venerdì 20 febbraio 2015

LE CULTURE DEL SOSPETTO

Da sempre l’uomo cerca di andare “al fondo delle cose”. Una delle prime domande, forse la prima, che si sono posti i filosofi è stata quella relativa all’essenza, ciò che permane nel divenire. Tutto muta: il seme diventa pianta, la pianta cresce, germoglia ed alla fine muore. Ma, cosa cresce germoglia e muore? Cosa sta dietro ai fenomeni? Qual'è l’essenza, il vero essere, di cui questi sono la manifestazione sensibile? L’affermazione di Talete secondo cui il mondo è fatto d’acqua è un primo, ingenuo, tentativo di scoprire l’essenza del mondo. Molte delle raffinate e complicatissime costruzioni teoriche della filosofia e della scienza successive possono essere interpretate come tentativi sempre più complessi di rispondere a questo interrogativo.
Il termine “essenza” è stato in verità accantonato da molti filosofi e da tutti o quasi gli scienziati. Questi ultimi usano spesso il termine “realtà”, ma questa realtà ha più di un aspetto in comune con l’essenza dei filosofi antichi. Atomi, molecole e quanti d’energia sono la realtà (ultima?) del mondo, il mondo reale ben diverso da quello che appare nell’esperienza sensibile. Questo tentativo di andare al fondo delle cose è del tutto apprezzabile ed ha contribuito ad un enorme ampliamento della umana conoscenza. La ricerca di ciò che sta “dietro” e “sotto” ai fenomeni può avere, ovviamente, esiti dogmatici, può spingere qualcuno a presentare ciò che ha scoperto come la realtà ultima, l’essenza definitiva del mondo, ma, almeno per ciò che concerne la scienza autentica, questi pericoli sono limitati. Per lo scienziato atomi e quanti non sono la realtà ultima del mondo, sono solo le particelle più piccole che sia stato finora possibile scoprire, o forse neppure questo, sono solo un “quid” che permette di spiegare ed organizzare in formule matematiche certi fenomeni. Allo stesso modo la scoperta del DNA non risolve il mistero di “cosa” sia la vita, permette “solo” di ampliare enormemente le conoscenze sulla vita.
Per una scienza ed una filosofia sane l’andare oltre i fenomeni non significa né può significare recidere ogni legame con i fenomeni. Anche le più astratte entità che la scienza scopre devono avere una qualche manifestazione fenomenica. Noi non vediamo onde e corpuscoli, atomi ed elettroni ma vediamo certe loro manifestazioni sensibili. L’orecchio non sente le vibrazioni dell’aria, sente però i suoni che queste causano, le radiazioni non si sentono, ma si sente il ticchettio di una macchina rilevatrice. Il fenomeno è diverso dalla realtà, qualunque essa sia, ma non è scisso da questa, l’andare oltre e sotto i fenomeni non significa dividere il mondo in settori incomunicabili. Anche quando, come succede nella fisica dei quanti, le leggi della realtà subatomica sono del tutto anti-intuitive queste conservano un legame con la superficie fenomenica. Nessun studio di ciò che sta sotto il fenomeno sarebbe possibile se ogni legame fra profondo e superficiale, apparente e reale fosse scisso. Il profondo deve in qualche modo apparire alla superficie per essere riconosciuto come profondo.

In molte tendenze della filosofia contemporanea questo legame invece si scinde. Si scinde, cosa assai strana, non in settori di studio e di ricerca che per loro natura rimandano a ciò che sta oltre e sotto il fenomeno. Si scinde in campi di ricerca che riguardano il mondo umano, quel settore del reale cioè che per sua natura “appare”. Che si debba andare oltre i fenomeni in fisica o in genetica è cosa quasi ovvia, che lo si debba fare in economia o in politica lo è assai meno, eppure in certe filosofie contemporanee la tendenza ad andare oltre il fenomenico proprio nelle scienze umane appare irresistibile. Non solo, questo”andare oltre” conduce ad una frattura radicale, ad uno iato incolmabile fra ciò che è e ciò che appare. Ciò che sta sotto il fenomeno cessa di apparire nel fenomeno e cessa quindi di spiegarlo. Ciò che sta sotto il fenomeno semplicemente lo distrugge, lo trasforma in “apparenza illusoria”, “mistificazione”. Andando sotto la superficie non rendiamo questa più comprensibile, semplicemente la trasformiamo in mondo “non autentico”. La scoperta del “reale” rende “irreale” il mondo che ci circonda e con cui abbiamo tutti i giorni a che fare.
Per la scienza e per alcuni sistemi filosofici occorre andare oltre il fenomeno precisamente perché questo non è chiaro, non è del tutto razionalmente inquadrabile. Ci si spinge nel profondo perché la superficie è torbida e spingendoci nel profondo forse possiamo renderla più limpida. L’esigenza è e resta quella di spiegare il mondo, di inquadrare e relazionare in maniera comprensibile i dati dell’esperienza sensibile. Per molte filosofie contemporanee invece la superficie è inganno e mistificazione. Occorre andare sotto ed oltre la superficie per smascherare l’inganno, demistificare la mistificazione. Per la scienza lo studio delle leggi ottiche deve farci scoprire cosa provoca la sensazione del rosso, per certe filosofie ad essere in discussione è precisamente il fatto che la tal macchia di colore sia rossa. Le entità elementari della fisica servono a chiarire meglio i fatti, per certe filosofie andare oltre i fatti serve a “dimostrare” che i fatti non esistono.
La cosa più grave è che fra i fenomeni che vengono ridotti ad “illusione” o mistificazione” trova posto anche (o meglio, soprattutto) il soggetto, il soggetto con la sua razionalità, i suoi sentimenti, la sua libera volontà. Il soggetto crede di essere libero, di poter scegliere ma si sbaglia. Il suo comportamento è determinato da forze occulte che sfuggono completamente alla sua comprensione. I rapporti strutturali fra le classi, l’inconscio, l’educazione ricevuta da bambino determinano, fino in fondo, ciò che egli è e ciò che egli fa. Il soggetto crede che pensando egli esprima se stesso, parlando si relazioni agli altri, ma sbaglia . La razionalità che egli usa pensando e parlando è una razionalità alienata, frutto deformato e deformante di una società oppressiva. Il soggetto ritiene autentici i suoi sentimenti, ingenuamente pensa che se ama una donna (o un uomo) egli la ama davvero. Allo stesso modo ritiene che se si emoziona ascoltando una certa musica o guardando un certo film ciò che prova esprime qualcosa che è davvero, intimamente “suo”. Di nuovo sbaglia: i suoi sentimenti, le sue emozioni ed i suoi gusti sono determinati da qualcosa che agisce alle sue spalle. Amando quella certa donna egli “esteriorizza” la sua volontà di potenza, emozionandosi per quella certa musica o per quel certo film dimostra solo che ha “interiorizzato” la cultura dominante. Il soggetto non è mai se stesso, non esiste come essere autonomo, è un epifenomeno, la manifestazione secondaria di forze potenti e misteriose che operano dietro e sotto di lui.

Purtroppo anche alcuni (cattivi) scienziati, oltre a molti filosofi scientisti, si sono uniti al coro di chi celebra la morte del soggetto. Tutto ciò che l’uomo fa, dice o pensa può essere spiegato in termini genetici: l’uomo è un raffinatissimo robot. Dietro ai nostri pensieri ed al nostro sentirci liberi opera il complicatissimo softwere di cui ognuno di noi è dotato.
Che molto nell’uomo sia determinato dal patrimonio genetico è indubbio, ma è sensato il riduzionismo genetista oggi abbastanza di moda? Se il determinismo genetico fosse vero la prima cosa ad apparire inspiegabile sarebbe proprio il lavoro di studio e di ricerca degli scienziati. L’affermazione (metafisica, non scientifica) secondo cui “tutto è determinato dal patrimonio genetico” sarebbe essa stessa l’effetto di qualche causa genetica che, se scoperta, a sua volta, rimanderebbe a qualche altra causa e cosi, via, all’infinito. Ma, anche a prescindere da questo, che senso avrebbe la stessa parola “scoperta” in un mondo in toto determinista? Che senso avrebbero in un simile mondo i termini “vero” e “falso”? In un mondo in toto deterministico la affermazione “Parigi è la capitale della Francia” sarebbe la risultante di processi fisici e chimici esattamente come l'altra affermazione “Parigi è la capitale dell'Italia”. Avrebbe senso in un mondo simile affermare che la prima proposizione è vera e la seconda è falsa? Un insieme di reazioni chimiche che conduce alla proposizione A in cosa sarebbe “più vero” di un altro insieme di reazioni che conduce alla proposizione B? Il confronto fra queste proposizioni e la realtà forse? Ma questo stesso “confronto” sarebbe a sua volta solo un insieme di reazioni fisico chimiche... Se vuole evitare il non senso o il regresso all’infinito lo scienziato che indaga sulle cause del comportamento umano deve presupporre, almeno una volta, la libertà, deve presentare le conclusioni a cui giunge come il risultato di una libera ricerca.
Ma non solo di questo si tratta. Se il riduzionismo determinista fosse vero allora gran parte del nostro agire, pensare, parlare, sarebbe qualcosa di radicalmente diverso da ciò che ora pensiamo sia, assomiglierebbe ad un misterioso agitarsi a vuoto. Non si potrebbe più parlare di scelte, premi o punizioni, bontà o cattiveria, responsabilità.
La libertà intesa come capacità di autodeterminazione del soggetto è indimostrabile teoricamente: forse siamo davvero dei robot. Tuttavia noi ci sentiamo liberi e la presupposizione della libertà è indispensabile se si vuole che il mondo umano continui ad essere pensabile. La libertà del soggetto è presupposta nel linguaggio, nel modo in cui gli esseri umani si relazionano fra loro, negli ordinamenti giuridici. Indimostrabile teoricamente la libertà può essere considerata una autentica categoria che contribuisce a dar senso ed ordine al mondo. Si riduca l’uomo a robot gran parte del mondo umano diventa un mistero. Una discussione fra marito e moglie per decidere dove andare in vacanza, la sentenza di un tribunale, un dibattito politico: se tutto altro non è che un susseguirsi cieco di cause ed effetti cosa dobbiamo pensare siano questi normalissimi eventi umani? Che senso hanno termini come “pensare”, “parlare”, “scegliere”, che senso hanno le istituzioni umane? Un senso del tutto diverso da quello attuale si potrebbe dire, si... ma quale? Diverso da cosa? Se il termine “libertà” non significa nulla cosa può significare il termine “schiavitù”? Parlare della schiavitù di un robot è altrettanto mistificante quanto il parlare della sua libertà.

