lunedì 10 marzo 2014

GUERRE ED ECONOMIA. CONSIDERAZIONI SU UN DIFFUSO LUOGO COMUNE





E' uno dei luoghi comuni che si sentono più spesso: “le guerre hanno cause economiche” e, come tutti i luoghi comuni, contiene un po' di verità. In effetti spesso le guerre hanno anche cause economiche e praticamente ogni guerra ha conseguenze economiche. Conquistare dei territori, smembrare uno stato o ridurlo al rango di protettorato, modificare dei confini sono tutte cose che hanno pesanti ripercussioni economiche, è innegabile. Ma, il fatto che una guerra abbia conseguenze economiche implica che anche le sue cause siano di tipo economico? Una guerra in fondo ha conseguenze che riguardano un po' tutti i settori della vita sociale: culturali, politiche, religiose; questo ci obbliga a dire che la guerra ha sempre e solo cause culturali, politiche, religiose? E, più in generale, cosa vuol dire, precisamente, che la guerra ha solo o prevalentemente cause economiche? Per cercare di uscire dai luoghi comuni occorre approfondire.

Un equivoco.
Molti hanno fatto notare che le guerre sono spesso dei formidabili volani dello sviluppo economico. La cosa non deve stupire, in fondo. La guerra porta con se immani distruzioni e dove ci sono distruzioni esiste la necessità di ricostruire. Se a questo si aggiunge che dopo un conflitto distruttivo il tenore di vita delle popolazioni è molto basso e che è di conseguenza basso il livello dei salari l'arcano sembra definitivamente svelato: la guerra è la miglior ricetta dello sviluppo. Una bella guerra assicura lavoro e produzione, occupazione e sviluppo. Facile no? Troppo facile! Chi ragiona in questo modo dimentica un piccolissimo particolare. La prosperità economica può essere valutata da due diversi punti di vista: come flusso o come stock. Dal punto di vista del flusso indubbiamente la guerra favorisce lo sviluppo, se però si esamina l'economia dal punto di vista dello stock di beni disponibili ci si rende subito conto che la guerra è quanto di economicamente (oltre che umanamente) più distruttivo si possa immaginare. Certo, se una città è distrutta ci saranno tanti omini che lavorano per ricostruirla, ma con tutto il loro lavoro questi omini, non faranno altro che ricostruire uno stock di beni che già esisteva. E, anche se occupati, questi industriosi omini saranno per molto tempo enormemente più poveri di altri omini che prima della guerra languivano nella disoccupazione. Per quanto tempo? Più o meno per tutto il tempo necessario a ricostituire l'originario stock di beni di produzione e di consumo.
Guardare all'economia tenendo conto solo dei flussi e non degli stock è quanto di più stupido si possa immaginare. Dal punto di vista dei flussi la Cina o l'India sono più ricche degli Stati uniti, ma tutti sanno che le cose stanno ben diversamente. I tassi di crescita vanno valutati tenendo conto dei livelli di partenza, cioè degli stock di beni accumulati. Crescere del 2% partendo da mille è ben diverso che crescere del 10% partendo da 100 o da 50. Del resto, se davvero le distruzioni belliche fossero la ricetta che garantisce lo sviluppo avremmo trovato un mezzo formidabile per superare ogni crisi: basterebbe ogni tanto distruggere quasi tutte le fabbriche e qualche città. Nessun imprenditore, oltre che nessun cittadino, sarebbe particolarmente entusiasta di una simile “ricetta”.

La posizione marxista.
Una premessa: fare una storia, anche brevissima, anche telegrafica delle posizioni marxiste sulla guerra non solo esula dagli obiettivi di questo scritto, ma costituisce un'impresa assolutamente superiore alle forze di chi scrive. Qui ci si limiterà quindi ad alcuni rapidissimi cenni sulle posizioni di Marx e di due importantissimi marxisti: Lenin e Rosa Luxemburg.

Che le guerre abbiano cause economiche è implicito nella concezione materialistica della storia. Sviluppo delle forze produttive sociali e conseguenti rapporti fra le classi costituiscono per Marx la struttura della società, struttura che determina, in maniera più o meno mediata, tutto il resto: la politica, le istituzioni giuridiche, le idee e la cultura, la religione, i rapporti fra gli stati, siano essi di pace o di guerra. Il rapporto fra guerra ed economia va ricondotto al rapporto fra i meccanismi che regolano l'economia capitalistica e la politica internazionale. Nell'era della borghesia alla radice delle guerre non sta, infatti, per Marx, una generica “economia”, sta il funzionamento di un preciso sistema economico sociale: il capitalismo. In particolare la guerra serve a contrastare gli effetti delle crisi economiche. Tramite le guerre il sistema ritrova, per qualche tempo, quell'equilibrio che le sue leggi immanenti tendono inesorabilmente a spezzare. Tuttavia non si trova in Marx una teoria esaustiva e chiaramente esposta del rapporto capitalismo – guerra; negli scritti politici che prendono in esame situazioni di guerra, come quelli sulla Comune di Parigi, Marx si dimostra anzi molto attento a non lasciarsi andare ad indebite generalizzazioni.

