungerlo. E quando non abbiamo nulla da desiderare, alcun oggetto da volere, alcun fine da realizzare ecco che subentra la noia. L’aspirare a qualcosa ci rende infelici perché si tratta di un aspirare sempre inappagato, il non poter aspirare ci rende se possibile ancora più infelici perché ci lascia vittime della noia. Il dolore è quindi la dimensione essenziale della vita umana, il vero “positivo” in essa. La gioia non esiste in quanto tale, non è qualcosa di positivo, che abbia realtà in sé; la gioia è solo assenza di dolore. E’ importante sottolineare che questa non è, per Schopenhauer una situazione accidentale, la conseguenza di un certo tipo di organizzazione sociale. No, per Schopenhauer questa è la condizione umana, il destino dell’uomo, destino a cui egli può sfuggire, come vedremo, solo con una scelta ben più radicale che non la modifica di questa o quella istituzione sociale. L’uomo non è libero, tutto in lui è causalmente determinato e dietro la determinazione causale del pensare e dell’agire degli uomini opera, instancabile, la volontà: la catena causale che ci lega è la manifestazione visibile dell’agire cieco della volontà di cui tutti siamo manifestazioni fenomeniche. Viviamo come fantasmi, viviamo nell’illusione di essere liberi, convinto ognuno di noi di essere il centro del mondo mentre siamo soltanto piccole marionette prive di importanza, mosse dal cieco tendere della volontà: “E’ davvero incredibile vedere in che modo insignificante e privo di senso, guardata da fuori, e in che modo opaco e insensibile, sentita da dentro, scorra la vita della stragrande maggioranza degli uomini. E’ un fiacco struggersi e torturarsi, un barcollare come in sogno attraverso le quattro età della vita fino alla morte, accompagnati da una serie di pensieri banali. Sono come orologi che vengono caricati e camminano senza sapere perché: e ogni volta che viene generato e nasce un uomo l’orologio della vita umana viene caricato di nuovo per ripetere ancora una volta frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la sua musica, suonata e risuonata già innumerevoli volte. Ogni individuo, ogni faccia ed ogni vita umana sono soltanto un breve sogno in più nell’infinito spirito della natura, dell’eterna volontà di vivere, sono soltanto una fugace formazione che esso disegna per gioco sulla sua pagina infinita, spazio e tempo, e che lascia sussistere per un tempo, rispetto a questi ultimi, infinitamente piccolo, poi cancellandola per far posto ad altre” (10) Per quanto discutibile e criticabile sia la concezione dell’uomo che emerge da queste parole disincantate è difficile sottrarsi al loro fascino ammaliatore.

