Da
sempre l’uomo cerca di andare “al fondo delle cose”. Una delle
prime domande, forse la prima, che si sono posti i filosofi è stata
quella relativa all’essenza, ciò che permane nel divenire. Tutto
muta: il seme diventa pianta, la pianta cresce, germoglia ed alla
fine muore. Ma, cosa cresce germoglia e muore? Cosa sta dietro
ai fenomeni? Qual'è l’essenza, il vero essere, di cui questi sono
la manifestazione sensibile? L’affermazione di Talete secondo cui
il mondo è fatto d’acqua è un primo, ingenuo, tentativo di
scoprire l’essenza del mondo. Molte delle raffinate e
complicatissime costruzioni teoriche della filosofia e della scienza
successive possono essere interpretate come tentativi sempre più
complessi di rispondere a questo interrogativo.
Il termine “essenza” è stato in verità accantonato da molti
filosofi e da tutti o quasi gli scienziati. Questi ultimi usano
spesso il termine “realtà”, ma questa realtà ha più di un
aspetto in comune con l’essenza dei filosofi antichi. Atomi,
molecole e quanti d’energia sono la realtà (ultima?) del mondo, il
mondo reale ben diverso da quello che appare nell’esperienza
sensibile. Questo tentativo di andare al fondo delle cose è del
tutto apprezzabile ed ha contribuito ad un enorme ampliamento della
umana conoscenza. La ricerca di ciò che sta “dietro” e “sotto”
ai fenomeni può avere, ovviamente, esiti dogmatici, può spingere
qualcuno a presentare ciò che ha scoperto come la realtà ultima,
l’essenza definitiva del mondo, ma, almeno per ciò che concerne la
scienza autentica, questi pericoli sono limitati. Per lo scienziato
atomi e quanti non sono la realtà ultima del mondo, sono solo
le particelle più piccole che sia stato finora possibile scoprire, o
forse neppure questo, sono solo un “quid” che permette
di spiegare ed organizzare in formule matematiche certi fenomeni.
Allo stesso modo la scoperta del DNA non risolve il mistero di “cosa”
sia la vita, permette “solo” di ampliare enormemente le
conoscenze sulla vita.
Per una scienza ed una filosofia sane l’andare oltre i fenomeni
non significa né può significare recidere ogni legame con i
fenomeni. Anche le più astratte entità che la scienza scopre devono
avere una qualche manifestazione fenomenica. Noi non vediamo onde e
corpuscoli, atomi ed elettroni ma vediamo certe loro manifestazioni
sensibili. L’orecchio non sente le vibrazioni dell’aria, sente
però i suoni che queste causano, le radiazioni non si sentono, ma si
sente il ticchettio di una macchina rilevatrice. Il fenomeno è
diverso dalla realtà, qualunque essa sia, ma non è scisso da
questa, l’andare oltre e sotto i fenomeni non significa dividere il
mondo in settori incomunicabili. Anche quando, come succede nella
fisica dei quanti, le leggi della realtà subatomica sono del
tutto anti-intuitive queste conservano un legame con la superficie
fenomenica. Nessun studio di ciò che sta sotto il fenomeno sarebbe
possibile se ogni legame fra profondo e superficiale, apparente e reale fosse scisso. Il profondo deve in
qualche modo apparire alla superficie per essere riconosciuto come
profondo.
In
molte tendenze della filosofia contemporanea questo legame invece si
scinde. Si scinde, cosa assai strana, non in settori di studio e di
ricerca che per loro natura rimandano a ciò che sta oltre e sotto il
fenomeno. Si scinde in campi di ricerca che riguardano il mondo
umano, quel settore del reale cioè che per sua natura “appare”.
Che si debba andare oltre i fenomeni in fisica o in genetica è cosa
quasi ovvia, che lo si debba fare in economia o in politica lo è
assai meno, eppure in certe filosofie contemporanee la tendenza ad
andare oltre il fenomenico proprio nelle scienze umane appare
irresistibile. Non solo, questo”andare oltre” conduce ad una
frattura radicale, ad uno iato incolmabile fra ciò che è e ciò che
appare. Ciò che sta sotto il fenomeno cessa di apparire nel fenomeno
e cessa quindi di spiegarlo. Ciò che sta sotto il fenomeno
semplicemente lo distrugge, lo trasforma in “apparenza illusoria”, “mistificazione”. Andando sotto la superficie
non rendiamo questa più comprensibile, semplicemente la trasformiamo
in mondo “non autentico”. La scoperta del “reale” rende
“irreale” il mondo che ci circonda e con cui abbiamo tutti i
giorni a che fare.
Per la scienza e per alcuni sistemi filosofici occorre andare oltre
il fenomeno precisamente perché questo non è chiaro, non è
del tutto razionalmente inquadrabile. Ci si spinge nel profondo
perché la superficie è torbida e spingendoci nel profondo forse
possiamo renderla più limpida. L’esigenza è e resta quella di
spiegare il mondo, di inquadrare e relazionare in maniera
comprensibile i dati dell’esperienza sensibile. Per molte filosofie
contemporanee invece la superficie è inganno e mistificazione.