Il materialismo biologico non è l’unica metafisica che conduce alla morte del soggetto, non è neppure la più importante o la più pericolosa. Pur con tutti i sui difetti questo tipo di materialismo rimane agganciato al sicuro scoglio della ricerca scientifica, estende arbitrariamente la validità delle teorie scientifiche ma non effettua fughe in avanti, non scopre misteriose entità che ci manovrerebbero come burattini. L’entità di cui fa uso il materialismo biologico non è affatto misteriosa, si tratta del nostro patrimonio genetico, né è qualcosa di esterno a noi che ci manovra. Il patrimonio genetico è in noi, è parte essenziale, conosciuta e conoscibile, di noi. La metafisica scientista ci trasforma in robot, non in burattini.
Il discorso cambia per altre metafisiche che hanno influenzato ed influenzano profondamente il modo di pensare dell’uomo d’oggi. Per lo strutturalismo l’uomo non esiste, esistono solo le strutture. L’uomo altro non è che il punto d’incrocio fra strutture diverse, la sua coscienza un effetto secondario di cause strutturali che lo scienziato deve scoprire. Nella psicanalisi, invece, ad essere decisivo è l’inconscio. Dietro l’io cosciente opera l’inconscio che determina, se non tutte, molte delle nostre azioni e molti dei nostri pensieri. In Freud l’io cosciente conserva ancora un essenziale momento di autonomia (che senso avrebbe la terapia psicanalitica in caso contrario?); l’uomo confina nell’inconscio gli istinti libidici che ha rimosso e questo è causa di nevrosi, che possono venire curate cercando di riportare alla luce l’oggetto della rimozione. Nel suo intimo Freud è un illuminista, ritiene che la ragione possa comprendere ed illuminare anche le parti più nascoste del nostro io. Ciò non toglie che gran parte della sua teoria sfugga a serie possibilità di verifica o falsificazione empirica. Come ha fatto notare Popper la teoria della resistenza rende impossibile ogni tentativo di falsificazione delle teorie psicanalitiche. Se la terapia psicanalitica non ha effetti positivi lo si deve alla resistenza che il paziente mette in atto contro le cure dell’analista. In questo modo la psicanalisi si immunizza, argomenta Popper, da ogni tentativo di falsificazione. La teoria secondo cui ciò che è stato rimosso si esprime nei sogni contiene inoltre un evidente elemento di circolarità: posso affermare che il tal sogno significa X solo se accetto che nei sogni si manifesti ciò che abbiamo relegato nell’inconscio, d'altro canto, posso dimostrare che nei sogni si manifesta ciò che è stato relegato nell'inconscio solo se affermo che il tal sogno significa X.
In seguaci più o meno eretici di Freud gli aspetti mitici della psicanalisi vengono via via accentuandosi. Il soggetto cosciente perde sempre più autonomia fino a diventare un burattino integralmente manovrato dall’inconscio. Yung elabora la concezione di un “inconscio collettivo”, misteriosa entità a cui è possibile attribuire tutto e di cui risulta impossibile dire alcunché di positivo e verificabile. Lacan attribuisce un “linguaggio” all’inconscio e svaluta l’io cosciente come io non autentico. Il vero io è la dove non lo si vede, afferma lo psicanalista-strutturalista francese. Fromm, che ha tentato una eclettica conciliazione fra marxismo e psicanalisi, vede nell’io cosciente il risultato di una manipolazione della educazione repressiva funzionale alla sopravvivenza del sistema capitalistico. L’io diventa sempre più un burattino, il soggetto un essere alienato, inautentico. In questo modo però lo stesso inconscio che ne determinerebbe le azioni sprofonda nel mistero: che possibilità ha un io ridotto ad ente illusorio di gettar luce su ciò che lo rende illusorio? La retrocessione a burattino dell’io rende vano ogni tentativo di scoprire il burattinaio.

Il marxismo è la filosofia sociale che forse più di ogni altra ha contribuito a svalutare l’attività cosciente del soggetto. Il soggetto pensa, agisce, sceglie. Il soggetto si sente libero, ritiene di costruire autonomamente la sua vita, pensa che la storia sia opera dell’uomo, degli uomini. Il soggetto sbaglia. Dietro l’apparenza della libertà, dietro le scelte e l’autonomia del pensiero operano forze sociali profonde. Ciò che io credo essere una mia libera scelta è in realtà determinato dalla mia posizione di classe. Nei pensieri che io considero “miei” si esprime la mia realtà sociale, in me parla il corso storico giunto ad una determinata fase del suo sviluppo. Per Marx è l’essere sociale che determina la coscienza, non viceversa. Coerentemente a questa idea fondamentale del loro maestro molti seguaci di Marx hanno considerato la sua stessa opera come l’autocoscienza del proletariato, cioè l’autocoscienza della storia giunta al culmine del suo sviluppo. Il marxismo non è l’insieme di ciò che ha scritto o fatto Marx (e magari Engels), nel marxismo la storia parla a sé stessa, rende chiaro a se medesima il suo corso ed il suo fine immanente. Va da se che gli altri esseri umani, il cui pensiero non esprime “l’autocoscienza della storia”, non sono che dei piccoli burattini nelle sue mani. Il pensiero dei grandi diventa il pensiero della “storia” (così come nelle parole di certi profeti si esprime il verbo di Dio), il pensiero dei piccoli decade a nullità, puro materiale di scarto del “corso storico”. In tutti i casi l’autonomia del pensiero individuale scompare. Ciò che opera e parla nell’uomo è la “storia”, “l’interesse di classe”, la “contraddizione oggettiva del capitalismo”, mai la sua coscienza.

L’antisoggettivismo marxiano cade in tutte le contraddizioni che è possibile riscontrare in simili teorie. Che valore scientifico ha l’opera di Marx se il pensiero non è altro che una sovrastruttura della società di classe? Come può una teoria che esprime il punto di vista di una classe sociale pretendere di essere una rappresentazione vera della società nel suo complesso? E come può un essere alienato rovesciare il corso della storia? Se l’ambiente storico-sociale determina la coscienza può esistere una qualsiasi critica di tale ambiente? La riduzione di tutto a storia rende incomprensibile proprio il divenire storico.
Certi marxisti replicano a questo tipo di obiezioni affermando che la concezione marxiana della storia è di tipo dialettico. L’ambiente sociale determina la coscienza ma questa a sua volta influisce sull’ambiente sociale. Già Engels aveva operato una certa rivalutazione della sovrastruttura. Ben oltre è andato il cosiddetto “marxismo occidentale”: nulla nel marxismo è riconducibile al determinismo, la volontà rivoluzionaria gioca un ruolo decisivo nel processo che porta alla società senza classi, in questo la trasformazione delle circostanze è dialetticamente congiunta alla autotrasformazione delle coscienze. Il concetto di interazione o di azione reciproca consentirebbe al marxismo di superare tutte le difficoltà.
Si tratta però di posizioni che non solo forzano il testo di innumerevoli affermazioni di Marx ed Engels, ma non reggono al minimo tentativo di approfondimento.  Se A determina B la reazione di B non è in realtà che il risultato della originaria azione di A e, in ogni caso, nel rapporto causale reciproco fra A e B la libera volontà non ha posto e rilievo alcuno. Se le circostanze storico sociali determinano le coscienze determinano anche la capacità delle coscienze di operare in certe circostanze. Nessun sofisma sulla misteriosa "unità dialettica" di trasformazione delle circostanze ed autotrasformazione delle coscienze permette al determinismo storico sociale di andare oltre se stesso. In realtà il concetto stesso di interazione rimanda al concetto di autonomia. Quando parlo con una persona interagisco con lei, ma non sono determinato da lei né formo con lei alcuna inscindibile unità dialettica. Si può interagire con qualcuno e con qualcosa solo se si è autonomamente qualcosa o qualcuno. Si faccia del soggetto una "determinazione" dell'essere sociale o lo si unisca "dialetticamente" a questo e a scomparire sarà precisamente la capacità del soggetto di interagire.