Chi invece elabora una teoria compiuta e coerente del rapporto guerra – capitalismo è la marxista polacca Rosa Luxemburg. Per Rosa Luxemburg la causa fondamentale delle crisi economiche va cercata nel sottoconsumo che sarebbe intimamente connesso alla economia capitalistica. Il sistema capitalistico si basa sullo sfruttamento di masse sempre più numerose di esseri umani. Il capitalista deve estorcere quantità crescenti di plusvalore alla classe operaia per ampliare sempre più i propri profitti. In questo modo però atrofizza il mercato: a chi vendere le merci prodotte se il mercato è intasato da una massa sempre crescente di miserabili che vivono di bassi salari? Per non soffocare il sistema capitalistico può seguire una sola strada: conquistare nuovi mercati di sbocco per le sue merci, espandersi, allargare sempre più il mercato sino a farlo coincidere col mondo intero. Tutte le potenze capitaliste inseguono questo obiettivo, per questo sono inesorabilmente obbligate ad entrare in contrasto fra loro. Imperialismo e guerra sono la conseguenza inevitabile della contraddizione fondamentale del capitalismo: essere un sistema economico che fonda l'ampliamento della produzione sulla drastica riduzione del consumo. L'espansione coloniale ed imperialistica non possono però risolvere le contraddizioni del sistema. Imperialismo e guerra ampliano ed unificano il mercato riproponendo a livelli sempre più alti la contraddizione fondamentale che affligge il sistema. Il crollo del capitalismo è perciò per la Luxemburg una necessità storica, esattamente come sono necessità storiche l'imperialismo e le guerre imperialiste.
Però, ne “
l'accumulazione del capitale”, testo ponderoso che la Luxemburg dedica all'argomento, la marxista polacca è costretta a polemizzare nientemeno che col suo maestro. Nel secondo volume del “capitale” infatti Marx parla degli schemi di riproduzione allargata. L'intero sistema può schematicamente essere diviso in due settori: quello che produce beni di consumo e quello che produce mezzi di produzione. In estrema sintesi il sistema cresce quando ogni settore produce plusvalore in quantità tale da soddisfare la domanda aggiuntiva che sorge al suo interno e nell'altro. Rosa Luxemburg non accetta queste conclusioni di Marx, che le appaiono in contrasto con quanto il suo maestro afferma in altre parti della sua opera principale. Senza entrare nel merito di una polemica ormai vetusta è chiaro che la posizione luxemburghiana non regge, o regge poco, anche ad una critica del tutto interna al marxismo ed alle sue categorie.

La maggior parte dei marxisti suoi contemporanei non accettò le analisi di Rosa Luxemburg, tuttavia condivise con lei la teoria secondo cui il capitalismo andava incontro ad un crollo inevitabile e, col crollo, a guerre sempre più vaste e sanguinose. Anche questi critici avevano del resto sostanziosi appoggi nel testo marxiano. Anche in Marx è ravvisabile in effetti una teoria del crollo, solo, il filosofo di Treviri lega questo non tanto al sottoconsumo quanto alla
caduta tendenziale del saggio di profitto. In sintesi telegrafica, il saggio di profitto è dato dal rapporto fra il plusvalore estorto agli operai e l'intero capitale investito. Col tempo la parte del capitale globale investita in capitale variabile, cioè in lavoro umano, decresce rispetto a quella investita in capitale fisso (macchine, attrezzi). Solo il lavoro umano crea però, per Marx, plusvalore, quindi, col crescere della componente fissa del capitale globale il tasso di profitto tende inevitabilmente a calare. Senza approfondire troppo, è sin troppo evidente come questa teoria sia legata alla teoria del valore lavoro, oggi ormai quasi universalmente abbandonata. Ed è anche evidente che chi la sostiene non può rispondere ad una semplicissima domanda: perché mai i capitalisti aumenterebbero costantemente la componente fissa del capitale investito, a scapito della variabile, se solo dalla componente variabile estraggono plusvalore, ed il calo di questa componente contrae il saggio di profitto? La risposta che Marx da ad un quesito simile: solo il lavoro socialmente necessario, cioè il lavoro adeguato ad un certo livello di sviluppo tecnico, crea valore, non risolve i problemi: perché mai capitalisti lavorano nel senso di ridurre le ore di lavoro socialmente necessarie se questo fa calare il loro tasso di profitto?
Non è il caso di insistere su questo argomento, rimando quanti fossero interessati al mio scritto: “
La teoria marxiana dello sfruttamento” su questo stesso blog. A prescindere dalle critiche, la caduta tendenziale del saggio di profitto dimostra, per Marx, che è il capitale il limite immanente alla produzione capitalistica. Molti marxisti posteriori a Marx riprendono questa sua concezione. Il sistema capitalistico, nelle loro analisi, reagisce alla caduta dei profitti precisamente con la guerra. Colonialismo, imperialismo, guerre fra le potenze imperialiste servono ad assicurare al capitale mano d'opera e materie prime a basso costo. Saccheggiando ed impoverendo il mondo il capitalismo cerca di reagire alle sue crisi, preparandone però di nuove e più gravi. Lenin è il più radicale di questi critici. Tuttavia non è possibile trovare nella più importante opera di Lenin sull'argomento, “l'imperialismo, fase suprema del capitalismo”, alcuna teoria chiaramente esposta del rapporto fra imperialismo, guerra e meccanismi che presiedono al funzionamento della economia capitalistica. Lenin è un politico geniale ma non eccelle come teorico; per lui la teoria è un'arma di azione politica e la politica è per lui sempre finalizzata ad un unico fine: la conquista del potere da parte del partito rivoluzionario. “L'imperialismo” è più un pamphlet polemico che un libro di teoria economica marxista. Lenin vede che nel mondo ci sono il capitalismo, l'imperialismo e la guerra e fa dipendere gli ultimi due dal primo. Con questo però da per dimostrato ciò che è tutto da dimostrare. E quando Kautskij afferma che l'imperialismo è una politica del capitalismo, ma non l'unica possibile, Lenin reagisce coprendolo di insulti. Colui che lo stesso Lenin aveva definito come il “più eminente teorico marxista” diventa così il “rinnegato Kautskij”, lo ”sicofante al servizio della borghesia”.

