sabato 14 novembre 2020

LA SOCIETA' GASSOSA


Churchill “razzista”, perché in Inghilterra hanno imbrattato la sua statua  - Il Riformista

Partendo da lontano.


Polemizzando contro chi nega il principio di non contraddizione Aristotele afferma nella metafisica:
“In verità è impossibile che essere uomo abbia lo stesso significato che non essere uomo, se è esatto che il termine uomo sta a significare non solo l'attributo di un'unica cosa ma anche quella stessa unica cosa (difatti noi non reputiamo che l'espressione significare un'unica cosa si identifichi con l'espressione significare un qualche attributo di un'unica cosa, giacché in questo caso i termini musico, bianco e uomo avrebbero un solo significato, e di conseguenza tutte quante le cose sarebbero un'unica cosa dato che esse verrebbero ad essere sinonime)”. (1)
Vediamo di chiarire. Per Aristotele l'errore fondamentale dei critici del principio di non contraddizione consiste nella confusione che questi fanno fra soggetto e predicato, sostanza ed attributi della sostanza.
L'enunciato: “Tizio è alto e giovane” non viola in alcun modo il principio di non contraddizione, eppure i termini “Tizio”, “alto” e “giovane” hanno diversi significati. Da un lato dire che A è B sembra eguagliare i significati di A e di B, dall'altro tali significati sono diversi fra loro. Sembra che il principio di non contraddizione sia violato. Le cose però non stanno così, per il semplice motivo che “alto” e “giovane” sono attributi che si predicano, da diversi punti di vista, di una stessa sostanza: “Tizio”. Dire che Tizio è alto non eguaglia il significato del termine “Tizio” con quello del termine “alto”, attribuisce al soggetto Tizio un determinato predicato. Allo stesso modo dire che Tizio è alto e giovane non eguaglia i significati di alto e di giovane. Si limita ad attribuire, da diversi punti di vista, a Tizio due diversi predicati. Il tutto perché esiste una differenza fondamentale fra soggetto e predicato, sostanza ed attributi della sostanza. Se questa differenza non esistesse nella proposizione: “Tizio è alto e giovane” la è verbo e la e congiunzione eguaglierebbero i significati di Tizio, alto e giovane. Come ben osserva Aristotele tutte le parole diverrebbero sinonime,”uomo” sarebbe lo stesso di “non uomo”, dire “uomo” equivarrebbe a dire “trireme” visto che di certo la trireme non è un uomo. Qualsiasi discorso sensato diverrebbe impossibile.

I succo del discorso di Aristotele che qui ci interessa è costituito da concetto di sostanza. Mi limito in maniera stringatissima all'essenziale. La sostanza aristotelica è sinolo di materia e forma, un ente unitario, empiricamente rilevabile e diverso sia dalle sue parti che dall'insieme dei suoi attributi. Un albero è qualcosa che mi è dato dai sensi e che sono in grado di distinguere da foglie e radici, e sono parimenti in grado di considerare separatamente dalla sua altezza o dalla durezza del suo tronco. Le cose sono, naturalmente, assai complicate. Il concetto di sostanza è stato al centro di serrate discussioni e polemiche che hanno attraversato praticamente tutta la storia del pensiero, ma non è di queste che intendiamo qui discutere. Del resto l'approfondimento serio di un simile tema sarebbe nettamente al di sopra delle forze di chi scrive. Ai fini del nostro discorso basta sottolineare la “durezza” della sostanza. La sostanza aristotelica non è mero aggregato, semplice collezione di parti o qualità. E' qualcosa di unitario, con una sua precisa identità. Quando si modifica, la sostanza lo fa in un certo modo, legato al suo essere quella certa sostanza e non altra. Il bambino diventa uomo, il seme pianta, il cucciolo animale adulto. Le sostanze possono interagire e modificarsi interagendo, ma ognuna lo fa a partire dalle sue caratteristiche specifiche, se queste vengono a mancare la sostanza semplicemente scompare. Interagendo con la freccia del cacciatore la sostanza cervo perisce. La sostanza costituisce la parte solida, pesante dell'essere. E' quella certa cosa li che nasce e si modifica restando tuttavia in tutto questo processo quella certa cosa lì. Fino al suo perire.