Una delle concezioni più marcatamente nichiliste delle culture del sospetto è quella secondo cui “i fatti non esistono”.
Da quando Nietsche ha affermato che non esistono fatti ma solo interpretazioni l’attacco alla oggettività di ciò che ci è dato dall’esperienza sensibile non ha più conosciuto soste o limiti. Nessuna filosofia in verità ha mai assunto l’esperienza come qualcosa di definitivo, non ulteriormente analizzabile. Lo scetticismo è vecchio quanto il pensiero ed ha anche una fondamentale funzione positiva: impedisce al pensiero di cadere in uno sterile “dormiveglia dogmatico” per usare le parole di Kant. Estremizzandosi però lo scetticismo diventa nichilista, distrugge il mondo e si autodistrugge in quanto parte del mondo.
Per le culture del sospetto i fatti non esistono. Ciò che si presenta come “fatto” è in realtà una “interpretazione”, addirittura una “manipolazione” indotta dal sistema. L’oggettività dei cosiddetti fatti non è che una della facce di un sistema che reifica tutto, tutto riduce a cosa e merce.
Queste concezioni hanno influenzato profondamente la stessa epistemologia. Non esistono fatti “oggettivi”, dati dell’esperienza a cui sia possibile far ricorso per decidere della verità o falsità di determinate teorie o proposizioni. I fatti non possono smentire o confermare alcuna teoria perché sono “costruiti” a partire da questa. I fatti sono intrisi di teoria: se la tal teoria dice X i fatti che la dovrebbero confermare o smentire sono costruiti a partire da X. Galileo vedeva i fatti a partire dalla sua teoria eliocentrica così come i tolemaici li vedevano a partire dalla loro teoria geocentrica. I fatti che vedevano non erano gli stessi. Purtroppo anche un filosofo serio ed un convinto liberale come Popper ha strizzato l’occhio a posizioni di questo tipo. Nella sua polemica spesso ingenerosa contro il neopositivismo Popper ha sostenuto più volte che i fatti sono qualcosa di teorico, non di oggettivo. Come questo possa conciliarsi con il falsificazionismo, la concezione cioè secondo cui ogni teoria, se vuole essere considerata scientifica, deve essere costruita in modo tale da poter essere confutata dai dati dell’esperienza sensibile, resta un mistero.

Che i dati dell’esperienza non siano qualcosa di ultimo, non ulteriormente analizzabile, è sicuramente vero, tanto vero che nessuno sostiene il contrario. I dati dell’esperienza sono sempre inquadrati categorialmente, se così non fosse non ci sarebbe esperienza ma solo caos. Il libro che leggo non esisterebbe come “libro” se io non collegassi l’oggetto che ora ho fra le mani con quello che poco fa era nello scaffale, se non considerassi qualcosa di unitario le pagine, le parole, le lettere che le compongono. Ogni dato è tale se può entrare in una possibile esperienza ma per entrare in questa deve poter essere strutturato secondo categorie. In questo senso è vero che i dati sono sempre in qualche modo “concettualizzati”.
Le categorie però non sono a loro volta realtà ultime, sono “intrise” di dati sensibili, sono “vuote”, per usare le parole di Kant, in assenza di questi. Se il sensibile è in qualche modo “concettuale” il concettuale è in qualche modo “sensibile”. Se non unificassi parole, pagine e copertina nell’oggetto unitario “libro” questo non esisterebbe come dato d’esperienza, ma affinché la mia azione unificatrice possa aver luogo copertina, pagine e parole devono avere un loro oggettivo ordine spazio temporale. L'esperienza unitaria non esisterebbe senza capacità unificante del soggetto, ma questa sarebbe impossibile senza una realtà empirica in qualche modo ordinata. Kant lo ha messo bene in evidenza nella “confutazione dell’idealismo” da lui inserita nella seconda edizione della “Critica della ragion pura”: il soggetto stesso può riconoscersi come tale solo se inserito in un mondo non caotico. Io ho la consapevolezza di me come qualcosa di permanente nel tempo perché sono inserito in un mondo che ha la sua permanenza temporale ed il suo ordine spaziale. Certo, c'è molto  soggettivismo in Kant ed suo criticismo si presta a molteplici interpretazioni, tuttavia chi cerca di usarlo per distruggere l’oggettività del mondo è completamente fuori strada.
Le categorie sono inoltre qualcosa di completamente diverso dalle “teorie”. L’azione con cui il soggetto unifica i dati dell’esperienza è uno dei presupposti logici, meglio, delle strutture portanti dell’esperienza stessa. Le teorie e le concezioni del mondo operano invece su una esperienza già unificata. Confondere, come sembra fare lo stesso Popper, l’azione unificante delle categorie con l’elaborazione teorica di una esperienza già unificata è un errore. Un bambino di sei anni vede un albero e lo considera un oggetto unitario esattamente come un botanico. L’opera teorica del secondo parte dall’esperienza che egli condivide col bambino. Una esperienza unificata è il presupposto di ogni elaborazione teorica, un presupposto oggettivo esattamente come le categorie sono uno dei presupposti trascendentali dell’esperienza unificata. Molti errori sul rapporto fatti-teorie partono, come ha acutamente osservato Marcello Pera in “Popper e la scienza sulle palafitte”, da una confusione fra cose del tutto diverse.

I dati dell’esperienza che le teorie cercano di spiegare sono a loro volta, si sostiene, “intrisi” di teoria. Cosa significa questa affermazione? Sicuramente nessuno, scienziato o uomo comune che sia, osserva “a caso” i dati dell’esperienza. I dati osservati sono selezionati a partire dalle teorie, questo è spesso vero, ed  abbastanza  ovvio. Si osserva sempre il mondo a partire da un punto di vista, un problema, qualche situazione o teoria. Galileo osservava luna e sole per cercare conferme o smentite alla teoria eliocentrica, Engels ha scritto un saggio sulla “situazione della classe operaia in Inghilterra” e non ha certamente scelto a caso il suo oggetto di indagine. Per chi è inseguito strade e sentieri sono strumenti di fuga, per chi vuole rilassarsi passeggiando, mezzi che rendono piacevole il suo camminare. Se con questo si vuole sostenere che le osservazioni, e quindi i fatti, sono “intrisi” di teoria si può concordare. Però, di nuovo, le teorie sono a loro volta intrise, addirittura inzuppate, di fatti e osservazioni e questi hanno, piaccia o non piaccia la cosa, la priorità sulle teorie stesse. I problemi a cui le teorie cercano di dare risposta si manifestano in primo luogo nel mondo sensibile. Galileo e con lui tanti altri elaborano la teoria eliocentrica perché il vecchio geocentrismo era sempre più contraddetto dalle osservazioni; un uomo vede nelle strade strumenti di fuga perché deve far fronte al fatto estremamente concreto che altri uomini lo stanno inseguendo. Non si osserva il mondo a caso, questo è vero, ma non si elaborano neppure teorie a caso. La situazione in cui ci troviamo ci spinge a selezionare certi fatti fra gli altri, ma questa stessa situazione è un fatto, un osservabile fatto della nostra esperienza.
Malgrado siano selezionati a partire da teorie i fatti conservano, e questo è il punto essenziale, una sostanziale autonomia da queste. Engels esamina la situazione della classe operaia in Inghilterra a partire dalle sue teorie comuniste ma la sua analisi è (o dovrebbe essere) autonoma da queste. Quando il compagno di Marx parla della miseria dei proletari londinesi e snocciola dati sui loro salari, sul livello della mortalità infantile o sulle ore di lavoro a cui i fanciulli sono costretti fa affermazioni che possono essere confermate o smentite indipendentemente dalla teoria da cui egli parte. E’ vero che i seguaci delle teorie eliocentriche o geocentriche selezionavano diversamente i dati osservativi ma non è vero che quando esaminavano il sole e gli astri essi vedessero cose diverse. Era loro possibile mettersi d’accordo per osservare insieme certi dati e verificare in base a questi le rispettive teorie. E’ quello che è storicamente avvenuto. I seguaci del geocentrismo si sono scontrati sempre più con dati che non quadravano con le loro teorie, hanno cercato di immunizzare questi dati elaborando “ipotesi ad hoc” sempre più complicate ed implausibili e hanno infine abbracciato la teoria eliocentrica.
Se io elaboro la teoria X e in base a questa predico che si verificherà il fatto Y seleziono certamente i dati osservativi. Resta il fatto che l’accadere o meno di Y potrà confermare o meno la mia teoria. Io potrò naturalmente non darmi per vinto se Y smentisce la mia teoria, potrò elaborare ipotesi di salvataggio della stessa. Resta il fatto che è stato Y, il fatto di Y, ad avermi costretto ad elaborare queste ipotesi. I fatti esistono, sono osservabili e controllabili, danno vita ad una esperienza comune. Certo, nessuna conferma dei fatti potrà mai garantirci il possesso di una verità incontrovertibile ma questo precisamente perché una teoria confermata dai fatti può sempre essere smentita da nuovi fatti. I dati dell’esperienza sensibile non ci portano al possesso di alcun assoluto, come potrebbero? Ciò non vuol dire che non esistano o siano mistificazioni del potere, illusioni, prodotti reificati di una società alienata.

La teoria secondo cui i fatti non esistono è profondamente nichilista e auto-contraddittoria. Tutto ciò che avviene è un fatto. Anche le teorie che sostengono che i fatti esistono (o non esistono) sono un fatto, un fatto che, se hanno ragione i teorici delle culture del sospetto, vale come fatto solo all’interno di certe teorie. Che senso ha allora la polemica contro teorie che non ci convincono? Semplicemente polemizzando contro le concezioni dei loro rivali gli esponenti delle culture del sospetto si contraddicono clamorosamente. La negazione nichilista dei fatti cade nelle stesse aporie di fondo in cui incorrono le dottrine relativiste. Partiti col proposito di ribellarsi alla “dittatura” dei fatti i teorici del sospetto cadono nel paradosso del mentitore o, per sfuggire a questo, creano un sinistro universo totalitario: solo la mia teoria esiste, tutto il resto, comprese le idee di chi non condivide la mia teoria, le è interno, è valido solo in e per essa, ad essa finalizzato. I teorici del sospetto quando non sono incoerenti riescono solo a rivelare la loro mentalità totalitaria.