Lenin scrisse “
l'imperialismo fase suprema del capitalismo” nel 1916. Sono passati 98 anni ed il capitalismo è ancora in piedi. E' crollato invece, quasi ovunque, il comunismo, lasciando in eredità al genere umano decine di milioni di cadaveri. La sinistra anticapitalista di oggi non cerca più di analizzare il rapporto fra guerra e capitalismo, non cerca neppure, a dire il vero, di analizzare criticamente il sistema capitalistico in quanto tale. Si limita ad additare al pubblico ludibrio le nefandezze di determinati gruppi di capitalisti ( i petrolieri, i finanzieri), o, spesso, di un solo capitalista (chissà chi sarà?). Non è possibile alcun paragone fra i marxisti classici ed i loro tardi epigoni. La prosa violenta e spesso elementare di Lenin appare un esempio di raffinatezza analitica se paragonata alle idiozie di personaggi come Vendola o Diliberto. Parlare di loro è solo tempo perso, quindi non ne parliamo.

Economia e politica di potenza
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Si può ritenere che le guerre abbiano sempre o quasi cause economiche anche se si rifiuta la connessione marxiana fra guerre, crisi economiche e meccanismi che sovraintendono al funzionamento dell'economia capitalistica. Ogni stato, indipendentemente dal suo regime sociale ed economico, ha bisogno di materie prime, accessi al mare, superfici coltivabile, territori, e la guerra può essere un ottimo strumento per procurarsi tutte queste cose. Può essere, certo, ma
deve esserlo? Deve esserlo sempre e comunque? Una guerra può scatenarsi, ad esempio, per il possesso di certe fonti di materie prime è vero, ma forse non è una cosa che capita troppo spesso. Le materie prime possono essere procurate tramite il commercio, e si può rinunciare ad un accesso al mare se gli stati confinanti concedono, a prezzi ragionevoli, il diritto di passaggio verso il mare, quanto alle superfici coltivabili, è discutibile se conquistarle armi in pugno sia economicamente più vantaggioso che non importare i frutti delle coltivazioni. La guerra è qualcosa di estremamente costoso ed è quanto meno dubbio che i suoi vantaggi economici superino i costi. Ciò è tanto più vero se si considera che i costi economici di una guerra non terminano col cessare dei combattimenti. Mantenere per anni una forza di occupazione in uno stato straniero ha costi economici di gran lunga superiori ai vantaggi derivanti dal “saccheggio” dei suoi beni naturali, e questo indipendentemente dai costi umani e politici che una simile avventura implica. Poniamo che gli stati uniti vogliano, ad esempio, invadere l'Iran per “rapinarlo del suo petrolio”. Tralasciamo i costi umani e politici di una simile avventura, davvero qualcuno può seriamente pensare che mandare in Iran un esercito d'invasione, battere le armate iraniane, mantenere per anni il paese occupato sia qualcosa di profittevole dal punto di vista economico? L'invasione dell'Irak è stata un buon affare per gli Stati uniti? Pensare che far la guerra sia economicamente più vantaggioso che commerciare è quasi sempre sbagliato.
Coloro che sostengono che le cause delle guerre siano sempre o quasi di tipo economico hanno inoltre una concezione assai discutibile di quello che è la ricchezza. Di solito identificano la ricchezza con le risorse naturali, il petrolio soprattutto. Ora, di certo le risorse naturali sono ricchezza, ma non sono l'unica ricchezza né, oggi, la più importante. Un certo bene esistente in natura è
risorsa, quindi ricchezza, solo se e esiste un certo livello di sviluppo tecnologico. Il petrolio ha iniziato a diventare una risorsa quando è stato utilizzato per il trasporto e poi per la produzione di energia elettrica, prima era solo un liquido maleodorante. Si possono fare considerazioni analoghe per la gran maggioranza delle materie prime. In realtà, specie nel mondo di oggi, la ricchezza è legata più alla ricerca, allo sviluppo tecnologico che non alle materie prime o alla terra, e lo sviluppo tecnologico è la risultante degli investimenti in ricerca e sviluppo, degli scambi culturali e commerciali, di buone scuole ed università; di certo non si conquista con la guerra.