Uomo, società

Quali che siano i dibattiti e gli approfondimenti filosofici sul tema della sostanza la maggioranza dei filosofi e la quasi totalità del genere umano (filosofi compresi) concorda su un punto: il mondo esiste ed è costituito da enti che hanno caratteristiche proprie. Qualcosa che si può studiare, con cui si può interagire, che è possibile in una certa misura modificare ma sempre partendo da ciò che è. Gli enti del mondo non sono qualcosa di evanescente, fluttuante, inafferrabile. Sono realtà dotate di una loro identità ed una loro almeno relativa stabilità. Qualcosa di duro, di una durezza da cui è impossibile prescindere.
E fra questi enti è centrale l'uomo. Non è il caso qui di cercare una definizione di “uomo”. Molte ce ne sono, tutte evidenziano aspetti essenziali della sostanza uomo, tralasciandone altri. L'uomo è un bipede implume, un animale razionale, o politico, o tecnologico. Un animale simbolico, parlante, creativo. Un ente morale, l'unico, a quanto ne sappiamo, in grado di formulare imperativi etici ed obbedire, sia pure a fatica, agli stessi. Su ognuna di queste definizioni si può discutere, e si è discusso, moltissimo. Ma non è indispensabile farlo, a ben vedere le cose. Ognuno di noi sa che l'uomo è quell'essere li, quello che ognuno di noi è e con cui ognuno di noi si rapporta, tutti i giorni. Un ente fondamentale fra gli enti del mondo.

L'uomo non è un monolite immutabile o una monade senza finestre sul mondo. L'uomo è capace di modifica ed automodifica, è relazione, confronto, spesso scontro. E' un ente inquieto, in movimento, ma non è qualcosa di evanescente, inafferrabile. Non è una X di cui nulla si può dire perché in ogni momento è e non è se stessa. L'uomo è una sostanza e come tutte le sostanze ha una sua robusta, ineliminabile “durezza”.
Io sono un uomo, non “l'uomo in se”, questo è solo una idea astratta, importantissima ma priva di autonoma esistenza, tranne che per i platonici. Io sono quel certo uomo, col suo patrimonio genetico, le sue caratteristiche psicofisiche, la sua cultura, la sua storia personale inserita in una storia collettiva. Sono nato in una certa epoca, in una certa famiglia, in un determinato ambiente sociale, dentro una certa cultura e civiltà. Tutto questo fa di me ciò che sono, costituisce la mia identità.
Certo, posso cambiare e cambio, ma lo faccio sempre a partire da ciò che sono. Posso modificare alcune mie caratteristiche: la mia cultura, il mio aspetto fisico, alcuni aspetti del mio carattere, ma posso farlo sempre e solo facendo leva su altre mie caratteristiche, altri aspetti del mio carattere. Posso relazionarmi agli altri, e in questa relazione modificare alcune idee e punti di vista, ma posso farlo sempre partendo da idee e punti di vista che sono miei. La stessa propensione a confrontarmi ed eventualmente a cambiare è una mia caratteristica, parte della mia identità. In una parola, io posso cambiare perché non sono un mero fluttuare, perché ho la mia identità, sono io e non altro. Se non fossi una sostanza unitaria non potrei cambiare. Non potrei subire, o aver subito, quel processo naturale di cambiamento costituito dal passaggio dall'infanzia alla gioventù, dalla maturità alla vecchiaia, e non potrei esser stato protagonista di alcun cambiamento volontario, fisico o culturale. Il cambiamento si innesta sempre su alcuni fondamentali elementi di “durezza”, un po' come la scalata di una parete rocciosa è possibile solo se esistono solidi punti di appoggio. Chi fluttua, chi è ed insieme non è se stesso non cambia Per cambiare occorre essere in primo luogo uguali a se stessi.