Quasi tutte le culture del sospetto hanno una sconfinata ammirazione per il pensiero negativo e fanno di questo un larghissimo uso.
Cosa sia il pensiero negativo è presto detto. Si tratta di quell’insieme di concezioni per le quali il momento della critica ha la priorità assoluta su quello della proposta, la distruzione è più importante della costruzione, la lotta in quanto tale conta più dei suoi esiti.
La società capitalistica è mostruosa si diceva ed ancora si dice, diamolo pure per scontato, ma.. che tipo di società dovrebbe sostituirla? L’uomo è un essere alienato, ammettiamolo pure, ma.. che caratteristiche dovrebbe avere l’uomo non alienato? La società consumistica distorce gli autentici bisogni umani, e sia, ma… quali sarebbero i bisogni non distorti? Per molti anni ed in parte anche oggi domande come queste, domande semplici e conformi al sano buon senso, sono state accolte con sorrisini di superiorità da molti “intellettuali” politicamente impegnati.
Il pensiero negativo è presente già nella poderosa opera di Karl Marx. Il padre del socialismo scientifico dice solo poche e generiche parole sulle caratteristiche concrete dell’ordine nuovo comunista che dovrebbe rimpiazzare la decadente società borghese. Il socialismo non è una utopia da realizzare ma “il movimento reale che abbatte lo stato di cose esistente” afferma Marx e queste sue parole sono state prese per oro calato non solo da tutti i suoi seguaci ma anche da molti dei suoi critici. Tutti costoro non sono per nulla allarmati dal fatto che si esalti un movimento per il solo fatto che “abbatte lo stato di cose esistente” senza che nulla si sappia su ciò che deve rimpiazzarlo.
Molti emuli e seguaci, più o meno fedeli, di Marx hanno spinto all’eccesso la componente negativa presente nel pensiero del loro maestro. La critica alla società borghese si è via via ampliata fino a comprendere praticamente ogni aspetto del mondo e della vita umana. Scienza ed arte, ragione e sentimenti, gusti, desideri, sessualità, tutto praticamente è stato denunciato come qualcosa di alienato, non umano e, va da sé, neppure una parola è stata spesa per cercare di fare capire ai comuni mortali cosa possano essere, ad esempio, una scienza ed un’arte “comuniste” o cosa si debba intendere per rapporti sessuali "non alienati”.
Il pensiero negativo ha prodotto danni enormi ed ha lacerato nel profondo il tessuto sociale dei paesi occidentali. Negli anni 70 dello scorso secolo (ed anche in seguito sia pur con minore virulenza) praticamente tutte le istituzioni sono state investite da una critica distruttiva senza che nulla si dicesse o si facesse per sostituire ad esse qualcosa. L’unico risultato di questa smania distruttiva è stato il blocco di istituzioni il cui buon funzionamento è essenziale alla vita sociale. La scuola e l’università sono state fatte letteralmente a pezzi con conseguenze disastrose in tutti i campi. Le fabbriche sono state scosse da una “guerriglia rivendicativa” che ha fatto crollare produttività e competitività, la famiglia ha subito accelerati processi di disgregazione. Rotto ogni legame col positivo il pensiero negativo è degradato, né poteva essere altrimenti, nel nichilismo. Non a caso uno degli esiti della contestazione globale è stata la follia omicida del terrorismo.

La critica e la protesta hanno ovviamente una grande importanza, anche a prescindere dalla proposta. La distruzione è anch’essa, in determinati momenti, necessaria per cambiare in meglio le cose. Se si criticano leggi liberticide, se si protesta contro arresti arbitrari e condanne ingiustificate si compie un’opera meritoria, né è detto che ogni volta che si protesta la critica debba essere accompagnata da proposte positive. Tutto questo però non ha nulla a che vedere col pensiero negativo. Criticare una legge che consente al governo di vietare l’uscita di certi giornali implica già un evidente momento di proposta positiva. Si è contro la proibizione della libera stampa perché si è a favore della libertà di stampa. Allo stesso modo, protestare contro il modo in cui viene trattata la donna nei paesi islamici implica una concezione positiva di ciò che si vorrebbe fossero i rapporti fra i sessi. E’ del tutto legittimo protestare anche se la proposta non accompagna sempre la protesta: in molti casi la protesta implica la proposta.
Il pensiero negativo però è qualcosa di ben diverso. Qui la protesta non implica affatto la proposta, al contrario, la protesta si può esprimere solo a condizione di mettere a tacere qualsiasi proposta. Si può strillare contro l’uomo “ridotto a burattino”, contro la “falsa oggettività” della scienza “borghese”, contro i rapporti sessuali “alienati” cui ci costringerebbe la “società industriale avanzata” solo se si tace sulle caratteristiche concrete di una scienza, una sessualità, un uomo “diversi”. Considerazioni simili possono farsi a proposito di quei patetici (ma assai pericolosi) personaggi che, incuranti delle lezioni della storia, propongono oggi un comunismo “rifondato”. Si può proporre un “nuovo” modello di comunismo agli esseri umani solo se si tace accuratamente sulle sue concrete caratteristiche. Se si uscisse dal silenzio o si andasse oltre dichiarazioni ultra generiche non si potrebbero in effetti che riproporre i modelli che hanno dato gli esiti disastrosi che conosciamo. Anche in questo caso la protesta radicale contro il capitalismo deve accompagnarsi al vuoto totale di proposta.

Abbiamo chiamato più volte le varie teorie di cui si è discusso “culture del sospetto” e non a caso. Il filosofo deve, secondo queste teorie, sospettare di tutto. La realtà è così ma… sarà proprio vero? Il tale dice la tal cosa, ma.. la starà davvero pensando? Chi e cosa c’è dietro il suo pensiero? Quella donna manifesta certi sentimenti, ma.. di cosa davvero si tratta? Come un poliziotto il filosofo del sospetto esamina la scena del crimine e come un poliziotto non è affatto convinto di ciò che i fatti sembrano dire. “Tutto sembra far pensare ad un suicidio, ma.. sarà vero?”. Il poliziotto non si accontenta delle apparenze, scava, indaga, cerca di scoprire chi ha predisposto le cose in modo da fare apparire realistica l’ipotesi del suicidio. Il filosofo del sospetto si comporta nello stesso modo. Lui non è un credulone, non si ferma alle apparenze, come il poliziotto deve scoprire il vero colpevole, il responsabile di tutto. A differenza del filosofo del sospetto però il poliziotto è sospettoso solo entro certi limiti, sospetta di alcuni, non di tutti, non riduce tutto a montatura ed illusione, crede nella oggettività dei dati di esperienza, nella attendibilità di almeno alcuni testi. Solo a queste condizioni può indagare, sperare di smascherare il colpevole. Il filosofo del sospetto invece non crede a nulla ed a nessuno, ritiene che tutto sia inganno e mistificazione. Il poliziotto analizza la scena del crimine, per il filosofo del sospetto la scena del crimine è il mondo intero, il poliziotto cerca di smascherare le menzogne, per il filosofo del sospetto tutto è menzogna, per il poliziotto è essenziale distinguere fra verità ed errore, per il filosofo del sospetto l’errore è generalizzato, la verità non esiste. Il poliziotto può ammettere che stava sbagliando, che chi sospettava era innocente, il filosofo del sospetto non sbaglia mai, i suoi sospetti diventano ipso facto sentenze, i sospettati sono per definizione criminali. Il filosofo del sospetto è insomma un poliziotto paranoico, un pessimo poliziotto che non verifica i dati, non tiene conto delle testimonianze che smentiscono i suoi sospetti, un poliziotto che confonde le sue fantasie con la realtà. Fortunati gli esseri umani che non hanno la sventura di imbattersi in poliziotti simili! E fortunate le società immuni dal pensiero del sospetto!