Occorre andare sotto ed oltre la superficie per smascherare
l’inganno, demistificare la mistificazione. Per la scienza lo
studio delle leggi ottiche deve farci scoprire cosa provoca la
sensazione del rosso, per certe filosofie ad essere in discussione
è precisamente il fatto che la tal macchia di colore sia rossa. Le
entità elementari della fisica servono a chiarire meglio i fatti,
per certe filosofie andare oltre i fatti serve a “dimostrare” che
i fatti non esistono.
La cosa più grave è che fra i fenomeni che vengono ridotti ad
“illusione” o mistificazione” trova posto anche (o meglio,
soprattutto) il soggetto, il soggetto con la sua razionalità, i suoi
sentimenti, la sua libera volontà. Il soggetto crede di essere
libero, di poter scegliere ma si sbaglia. Il suo comportamento è
determinato da forze occulte che sfuggono completamente alla sua
comprensione. I rapporti strutturali fra le classi, l’inconscio,
l’educazione ricevuta da bambino determinano, fino in fondo, ciò
che egli è e ciò che egli fa. Il soggetto crede che pensando egli
esprima se stesso, parlando si relazioni agli altri, ma sbaglia . La
razionalità che egli usa pensando e parlando è una razionalità
alienata, frutto deformato e deformante di una società oppressiva.
Il soggetto ritiene autentici i suoi sentimenti, ingenuamente pensa
che se ama una donna (o un uomo) egli la ama davvero. Allo stesso
modo ritiene che se si emoziona ascoltando una certa musica o
guardando un certo film ciò che prova esprime qualcosa che è
davvero, intimamente “suo”. Di nuovo sbaglia: i suoi sentimenti,
le sue emozioni ed i suoi gusti sono determinati da qualcosa che
agisce alle sue spalle. Amando quella certa donna egli “esteriorizza”
la sua volontà di potenza, emozionandosi per quella certa musica o
per quel certo film dimostra solo che ha “interiorizzato” la
cultura dominante. Il soggetto non è mai se stesso, non esiste come
essere autonomo, è un epifenomeno, la manifestazione
secondaria di forze potenti e misteriose che operano dietro e sotto
di lui.
Purtroppo
anche alcuni (cattivi) scienziati, oltre a molti filosofi scientisti,
si sono uniti al coro di chi celebra la morte del soggetto. Tutto ciò
che l’uomo fa, dice o pensa può essere spiegato in termini
genetici: l’uomo è un raffinatissimo robot. Dietro ai nostri
pensieri ed al nostro sentirci liberi opera il complicatissimo
softwere di cui ognuno di noi è dotato.
Che molto nell’uomo sia determinato dal patrimonio genetico è
indubbio, ma è sensato il riduzionismo genetista oggi abbastanza di
moda? Se il determinismo genetico fosse vero la prima cosa ad
apparire inspiegabile sarebbe proprio il lavoro di studio e di
ricerca degli scienziati. L’affermazione (metafisica, non
scientifica) secondo cui “tutto è determinato dal patrimonio
genetico” sarebbe essa stessa l’effetto di qualche causa genetica
che, se scoperta, a sua volta, rimanderebbe a qualche altra causa e
cosi, via, all’infinito. Ma, anche a prescindere da questo, che
senso avrebbe la stessa parola “scoperta” in un mondo in toto
determinista? Che senso avrebbero in un simile mondo i termini “vero”
e “falso”? In un mondo in toto deterministico la affermazione
“Parigi è la capitale della Francia” sarebbe la risultante di
processi fisici e chimici esattamente come l'altra affermazione
“Parigi è la capitale dell'Italia”. Avrebbe senso in un mondo
simile affermare che la prima proposizione è vera e la seconda è
falsa? Un insieme di reazioni chimiche che conduce alla proposizione
A in cosa sarebbe “più vero” di un altro insieme di reazioni che
conduce alla proposizione B? Il confronto fra queste proposizioni e
la realtà forse? Ma questo stesso “confronto” sarebbe a sua
volta solo un insieme di reazioni fisico chimiche... Se
vuole evitare il non senso o il regresso all’infinito lo
scienziato che indaga sulle cause del comportamento umano deve
presupporre, almeno una volta, la libertà, deve presentare le
conclusioni a cui giunge come il risultato di una libera ricerca.
Ma non solo di questo si tratta. Se il riduzionismo determinista
fosse vero allora gran parte del nostro agire, pensare, parlare,
sarebbe qualcosa di radicalmente diverso da ciò che ora pensiamo
sia, assomiglierebbe ad un misterioso agitarsi a vuoto. Non si
potrebbe più parlare di scelte, premi o punizioni, bontà o
cattiveria, responsabilità.
La libertà intesa come capacità di autodeterminazione del soggetto
è indimostrabile teoricamente: forse siamo davvero dei robot.