Si possono fare considerazioni simili per la società. Certo, la società non è un super individuo di cui i singoli siano parti subordinate. Tizio, Caio e Sempronio non sono nella società qualcosa di paragonabile a ciò che cuore o polmoni sono nell'organismo umano. La società è un aggregato di individui e non ha quindi una unitarietà paragonabile a quella dei singoli. Ha però la sua unitarietà. La società è un aggregato, ma ogni aggregato per essere tale deve avere qualcosa che lo unifichi e gli dia forma. Senza un qualche collante gli aggregati si disperdono, allo stesso modo le società esistono, e continuano ad esistere, finché gli individui che le compongono sono in tenuti insieme da qualcosa. Le leggi innanzitutto, e dietro alle leggi le istituzioni, e chi le leggi le crea e le fa osservare. E, ancora più indietro, alcuni valori, idee, interessi largamente condivisi. Se la stragrande maggioranza dei membri di una società fosse convinta che è giusto scippare una vecchietta nessuna legge potrebbe proteggere le vecchiette dagli scippi, non ci sarebbe neppure chi arresta o condanna gli scippatori. Ed oltre a leggi ed istituzioni, idee, valori ed interessi ci sono i legami territoriali, linguistici, storici e culturali.
Nelle società libere e pluraliste dell'occidente ogni individuo vale e conta come individuo, ma non è una monade isolata. E' una sostanza unitaria che vive dentro una rete di relazioni sociali e culturali, si riconosce in certe tradizioni e certi valori, ha interessi che leggi ed istituzioni difendono e garantiscono. Se si sfalda questa solida rete di relazioni la società cessa di esistere e gli individui diventano degli sradicati privi di identità. La fine del vincolo sociale degrada il singolo a triste caricatura di se stesso.

Ordine o evanescenza

Le società, e con loro le culture e le civiltà, non hanno la stessa “durezza” sostanziale degli individui, non sono in alcun modo paragonabili ad organismi. Nazioni, classi sociali, etnie, culture, civiltà non sono super persone, ma non sono neppure aggregati fluttuanti, privi di collante e di identità.
Le società libere, aperte e pluraliste dell'occidente sono invece state fatte spesso oggetto di accuse di tal fatta. La società libera sarebbe un mero fluttuare privo di valori unificanti, un aggregato accidentale di individui sradicati.
E' interessante notare che se simili accuse fossero fondate le società libere e pluraliste non sarebbero più o meno difettose e meritevoli di critica, sarebbero semplicemente
impossibili. Una società priva di collante semplicemente non può esistere come società. I casi sono due: o le società pluraliste esistono, ed allora di tutto le si potrà accusare meno che di non costituire una forma di aggregazione relativamente stabile fra gli individui, o non hanno alcuna forma di aggregazione ed allora non possono esistere ed è insensato sottoporle a critica. Del resto, nessuno dei filosofi liberali si è mai sognato di sostenere che la società libera sia in quanto tale disgregata. I liberali sono stati prima sostenitori della monarchia costituzionale, poi la maggior parte loro di loro ha accettato la democrazia politica. Il principio della autodecisione delle nazioni è stato sostenuto con forza da molti grandi del liberalismo. Per restare solo allivello della analisi economica, i teorici del liberalismo e dello stesso liberismo economico non hanno mai considerato il mercato come un caos privo di centro unificante. La “mano invisibile” di Smith è appunto un potente centro di unificazione di quel caos, apparente, che sembra essere il mercato. Hayek ha contrapposto il “cosmos” alla “taxis”, l'ordine spontaneo alle regole stabilite centralmente, Proprio per questo non si è mai neppure sognato di teorizzare un mercato senza ordine.

Eppure da un po' di anni a questa parte le moderne democrazie liberali stanno assumendo aspetti che sembrano confermare le peggiori critiche dei nemici del pluralismo liberale. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Le moderne società liberali, più in generale la grande civiltà occidentale stanno subendo un processo di degenerazione verso quella che si può definire la
società gassosa. Una società priva di centro unificante, evanescente, mero aggregato di individui sradicati. Ed insieme ad una tale degenerazione della civiltà occidentale assistiamo al crescere di teorizzazioni su quello che dovrebbe essere l'uomo nuovo occidentale: un individuo senza di radici culturali, identità, sesso, valori. Una piuma sbattuta qua e la dal vento di mode effimere e di effimeri desideri. Un nulla in forma umane.
E' bene chiarire subito una cosa: una simile distopia
non può realizzarsi. La società disgregata non può esistere. L'affermarsi della disgregazione segnerebbe non la nascita di qualcosa ma solo la morte della nostra cultura e con questa delle nostre società. Né può davvero affermarsi l'uomo piuma. Ci piaccia o meno ognuno di noi ha la sua identità, il suo carattere, il suo sesso, la sua cultura. Possono però affermarsi e diffondersi a livello di massa i comportamenti, le idee, i valori dell'uomo piuma. E' un processo da tempo in atto nel decadente occidente dei giorni nostri, segno del nichilismo che ci sta divorando.