Ma questo destino anonimo e miserabile riguarda la stragrande maggioranza, non tutti gli esseri umani. Nel suo più alto ed elaborato prodotto, l’uomo, la volontà si fa cosciente, vede sé stessa come un insensato e doloroso tendere e può rivoltarsi contro sé stessa, auto negarsi. Questa parte del “Mondo come volontà e rappresentazione” è giustamente la più criticata per le sue evidenti contraddizioni. Perché mai la volontà, giunta all’apice del suo manifestarsi fenomenico debba auto negarsi resta un mistero che neppure la potenza del pensiero di Schopenhauer riesce a penetrare, così come resta un mistero come possa l’uomo, del tutto sottoposto per Schopenhauer al più ferreo determinismo, compiere la scelta di negare ciò che costituisce la sua essenza più profonda: la volontà di vivere. Ma non precorriamo i tempi. Prodotto più alto ed elaborato della volontà l’uomo sente il dolore della sua condizione e può cercare di affrancarsi, o meglio, alcuni, pochissimi individui possono cercare di affrancarsi da quel correre insensato e doloroso che è la vita. Un primo momento di affrancamento lo si ha nell’arte. Nella creazione e nella contemplazione estetica l’uomo assume un atteggiamento del tutto privo di volontà, si rifugia in un fare ed in un contemplare privi di volere e sfugge per un attimo allo scorrere impetuoso della volontà. Si tratta però di una breve parentesi da cui ben presto lo strappano le ferree esigenze della vita. La volontà lo avvolge di nuovo nelle sue spire e lo rende di nuovo schiavo del suo tendere insensato. Ci si può liberare dalla volontà solo negando radicalmente la volontà di vivere.
Ognuno di noi è un certo ente distinto dagli altri: è un io contrapposto ad un tu e ad un lui. Ognuno di noi è qualcosa di determinato, sottoposto al principio di individuazione, quel principio cioè per cui ogni ente è quello che è, uguale a sé stesso e diverso da tutti gli altri. Rifiutare la volontà di vivere significa innanzitutto comprendere che questa differenza fra gli individui è qualcosa che vale solo nel mondo come rappresentazione ma che è del tutto priva di senso se riferita al mondo come cosa in sé, al mondo come volontà. Io, tu, lui siamo solo manifestazioni esteriori di quell’essenza unitaria che è la volontà. Se tu commetti ingiustizia nei miei confronti torto e ragione, tu che commetti ed io che subisco ingiustizia esistiamo solo nel mondo come fenomeno; nel mondo come volontà non esiste ingiustizia alcuna perché io e te siamo la stessa cosa in quel mondo. Nel mondo come rappresentazione la volontà divora sé stessa, è in lotta con se stessa ma tutto questo non altera minimamente la volontà in sé, il fondamento noumenico di tutte le lotte, le ingiustizie, i mali di questo nostro povero mondo. Chi comprende questo può assumere su di se tutti i mali del mondo, può farlo perché sa che questi mali, in quanto originati dalla volontà nel suo manifestarsi fenomenico, sono anche i suoi mali. I dolori e le angosce degli altri sono anche i miei dolori e le mie angosce perché io come gli altri siamo solo un fenomeno della volontà. E, assumendo su di me i mali del mondo, inizio già in un certo senso a negare il mondo, accettare come miei i dolori degli altri significa infatti negare il principio stesso su cui si regge il nostro mondo: il principio di individuazione. Accettare il dolore apre la via che porta alla negazione del mondo e col mondo del suo fondamento, origine sua e di tutti i suoi