Tuttavia noi ci sentiamo liberi e la presupposizione della
libertà è indispensabile se si vuole che il mondo umano continui ad
essere pensabile. La libertà del soggetto è presupposta nel
linguaggio, nel modo in cui gli esseri umani si relazionano fra loro,
negli ordinamenti giuridici. Indimostrabile teoricamente la libertà
può essere considerata una autentica categoria che contribuisce a
dar senso ed ordine al mondo. Si riduca l’uomo a robot gran parte
del mondo umano diventa un mistero. Una discussione fra marito e
moglie per decidere dove andare in vacanza, la sentenza di un
tribunale, un dibattito politico: se tutto altro non è che un
susseguirsi cieco di cause ed effetti cosa dobbiamo pensare siano
questi normalissimi eventi umani? Che senso hanno termini come
“pensare”, “parlare”, “scegliere”, che senso hanno le
istituzioni umane? Un senso del tutto diverso da quello attuale si
potrebbe dire, si... ma quale? Diverso da cosa? Se il
termine “libertà” non significa nulla cosa può
significare il termine “schiavitù”? Parlare della schiavitù di
un robot è altrettanto mistificante quanto il parlare della sua
libertà.
Il
materialismo biologico non è l’unica metafisica che conduce alla
morte del soggetto, non è neppure la più importante o la più
pericolosa. Pur con tutti i sui difetti questo tipo di materialismo
rimane agganciato al sicuro scoglio della ricerca scientifica,
estende arbitrariamente la validità delle teorie scientifiche ma non
effettua fughe in avanti, non scopre misteriose entità che ci
manovrerebbero come burattini. L’entità di cui fa uso il
materialismo biologico non è affatto misteriosa, si tratta del
nostro patrimonio genetico, né è qualcosa di esterno a noi che ci
manovra. Il patrimonio genetico è in noi, è parte essenziale,
conosciuta e conoscibile, di noi. La metafisica scientista ci
trasforma in robot, non in burattini.
Il discorso cambia per altre metafisiche che hanno influenzato ed
influenzano profondamente il modo di pensare dell’uomo d’oggi.
Per lo strutturalismo l’uomo non esiste, esistono solo le
strutture. L’uomo altro non è che il punto d’incrocio fra
strutture diverse, la sua coscienza un effetto secondario di cause
strutturali che lo scienziato deve scoprire. Nella psicanalisi, invece,
ad essere decisivo è l’inconscio. Dietro l’io cosciente
opera l’inconscio che determina, se non tutte, molte delle nostre
azioni e molti dei nostri pensieri. In Freud l’io cosciente
conserva ancora un essenziale momento di autonomia (che senso avrebbe
la terapia psicanalitica in caso contrario?); l’uomo confina
nell’inconscio gli istinti libidici che ha rimosso e questo è
causa di nevrosi, che possono venire curate cercando di riportare
alla luce l’oggetto della rimozione. Nel suo intimo Freud è un
illuminista, ritiene che la ragione possa comprendere ed illuminare
anche le parti più nascoste del nostro io. Ciò non toglie che gran
parte della sua teoria sfugga a serie possibilità di verifica o
falsificazione empirica. Come ha fatto notare Popper la teoria della
resistenza rende impossibile ogni tentativo di falsificazione delle
teorie psicanalitiche. Se la terapia psicanalitica non ha effetti
positivi lo si deve alla resistenza che il paziente
mette in atto contro le cure dell’analista. In questo modo la
psicanalisi si immunizza, argomenta Popper, da ogni tentativo di
falsificazione. La teoria secondo cui ciò che è stato rimosso si
esprime nei sogni contiene inoltre un evidente elemento di circolarità:
posso affermare che il tal sogno significa X solo se accetto che nei
sogni si manifesti ciò che abbiamo relegato nell’inconscio,
d'altro canto, posso dimostrare che nei sogni si manifesta ciò che è
stato relegato nell'inconscio solo se affermo che il tal sogno
significa X.
In seguaci più o meno eretici di Freud gli aspetti mitici della
psicanalisi vengono via via accentuandosi. Il soggetto cosciente
perde sempre più autonomia fino a diventare un burattino
integralmente manovrato dall’inconscio. Yung elabora la concezione
di un “inconscio collettivo”, misteriosa entità a cui è
possibile attribuire tutto e di cui risulta impossibile dire alcunché
di positivo e verificabile. Lacan attribuisce un “linguaggio”
all’inconscio e svaluta l’io cosciente come io non autentico. Il
vero io è la dove non lo si vede, afferma lo
psicanalista-strutturalista francese. Fromm, che ha tentato una
eclettica conciliazione fra marxismo e psicanalisi, vede nell’io
cosciente il risultato di una manipolazione della educazione
repressiva funzionale alla sopravvivenza del sistema capitalistico.
L’io diventa sempre più un burattino, il soggetto un essere
alienato, inautentico. In questo modo però lo stesso inconscio che
ne determinerebbe le azioni sprofonda nel mistero: che possibilità
ha un io ridotto ad ente illusorio di gettar luce su ciò che lo
rende illusorio? La retrocessione a burattino dell’io rende vano
ogni tentativo di scoprire il burattinaio.