Eppure le guerre si fanno. Ma, davvero si fanno perché è economicamente conveniente farle? E' davvero l'utile economico, sempre e comunque, il loro fine?
NO.
Uno stato non mira solo al benessere economico, mira ad avere un ruolo importante nella politica internazionale, ad essere potente, influente e militarmente temibile. Ogni stato ha la sua politica di potenza che è cosa ben diversa dalla mera ricerca del benessere economico.
L'importanza geo politica di uno stato non coincide affatto con la sua prosperità economica. La Svizzera è molto più prospera della Cina, ma ha una importanza geopolitica del tutto trascurabile, per non parlare della sua irrilevante potenza militare. Si fanno molte guerre non per motivi economici ma per motivi geo politici, anzi, molte volte quelle che appaiono a prima vista cause economiche di un conflitto sono in realtà cause accessorie legate alle, fondamentali, cause geo politiche. Uno stato, ad esempio, vuole conquistarne un altro per avere a disposizione le sue materie prime. Non lo fa per motivi prevalentemente economici, se questi determinassero la sua politica la soluzione migliore sarebbe, probabilmente, il commercio. Lo fa perché il controllo diretto di quelle materie prime aumenta la sua potenza, migliora la sua posizione geopolitica nello scacchiere internazionale. Spesso non viene dato il peso che merita a questo fattore, col risultato che si scambia per guerra causata prevalentemente da motivi economici un conflitto nato invece da contrasti geo politici fra potenze. 

Il denaro è tutto?

L'uomo è un essere limitato, finito. Dipende dal mondo esterno ed ha bisogno di modificarlo per organizzare le sue condizioni di vita. In un modo o nell'altro, qualsiasi cosa faccia, quali che siano le sue preferenze, l'uomo ha bisogno di beni materiali. Ne ha bisogno anche per le sue attività più squisitamente spirituali. Un musicista ha bisogno di beni materiali non solo per mangiare, ripararsi dal freddo e vestirsi, ne ha bisogno anche per comporre la sua musica.
In quanto limitati noi siamo sempre costretti al calcolo economico.
Fare A significa non fare B e si sceglie fra A e B in base al raffronto fra i vantaggi di A e quelli di B o fra la penosità di B ed il piacere che A ci procura, o fra la penosità di entrambi, per scegliere la minore. Tutto questo non è necessariamente legato al materialismo, non si tratta sempre di scegliere sempre fra beni materiali. Il mistico che passa la vita in preghiera ritiene che il vantaggio spirituale che gli deriva da una simile scelta sia enormemente superiore agli effimeri beni del mondo. Anche se non lo ammetterebbe mai, anche lui ha fatto un calcolo economico quando a deciso di dedicare l'esistenza alla ricerca dell'assoluto. In questo senso quindi ogni attività umana è economica. Però non è questo il senso in cui si usa normalmente il termine “economico”. Nel suo, ristretto, significato corrente l'attività economica dell'uomo è quella che mira alla massimizzazione dei suoi beni materiali e delle sue disponibilità finanziarie. Poniamo che Tizio ami sopra ogni cosa scalare le montagne. Tizio acquisterà i beni materiali che gli permettono di realizzare il suo sogno, dovrà possedere attrezzature, pagarsi viaggi e spostamenti, magari l'aiuto di guide esperte; e preferirà queste cose a tutte le altre, le riterrà maggiormente belle e gratificanti. In questo senso è possibile definire “economica” l'attività di Tizio. In senso più comune e ristretto però una simile conclusione sarebbe del tutto falsa. Tizio non ha interesse a massimizzare il suo stock di beni materiali o di disponibilità finanziarie. Non gli interessa diventare ricco, gli interessa solo raggiungere vette immacolate. E quello che vale per le montagne può valere per molte altre cose. Il denaro può essere un fine ma è molto spesso solo un mezzo. In senso ampio la attività di chi cerca di aiutare i bisognosi, e si procura fondi che gli servano a questo scopo, è attività economica, in senso più ristretto questo non è vero; in senso stretto è economica quella attività che vede nell'incremento di ricchezza un fine in se. E' solo il caso di aggiungere che vedere nell'incremento della ricchezza un fine in se non è per niente cosa gretta ed immorale. In fondo l'incremento della ricchezza globale è ciò che rende possibile il raggiungimento di una quantità sempre crescente e differenziata di fini. L'avversione per il benessere è un atteggiamento sciocco e snobistico, spesso caratteristico di chi di ricchezza ne ha accumulata molta.

Ciò che vale per gli individui vale spesso anche per gli stati, Poniamo che un certo stato sia governato da una teocrazia fondamentalista, poniamo che sia i governanti che la maggioranza della popolazione di questo stato ritengano che il più nobile obiettivo che ci si possa porre sia quello di distruggere gli infedeli e conquistare il mondo intero alla “vera religione”. Un simile stato avrà bisogno di ricchezza, ovviamente, ne avrà bisogno anche per realizzare il grande fine che unisce la maggior parte dei suoi abitanti ed i suoi governanti. Però, sarebbe del tutto sbagliato affermare che la politica di questo stato sia mossa da motivazioni economiche; è mossa da motivazioni religiose, e la ricerca di beni materiali e disponibilità finanziarie altro non è che un mezzo per realizzare queste motivazioni. Poniamo che questo stato possieda grandi disponibilità di petrolio e che venda la sua ricchezza solo a quegli stati che prendono certe misure in campo religioso, ad esempio, aprano numerosi centri islamici e scuole coraniche, o impongano alle donne l'uso del burka. E poniamo che un altro stato rifiuti simili imposizioni ma pretenda che gli sia venduto comunque il petrolio, a prezzi di mercato. Molto probabilmente fra i due stati sorgerà un contenzioso molto grave, forse scoppierà una guerra. Molti “pacifisti” scenderanno in piazza strillando che la guerra che potrebbe scoppiare sarebbe causata dalla brama di petrolio dei cattivissimi capitalisti. Ma, starebbero così le cose? No, ovviamente. Se il petrolio viene usato come un'arma a fini integralisti è questo uso improprio la causa prima dei conflitti che inevitabilmente seguiranno. 