dolori: la volontà. La negazione della volontà di vivere non è un tentativo di opporsi al dolore, se così fosse sarebbe comunque una manifestazione della volontà, è la scelta di negare radicalmente il mondo che è esso stesso, in quanto tale dolore. Il fine non è una vita senza dolore, magari senza dolore per me: è la negazione della vita, una negazione che nel mondo fenomenico potrà riguardare solo me, potrà essere solo mia, ma che è rivolta alla radice stessa del mondo, è negazione della volontà in quanto tale e quindi del suo manifestarsi. Nella negazione della volontà di vivere il fenomeno della volontà entra in contrapposizione con sé stesso e quindi con la volontà. Quando un uomo comprende pienamente cos’è il mondo e cosa lo regge afferma Schopenhauer, “nasce in lui un orrore dell’essenza, di cui il suo stesso fenomeno è espressione, della volontà di vivere, nocciolo ed essenza di questo mondo riconosciuto come pieno di strazio. Rinnega dunque quest’essenza manifestantesi in lui e già espressa dal suo corpo, e il suo agire smentisce ora il suo fenomeno, entra in aperto contrasto con esso. Essenzialmente null’altro che fenomeno della volontà, egli cessa di volere alcunché, si guarda dal congiungere la sua volontà ad alcunché, cerca di rafforzare in sé la massima indifferenza verso tutte le cose. (…) La natura, sempre vera e ingenua dice che se questa massima diventasse universale, il genere umano si estinguerebbe (…) credo di poter assumere che col fenomeno della volontà più alto anche il più debole riflesso di esso, il mondo animale, verrebbe meno, come con la piena luce anche le penombre svaniscono. Con la totale eliminazione della coscienza svanirebbe allora anche da sé nel nulla il resto del mondo, dato che senza soggetto non si ha oggetto.” (11)
C’è in queste posizioni di Schopenhauer un richiamo ad alcune concezioni proprie del cristianesimo: il farsi carico dei dolori del mondo, l’espiazione per rendersi degni della redenzione, l’anelito ad andare oltre il mondo terreno, ma manca del tutto quello che è davvero caratteristico della dottrina cristiana: il fine positivo di tutto questo soffrire ed espiare, la vita eterna come salvezza e riscatto, l’unione mistica con Dio nel regno dei cieli. No, in Schopenhauer ci sono la volontà di vivere e il dolore e il rifiuto della volontà di vivere ma questo itinerario non ha alcun sbocco positivo. L’eterna felicità è inesorabilmente esclusa dal sistema schopenhaueriano, questo non culmina con la salvezza ed il riscatto ma col nulla. La negazione della volontà non conduce ad alcun positivo, quanto meno, ad alcun positivo che possa essere comunicato, espresso in un linguaggio di qualsiasi tipo. “La redenzione da un mondo la cui intera essenza ci si è rivelata come dolore, tutto ciò ci appare poi come un passaggio nel vuoto nulla” (12). Negare la volontà significa annichilire il mondo, suo specchio; in quale realtà ci portano questa negazione e questo annichilimento? Non lo si può dire, non lo si può neppure esprimere. “Non più volontà” afferma Schopenhauer “non più rappresentazione, non più mondo” (13). Non a caso Schopenhauer termina il suo capolavoro con queste parole: “ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è invero, per tutti coloro che sono ancora pieni di volontà, il nulla. Ma anche, viceversa, per coloro la cui volontà si è rovesciata e negata, questo nostro mondo tanto reale con tutti i suoi soli e le sue vie latee, è nulla” (14).