Il
marxismo è la filosofia sociale che forse più di ogni altra ha
contribuito a svalutare l’attività cosciente del soggetto. Il
soggetto pensa, agisce, sceglie. Il soggetto si sente libero, ritiene
di costruire autonomamente la sua vita, pensa che la storia sia opera
dell’uomo, degli uomini. Il soggetto sbaglia. Dietro l’apparenza
della libertà, dietro le scelte e l’autonomia del pensiero operano
forze sociali profonde. Ciò che io credo essere una mia libera
scelta è in realtà determinato dalla mia posizione di classe. Nei
pensieri che io considero “miei” si esprime la mia realtà
sociale, in me parla il corso storico giunto ad una determinata fase
del suo sviluppo. Per Marx è l’essere sociale che determina la
coscienza, non viceversa. Coerentemente a questa idea fondamentale
del loro maestro molti seguaci di Marx hanno considerato la sua
stessa opera come l’autocoscienza del proletariato, cioè
l’autocoscienza della storia giunta al culmine del suo sviluppo. Il
marxismo non è l’insieme di ciò che ha scritto o fatto Marx (e
magari Engels), nel marxismo la storia parla a sé stessa, rende
chiaro a se medesima il suo corso ed il suo fine immanente. Va da se
che gli altri esseri umani, il cui pensiero non esprime
“l’autocoscienza della storia”, non sono che dei piccoli
burattini nelle sue mani. Il pensiero dei grandi diventa il pensiero
della “storia” (così come nelle parole di certi profeti si
esprime il verbo di Dio), il pensiero dei piccoli decade a nullità,
puro materiale di scarto del “corso storico”. In tutti i casi
l’autonomia del pensiero individuale scompare. Ciò che opera e
parla nell’uomo è la “storia”, “l’interesse di classe”,
la “contraddizione oggettiva del capitalismo”, mai la sua
coscienza.
L’antisoggettivismo
marxiano cade in tutte le contraddizioni che è possibile riscontrare
in simili teorie. Che valore scientifico ha l’opera di Marx se il
pensiero non è altro che una sovrastruttura della società di
classe? Come può una teoria che esprime il punto di vista di una
classe sociale pretendere di essere una rappresentazione vera
della società nel suo complesso? E come può un essere alienato
rovesciare il corso della storia? Se l’ambiente storico-sociale
determina la coscienza può esistere una qualsiasi critica di tale
ambiente? La riduzione di tutto a storia rende incomprensibile
proprio il divenire storico.
Certi marxisti replicano a questo tipo di obiezioni affermando che
la concezione marxiana della storia è di tipo dialettico. L’ambiente
sociale determina la coscienza ma questa a sua volta influisce
sull’ambiente sociale. Già Engels aveva operato una certa
rivalutazione della sovrastruttura. Ben oltre è andato il cosiddetto
“marxismo occidentale”: nulla nel marxismo è riconducibile al
determinismo, la volontà rivoluzionaria gioca un ruolo decisivo nel
processo che porta alla società senza classi, in questo la
trasformazione delle circostanze è dialetticamente congiunta alla
autotrasformazione delle coscienze. Il concetto di interazione o di
azione reciproca consentirebbe al marxismo di superare tutte le
difficoltà.
Si tratta però di posizioni che non solo forzano il testo di
innumerevoli affermazioni di Marx ed Engels, ma non reggono al minimo tentativo di approfondimento. Se A determina B la reazione di B non è in realtà
che il risultato della originaria azione di A e, in ogni caso, nel
rapporto causale reciproco fra A e B la libera volontà non ha posto
e rilievo alcuno. Se le circostanze storico sociali determinano
le coscienze determinano anche la capacità delle coscienze di
operare in certe circostanze. Nessun sofisma sulla misteriosa "unità dialettica" di trasformazione delle circostanze ed autotrasformazione delle
coscienze permette al determinismo storico sociale di andare oltre se
stesso. In realtà il concetto stesso di interazione rimanda al concetto
di autonomia. Quando parlo con una persona interagisco con lei, ma non sono
determinato da lei né formo con lei alcuna inscindibile unità
dialettica. Si può interagire con qualcuno e con qualcosa solo
se si è autonomamente qualcosa o qualcuno. Si faccia del soggetto una "determinazione" dell'essere sociale o lo si unisca "dialetticamente" a questo e a scomparire sarà precisamente la capacità del soggetto di interagire.
Una
delle concezioni più marcatamente nichiliste delle culture del
sospetto è quella secondo cui “i fatti non esistono”.
Da quando Nietsche ha affermato che non esistono fatti ma solo
interpretazioni l’attacco alla oggettività di ciò che ci è dato
dall’esperienza sensibile non ha più conosciuto soste o limiti.
Nessuna filosofia in verità ha mai assunto l’esperienza come
qualcosa di definitivo, non ulteriormente analizzabile. Lo
scetticismo è vecchio quanto il pensiero ed ha anche una
fondamentale funzione positiva: impedisce al pensiero di cadere in
uno sterile “dormiveglia dogmatico” per usare le parole di Kant.
Estremizzandosi però lo scetticismo diventa nichilista, distrugge il
mondo e si autodistrugge in quanto parte del mondo.