Guerre religiose, ideologiche, e di altri tipi
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Spesso gli occidentali, non solo quelli affetti dal politicamente corretto, non vogliono neppur sentir parlare di guerre religiose o ideologiche. Tutto ciò che non rientra nell'economia intesa nel senso stretto di cui si parlava, non ha per loro rilevanza alcuna. Certo, la storia è piena di guerre di religione, di crociate e contro crociate, è un dato di fatto difficile da negare. Ma questo non scoraggia troppo l'occidentale politicamente corretto o sedicente “realista”. La religione sarebbe solo un pretesto, si dice. Si scavi dietro le motivazioni religiose ed emergono quelle economiche. Procedimento troppo facile, e facilmente reversibile. Ogni guerra ha conseguenze in tutti i capi della vita umana, lo si è già detto. Si guardi meglio, si vada oltre le motivazioni economiche e si scopriranno le motivazione vere, quelle religiose, o ideologiche, o culturali, si potrebbe dire; e ci saranno sempre degli eventi che “confermeranno” simili tesi. In realtà gli esseri umani si sono massacrati spesso e volentieri per motivi religiosi. Anche ammettendo che le motivazioni religiose fossero solo “coperture” di altri, più materiali interessi, resta sempre la domanda:
perché solo in presenza di quelle “coperture” le guerre sono scoppiate? Se due popoli si odiano e si fanno a pezzi per il possesso di una città santa si può davvero dire che la causa “vera” della mattanza sia la mancata attuazione di certi contratti commerciali? Contratti commerciali se ne fanno ovunque ed ovunque danno a volte luogo a controversie, ma quasi mai causano guerre, questo avviene solo in certi luoghi ed in certe circostanze storiche. E' difficile ipotizzare che un disputa commerciale fra Svezia ed Olanda possa causare una guerra mentre è facile pensare che potrebbe causarla, ad esempio, fra Israele ed Egitto. E' casuale questo? Non credo.
A proposito di Israele, le terre su cui sorge questo stato, ed in particolare la città di Gerusalemme, sono oggi le più contese del mondo. Eppure si tratta di terre di dimensioni molto ridotte, più o meno quelle della Lombardia, e prive di ricchezze naturali. In Israele non c'è petrolio, né gran quantità di materie prime, né sbocchi al mare privilegiati, né grandi terreni da coltivare; gli israeliani hanno reso fertile la loro terra, ma ce ne sarebbe moltissima altra da dissodare e coltivare, volendo. Eppure Israele è in guerra dal momento in cui è nato, nel 1948. Solo astraendo del tutto dalla realtà si possono cercare cause economiche in un conflitto che dura ininterrotto da oltre 66 anni.