Nella filosofia di Schopenhauer cercano di conciliarsi due esigenze contrapposte. Da un lato il filosofo di Danzica, sulle orme di Kant, ricolloca in qualche modo l’uomo al centro dell’universo, quel centro da cui la rivoluzione scientifica lo aveva inesorabilmente scalzato. L’universo è in Schopenhauer una rappresentazione nell’uomo, meglio è una rappresentazione in tutti gli esseri senzienti che solo nell’uomo raggiunge il grado più alto di articolazione ed universalità. Se non è più il centro del creato l’uomo resta tuttavia in Schopenhauer come in Kant il legislatore della natura, colui che col suo intelletto conferisce ordine e regolarità ad un mondo altrimenti caotico ed inintellegibile. Schopenhauer però non si accontenta delle conclusioni di Kant, vuole andare oltre il mondo fenomenico, raggiungere la misteriosa “cosa in sé” base e fondamento del mondo come rappresentazione e ritiene di aver identificato nella volontà questo fondamento. Ed è qui, nello studio del mondo come volontà che emerge in Schopenhauer quel pessimismo profondo, quel senso di smarrimento che gli esiti della rivoluzione scientifica avevano indotto nell’uomo. L’aver scoperto il senso profondo del mondo, il suo fondamento ultimo ci rende se possibile ancora più deboli ed indifesi di prima. Il mondo è si una nostra rappresentazione ma questa rappresentazione, e noi stessi in quanto rappresentazioni, altro non siamo che oggettivazioni di una volontà fredda ed estranea a tutto ciò che per noi è importante ed ha valore. Dalla rivoluzione scientifica emerge il quadro di un uomo solo nel cosmo, piccolo ente schiacciato fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo; però si tratta di un ente che pensa, conosce, valuta, è libero. In Schopenhauer anche questo scompare: l’uomo diventa una sorta di burattino guidato da una forza fredda e irresistibile, un fantasma che fa una breve ed insignificante apparizione nel mondo solo per essere rimpiazzato da altri fantasmi. Pur assurgendo al ruolo di legislatore della natura l’uomo in Schopenhauer non si limita ad essere solo e sperduto nel mondo, è disperato.
E’ facile tutto sommato confutare molte delle cose che Schopenhauer afferma sulla riduzione drastica della vita a dolore. Chi ha detto che il tendere a qualcosa sia in quanto tale doloroso? E che ottenere qualcosa sia sempre e solo il pretesto per iniziare a desiderare dolorosamente altre cose? Ed è davvero giusto identificare l’appagamento con la noia? Non esistono milioni di esseri umani che sanno godere di ciò che hanno ottenuto? Ed altri esseri umani non provano piacere nel cercare di raggiungere qualcosa? L’arte, e con l’arte la scienza, la filosofia, lo studio in generale, lo stesso sport non sono in fondo un tendere? Un porsi obiettivi sempre più alti e cercare di raggiungerli? E se questo “cercare di raggiungerli” è spesso tormentoso non dona a volte momenti di autentica gioia? Schopenhauer ha il grosso merito di aver sottolineato con la massima forza che il momento del dolore è essenziale nella vita, che l’obiettivo di una vita senza dolore è semplicemente assurdo, assurdo perché il dolore è ineliminabile in un essere finito ed accidentale quale l’uomo è. Ma il grande filosofo fa di questa verità un assoluto, trasforma il dolore da ineliminabile dimensione della vita in dimensione unica, onnipresente, onnicomprensiva, assoluta. E non può essere seguito su questo terreno. E’ possibile dire che il piacere è solo mancanza di dolore, ma è anche possibile dire che è il dolore ad essere solo mancanza di piacere (o di gioia, o di serenità). Gioia e dolore non sono mere negazioni, hanno ognuno una loro grande o piccola realtà positiva, per fortuna, o per sventura.
E questo carattere unilaterale della filosofia di Schopenhauer raggiunge il culmine quando il filosofo di Danzica vede nel rifiuto della volontà di vivere non solo l’unica possibile libertà concessa all’uomo ma anche la soluzione del problema della vita e del dolore. La presenza inquietante del nulla, di quell’indicibile buco nero da cui siamo letteralmente pressati rende comunque (anche) dolorosa la vita, ci ricorda che nella vita è sempre presente il mistero, il non spiegabile, l’insensato. Il nulla ci ricorda i nostri limiti e la nostra insuperabile finitezza, ma proprio per questo non può risolvere alcun problema, svelare alcun mistero, conferire alcun senso. Il nulla è al di là dei problemi, del senso e del mistero, è al di là della vita, riguarda la morte. E, come dice Wittgenstein, “la morte non è un evento della vita, la morte non si vive” (15), ci piaccia o meno la cosa, la vita è il nostro confine insuperabile, l’area in cui ogni domanda ed ogni possibile risposta sono possibili ed hanno un senso. Anche il semplice teorizzare il rifiuto della volontà di vivere è un atto di tale volontà, appartiene alla vita; nel momento stesso in cui il si concretizza, il rifiuto cessa di essere tale. Il buco nero del nulla annulla tutto, può essere consolatorio, forse, per certe persone, in certi momenti lasciarsi andare verso quel buco nero, ma di certo un simile lasciarsi andare non è la soluzione di niente.
Il mondo come volontà e rappresentazione inizia definendo “rappresentazione” il mondo in cui tutti noi viviamo e termina definendo un nulla questo mondo. Si parte dal fenomeno, si raggiunge la cosa in sé, si segue l’oggettivarsi della cosa in sé nel fenomeno, il suo manifestarsi come volontà di vivere e si giunge infine alla scelta del nulla. La nostra conoscenza sembra ampliarsi in questo itinerario ma, afferma Ernest Cassirer, nel momento stesso in cui, seguendolo si innalza alla vetta suprema del sapere l’individuo “si trova ormai oltre tutte le forme immanenti dell’essere. Non l’intuizione del tutto e l’agire del tutto è ciò in cui egli trova la sua meta; ma al di là di questo egli viene spinto in una trascendenza metafisica che dal punto di vista del sapere e della vita si può definire soltanto più con predicati puramente negativi. Come ultimo, più profondo e unico vero dato della conoscenza, ci si rivela alla fine non l’essenza, ma il nulla; cogliamo l’universale supremo solo là dove ogni essere determinato e particolare si spegne e si risolve nel Nirvana” (16). L’ascesa di Schopenhauer verso la totalità, la cosa in sé, il fondamento ultimo del mondo si risolve nel nulla. Questo è l’esito finale e disperante di una grande filosofia.