Per le culture del sospetto i fatti non esistono. Ciò che si
presenta come “fatto” è in realtà una “interpretazione”, addirittura una “manipolazione” indotta dal sistema. L’oggettività dei
cosiddetti fatti non è che una della facce di un sistema che reifica
tutto, tutto riduce a cosa e merce.
Queste concezioni hanno influenzato profondamente la stessa epistemologia. Non esistono fatti “oggettivi”, dati dell’esperienza a cui sia possibile far ricorso per decidere della verità o falsità di determinate teorie o proposizioni. I fatti non possono smentire o confermare alcuna teoria perché sono “costruiti” a partire da questa. I fatti sono intrisi di teoria: se la tal teoria dice X i fatti che la dovrebbero confermare o smentire sono costruiti a partire da X. Galileo vedeva i fatti a partire dalla sua teoria eliocentrica così come i tolemaici li vedevano a partire dalla loro teoria geocentrica. I fatti che vedevano non erano gli stessi. Purtroppo anche un filosofo serio ed un convinto liberale come Popper ha strizzato l’occhio a posizioni di questo tipo. Nella sua polemica spesso ingenerosa contro il neopositivismo Popper ha sostenuto più volte che i fatti sono qualcosa di teorico, non di oggettivo. Come questo possa conciliarsi con il falsificazionismo, la concezione cioè secondo cui ogni teoria, se vuole essere considerata scientifica, deve essere costruita in modo tale da poter essere confutata dai dati dell’esperienza sensibile, resta un mistero.
Queste concezioni hanno influenzato profondamente la stessa epistemologia. Non esistono fatti “oggettivi”, dati dell’esperienza a cui sia possibile far ricorso per decidere della verità o falsità di determinate teorie o proposizioni. I fatti non possono smentire o confermare alcuna teoria perché sono “costruiti” a partire da questa. I fatti sono intrisi di teoria: se la tal teoria dice X i fatti che la dovrebbero confermare o smentire sono costruiti a partire da X. Galileo vedeva i fatti a partire dalla sua teoria eliocentrica così come i tolemaici li vedevano a partire dalla loro teoria geocentrica. I fatti che vedevano non erano gli stessi. Purtroppo anche un filosofo serio ed un convinto liberale come Popper ha strizzato l’occhio a posizioni di questo tipo. Nella sua polemica spesso ingenerosa contro il neopositivismo Popper ha sostenuto più volte che i fatti sono qualcosa di teorico, non di oggettivo. Come questo possa conciliarsi con il falsificazionismo, la concezione cioè secondo cui ogni teoria, se vuole essere considerata scientifica, deve essere costruita in modo tale da poter essere confutata dai dati dell’esperienza sensibile, resta un mistero.
Che
i dati dell’esperienza non siano qualcosa di ultimo, non ulteriormente analizzabile, è sicuramente vero,
tanto vero che nessuno sostiene il contrario. I dati dell’esperienza
sono sempre inquadrati categorialmente, se così non fosse non ci
sarebbe esperienza ma solo caos. Il libro che leggo non esisterebbe
come “libro” se io non collegassi l’oggetto che ora ho fra le
mani con quello che poco fa era nello scaffale, se non considerassi
qualcosa di unitario le pagine, le parole, le lettere che le
compongono. Ogni dato è tale se può entrare in una possibile
esperienza ma per entrare in questa deve poter essere strutturato
secondo categorie. In questo senso è vero che i dati sono sempre in
qualche modo “concettualizzati”.
Le categorie però non sono a loro volta realtà ultime, sono “intrise” di dati sensibili, sono “vuote”, per usare le parole di Kant, in assenza di questi. Se il sensibile è in qualche modo “concettuale” il concettuale è in qualche modo “sensibile”. Se non unificassi parole, pagine e copertina nell’oggetto unitario “libro” questo non esisterebbe come dato d’esperienza, ma affinché la mia azione unificatrice possa aver luogo copertina, pagine e parole devono avere un loro oggettivo ordine spazio temporale. L'esperienza unitaria non esisterebbe senza capacità unificante del soggetto, ma questa sarebbe impossibile senza una realtà empirica in qualche modo ordinata. Kant lo ha messo bene in evidenza nella “confutazione dell’idealismo” da lui inserita nella seconda edizione della “Critica della ragion pura”: il soggetto stesso può riconoscersi come tale solo se inserito in un mondo non caotico. Io ho la consapevolezza di me come qualcosa di permanente nel tempo perché sono inserito in un mondo che ha la sua permanenza temporale ed il suo ordine spaziale. Certo, c'è molto soggettivismo in Kant ed suo criticismo si presta a molteplici interpretazioni, tuttavia chi cerca di usarlo per distruggere l’oggettività del mondo è completamente fuori strada.