Ovviamente la religione non è sempre causa di guerre né è l'unica causa di guerra, ci mancherebbe. Quasi sempre è invece causa di guerra
l'ideologia.
Per Marx l'ideologia è
falsa coscienza. L'ideologia è una visione del mondo che viene considerata, insieme, vera e buona a priori, indipendentemente da ogni analisi razionale ed ogni verifica empirica; e, in quanto vera e buona, l'ideologia va messa in atto, a tutti i costi. Se il mondo la accetta bene, se non la accetta essa va imposta al mondo. In questo senso, malgrado le polemiche di Marx contro la “falsa coscienza ideologica” il marxismo è senza dubbio una ideologia.
Solo astraendo completamente dalla realtà si può minimizzare il peso dell'ideologia nella storia ed in particolare in quei tragici eventi della storia che sono le guerre.
Cosa era più ideologico del concetto hitleriano di “spazio vitale”? Hitler voleva conquistare un ampio spazio ad est della Germania, da trasformare in colonia agricola, popolata da forti e biondi agricoltori “ariani”. Le popolazioni locali dovevano essere trasferite altrove, quelle “inferiori” come gli slavi, deportate, gli ebrei massacrati. Esiste un minimo di razionalità economica in tutto questo? L'hitleriano “spazio vitale poteva diventare un mercato di sbocco per le merci tedesche da esportare? E' ridicolo il solo pensarlo. Lo “spazio vitale” del capitalismo è il mercato globale, le sue “armate invincibili” sono le merci di buona qualità a prezzi convenienti. Ed era “razionale“ dal punto di vista geopolitico la allucinata visione hitleriana? Costruire, nel pieno del ventesimo secolo, un enorme impero coloniale e razzista in Europa era il modo migliore per dare alla Germania il ruolo di potenza egemone? No, ovviamente, e la storia lo ha confermato. Tutta la politica tesa a conquistare per la Germania uno “spazio vitale” aveva un senso solo ideologico, era “razionale” solo se rapportata ad una ideologia malata.
Esaminiamo un'altra grande tragedia dello scorso secolo. In Cambogia, appena conquistato il potere, i Kmer rossi svuotano le città, covi di corruzione capitalista. Le popolazioni vengono mandate a lavorare i campi e devono farlo senza usare nessuna delle mostruose invenzioni della scienza e della tecnologia “borghesi”: si dissoda il terreno, si scavano canali e si coltiva il riso a mani nude. La cultura è “borghese”, quindi gli “intellettuali”, spesso chi solo sa leggere e scrivere, vengono fucilati. La religione è “oppressiva”, quindi chi prega finisce all'altro mondo, la famiglia è ancora più oppressiva, quindi i figli vengono strappati ai genitori, se qualcuno vuole sposarsi deve avere la autorizzazione del partito. Nella “Campucea rossa” risorge il cannibalismo, in pieno ventesimo secolo. Esiste un minimo di razionalità economica in tutto questo? O esiste in questa follia una razionalità geopolitica? Non scherziamo. Si elimini l'ideologia e la tragedia cambogiana diventa del tutto incomprensibile. Gli esempi potrebbero continuare. La staliniana collettivizzazione forzata dell'agricoltura o o il gran balzo in avanti di Mao, o, sempre di Mao, la “grande rivoluzione culturale proletaria”. Tutte politiche sanguinose che possono trovare una spiegazione esauriente solo se si fa ricorso al concetto di ideologia.
Le guerre di religione ed ideologiche non solo esistono, ma sono anche particolarmente difficili da risolversi, e non a caso. Un ragionevole compromesso che permetta a due stati di spartirsi i proventi dell'estrazione del petrolio è sempre possibile, come è possibile dividersi un territorio conteso, ma una città santa non può essere divisa. Certo, ci si può accordare per garantire ai pellegrini di tutte le fedi interessate l'accesso a quella città, nel rispetto di tutti i luoghi di culto, ma questo è possibile solo se tutti gli interessati sono tolleranti, cosa che non sempre capita quandoci sono di mezzo dei credi fondamentalisti. Ed, allo stesso modo, se interi popoli, ed i loro governanti, considerano la stessa esistenza di un certo stato cosa empia, la guerra che li oppone a quello stato tenderà ad incancrenirsi; la storia del conflitto arabo israeliano è, di nuovo, molto eloquente a riguardo. Nessun interesse economico, nessuna disputa territoriale possono spiegare una guerra che dura dal 1948 contro uno stato di dimensioni ridottissime, in una zona del mondo in cui tutto manca meno che la terra.
Le guerre ideologiche e di religione sono in fondo espressioni di scontri ancora più generali che, molto più che le guerre legate all'economia o a ragioni geopolitiche, toccano i sentimenti profondi di intere popolazioni: mi riferisco agli scontri fra nazionalismi e a quelli di civiltà.
I nazionalismi hanno avuto un tal peso nello scoppio di conflitti distruttivi che è difficile sopravalutarne l'importanza. Tra l'altro sono stati legati al fenomeno del colonialismo assia più dei tanto enfatizzati motivi economici. Quanto alle civiltà... le civiltà sono diverse, per certi aspetti molto diverse. E le differenze fra civiltà coinvolgono direttamente la vita delle persone, il modo in cui gli esseri umani si rapportano fra loro, le cose in cui credono, i valori in cui si identificano. Così come possono convivere le civiltà possono scontrarsi e quando questo accade il conflitto che le oppone è sempre particolarmente duro. Lo è perché suscita negli esseri umani amore ed odio reali, intimamente sentiti e vissuti. Negare questa componente, queste cause del fenomeno “guerra” non è prova di sano realismo, è un atteggiamento del tutto irrealistico, potremmo dire... ideologico.

Cerchiamo di concludere.
Le guerre hanno a volte cause economiche, altre volte cause geopolitiche, altre ancora religiose o ideologiche, nazionali o culturali. Spesso hanno non una ma numerose cause interconnesse. Una guerra con motivazioni geopolitiche può avere aspetti ideologici, economici e religiosi. Malgrado i molti sorrisini di sufficienza con cui la cosa è accolta, a volte le guerra possono avere addirittura cause umanitarie. Nei paesi democratici la pubblica opinione ha un peso a volte determinante, e se la pubblica opinione è scossa, ad esempio, dalle notizie di massacri che avvengono in un certo paese, e preme per un intervento i governi possono essere indotti all'intervento, anche se dal punto di vista economico o geopolitico questo non sarebbe raccomandabile.
In definitiva, la notissima teoria secondo cui le guerre hanno sempre e comunque cause economiche è, molto semplicemente, sbagliata. Deriva da una inammissibile semplificazione analitica, e dalla tendenza, tutta occidentale, di ridurre tutto al mero calcolo economico, inteso nel senso stretto, monetario del termine. Il mondo però è molto più ampio e complicato di quanto lo intendano alcuni suoi improvvisati semplificatori.

sabato 1 marzo 2014

IL CANALE




Arcipelago gulag” di Aleksandr Solzenicyn. Qualcuno lo può trovare un’opera confusa: né saggio, né romanzo, né autobiografia, una sorta di "mistura" senza il rigore del saggio nè la bellezza estetica del romanzo.  Anche io leggendolo, tempo fa, ho avuto, sulle prime questa impressione. Ma si trattava, appunto, di una impressione, ed alquanto superficiale La grandezza di quest’opera sta proprio nel suo carattere anomalo. Quel continuo alternare ricordi della propria esperienza e narrazioni di esperienze altrui, prosa carica di umana partecipazione ed esposizione minuziosa, quasi fredda, di fatti, date, cifre fanno di “Arcipelago gulag” un capolavoro della letteratura di tutti i tempi, il gigantesco affresco di una esperienza fra le più tragiche della storia.