Note

1) A. Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione. Appendice. RCS Bompiani 2009. pag. 565.

2) Ibidem pag. 566.

3) Ibidem pag. 567

4) A. Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione RCS Bompiani 2009 pag. 110

5) A. Schopenhauer. Op. cit. pag. 111

6) Ibidem pag. 141. Sottolineatura di S.

7) Ibidem pag. 225

8) Ibidem pag. 233. Sottolineature di S.

9) Ibidem pag. 271.

10) Ibidem pag. 461
11) Ibidem pag. 426

12) Ibidem pag. 557. sottolineatura di S.

13) Ibidem pag. 559

14) Ibidem pag. 460

15) L. Wittgenstein: Tractatus logicus-philosophicus. Einaudi 1984. pag. 80

16) Ernest Cassirer: Storia della filosofia moderna. Parte terza, tomo secondo: i sistemi post kantiani. Einaudi 1978 pag. 557.
















domenica 4 agosto 2013

SI POSSONO COMMENTARE LE SENTENZE? UN ANTECEDENTE STORICO: IL PROCESSO A SOCRATE

 

Si possono commentare le sentenze? I forcaioli e gli ipocriti dicono di no. Le sentenze non si commentano, dicono. Dei fatti oggetto della sentenza si parla nelle aule dei tribunali, non fuori da esse. Le sentenze si accettano, rispettosamente, non farlo sarebbe “eversivo”, significherebbe “delegittimare la magistratura”. I forcaioli in realtà sono i primi a non seguire questi precetti: loro le sentenze le commentano, eccome, quando non sono quelle che loro vorrebbero. I vari Travaglio e compagnia non hanno certo aspettato l'ultima sentenza della Cassazione per definire “criminale” Silvio Berlusconi, che fino a quel momento, è bene sottolineralo, era incensurato, malgrado venti anni di inchieste e 34 processi. Ma la coerenza logica non è il forte di persone simili, così molte di loro si uniscono spesso e volentieri al coro di chi ammonisce a “non commentare le sentenze della magistratura”, specie quando questo fa loro comodo.
A parte ogni considerazione sulla scarsa coerenza di alcuni personaggi abbastanza squallidi, tutti discorsi sulla “non commentabilità” delle sentenze si basano, in ultima analisi, sulla confusione. Si confonde il fatto che si debba subire una sentenza senza cercare di sottrarsi ad essa, con quello che la si debba accettare o addirittura che non la si possa discutere.
Io posso
non accettare una sentenza, nel senso che la ritengo ingiusta, violenta, prevaricatrice, e posso quindi discuterla, mostrarne la illogicità, evidenziarne la sostanziale ingiustizia, ma posso nel contempo accettare di subire la pena che mi è stata inflitta senza cercare di fuggire, anche nel caso in cui potessi farlo.