lunedì 16 febbraio 2015

SOCRATE E LA PACE

Socrate. Salve carissima Laura, è un vero piacere incontrarti
Laura Poltrini. Salve o Socrate, il piacere è tutto mio.
S. Ti vedo scura in volto eccellente amica, qualcosa non va?
L. Sono preoccupata. Nubi oscure si addensano all'orizzonte, venti di guerra...
S. Pare anche a me.
L. E nulla è peggio della guerra, va evitata ad ogni costo. Invece sento crescere sentimenti bellici fra la gente. Alcuni pretenderebbero che prendessimo le armi contro l'Isis. Sarebbe terribile: morte, distruzione...
S. Certo, la guerra è molto brutta, ma a volta può essere inevitabile, mi pare.
L. No o Socrate, come dice il Santo Padre la pace è sempre possibile. Si può sempre evitare la guerra . Bisogna farlo, ad ogni costo perché non c'è nulla di peggio.
S. Fammi capire amica mia, per te la guerra è il male assoluto e si deve accettare qualsiasi cosa pur di evitarla?
L. Certo Socrate, è proprio così. Son certa che un uomo come te, pacifico ed amante del dialogo, non può che convenire.
S. Certo, io sono un uomo pacifico, amo discutere, cercare insieme al mio interlocutore di avvicinarmi alla verità...
L. sapevo che saresti stato d'accordo.
S. Beh, proprio d'accordo non direi.
L. Che dici, o Socrate? Come puoi dubitare di una cosa tanto evidente? Cosa c'è di peggio dei morti e delle distruzioni che la guerra provoca?
S. Non so, vorrei solo approfondire la cosa. Se mi permetti ti farei qualche domanda.
L. Oh, le tue solite domande! Ebbene, fai pure o Socrate, son pronta a risponderti.
S. Per te la guerra è il male assoluto, quindi la pace è per te l'assoluto bene, è così?
L. Proprio così, lo ribadisco.
S. Dimmi allora, come definiresti tu la pace?
L. Pace significa che gli eserciti delle opposte fazioni non si combattono. Si ha la pace quando tacciono le armi e ovunque regnano il reciproco rispetto, la concordia e la giustizia.
S. Un bellissimo quadro, ne convengo. Potremmo aggiungere che in tempo di pace ognuno si dedica tranquillamente alle proprie faccende, i genitori vanno a lavorare e curano la casa e i bambini vanno a scuola, studiano e giocano in serenità?
L. Certo che potremmo aggiungerlo.
S. Quindi potremmo dire che pace significa armi che tacciono, concordia, reciproco rispetto, civile convivenza all'insegna della giustizia?
L. Concordo perfettamente.
S. Benissimo, non ne dubitavo. Ma dimmi ora, nobile amica, queste condizioni devono darsi tutte affinché vi sia la pace?
L. Non ti seguo...
S. Potrebbero darsi delle situazioni in cui, ad esempio, gli eserciti delle opposte fazioni non si combattono ma non regnano la concordia, il reciproco rispetto e la giustizia?
L. Mah, non mi sembra una situazione molto probabile...
S. Della sua probabilità parleremo, ma dimmi, ritieni possibile una simile situazione?
L. Beh... in linea del tutto teorica, forse si.
S. E dimmi ora, potrebbero darsi delle situazioni in cui gli eserciti non combattono ma le armi non tacciono affatto?
L. Ciò mi sembra assai azzardato da ipotizzare.
S. Eppure è avvenuto innumerevoli volte nella storia. Nella Russia di Stalin, in tempo di pace, i plotoni d'esecuzione lavoravano 24 ore al giorno, e le guardie bolsceviche obbligavano a fucilate i contadini ad entrare nelle fattorie collettive, e strappavano loro fino all'ultimo chicco di grano, facendoli morire di fame. Non mi pare che le armi tacessero e regnassero ovunque la concordia, il reciproco rispetto e la giustizia.
L. Mi sembra che tu sia vittima della propaganda anticomunsita o Socrate.
S. Nessuno più di me è insensibile alla propaganda, cara amica. Ma, ti farò un esempio diverso. Dimmi, se Hitler avesse fatto sterminare gli ebrei in tempo di pace, se mentre mandava milioni di esseri umani a morire nelle camere a gas gli eserciti non avessero combattuto al fronte, avremmo avuto una situazione in cui le armi tacevano e regnavano ovunque rispetto, concordia e giustizia?
L. E' un esempio irrealistico, la shoah è avvenuta in tempo di guerra.
S. Ma non aveva alcuna relazione con le operazioni belliche, anzi, praticamente tutti gli storici ammettono che dal punto di vista della conduzione della guerra lo sterminio degli ebrei è stato un colossale errore, è servito solo a stornare uomini e mezzi dai combattimenti.
L. Può essere...
S. Comunque io non voglio addentrarmi in dissertazioni storiche. Ti chiedo solo se ritieni possibile una situazione come quella che ho ipotizzata.
L. Si direi che lo è.
S. Quindi ammetterai che è almeno possibile che gli eserciti non combattano ma le armi non tacciano, e non vi sia reciproco rispetto, né concordia; e gli adulti non si dedichino tranquillamente alle loro faccende e i bambini non vadano sereni a scuola e al parco giochi.
L. Si, direi che è possibile.
S. E non solo possibile direi, è anche probabile. E' avvenuto tante volte, in tanti paesi, e avviene anche oggi, nei territori controllati dall'Isis.
L. Propaganda, propaganda...
S. Beh, cara Laura, tu stessa hai condannato gli attentati di Parigi, dicendo che sono stati dei falsi islamici a commetterli...
L. Ed è vero...
S. Falsi o non falsi, la violenza c'è stata. E, se non hai potuto negare quella violenza non potrai certo negare quella dell'Isis...
L. Anche loro sono falsi islamici, probabilmente.
S. Non mi interessa ora stabilire questo. Saranno anche falsi islamici ma di certo ammazzano, sgozzano, crocifiggono, bruciano viva la gente. Non mi sembra che dove dominano queste persone le armi tacciano, e regnino giustizia, reciproco rispetto e concordia.
L. Si tratta di un problema che devo approfondire.
S. Fai pure o eccellente amica. Però, permettimi di chiederti un'altra cosa. Puoi ipotizzare una situazione in cui uno solo degli eserciti non combatta?
L. Un po' difficile ad ipotizzare.
S. Ne convengo, è un po' difficile da ipotizzare perché da che mondo è mondo chi è aggredito si difende. Ma se chi è aggredito seguisse le raccomandazioni dei pacifisti questo dovrebbe sempre succedere. Qualcuno aggredisce qualcun altro e questo non spara un colpo a sua difesa perché, come tu dicevi, la pace va perseguita ad ogni costo. Un esercito avanza, la soldataglia spara sui civili, occupa città, fucila possibili oppositori dell'invasione e, in nome della pace, l'aggredito accetta tutto.
L. Un po' fantasiosa la cosa.
S. Mi fa piacere che anche a te appaia fantasiosa, ma questo dovrebbe essere il comportamento di chi ritiene che la pace sia il bene assoluto. Inoltre, per essere precisi, qualcosa di simile è accaduto, a volte. Pensa alla invasione sovietica della Cecoslovacchia, nel 1968. L'esercito russo invase quel povero paese ed i cechi non si difesero, per timore di venire massacrati. E, qualche decennio prima, la stessa Cecoslovacchia aveva dovuto subire, senza potersi difendersi, l'invasione dell'esercito hitleriano, ed una sorte simile era toccata all'Austria.
L. Si, mi sembra di ricordare.
S. Comunque, se una simile situazione si creasse, dovremmo dedurne che può esserci pace anche se un paese ne invade un altro, e il suo esercito compie massacri, e ovunque regnano morte e distruzione e non esiste alcuna concordia, alcun reciproco rispetto e, meno che mai, alcuna giustizia. Possiamo accettare una simile conclusione?
L. Non so, forse.
S. Quindi ci può essere pace senza giustizia, senza civile convivenza, senza reciproco rispetto, addirittura senza che tutti gli eserciti lascino silenziose le armi, puoi concordare su questo?
L. Non so.
S. Dimmi, o nobile amica. Sei d'accordo che nel matrimonio i rapporti fra i coniugi debbano essere improntati all'amore, alla stima ed al rispetto reciproci e debba assolutamente essere bandita ogni forma di violenza?
L. E come no?
S. E dimmi ora, capita o non capita che in alcune famiglie non esista fra i coniugi alcuna stima e alcun reciproco rispetto?
L. Certo che capita.
S. E capita o non capita che uomini malvagi picchino le loro compagne e le loro mogli?
L. Capita, lo so bene.
S. E capita che malgrado tutto queste restino sposate al loro uomo?
L. Si, succede, purtroppo.
S. E non ti sembra che, con moltissima approssimazione, potremmo paragonare la situazione fra gli stati in pace a quella fra i coniugi in un matrimonio? Fra gli stati non è necessario, ovviamente, che ci sia amore e condivisione di obbiettivi, ma, se c'è la pace, dovrebbero esserci rispetto reciproco e dovrebbe essere bandita ogni violenza, ne convieni?
L. Ne convengo.
S. Eppure, come fra i coniugi spesso regna la violenza e ciò malgrado il matrimonio non si rompe, così fra gli stati e negli stati spesso regna la violenza ma gli eserciti non combattono, quindi c'è la pace e insieme c'è la violenza. Puoi convenire?
L. Diciamo che posso.
S. Quindi esistono situazioni di pace che sono insieme situazioni di non pace, addirittura di guerra. Situazioni in cui c'è la pace fra gli stati ma non negli stati, o addirittura situazioni in cui c'è la pace fra gli stati perché non tutti gli eserciti combattono, ma non c'è fra loro pace perché uno ne aggredisce di continuo un altro senza che questo reagisca. Sei d'accordo che simili situazioni possano esistere, sono esistite ed esistono?
L. Si, pensandoci bene devo convenire che simili situazioni a volte si sono create nella storia.
S. E dommi, ottima amica, saresti d'accordo se dicessi che situazioni in cui ci sono, insieme, pace e violenza, sono situazione di finta pace?
L. Si, sono perfettamente d'accordo. La vera pace infatti si fonda sul rispetto, la civile convivenza e la giustizia.
S. Concordiamo e la cosa mi fa molto piacere. Ma, se esiste una situazione di finta pace è o non è giusto operare per e sostituirla con una di pace vera?
L. Concordo di nuovo, alla perfezione..
S. E, non potremmo dedurne che a volte per sostituire la finta pace con la pace vera sia necessario prendere le armi contro i prepotenti, coloro che cercano di perpetuarle, le situazioni di pace finta e fasulla?
L. Sono in totale disaccordo o Socrate! Tu ragioni come quelli che dicono che se si vuole la pace occorre preparare la guerra. Ma questo è cinico, ed è anche falso. Se si vuole la pace occorre preparare la pace. E questo io intendevo quando dicevo che occorre cercare la pace ad ogni costo. Intendevo dire che bisogna confrontarsi, dialogare, tener conto dell'altrui punto di vista, mettersi nei panni dell'altro. Ma tu hai travolto con i tuoi sofismi il senso delle mie parole.
S. Mah, a me sembra di non aver fatto altro che cercare di approfondire, insieme a te, il senso di ciò che dicevi. Ma, non è il caso di perdersi in polemiche sterili. Devo dirti che concordo con la sostanza di quanto tu hai appena detto.
L. Benissimo, la cosa mi fa molto piacere, anche se un po' mi stupisce.
S. Non devi stupirti. Se io sapessi che un mio conoscente ha in mente di stuprare ed uccidere una bambina non gli sparerei addosso, piuttosto parlerei con lui, cercherei di convincerlo che ciò che intende fare è una cosa orribile, indegna di un essere umano, ed userei tutte le mie modeste capacità di convinzione per indurlo a cambiare idea.
L. E faresti benissimo.
S. Non solo, cercherei di capire le cause di intenzioni tanto malvagie, cercherei, nei limiti delle mie possibilità, di mettermi nei suoi panni, di tener conto delle sue motivazioni.
L. Le tue parole mi riempiono di gioia, o Socrate. Vedo che alla fine, superati i vani sofismi non puoi non concordare totalmente con me.
S. Beh, proprio totalmente non direi.
L. Non ricominciare! Perché non totalmente?
S. E' molto semplice. Penso a cosa dovrei farei se, proprio discutendo con questa persona, proprio mettendomi nei suoi panni, scoprissi che non ha alcuna intenzione di rinunciare ai suoi propositi.
L. Ricominci con i sofismi.
S. Nessun sofisma. Dimmi o eccellente persona, esistono gli stupratori?
L. E me lo chiedi?
S. E sei d'accordo con me se dico che uno stupratore ha il suo punto di vista?
L. Si, lo sono.
S. E che uno stupratore considera le donne non persone ma strumento per soddisfare i suoi desideri?
L. Si, così è.
S. E che ritiene che solo lui abbia dei diritti e tutti gli altri no?
L. E' così purtroppo.
S. Dimmi, nobile amica, cosa risponderesti ad un uomo che dicesse: “io solo ho diritti, tu non ne hai alcuno, sei solo uno strumento nelle mie mani”?
L. Gli direi che tutti abbiamo dei diritti e che ognuno di noi è obbligato a rispettare i diritti degli altri.
S. Concordo pienamente. Ma, se lui ti rispondesse: “tieniti pure le tue convinzioni, non mi interessa, tu sei solo uno strumento per il soddisfacimento del mio piacere”, se così ti rispondesse, e, dopo aver risposto, allungasse su di te le sue mai, tu cosa faresti?
L. Ah, penso che gli tirerei un bel pugno sui denti!
S. E, se tu fossi armata e lui fosse molto più forte di te, e campione di lotta, ed il pugno non bastasse?
L. Se fossi armata, non so, però, forse, credo che mi difenderei.
S. Anche a costo di ucciderlo?
L. Forse.
S. Ma così aggiungeresti violenza a violenza.
L. Forse, ma eliminerei una delle cause della violenza
S. Giustissimo, ed in futuro non più ma meno violenza ci sarebbe al mondo, concordi?
L. Si, credo di poter concordare.
S. Scusa amica mia, ma non ti sembra che questo sia, con le dovute differenze, il caso della guerra?
L. Che intendi dire?
S. Che occorre certo fare di tutto per evitare una guerra, occorre trattare, discutere, tener conto degli altrui interessi e degli altrui punti di vista, ma, se con questi auspicabili mezzi non si convincono i prepotenti ad abbandonare i propri piani, occorre saperli affrontare con le armi.
L. Uffa Socrate! Hai ricominciato coi sofismi!
S. Nessun sofisma. Scusa, sbaglio o tu festeggi sempre, con lieto volto la festa della liberazione, il 25 di Aprile?
L. certo, bellissima festa che ricorda la sconfitta del nazifascismo.
S. Sconfitta in cosa?
L. In guerra.
S. Quindi, per te, la guerra che ha portato alla sconfitta del nazifascismo è stata positiva.
L. Certo che si.
S. Perché allora non vuoi neppure sentir parlare di guerra a chi stupra le donne e le vende come schiave, brucia vivi i prigionieri, sgozza innocenti civili, seppellisce vivi dei bambini e pretende di obbligarci tutti ad aderire ad una certa fede? Non ti sembrano queste pretese e queste atrocità molto simili a quelle perpetrate dai nazisti?
L. Basta Socrate, mi sta venendo un forte mal di testa, vado a casa a riposare un po'
S. Buon riposo nobile amica.