Le categorie però non sono a loro volta realtà ultime, sono “intrise” di dati sensibili, sono “vuote”, per usare le parole di Kant, in assenza di questi. Se il sensibile è in qualche modo “concettuale” il concettuale è in qualche modo “sensibile”. Se non unificassi parole, pagine e copertina nell’oggetto unitario “libro” questo non esisterebbe come dato d’esperienza, ma affinché la mia azione unificatrice possa aver luogo copertina, pagine e parole devono avere un loro oggettivo ordine spazio temporale. L'esperienza unitaria non esisterebbe senza capacità unificante del soggetto, ma questa sarebbe impossibile senza una realtà empirica in qualche modo ordinata. Kant lo ha messo bene in evidenza nella “confutazione dell’idealismo” da lui inserita nella seconda edizione della “Critica della ragion pura”: il soggetto stesso può riconoscersi come tale solo se inserito in un mondo non caotico. Io ho la consapevolezza di me come qualcosa di permanente nel tempo perché sono inserito in un mondo che ha la sua permanenza temporale ed il suo ordine spaziale. Certo, c'è molto soggettivismo in Kant ed suo criticismo si presta a molteplici interpretazioni, tuttavia chi cerca di usarlo per distruggere l’oggettività del mondo è completamente fuori strada.
Le categorie sono inoltre qualcosa di completamente diverso dalle
“teorie”. L’azione con cui il soggetto unifica i dati
dell’esperienza è uno dei presupposti logici, meglio, delle
strutture portanti dell’esperienza stessa. Le teorie e le
concezioni del mondo operano invece su una esperienza già unificata.
Confondere, come sembra fare lo stesso Popper, l’azione unificante
delle categorie con l’elaborazione teorica di una esperienza già
unificata è un errore. Un bambino di sei anni vede un albero e lo
considera un oggetto unitario esattamente come un botanico. L’opera
teorica del secondo parte dall’esperienza che egli condivide col
bambino. Una esperienza unificata è il presupposto di ogni
elaborazione teorica, un presupposto oggettivo esattamente
come le categorie sono uno dei presupposti trascendentali
dell’esperienza unificata. Molti errori sul rapporto fatti-teorie
partono, come ha acutamente osservato Marcello Pera in “Popper e
la scienza sulle palafitte”, da una confusione fra cose del
tutto diverse.
I
dati dell’esperienza che le teorie cercano di spiegare sono a loro volta, si sostiene, “intrisi” di teoria. Cosa
significa questa affermazione? Sicuramente nessuno, scienziato o uomo
comune che sia, osserva “a caso” i dati dell’esperienza. I dati
osservati sono selezionati a partire dalle teorie, questo è spesso vero, ed abbastanza ovvio. Si osserva sempre
il mondo a partire da un punto di vista, un problema, qualche situazione o teoria. Galileo osservava luna e sole per cercare conferme o
smentite alla teoria eliocentrica, Engels ha scritto un saggio sulla
“situazione della classe operaia in Inghilterra” e non ha
certamente scelto a caso il suo oggetto di indagine. Per chi è
inseguito strade e sentieri sono strumenti di fuga, per chi vuole
rilassarsi passeggiando, mezzi che rendono piacevole il suo
camminare. Se con questo si vuole sostenere che le osservazioni, e
quindi i fatti, sono “intrisi” di teoria si può
concordare. Però, di nuovo, le teorie sono a loro volta intrise, addirittura inzuppate, di fatti
e osservazioni e questi hanno, piaccia o non piaccia la cosa, la priorità sulle teorie stesse. I problemi a cui le teorie cercano di dare risposta
si manifestano in primo luogo nel mondo sensibile. Galileo e con lui
tanti altri elaborano la teoria eliocentrica perché il vecchio
geocentrismo era sempre più contraddetto dalle osservazioni; un uomo
vede nelle strade strumenti di fuga perché deve far fronte al fatto
estremamente concreto che altri uomini lo stanno inseguendo. Non si
osserva il mondo a caso, questo è vero, ma non si elaborano neppure
teorie a caso. La situazione in cui ci troviamo ci spinge a
selezionare certi fatti fra gli altri, ma questa stessa situazione
è un fatto, un osservabile fatto della nostra esperienza.
Malgrado siano selezionati a partire da teorie i fatti conservano, e
questo è il punto essenziale, una sostanziale autonomia da queste.
Engels esamina la situazione della classe operaia in Inghilterra a
partire dalle sue teorie comuniste ma la sua analisi è (o dovrebbe
essere) autonoma da queste. Quando il compagno di Marx parla della
miseria dei proletari londinesi e snocciola dati sui loro salari, sul
livello della mortalità infantile o sulle ore di lavoro a cui i
fanciulli sono costretti fa affermazioni che possono essere
confermate o smentite indipendentemente dalla teoria da cui egli
parte. E’ vero che i seguaci delle teorie eliocentriche o
geocentriche selezionavano diversamente i dati osservativi ma non
è vero che quando esaminavano il sole e gli astri essi
vedessero cose diverse. Era loro possibile mettersi d’accordo per
osservare insieme certi dati e verificare in base a questi le
rispettive teorie. E’ quello che è storicamente avvenuto. I
seguaci del geocentrismo si sono scontrati sempre più con dati che
non quadravano con le loro teorie, hanno cercato di immunizzare
questi dati elaborando “ipotesi ad hoc” sempre più complicate ed
implausibili e hanno infine abbracciato la teoria eliocentrica.
Se io elaboro la teoria X e in base a questa predico che si
verificherà il fatto Y seleziono certamente i dati osservativi.