La società gassosa

A volte piccoli episodi costituiscono l'indice di grandi, profondi sconvolgimenti sociali.
Il 31 Ottobre 2020 è morto Sean Connery, a mio parere l'unico, il vero James Bond.
Tutti abbiamo presente che tipo fosse l'agente 007. Forte, coraggioso, donnaiolo, un po' maschilista, ma in maniera autoironica, simpatica. Poteva piacere non piacere, per lo più piaceva, alle donne più che agli uomini, ma in ogni caso James Bond era quel tipo lì. Protagonista di avventure dense di pericoli, conquistatore irresistibile di fantastiche fanciulle, amante del vodka Martini “agitato, non shakerato”.
Di recente è stato annunciato che sta per uscire un nuovo film (l'ennesimo) della serie James Bond. Solo che stavolta l'agente 007 sarà una donna, una bella ragazza di colore.
Sembra una notizia di poco conto, qualcosa che può riguardare al massimo i pettegolezzi, invece è sintomo dello stato attuale dell'occidente. I ruoli non esistono più. Non nel senso che non sono chiusi, predeterminati per sempre. Nel senso ben diverso che ognuno può ricoprire qualsiasi ruolo perché nessuno ha più una identità. Ognuno può essere se stesso e l'altro da se stesso; uno, nessuno e centomila.
James Bond cambia sesso e diventa donna. Domani potrebbe diventare gay, o disabile. Potremmo avere un Bond astemio o fanatico delle diete vegane, un Bond non violento che porge l'altra guancia ai cattivoni della Spectre. Avevamo un Bond al servizio di Sua Maestà britannica, potremmo avere un Bond nigeriano, russo o neozelandese. L'uomo piuma può essere tutto o il contrario di tutto, o nessuno.

Qualsiasi società è caratterizzata dalla esistenza di ruoli. Ciò che differenzia le società libere e pluraliste non è la mancanza di ruoli ma le modalità con cui è possibile accedervi. Chiunque, almeno sulla carta, può diventare presidente della repubblica, o primario in un grande ospedale, o campione sportivo, ma questo non vuol dire che chiunque può essere oggi presidente della repubblica e domani centravanti di sfondamento. Si è liberi di accedere al tal ruolo ma vi si accede o meno a partire da ciò che si è. Chi è deboluccio in matematica non diventerà mai nobel per la fisica, un tipino gracile che pesa 50 chili non può sfidare il campione del mondo dei massimi, ancora meno può misurarsi con lui una ragazzina che di chili ne pesa 40. Ed ancora, alcuni ruoli sono aperti a tutti, altri no perché legati ad ineliminabili caratteristiche naturali. Un maschio non potrà mai partorire, se lo facesse cesserebbe di essere maschio. E' difficile che una donna gravida possa lavorare in miniera. Ogni essere umano ha la stessa dignità di tutti gli altri, gli stessi diritti e gli stessi doveri fondamentali. Ma da questo non segue che tutti possano ricoprire tutti i ruoli.
Eppure proprio questo accade nell'occidente politicamente corretto di oggi. Si confonde la libertà nell'accesso ai ruoli con l'inesistenza dei ruoli stessi e con l'assenza di ogni vincolo, di qualsiasi genere, a tale accesso. La mobilità relativa e controllata delle società libera si trasforma in una assoluta mobilità, meglio in una totale evanescenza.

Nella società gassosa non esistono i sessi, quanto meno, i sessi sono privi di qualsiasi spessore ontologico. Il sesso cessa di essere un elemento essenziale della identità personale, diventa qualcosa di secondario, non rilevante. Si stacca dal processo di riproduzione della specie e degrada a mero strumento di piacere, privo di rilevanza sociale. Da sempre la differenza sessuale è qualcosa di intimamente legato alla
natura di ognuno di noi, nella società gassosa invece il sesso diventa “costrutto sociale”, addirittura optional. Il sesso non è più un dato originario ma una scelta, una delle tante, come è una scelta comprare al supermercato carne o pesce, frutta o verdura. Non a caso non lo si chiama neppure col suo nome. “Sesso” si appresta a diventare una delle tante parole proibite della neolingua politicamente corretta. Non si parla più di sesso ma di “genere”. Meno che mai si parla di padri e di madri, sono stati sostituiti dai genitori uno e due (perché non tre, quattro o cinque? Mistero).
Tutto questo, dovrebbe essere chiaro, non ha nulla a che vedere con la tutela dei diritti degli omosessuali. Gli omosessuali hanno una identità sessuale esattamente come gli eterosessuali ed hanno diritto di viverla senza subire costrizioni. I teorici della società gassosa non intendono tutelare i diritti delle identità sessuali, negano l'esistenza di tali identità. Non difendono gli omosessuali, teorizzano che si può essere omosessuali e nel contempo padri e madri. Volatilizzano il sesso, cosa che non ha nulla a che vedere con la tutela di alcun diritto.