sabato 14 febbraio 2015

LE RIVOLUZIONI PIU' PROFONDE





Metafisica.

Le rivoluzioni più profonde sono quelle metafisiche
. Detta così l'affermazione può sembrare azzardata. Le rivoluzioni, si sa, riguardano grandi masse di comuni esseri umani e nulla sembra essere più distante dagli interessi e dalle preoccupazioni dei comuni esseri umani che la metafisica.
Del resto la metafisica non sembra godere oggi di un buon stato di salute. Sono i filosofi i primi a contestarla. Alcuni, di matrice analitica, la hanno definita “priva di senso”, altri, quelli che vengono chiamati, in maniera un po' esoterica, “i continentali”, la ritengono all'origine del nichilismo che attanaglierebbe l'occidente. Non è assolutamente mia intenzione entrare in una simile disputa. Mi basta osservare, telegraficamente, che chi accusa di “nichilismo” la metafisica è molto spesso, nel profondo, un nichilista (un nome fra tutti: Martin Heidegger); chi, d'altro lato, ritiene la metafisica “insensata” sembra non rendersi conto che la stessa accusa di insensatezza rivolta alla metafisica costituisce una affermazione metafisica. Lo capì bene invece Wittgenstein, che non a caso alla fine del suo “tractatus” definisce prive di senso le sue stesse affermazioni.
“Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Così termina il capolavoro di Wittgenstein. Parlare della metafisica, anche solo per definirla insensata, significa fare metafisica, chi afferra un simile concetto deve ritenere insensato lo stesso “tractatus logico philosophicus”. Resta da capire come possa un'opera priva di senso farci capire qualcosa, anche se questo qualcosa fosse la sua stessa insensatezza. Una scala costruita sul non senso non ci può far salire da nessuna parte, meno che mai farci “vedere correttamente il mondo”.
Non è il caso, qui, di approfondire, e neppure di addentrarsi troppo in dispute terminologiche. Se il termine “metafisica” non piace possiamo benissimo usare “concezione generale del mondo”, le cose non cambiano molto. La metafisica infatti è, o è anche, una concezione generale del mondo, e dell'uomo, e del posto dell'uomo nel mondo.
La affermazione secondo cui “le rivoluzioni più profonde sono quelle che riguardano le concezioni generali del mondo e dell'uomo” non sembra però essere, a prima vista, molto più accettabile di quella secondo cui ad essere le più profonde sono le rivoluzioni metafisiche. Al di la della terminologia sembra che ci si continui a muovere nell'aria rarefatta delle dispute filosofiche. Dispute anche profonde, anche interessanti, ma lontane anni luce dai problemi e dalle preoccupazioni dei normali esseri umani. Ma, stanno davvero così le cose?

Le pretese del materialismo storico.

“Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale. (…) Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”.
Così afferma Marx nella celebre prefazione a “per la critica dell'economia politica”, e non si tratta di una affermazione isolata.
“Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante”, affermano Marx ed Engels nel celeberrimo “manifesto del partito comunista” ed aggiungono, esemplificando: ”Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell'illuminismo, la società feudale dovette combattere la sua ultima lotta con la borghesia allora rivoluzionaria. Le idee della libertà di coscienza e della libertà di religione furono soltanto l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza”. Le idee sono quindi espressione degli interessi di determinati soggetti socio economici, legati allo sviluppo delle forze produttive sociali.
“Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale". Così scrive Marx in “miseria della filosofia”, ed ancora, nella “ideologia tedesca” afferma: “Le rappresentazioni ed i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica eccetera di un popolo.”
Non è il caso di dilungarsi ancora con le citazioni. Certo, il marxiano materialismo storico ha fatto versare letteralmente fiumi di inchiostro, e le sue interpretazioni, spesso sottilissime, ammontano a svariate decine, forse a centinaia. Tuttavia il nocciolo della teoria è piuttosto semplice e non si presta ad eccessivi stravolgimenti ermeneutici: è l'essere sociale a determinare la coscienza. Le idee politiche, filosofiche, religiose degli esseri umani, e con queste la loro intera produzione artistica ed intellettuale sono determinate, o comunque influenzate in maniera decisiva, dalla struttura socio economica della società formata, a sua volta, dal complesso delle forze produttive e dalla corrispondente divisione del lavoro, i “rapporti di produzione”. I più sottili distinguo non possono cancellare questo che è e resta il nocciolo duro della concezione marxiana del rapporto essere – coscienza.

Nella concezione marxiana è contenuto un importante frammento di verità. Si tratta della rivalutazione del momento economico - produttivo della vita umana. L'uomo non è puro spirito, è inserito nel mondo materiale e ne è penosamente dipendente. Tutti i bisogni umani, necessitano, in misura più o meno grande, di beni materiali per poter essere soddisfatti. Questa dipendenza dai beni materiali non riguarda solo la componente immediatamente animale dell'uomo, non si limita al cibo o alla ricerca di calore. Riguarda anche le caratteristiche più elevate, spirituali, degli esseri umani. Il filosofo ed il poeta, anche a voler prescindere dal fatto che devono nutrirsi come tutti i comuni mortali, hanno comunque bisogno di carta e penna per scrivere poesie e trattati di metafisica. Al pittore servono tele e colori, al musicista strumenti musicali, spesso costosissimi, allo scienziato ancora più costosi laboratori di ricerca. Si smaterializzi l'attività spirituale dell'uomo e scompare dalla faccia della terra gran parte dei risultati dell'umana creatività.
I beni materiali sono importanti, e non è senza conseguenze sulla vita umana possederne pochi o molti. Ma, una cosa è sottolineare l'importanza che i beni materiali hanno per il soddisfacimento dei nostri bisogni, cosa del tutto diversa è far dipendere questi da quelli. Marx non si sogna neppure di dire che gli uomini sentono fame perché producono il cibo, o provano desiderio di riparo e calore perché costruiscono case. Quando però ci sono di mezzo i più alti prodotti dell'attività umana è questo il senso del suo pensiero. Il contenuto di un romanzo, una teoria filosofica o teologica, le conclusioni di uno studio sulla gravitazione sarebbero il risultato del processo in cui si costruiscono i beni materiali che rendono possibile, fra le altre cose, la stampa dei libri o lo studio della volta celeste. Non si costruiscono chiese perché si prega, ma si prega perché si costruiscono chiese, non si stampano libri perché qualcuno ha delle idee da fissare sulla carta, ma le idee derivano dal fatto che si costruiscono le macchine da stampa, e la carta e l'inchiostro.
Nell'analisi marxiana lo “sviluppo delle forze produttive” appare come una forza misteriosa, autonoma, una sorta di potenza magica che dall'esterno crea e plasma le relazioni sociali e con queste il pensiero degli uomini. Ma in questa visione non c'è nulla di scientifico. E' l'uomo con la sua attività e le sue idee che sviluppa le forze produttive; quando Marx afferma che “Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale” dimentica la banale verità che sia il mulino a braccia che quello a vapore sono invenzioni umane, che avvengono dentro un certo sistema sociale e politico. Le forze produttive si sviluppano perché gli esseri umani pensano, hanno idee, fanno scoperte, elaborano teorie, comprese quelle teorie generali, metafisiche, che fanno da sfondo e stimolano moltissime ricerche, scoperte ed invenzioni particolari. Gli animali e gli insetti non sviluppano le forze produttive, neppure quegli animali e quegli insetti che possiamo a giusto titolo definire abilissimi costruttori, come i castori o le formiche. Questi costruiscono, è vero, splendide dighe ed elaborati sistemi di gallerie, ma non innovano, non scoprono nuovi sistemi produttivi, non elaborano alcuna teoria generale. Per questo è sbagliato, nel loro caso, parlare di sviluppo delle forze produttive. Solo l'uomo sviluppa le forze produttive sociali, perché solo l'uomo è capace di pensiero astratto.