Vorrei ricordare uno fra i tanti eventi che Solzenicyn descrive con la sua prosa piana, colloquiale ed efficacissima. Nel 1931 Stalin ebbe una splendida idea: bisognava costruire un canale che collegasse il mar Bianco col mar Baltico e bisognava costruirlo alla svelta, molto alla svelta!
“Il canale deve essere costruito in un termine breve e costare poco! Questa è l’indicazione del compagno Stalin (..) Venti mesi! Questo fu il tempo dato dal grande duce (..): dal settembre 1931 all’aprile 1933. Non potè dar loro neppure due anni completi, tanta fretta aveva. Duecentoventisei chilometri. Terreno roccioso, pianure ingombre di massi; paludi, sette chiuse nella scala di Povenec, dodici sulla discesa verso il mar baltico”(1)
Sicuramente doveva trattarsi di un’opera di enorme importanza se c’era tanta fretta di costruirla potrebbe pensare un lettore un po’ ingenuo, ma le cose stavano diversamente. Il canale era tanto importante che non fu stanziato per la sua costruzione neppure un copeco! Come è possibile una cosa simile? E le macchine? Non costano forse le scavatrici, i treni che devono portare materiale ai cantieri, le gru? Non costa la mano d’opera? Non costano gli operai, i tecnici, gli ingegneri? Beata ingenuità! “Fate lavorare contemporaneamente centomila detenuti, quale capitale vi può rendere di più? (..) C’era davvero da inferocirsi contro gli ingegneri sabotatori. Faremo strutture di cemento armato dicono. I cekisti rispondono: non c’è tempo. Gli ingegneri dicono: occorre molto ferro. I cekisti: sostituitelo col legno. Gli ingegneri dicono: occorrono trattori, gru, macchine! I cekisti: non ci sarà nulla di tutto questo, non un copeco, fate tutto a braccia” (2). Un canale di duecentoventisei chilometri in un territorio gelato per oltre metà dell’anno costruito senza l’ausilio di macchine moderne, a braccia, usando picconi, pale e carriole. Costruito da quegli schiavi che erano i detenuti nei gulag: questo era il piano di Stalin, piano che venne puntualmente realizzato. “I detenuti arrivano, continuano ad arrivare nel luogo del canale” continua Solzenicyn "e non vi sono ancora baracche, vettovaglie, arnesi e nemmeno un piano preciso: che cosa si deve fare? (non ci sono baracche ma in compenso c’è un precoce autunno nordico) (..) abbiamo tanta fretta che gli ingegneri finalmente giunti sul posto non posseggono carta millimetrata, righelli, puntine da disegno (!) e neanche c’è luce nella baracca di lavoro” (3).

Le condizioni di lavoro sono atroci, ovviamente: “la norma è: spaccare due metri di roccia granitica e trasportarli con una carriola a distanza di cento metri, nevica, tutto viene ricoperto (..) Le carriole sbandavano sulle assi bagnate, si rovesciavano (..) una carriola richiede un’ora per essere caricata non diciamo di pietre ma anche solo di terra ghiacciata. (..) gli uomini si aggiravano inciampando nei sassi . A due, a tre si chinavano, abbracciavano un masso, tentavano di sollevarlo. Il masso non si muoveva, allora chiamavano un quarto, un quinto. Ma a questo punto interviene la tecnica del nostro secolo glorioso, i massi vengono tirati fuori dalla depressione in una rete attaccata ad una fune a sua volta azionata da un tamburo fatto ruotare da un cavallo” (4). Non ci sono neppure asce e seghe per abbattere gli alberi e procurarsi il legname che serve per il lavoro. Che fare? A tutto c’è rimedio: “Anche a questo riesce la nostra ingegnosità: si legano funi agli alberi e le brigate tirano alternativamente in direzioni opposte” (5).
In terre ghiacciate, con temperature polari decine di migliaia di "controrivoluzionari" si "redimono" contribuendo alla costruzione del socialismo! “Sta proprio in ciò la grandiosità della costruzione: si compie senza l’intervento della tecnica moderna e senza forniture dal paese! Non è il ritmo del decadente capitalismo europeo e americano. Sono ritmi socialisti” (6) tutto ciò che occorre viene fatto sul posto, dai detenuti che lavorano allegramente, in spirito di emulazione socialista. “No, non sarebbe giusto” prosegue Solzenicyn “confrontare questa pazzesca costruzione del XX secolo, un canale sul continente costruito con la piccozza ed il piccone, con le piramidi egiziane: Infatti per quelle si usò la tecnica del tempo. La nostra tecnica era infatti arretrata di quaranta secoli rispetto al tempo in cui vivevamo. Erano queste le nostre camere della morte. Ci mancava il gas per fare le camere a gas” (7).
"Ci mancava il gas per fare le camere a gas"! Stragismo tecnologicamente arretrato quello di Stalin, stragismo ecologico, a chilometro zero! Niente gas, niente macchine, niente attrezzi e inquinamento; solo gelo e sudore umano!
E come costringere tanta gente a lavorare in una simile  maniera? Con la più dura repressione contro gli “sfaticati sabotatori”, l’uso dei delinquenti comuni contro i “politici” e gli incitamenti all’emulazione socialista. Piccoli “privilegi” (ad esempio potersi riscaldare accanto ad un falò) come premio per il raggiungimento di obiettivi sempre più folli ed irrealistici. L’impresa ha costi umani atroci, ovviamente: “Dicono che nel primo inverno, dal 1931 al 1932, morirono in centomila” (8), afferma Solzenicyn, che valuta in un quarto di milione di vittime il costo umano complessivo di quest’opera folle. “Alla fine della giornata lavorativa sul cantiere rimangono dei cadaveri. La neve ricopre le loro facce. Qualcuno si è rannicchiato sotto una carriola capovolta, ha nascosto le mani in tasca ed è morto così. Là sono congelati in due, appoggiati uno alla schiena dell’altro (…) Di notte parte una slitta per raccattarli (..) d’estate si trovano le ossa dei cadaveri non raccolti per tempo.” (9)