Esiste un antecedente storico che ci fa capire molto bene il senso di questa distinzione, mi riferisco al processo a Socrate. Come tutti sanno Socrate fu accusato di “corrompere la gioventù” e, al termine di un processo
assolutamente regolare, fu condannato a morte. Socrate avrebbe potuto fuggire, evitare la morte ma si rifiutò di farlo. Bisogna sottostare alle leggi, anche quando esse vengono applicate in maniera ingiusta, disse, ed andò serenamente incontro al suo destino. La sua decisione è stata oggetto di molte discussioni nella storia del pensiero. Dopo la morte di Alessandro magno Aristotele, guardato con antipatia dai cittadini di Atene per i suoi vecchi legami col macedone, preferì fuggire, “per impedire”, disse “che gli ateniesi commettessero un secondo delitto contro la filosofia”, insomma, lo stagirita si difese dal processo, non nel processo, un comportamento molto diverso da quello di Socrate. Secoli dopo Locke teorizzò il diritto alla ribellione: non sempre è obbligatorio obbedire alle leggi. Quando le leggi violano i diritti fondamentali, naturali, degli esseri umani questi hanno diritto alla ribellione, hanno, paradossalmente, il diritto alla illegalità.
Ma torniamo a Socrate. Al termine del dibattimento la corte, cioè i cittadini ateniesi politicamente attivi, giudicò “colpevole” il filosofo. La pena prevista per il reato di cui Socrate era accusato era la morte. Però, era prassi che prima che si decidesse se comminare la terribile pena, l'imputato dichiarato colpevole potesse parlare proponendo delle pene alternative. Di solito gli imputati dichiarati colpevoli chiedevano clemenza ai loro concittadini, cercavano di impietosirli e proponevano di essere condannati a pene più miti; spesso riuscivano in questo modo ad evitare il peggio. Chiedere clemenza è un modo di accettare una sentenza. “Accetto la vostra decisione ma vi chiedo di aver pietà di me”, così parla chi invoca clemenza. Chi invece non accetta una sentenza, chi la ritiene ingiusta ed è abbastanza coraggioso e coerente
non chiede clemenza. Non chiede clemenza perché non ritiene di aver commesso nulla per cui si debba chiedere la clemenza dei giudici.