Qualcuno potrebbe obbiettare che quelle che precedono sono considerazioni ingiuste tralasciano aspetti importanti del pensiero marxiano. E' lo stesso Marx ad affermare infatti che: “l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dall'inizio distingue il peggior architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella testa prima di costruirla in cera”.
Qui in effetti non sembra esserci alcun primato di misteriose forze produttive mosse da una sorta di impulso autonomo. Altrove Marx, e più di lui Engels, parlano di influenza reciproca fra struttura economica e sovrastruttura ideale, di uomini che costruiscono le circostanze tanto quanto le circostanze costruiscono gli uomini. Ben lungi dal superare le difficoltà insite nella concezione materialistica della storia questi cenni inseriscono però in essa contraddizioni distruttive. Perché se, come affermano Marx ed Engels, “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” teorizzare in qualsiasi modo la loro autonomia diventa contraddittorio. Se A causa B, C, causato a sua volta da B, sarà, a ben vedere le cose, sempre causato da A. Se le idee sono espressione dell'essere sociale la loro influenza nella storia sarà comunque l'influenza di questo essere sociale, tutti i distinguo del mondo non possono cancellare questa elementare verità.
Le idee degli esseri umani nascono sempre, è ovvio, in determinati ambienti sociali ma non ne sono il prodotto. L'ambiente sociale condiziona l'attività ideale degli uomini, ma non trasforma i parti della umana creatività in espressione ideologica di determinati interessi socio economici. Se le cose stessero in questo modo, del resto, sarebbe la stessa opera di Marx a diventare inspiegabile o a perdere qualsiasi valore euristico. Come è potuta sorgere ed affermarsi una filosofia rivoluzionaria se le idee dominati sono le idee della classe dominante? E, se davvero le idee sono espressione di determinati, e transitori, interessi di classe, perché mai ”Il capitale” dovrebbe aspirare ad un qualsiasi valore di verità?
Non c'è distinguo ermeneutico che tenga: si riduca la storia delle idee ad espressione dell'essere sociale e le idee perdono irrimediabilmente la propria autonomia. Ma una volta persa questa autonomia ci si avvolge in insuperabili aporie. Teorizzare la dipendenza delle idee dall'essere sociale significa esprimere una idea; questa è vera o falsa? Impossibile stabilirlo, si tratta di una idea auto contraddittoria: aspira ad essere vera nel momento stesso in cui nega sia possibile di una verità socialmente incondizionata

L'importanza sociale delle idee.

Storia socio economica e storia politica, storia della filosofia, dell'arte, dell'etica, della religione sono strettamente intrecciate fra loro, ma autonome; si influenzano a vicenda conservando la loro autonomia, anzi, possono influenzarsi a vicenda precisamente perché sono e restano autonome.
Una volta sottolineata la autonomia, non la separatezza, delle idee, è possibile metterne in risalto la grande importanza nella storia, l'influenza che queste esercitano sui grandi eventi politici, sociali ed economici.
Tuttavia le cose sembrano ancora non quadrare. Anche ammessa l'autonomia del momento ideale della storia, l'importanza della metafisica da sui siamo partiti continua sembrare eccessiva. Le idee, soprattutto quelle molto astratte, riguardano un numero ristretto di uomini, le rivoluzioni invece sono grandi eventi di massa, tanto dovrebbe bastare.
Inoltre, è vero che anche le scienze della natura, il diritto e l'economia sono, come la metafisica, scarsamente conosciute a livello di massa. Le scienze della natura però, ed il diritto, e l'economia, hanno applicazioni pratiche che ognuno può toccare con mano, e questo sembra non valere per la metafisica. Cosa nella metafisica riguarda da vicino la vita degli uomini comuni? Pochissimo, a prima vista. Comunque la si rigiri la metafisica appare inesorabilmente secondaria, staccata dalla vita reale degli uomini.
La lontananza della metafisica dalla vita di tutti i giorni è però solo apparente, una sorta di illusione ottica. Pochi lo sanno, ma la stragrande maggioranza degli occidentali sono, almeno in parte, almeno da un certo punto di vista, aristotelici. Ognuno di noi usa nella vita di tutti i giorni una logica, quella a soggetto-predicato, che è stata “inventata” dallo stagirita circa 23 secoli fa, e parla un linguaggio le cui regole sintattiche sono plasmate su quella logica. Le grandi concezioni del mondo e dell'uomo sono presenti nella nostra vita quotidiana; vengono assimilate quotidianamente da masse enormi di esseri umani, entrano a far parte del comune modo di vedere il mondo, del linguaggio, influenzano sentimenti, azioni, relazioni umane. Pochi conoscono, è vero, le grandi metafisiche e queste non hanno immediate applicazioni pratiche, sono ben diverse dalle scienze, da questo, come da altri punti di vista. Ma semplificate, banalizzate, ridotte in pillole, trasformate in luoghi comuni queste metafisiche diventano un po' come l'aria che respiriamo, sono parte essenziale del nostro pensare e del nostro agire, anche se spesso sembriamo non accorgercene.
Non sto dicendo, è bene sottolinearlo, che gli esseri umani pensino senza sapere a ciò che pensano, al contrario. Ad essere ignorate sono le origini e, a volte, le implicazioni di certe idee che fanno parte del comune modo di sentire e di vedere le cose, ma ciò non trasforma gli esseri umani nella cui mente si formano tali idee in automi senz'anima. Lo studente delle medie inferiori non sa che la logica a soggetto predicato è strettamente legata alle “metafisica” di Aristotele, ciò nonostante sa benissimo quello che dice quando compie l'analisi logica di un periodo.

La affermazione secondo cui le rivoluzioni più profonde sono quelle metafisiche può apparire, alla luce di queste considerazioni un po' meno azzardata di quanto sembrava all'inizio. Le grandi rivoluzioni metafisiche, le modifiche radicali del modo di pensare e vedere il mondo riguardano all'inizio un numero relativamente ristretto, ma socialmente molto importante, di persone colte. Però, se grazie all'azione di queste persone tali idee si affermano, influenzano gradualmente strati crescenti di  uomini. Le lunghe e tortuose dimostrazioni si semplificano, concetti lontani dal senso comune vengono tradotti, e a volte banalizzati, nel linguaggio di tutti i giorni, presupposti problematici vengono semplificati sino ad apparire verità auto evidenti. Le grandi e complicate visioni del mondo perdono in questo modo molto del loro rigore, ma raggiungono e vengono condivise da un numero elevato, spesso assai elevato, di esseri umani. Si forma in questo modo un nuovo senso comune, un nuovo modo di vedere il, e di rapportarsi al, mondo. Tutto questo a sua volta ha influenze profonde sulla politica, sull'economia, sulle relazioni fra e nelle forze sociali, sui comportamenti individuali.

Un esempio di quanto si è appena detto è costituito dalla rivoluzione scientifica del '600. Inizialmente questa riguarda un numero piuttosto ristretto di studiosi e tratta di temi molto lontani dagli interessi della gente comune. La terra è immobile al centro dell'universo o gira su se stessa e intorno al sole? La stragrande maggioranza degli esseri umani non era troppo interessata a simili quesiti e comunque accettava la soluzione apparentemente più vicina alla testimonianza dei sensi. Dietro alla disputa sul moto della terra si agitavano problemi ancora più astratti e sottili, e assolutamente non sentiti a livello di massa. Il movimento è qualcosa di essenziale, connesso alla natura intima dei corpi, o una semplice variazione della posizione relativa di un corpo rispetto all'altro? Esistono nell'universo dei luoghi naturali verso cui tendono i vari corpi? Esistono un alto ed un basso assoluti, un centro ed una periferia dell'universo? Di problemi di questo tipo discutevano animatamente gli aristotelici ed i sostenitori della nuova fisica. Nella disputa intervennero le autorità religiose, come si sa, cercando di bloccare le nuove idee. Queste però alla fine ebbero la meglio, su tutto il fronte. Si affermò una nuova visione del mondo naturale che trovò la sua sistemazione nell'opera di Newton. La nuova concezione del moto, il rifiuto dei luoghi naturali, il principio di inerzia, combinate con nuove metodologie di ricerca, trasformarono radicalmente il volto della scienza e questo rese possibile nuove, fondamentali, scoperte, in tutti i campi. A loro volta queste ebbero crescenti applicazioni tecniche, con influenza enorme su molteplici aspetti della vita umana. E masse sempre crescenti di esseri umani accettarono le nuove concezioni, molto spesso senza capirle davvero, come da sempre avviene quando ci sono di mezzo materie complicate. Si creò un nuovo senso comune, che non riguardava solo la scienza della natura. Riguardava anche l'uomo ed il suo posto nel mondo. Scalzata dal centro dell'universo la terra divenne un punto insignificante dello stesso, si aprì un contrasto, mai più rimarginato, fra l'umana esigenza di senso e le fredde conclusioni della ricerca scientifica. Tutta la storia successiva ne sarebbe stata interessata, sia quella delle idee che quella sociale e politica.
Non è il caso, ancora una volta, di dilungarsi troppo. Quella che era inizialmente una disputa fra ristretti gruppi di studiosi ha coinvolto un numero via via crescente di esseri umani, ha subito contestazioni e critiche, ha dato vita ad un nuovo modo di pensare contro cui sono sorti altri, contrastanti e diffusi, modi di pensare. E, al di la di tutti i contrasti e le critiche di cui la scienza moderna è stata fatta oggetto, oggi ad essere antiintuitiva è la fisica qualitativa di Aristotele più che quella matematica di Galileo e Newton. Si può dire, senza tema di esagerare che la astratta disputa sulla natura del moto ha avuto conseguenze enormi in tutti i campi della vita sociale, compreso lo sviluppo della tecnologia, e delle forze produttive che, meno di due secoli dopo la rivoluzione scientifica, Marx considererà la molla decisiva della storia. Abbastanza per qualcosa che non riguarda la gente comune.