Costi umani altissimi certo, ma, ma alla fine sarà pur rimasto qualcosa, una grande opera pubblica, un canale di enorme utilità per la patria del socialismo! No, neppure questo. Solgenicyn racconta di aver visitato il canale, tanti anni dopo, nell’era della cosiddetta destalinizzazione, e di averlo trovato incredibilmente deserto. “Quel giorno passai sul canale circa otto ore. Durante quel tempo un barcone navigò da Povenek a Soroka e un altro dello stesso tipo da Soroka a Povenek. (..) il carico era identico: tronchi di pino ammuffiti buoni solo come legna da ardere” (10)
Il canale era troppo poco profondo, non più di cinque metri e costruito malissimo, neppure i sommergibili, che pescano pochissimo potevano attraversarlo, insomma: un’opera praticamente inutile, costata però circa duecentocinquantamila vite umane!
“A Stalin occorreva” afferma Solzenicyn “in un posto qualunque una grande impresa realizzata da detenuti che assorbisse molta mano d’opera e molte vite umane (l’eccedenza di uomini dovuta al piano di eliminazione dei kulaki), efficace come una camera della morte ma più a buon mercato di questa, lasciando al tempo stesso un grande monumento, sul tipo delle piramidi, del suo regno” (11). La cosa può apparire folle, e lo è, ma si tratta della follia tipica dei totalitarismi, una follia che ha in fondo una sua sinistra razionalità. I kulaki (cioè i contadini considerati “ricchi” ) erano per il tiranno georgiano degli implacabili nemici, eliminarli (ed eliminare con loro moltissimi altri) facendoli sfiancare di lavoro poteva in fondo essere "razionale" , dal suo punto di vista, ovviamente.
Questo del resto è solo un evento, uno solo fra i tantissimi che Solgenicyn racconta. Quel quarto di milione di vittime sono solo una piccola parte del totale delle vittime sacrificate sull’altare della nuova società.

Noi occidentali siamo spesso straordinariamente miopi. Vediamo molto bene le brutture che ci sono vicine ma riusciamo a non vedere brutture ben più gravi se solo vengono perpetrate un po’ lontano da noi. Quanti sapevano del canale? Quanti ne sanno qualcosa oggi? Pochi, molto pochi.  Democratici, progressisti, difensori dei diritti umani, associazioni umanitarie sono riusciti solo a tacere mentre nella Russia staliniana veniva perpetrata una delle più formidabili mattanze della storia, anzi, molti "intellettuali impegnati", poeti, scrittori, registi hanno firmato appelli, petizioni, manifesti in difesa.. di chi? Delle vittime del padre dei popoli? No, in difesa dell’Unione sovietica minacciata dall’"imperialismo americano"! Altri si giustificano: "non si sapeva" dicono, "non si poteva sapere". E lo stesso avviene oggi. Oggi non sappiamo cosa avviene in Corea del nord, come ieri non sapevamo quel che avveniva in Cina o in Cambogia, come avremmo potuto, come potremmo condannare? Si, l’altro ieri non si sapeva cosa avveniva in URSS, ieri non si sapeva della Cambogia, oggi della Corea de Nord. Ma si sapeva, si sa, che quei paesi erano (e sono) protetti da una formidabile cortina che impedisce ogni testimonianza. Si trattava, e si tratta, di paesi in cui non si poteva né entrare né uscire se non guardati a vista da funzionari governativi, paesi da cui non escono notizie, testimonianze, scritti che non siano filtrati e controllati. Quando un silenzio impenetrabile circonda un paese si può star certi che entro i suoi confini stanno avvenendo cose mostruose, non ci vuol molto a capirlo, basta volerlo capire. Solzenicyn ci ha sbattuto in faccia la verità, ci ha detto chiaramente cosa avveniva dietro la cortina del silenzio, delle frasi fatte, delle visite guidate, ci mostra un panorama infernale che deve farci riflettere, che ci obbliga a fare i conti con la nostra coscienza.
Certo, essere grati a Solzenicyn non significa condividerne tutto il pensiero, non vuol dire accettare senza riserve la sua filosofia. Il grande scrittore è un rivale della modernità, è uno dei tanti convinti che il comunismo sia il risultato velenoso ma in fondo coerente del processo di secolarizzazione: la via che conduce ai gulag inizierebbe con l’illuminismo. In questo il suo pensiero (del resto assai complesso e poco riducibile a formule) è in qualche modo simile a quello di Dostoevskji e di papa Wojtila; personalmente, ed umilmente, mi permetto di non essere d’accordo con questa impostazione. Ma, quali che possano essere i distinguo forse nessuno scrittore contemporaneo merita come lui il titolo di grande.


Note

1) A. Solzenicyn: Arcipelago Gulag, Mondatori. Volume 2° pag. 90-91
2) Ibidem pag. 91
3) Ibidem pag. 92
4) Ibidem pag. 94
5) Ibidem pag. 94
6) Ibidem 95-96
7) Ibidem pag. 96
8) Ibidem pag 103
9) Ibidem pag. 103
10) Ibidem pag. 106
11) Ibidem pag. 90