Cosa fece Socrate? Vediamo.
Io non ho mai fatto del male a nessuno, afferma Socrate, anzi, ho beneficiato i cittadini di Atene, “singolarmente e privatamente di quello che io reputo il beneficio maggiore, a questo mi adoperai cercando di persuadervi, uno per uno, che non delle proprie cose deve curarsi prima che di se stessi chi voglia veramente diventare virtuoso e sapiente” (1).
Socrate ribadisce a chi lo ha appena giudicato colpevole di non essere un corruttore ma un benefattore della sua città, e passa subito alla richiesta di una pena alternativa alla morte.
“Dite dunque, quale pena merito di patire io stesso se sono così come vi dico? Un premio, o cittadini di Atene, se mi si deve assegnare quello che io merito in verità. E tale ha da essere questo premio che mi si addica. E quale premio si addice ad un uomo che è povero e benefattore vostro, e solo prega d'aver agio e tempo per la vostra istruzione? Non c'è premio che meglio si addica, o Ateniesi, se non che tale uomo sia nutrito nel Pritaneo. (…) Se dunque io debbo chiedere, secondo il diritto, quello che mi spetta questo io chiedo, di essere nutrito nel pritaneo” (2)
Altro che “doverosa accettazione della sentenza”, altro che “esimersi dal discuterla”! Socrate è stato giudicato un corruttore della gioventù e, mentre parla, lui è davvero, giuridicamente, un corruttore della gioventù, e, che pena chiede per se? Chiede di essere mantenuto a spese dello stato nel Pritaneo, un tempio in cui vivevano, spesati di tutto, i cittadini più illustri di Atene: grandi generali, politici, atleti che avevano dato lustro alla città, e chiede questo per aver tempo da dedicare alla "istruzione" dei suoi giudici! Un modo ben strano di "accettare" una sentenza!
Del resto, “quale altra pena dovrei domandare?” si chiede Socrate. Il carcere forse? E perché dovrei vivere in carcere? O dovrei forse pagare una pena pecuniaria? “Ma io” aggiunge Socrate, “non ho denari, e non posso, salvo che non vogliate multarmi di quel poco soltanto che potrei pagare. E dunque mi multo di una mina d'argento. Ma c'è qui Platone, o Ateniesi, e Critone, e Critobulo e Apollodoro, i quali vogliono che io mi multi di trenta mine, e ne fanno garanzia loro stessi. E allora mi multo di trenta mine” (3)
Socrate propone, come alternativa alla pena di morte, una multa assurdamente bassa, una mina, o al massimo trenta mine d'argento, quattro soldi, o poco più. L'atteggiamento del grande filosofo è quasi di irrisione, bonaria irrisione, di coloro che lo hanno condannato. Un Travaglio ateniese avrebbe chiesto che Socrate venisse subito processato per oltraggio alla corte, e forse non avrebbe avuto tutti i torti. Non ne aveva bisogno però, vista la pena che gravava sul capo del filosofo.
Ma c'è un'altra considerazione da fare, ancora più importante. Socrate è stato accusato di essere un corruttore della gioventù per la sua attività di filosofo. Il suo continuo interrogare, il suo chiedere di tutto: “che cosa è?”, “cosa è il coraggio, cosa la virtù, cosa la santità”, tutto questo per i suoi nemici equivaleva a insinuare un dubbio nichilista e distruttivo nelle menti dei giovani, corromperne lo spirito. Chiamato a chiedere per se una pena diversa dalla morte Socrate dice chiaro e tondo che mai rinuncerà alla sua attività di ricerca del vero, sarà, fino al termine dei suoi giorni, un filosofo.
Questo è il motivo per cui l'esilio, altra possibile pena pena alternativa alla morte, non risolverebbe nulla. Infatti il filosofo ricomincerebbe in ogni città in cui fosse ospitato a discutere, approfondire, interrogare, col risultato di trovarsi, dopo poco tempo, di nuovo sotto processo.
“Qui forse qualcuno potrebbe dirmi: ma silenzioso e quieto, o Socrate, non saresti capace di vivere dopo uscito da Atene?” (4). Questo però è precisamente ciò che il filosofo non farà,
mai. “questo è per l'uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m'avete udito disputare e far ricerche su me stesso e gli altri, e una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna di essere vissuta” (5)

Cerchiamo di tirare le somme. Al termine di un processo del tutto regolare i cittadini di Atene, i cittadini, non tre signore o quattro anziani signori, dichiarano che Socrate è un corruttore della gioventù; per quel crimine ad Atene è prevista la pena di morte. Chiamato a proporre una pena alternativa Socrate prima afferma di non essere un corruttore ma un benefattore della sua città, chiede poi di essere ospitato a vita nel Pritaneo; rifiuta inoltre il carcere e l'esilio, se proprio deve essere punito, visto che a lui il denaro praticamente non interessa, si dice disposto a pagare una multa, di importo però assolutamente ridicolo. Soprattutto afferma che se vivrà mai cesserà quella attività che i giudici hanno appena equiparato alla “corruzione”: la libera ricerca filosofica. Socrate insomma
accetta di subire la sentenza, non cercherà di fuggire perché bisogna comunque obbedire alle leggi, anche quando sono applicate in maniera ingiusta, ma non accetta la sentenza, non chiede clemenza, non si pente, rivendica la bontà di tutto il suo operato. E' lui, non i suoi giudici ad essere nel giusto. La sentenza che lo condanna è legale ma non è giusta, al contrario è una sentenza profondamente ingiusta e violenta. E' frutto del pregiudizio, dell'odio e del rancore che molti cittadini ateniesi avevano accumulato nel tempo contro il grande filosofo, reo di minare le loro false certezze, di costringerli ad usare correttamente la ragione.
Se avesse assunto un atteggiamento diverso, se avesse implorato il perdono, la clemenza dei suoi giudici Socrate avrebbe molto probabilmente avuto salva la vita. Il suo atteggiamento, ai limiti di quello che oggi si definisce oltraggio alla corte, gli valse invece la pensa di morte. Socrate non fuggì, anche se avrebbe potuto farlo, e si avviò serenamente al suo destino.