Resta il fatto che l’accadere o meno di Y potrà confermare o meno
la mia teoria. Io potrò naturalmente non darmi per vinto se Y
smentisce la mia teoria, potrò elaborare ipotesi di salvataggio
della stessa. Resta il fatto che è stato Y, il fatto di Y, ad
avermi costretto ad elaborare queste ipotesi. I fatti esistono, sono
osservabili e controllabili, danno vita ad una esperienza comune.
Certo, nessuna conferma dei fatti potrà mai garantirci il possesso
di una verità incontrovertibile ma questo precisamente perché una
teoria confermata dai fatti può sempre essere smentita da nuovi
fatti. I dati dell’esperienza
sensibile non ci portano al possesso di alcun assoluto, come
potrebbero? Ciò non vuol dire che non esistano o siano
mistificazioni del potere, illusioni, prodotti reificati di una
società alienata.
La
teoria secondo cui i fatti non esistono è profondamente nichilista e
auto-contraddittoria. Tutto ciò che avviene è un fatto. Anche le
teorie che sostengono che i fatti esistono (o non esistono) sono un
fatto, un fatto che, se hanno ragione i teorici delle culture del
sospetto, vale come fatto solo all’interno di certe teorie. Che
senso ha allora la polemica contro teorie che non ci convincono?
Semplicemente polemizzando contro le concezioni dei loro rivali gli
esponenti delle culture del sospetto si contraddicono clamorosamente.
La negazione nichilista dei fatti cade nelle stesse aporie di fondo
in cui incorrono le dottrine relativiste. Partiti col proposito di
ribellarsi alla “dittatura” dei fatti i teorici del sospetto cadono nel paradosso del mentitore o, per sfuggire a questo,
creano un sinistro universo totalitario: solo la mia teoria
esiste, tutto il resto, comprese le idee di chi non condivide la mia teoria, le è interno, è valido solo in e per essa,
ad essa finalizzato. I teorici del sospetto quando non sono
incoerenti riescono solo a rivelare la loro mentalità totalitaria.
Quasi
tutte le culture del sospetto hanno una sconfinata ammirazione per il
pensiero negativo e fanno di questo un larghissimo uso.
Cosa sia il pensiero negativo è presto detto. Si tratta di
quell’insieme di concezioni per le quali il momento della critica
ha la priorità assoluta su quello della proposta, la distruzione è
più importante della costruzione, la lotta in quanto tale conta più
dei suoi esiti.
La società capitalistica è mostruosa si diceva ed ancora si dice,
diamolo pure per scontato, ma.. che tipo di società dovrebbe
sostituirla? L’uomo è un essere alienato, ammettiamolo pure, ma..
che caratteristiche dovrebbe avere l’uomo non alienato? La società
consumistica distorce gli autentici bisogni umani, e sia, ma… quali
sarebbero i bisogni non distorti? Per molti anni ed in parte anche
oggi domande come queste, domande semplici e conformi al sano buon
senso, sono state accolte con sorrisini di superiorità da molti
“intellettuali” politicamente impegnati.
Il pensiero negativo è presente già nella poderosa opera di Karl
Marx. Il padre del socialismo scientifico dice solo poche e generiche
parole sulle caratteristiche concrete dell’ordine nuovo comunista
che dovrebbe rimpiazzare la decadente società borghese. Il
socialismo non è una utopia da realizzare ma “il movimento reale
che abbatte lo stato di cose esistente” afferma Marx e queste sue
parole sono state prese per oro calato non solo da tutti i suoi
seguaci ma anche da molti dei suoi critici. Tutti costoro non sono
per nulla allarmati dal fatto che si esalti un movimento per il solo
fatto che “abbatte lo stato di cose esistente” senza che nulla si
sappia su ciò che deve rimpiazzarlo.
Molti
emuli e seguaci, più o meno fedeli, di Marx hanno spinto all’eccesso
la componente negativa presente nel pensiero del loro maestro. La
critica alla società borghese si è via via ampliata fino a
comprendere praticamente ogni aspetto del mondo e della vita umana.
Scienza ed arte, ragione e sentimenti, gusti, desideri, sessualità,
tutto praticamente è stato denunciato come qualcosa di alienato, non
umano e, va da sé, neppure una parola è stata spesa per cercare di
fare capire ai comuni mortali cosa possano essere, ad esempio, una
scienza ed un’arte “comuniste” o cosa si debba intendere per
rapporti sessuali "non alienati”.
Il pensiero negativo ha prodotto danni enormi ed ha lacerato nel
profondo il tessuto sociale dei paesi occidentali. Negli anni 70
dello scorso secolo (ed anche in seguito sia pur con minore
virulenza) praticamente tutte le istituzioni sono state investite da
una critica distruttiva senza che nulla si dicesse o si facesse per
sostituire ad esse qualcosa. L’unico risultato di questa smania
distruttiva è stato il blocco di istituzioni il cui buon
funzionamento è essenziale alla vita sociale. La scuola e
l’università sono state fatte letteralmente a pezzi con
conseguenze disastrose in tutti i campi. Le fabbriche sono state
scosse da una “guerriglia rivendicativa” che ha fatto crollare
produttività e competitività, la famiglia ha subito accelerati
processi di disgregazione. Rotto ogni legame col positivo il pensiero
negativo è degradato, né poteva essere altrimenti, nel nichilismo.