Positivo e negativo.

Ovviamente l'influenza delle idee può essere positiva come negativa. Il caso della rivoluzione scientifica è senza dubbio positivo: pur semplificando molte cose, la diffusione di alcune delle sue idee ha contribuito a far crescere a livello di massa una mentalità razionale. Altri ve ne sono, purtroppo, di estremamente negativi. Il caso del marxismo è emblematico.
Pochi hanno letto “il capitale”, ma le formule esoteriche di cui questo librò è pieno sono state semplificate, banalizzate, trasformate in formulette ed oggi circolano sulla bocca di saccenti ragazzini che non solo non hanno letto un rigo di Marx, ma non capiscono neppure la vulgata pseudo marxista.
Il marxismo in effetti ha subito nella storia numerosi processi di revisione oltre che di semplificazione. Da una parte c'è stato chi ne ha accentuato le caratteristiche scientiste, lo ha interpretato in maniera gradualista e lo ha ritenuto compatibile con la democrazia liberale. Non a caso questi interpreti poco rigorosi del marxismo hanno finito per abbandonarlo. Altri ne hanno accentuato al massimo la carica rivoluzionaria e messianica, staccandola dalle pretese scientifiche con cui Marx cercava di farla convivere. Col riflusso di quello che è stato definito il “movimento del '68” e, più ancora, col crollo del comunismo anche queste interpretazioni fortemente irrazionalistiche del marxismo dovevano entrare in crisi. Ma le loro suggestioni hanno continuato ad operare, in ordine sparso, senza più alcuna organicità, slegate da ogni disegno unitario.
Ne è venuta fuori l'ideologia della sinistra politicamente corretta dei nostri giorni. Una indigeribile poltiglia composta di pauperismo terzomondista, ostilità a tutto ciò che, anche alla lontana, odora di mercato, esaltazione del libertinismo sessuale, ammirazione per orribili esperienze di totalitarismo teocratico, misticismo ecologico, difesa dello stato assistenziale e tante altre cose ancora, il tutto condito con una diffusa mentalità complottista ed una buona dose di antisemitismo, mascherato da antisionismo. Insomma, un guazzabuglio di tutte le peggiori suggestioni egemoni a sinistra negli ultimi decenni private anche di quella carica escatologica globale che le aveva rese attraenti per tanti negli anni 70 dello scorso secolo.

Eppure questo insieme strampalato di idee semplicistiche, molto spesso in contraddizione fra loro, e sempre senza legame alcuno col mondo reale, influisce, e tanto, sul mondo. Determina scelte politiche, ispira leggi e regolamenti, è egemone nei media, sta modificando il linguaggio, trasformandolo da mezzo per la comunicazione del pensiero in strumento per la mistificazione ideologica dello stesso.
Si potrebbero fare moltissimi esempi, nei campi più svariati, di questa nefasta influenza dell'ideologia sulla politica e sull'economia dei paesi occidentali. Ne basti uno per tutti: il rapporto dell'occidente con il mondo islamico.
In tutto il mondo il fondamentalismo islamico è all'offensiva, in maniera brutale, arrogante, sfacciata. Non cerca più neppure di nascondere i suoi obbiettivi, ce li sbatte in faccia senza ritegno. Gli “infedeli” devono essere distrutti, l'Islam deve trionfare, ovunque. Queste cose non le dice Oriana Fallaci, le dicono, no, le gridano, in tutto il mondo decine di migliaia di militanti armati sino ai denti. E dietro a questi militanti ci sono milioni di giovani pronti a seguirne l'esempio, masse enormi di fanatici che ci odiano non per ciò che facciamo, non per le politiche dei nostri governi o per la nostra lontana storia. Ci odiano per ciò che siamo, per il nostro modo di vivere, di vestirci, di mangiare, di rapportarci fra i sessi. Ci odiano soprattutto per i valori che professiamo, per quella libertà, quella democrazia, quella laicità dello stato che siamo riusciti a conquistare grazie a lotte durissime e che loro considerano il simbolo stesso della decadenza e della corruzione.
Come reagisce l'occidente a questo attacco senza precedenti? Per lo più in maniera penosa. Alcuni negano l'esistenza stessa del problema, altri cercano di ridurlo a mera questione di polizia, altri ancora pensano che mostrandosi arrendevoli, facendo ogni giorno nuove concessioni sia possibile calmare i fanatici. Questi invece non si calmano affatto, incassano le concessioni ed avanzano nuove pretese, sempre più aggressive, prepotenti, intollerabili. Ed intanto gli occidentali “buoni”, specie in Italia, lasciano che una immigrazione clandestina ormai fuori controllo modifichi radicalmente la stessa composizione demografica, e, quel che più conta, culturale dei loro paesi
Come è possibile una simile cecità? Come possono provati uomini di stato non vedere ciò che moltissimi vedono? Non capire ciò che un bambino è perfettamente in grado di capire? Qualcuno avanza, di tanto in tanto, spiegazioni di tipo economico. Siamo arrendevoli con l'Islam perché attratti dalle commesse petrolifere. Però, l'argomento delle commesse era usato ieri, al tempo della guerra in Iraq ad esempio, per spiegare la presunta aggressività dell'occidente, esattamente come viene oggi usato per spiegare la sua incredibile remissività. Certo, il petrolio conta e può spiegare molte cose, ma non tutte. In realtà ciò che blocca oggi l'occidente è il terrore di apparire “sciovinista”, “razzista”, non sufficientemente “aperto alle istanze del diverso”. In vasti strati della popolazione dei principali paesi occidentali si sono diffuse idee e sentimenti che rendono se non impossibile di certo molto difficile una risposta dura alla aggressività fondamentalista. Siamo diventati masochisti, vediamo solo gli errori e gli orrori della nostra storia e non anche quanto di bello e positivo esiste in essa, e non vediamo, non vogliamo vedere, gli errori e gli orrori delle altrui storie. Abbiamo perso fiducia nei nostri valori, li consideriamo privi di portata universale e siamo pronti a credere che i valori, o gli pseudo valori, che altri professano abbiano, essi solo, una loro essenziale validità. In breve siamo vittime della ideologia politicamente corretta non solo abbastanza diffusa a livello di massa, ma largamente egemone negli ambienti “che contano”, quelli decisivi nel processo di formazione di una ideologia pervasiva: fra i politici, gli intellettuali, nei media, nella Chiesa. Non è che davvero non si veda la aggressività dell'attacco islamista all'occidente, o non se ne capisca il senso. Non la si vuole vedere, non lo si vuole capire, e non si vuole vedere né capire perché vedere e capire metterebbe in crisi una ideologia che per i più svariati motivi (fede cieca in ideali considerati assoluti, imbecillità, timidezza, meschino attaccamento a meschini interessi di bottega) non si ha il coraggio di mettere in discussione. Questa, ben prima del petrolio, è la causa reale della nostra remissività, una remissività folle, che può distruggere la nostra civiltà.

Tirando le somme, telegraficamente.

Possiamo cercare di concludere perché il discorso è diventato troppo lungo. La storia delle idee ha la sua autonomia, le idee subiscono i condizionamenti del quadro socio economico ma lo condizionano a loro volta, pesantemente. Le metafisiche hanno la capacità di prestarsi a notevoli semplificazioni che fa si che vengano metabolizzate anche a livello di massa; determinano inoltre, ovviamente, il modo di pensare e di agire di strati decisivi della società, politici, intellettuali, strati in grado di esercitare egemonia, di influenzare in profondità la pubblica opinione. Le rivoluzioni metafisiche, modificando in profondità il comune modo di pensare e di sentire di grandi masse di esseri umani hanno conseguenze storiche molto profonde e durature, più profonde e durature, a volte, di molte rivoluzioni politiche e sociali. La attuale crisi dell'occidente non è solo economica, sociale e politica, è anche, forse soprattutto, una crisi culturale. Ha la sua origine in una crisi di idee e valori che ha portato molti occidentali forse a smarrire, di certo ad appannare, il senso stesso della loro identità. Per questo non è una crisi superabile solo con un po' di ripresa economica (anche se la ripresa è molto importante) o con qualche marchingegno di architettura istituzionale (anche se le istituzioni contano molto).
Se non supera la sua crisi culturale l'occidente rischia un inesorabile declino. E' pessimistica questa conclusione? Forse, ma nascondere i problemi non aiuta certo a risolverli.