La morte di Socrate costituisce il grande problema da cui parte la speculazione di Platone. Il “migliore e più giusto degli uomini” era stato condannato a morte al termine di un processo del tutto regolare, ad ucciderlo non era stato un tiranno sanguinario ma il popolo della democratica Atene. Come era stata possibile una cosa simile? Ciò che è legale non è necessariamente giusto, e viceversa, questo insegna la vicenda del grande filosofo. Come allora ripristinare un minimo di armonia fra il legale e il giusto, fra fatti e valori, diremmo oggi, fra ciò che
deve essere e ciò che semplicemente è?
Tutta la speculazione filosofica successiva si misurerà con questo problema. Come si è già ricordato, Aristotele rifiutò di affrontare un probabile processo a suo carico, secoli dopo John Locke teorizzò il diritto alla ribellione, Kant rifiutò tale diritto ma rivendicò la libertà di critica. Occorre distinguere, disse, l'uso privato da quello pubblico della ragione. L'uso pubblico della ragione è “quello che ciascuno fa di essa
come studioso, dinnanzi all'intero pubblico dei lettori. Chiamo uso privato quello che egli può fare della sua ragione in un certo impiego o ufficio civile a lui affidato” (6). Mentre nell'uso privato della ragione si possono porre molti limiti alla libertà di espressione questi non possono essere ammessi nel suo uso pubblico. “Sarebbe assai deleterio”, esemplifica Kant, “se un ufficiale al quale viene ordinato qualcosa dal suo superiore volesse disquisire apertamente sull'opportunità o l'utilità di questo ordine (…) ma non si può con diritto proibirgli di fare, come studioso, osservazioni sugli errori del servizio militare e sottoporle al giudizio del pubblico” (7). Bisogna obbedire alle leggi ma si deve essere liberi di criticarle. La posizione di Kant è simile a quella di Socrate e, se vogliamo, il prussiano si imbatte nelle stesse contraddizioni dell'ateniese: che fare se la legge impedisce la libera critica? O se il contrasto fra giustizia e legalità diventa tanto acuto da risultare intollerabile?
Non esiste pensatore che non si sia misurato col terribile problema posto dalla morte di Socrate e, a parte i problemi e le contraddizioni c
ui ogni tentativo di soluzione deve far fronte, una cosa appare abbastanza significativa: nessuno, mi sembra, ha sostenuto la tesi secondo cui le decisioni di un particolare organo dello stato siano al riparo da qualsiasi tipo di critica e pubblica discussione. La tesi secondo cui ”le sentenze non si commentano” è un prodotto della mentalità forcaiola che si è sviluppata nel nostro paese negli ultimi venti anni ma contrasta in maniera radicale quanto meno con il filone liberale e democratico del pensiero occidentale, addirittura, oserei dire, con gli stessi principi fondanti della nostra civiltà.
Solo in un periodo di offuscamento della ragione come il nostro può succedere che la serena accettazione socratica della morte possa essere scambiata per rinuncia a criticare l'ingiustizia della condanna a morte che il popolo di Atene aveva inflitto al filosofo; solo in un momento buio come quello che stiamo vivendo può succedere che siano in molti a non capire la differenza fra il giusto ed il legale, il fatto ed il valore, l'essere ed il dover essere.
C'è solo da sperare che questa autentica “notte della ragione” finisca presto.












Note
1) Platone: Apologia di Socrate. In: i grandi filosofi Platone. Ed il sole 24 ore 2006. pag. 415
2) Ibidem pag. 415 416.
3) Ibidem
4) Ibidem
5) Ibidem
6) Kant: Risposta alla domanda: cos'è l'illuminismo? In: I grandi filosofi Kant. Ed il sole 24 ore 2006 pag. 566.
7) Ibidem