Non a caso uno degli esiti della contestazione globale è stata la
follia omicida del terrorismo.
La
critica e la protesta hanno ovviamente una grande importanza, anche a
prescindere dalla proposta. La distruzione è anch’essa, in
determinati momenti, necessaria per cambiare in meglio le cose. Se si
criticano leggi liberticide, se si protesta contro arresti arbitrari
e condanne ingiustificate si compie un’opera meritoria, né è
detto che ogni volta che si protesta la critica debba essere
accompagnata da proposte positive. Tutto questo però non ha nulla a
che vedere col pensiero negativo. Criticare una legge che consente al
governo di vietare l’uscita di certi giornali implica già un
evidente momento di proposta positiva. Si è contro la proibizione
della libera stampa perché si è a favore della libertà di
stampa. Allo stesso modo, protestare
contro il modo in cui viene trattata la donna nei paesi islamici
implica una concezione positiva di ciò che si vorrebbe
fossero i rapporti fra i sessi. E’ del tutto legittimo protestare
anche se la proposta non accompagna sempre la protesta: in molti casi
la protesta implica la proposta.
Il pensiero negativo però è qualcosa di ben diverso. Qui la
protesta non implica affatto la proposta, al contrario, la protesta
si può esprimere solo a condizione di mettere a tacere qualsiasi
proposta. Si può strillare contro l’uomo “ridotto a burattino”,
contro la “falsa oggettività” della scienza “borghese”,
contro i rapporti sessuali “alienati” cui ci costringerebbe la
“società industriale avanzata” solo se si tace sulle
caratteristiche concrete di una scienza, una sessualità, un uomo
“diversi”. Considerazioni simili possono farsi a proposito di
quei patetici (ma assai pericolosi) personaggi che, incuranti delle
lezioni della storia, propongono oggi un comunismo “rifondato”.
Si può proporre un “nuovo” modello di comunismo agli esseri
umani solo se si tace accuratamente sulle sue concrete
caratteristiche. Se si uscisse dal silenzio o si andasse oltre
dichiarazioni ultra generiche non si potrebbero in effetti che
riproporre i modelli che hanno dato gli esiti disastrosi che
conosciamo. Anche in questo caso la protesta radicale contro il
capitalismo deve accompagnarsi al vuoto totale di proposta.
Abbiamo
chiamato più volte le varie teorie di cui si è discusso “culture
del sospetto” e non a caso. Il filosofo deve, secondo queste
teorie, sospettare di tutto. La realtà è così ma… sarà proprio
vero? Il tale dice la tal cosa, ma.. la starà davvero pensando? Chi
e cosa c’è dietro il suo pensiero? Quella donna manifesta certi
sentimenti, ma.. di cosa davvero si tratta? Come un poliziotto il
filosofo del sospetto esamina la scena del crimine e come un
poliziotto non è affatto convinto di ciò che i fatti sembrano dire.
“Tutto sembra far pensare ad un suicidio, ma.. sarà vero?”. Il
poliziotto non si accontenta delle apparenze, scava, indaga, cerca di
scoprire chi ha predisposto le cose in modo da fare apparire
realistica l’ipotesi del suicidio. Il filosofo del sospetto si
comporta nello stesso modo. Lui non è un credulone, non si ferma
alle apparenze, come il poliziotto deve scoprire il vero colpevole,
il responsabile di tutto. A differenza del filosofo del sospetto però
il poliziotto è sospettoso solo entro certi limiti, sospetta di
alcuni, non di tutti, non riduce tutto a montatura ed illusione,
crede nella oggettività dei dati di esperienza, nella attendibilità
di almeno alcuni testi. Solo a queste condizioni può indagare,
sperare di smascherare il colpevole. Il filosofo del sospetto invece
non crede a nulla ed a nessuno, ritiene che tutto sia inganno
e mistificazione. Il poliziotto analizza la scena del crimine, per il
filosofo del sospetto la scena del crimine è il mondo intero, il
poliziotto cerca di smascherare le menzogne, per il filosofo del
sospetto tutto è menzogna, per il poliziotto è essenziale
distinguere fra verità ed errore, per il filosofo del sospetto
l’errore è generalizzato, la verità non esiste. Il poliziotto può
ammettere che stava sbagliando, che chi sospettava era innocente, il
filosofo del sospetto non sbaglia mai, i suoi sospetti
diventano ipso facto sentenze, i sospettati sono per definizione
criminali. Il filosofo del sospetto è insomma un poliziotto
paranoico, un pessimo poliziotto che non verifica i dati, non
tiene conto delle testimonianze che smentiscono i suoi sospetti, un
poliziotto che confonde le sue fantasie con la realtà. Fortunati gli
esseri umani che non hanno la sventura di imbattersi in poliziotti
simili! E fortunate le società immuni dal pensiero del sospetto!