Per i teorici della società gassosa non esistono nazioni, culture, civiltà. Il mondo dovrebbe diventare gassoso a sua volta. Una enorme area grigia, priva di confini, in cui tutti possono muoversi a loro piacimento, senza vincoli o controlli. I parlamenti dei vari stati nazionali, eletti dai popoli, dovrebbero cedere il potere a grandi organizzazioni burocratiche sovranazionali, non elette da nessuno ma in grado di gestire la mistura planetaria. Il mondo gassoso che tanti sognano non sarebbe in effetti altro che un enorme cocktail culturale, indistinto impasto in cui tutti perdono le loro caratteristiche essenziali.
Val la pena di sottolineare che una simile mistura non ha nulla a che vedere con gli scambi interculturali, il dialogo ed il confronto fra nazioni, culture e civiltà. Ci si può confrontare, e nel confronto anche modificarsi ordinatamente a vicenda, se si conserva la propria unitarietà. Dialogare vuol dire relazionare identità diverse, non abolire le identità. Confrontare la morale kantiana con l'etica aristotelica non vuol dire trasformare la
critica della ragion pratica e l'etica nicomachea in un indistinto collage. Una simile operazione non farebbe altro che distruggere entrambe queste grandi opere, eliminare alla radice ogni possibilità di confronto. Per gustare la bellezza di una cattedrale gotica e di un tempio buddista devo inserire entrambi in un contesto armonioso. Si mettano l'uno accanto all'altra il tempio buddista e la cattedrale gotica, si aggiunga, per completare l'opera, un bel centro commerciale e si ha un solo risultato: la fine della bellezza.

E' inutile continuare nelle esemplificazioni. La società gassosa non relaziona, mischia, non stimola cambiamenti positivi, giustappone disordinatamente tutto a tutto ed in questo modo tutto distrugge. E' una società nichilista;
la società gassosa altro non è che la forma specifica che assume oggi il nichilismo.
La caratteristica fondamentale di tale nichilismo è la
non differenza. Non differenza, lo abbiamo visto, fra i sessi, gli stati, le nazioni, le civiltà. Non differenza fra salute e malattia: la disabilità cessa di essere un dramma e diventa ipocritamente “diversa abilità”. Una ben strana “diversa abilità”, visto che chi può camminare con le proprie gambe non cambierebbe mai il suo stato con quello di chi è inchiodato su una sedia a rotelle. Non differenza fra i vari livelli di istruzione e competenza: l'opinione di tutti è sullo stesso piano, su qualsiasi argomento. Non differenza fra uomini ed animali: tutti abbiamo lo stesso status etico, dall'uomo al lombrico. Alcuni vanno ancora oltre e parlano di pari diritti fra tutti gli enti del pianeta. Uomini, ratti, abeti, mari e monti godono tutti degli stessi diritti fondamentali. Pura follia che nulla ha a che vedere con la cura dell'ambiente, l'ammirazione per il mondo animale e l'affetto che possiamo provare per alcuni animali. Pura follia, però, coerente con i presupposti di partenza. In effetti se si aboliscono le differenze, se tutto viene messo sullo stesso piano ontologico tutti abbiamo lo stesso status etico.
Non differenza infine fra vero e falso, passato e futuro. Se tutto è evanescenza, come possono esistere verità e menzogna? E possono avere un passato uomini privi di identità, radici, tradizioni? La società gassosa distrugge il passato, ma il passato di ieri è il futuro di domani. Distruggere il passato rende impossibile il futuro. La società gassosa vive in un eterno presente. Un presente eternamente evanescente che non viene da nulla e non tende che al nulla. Il nichilismo perfetto.

L'aporia della società gassosa

E' già stato detto: la società gassosa è impossibile. Si tratta di una impossibilità insieme empirica e logica. In natura i liquidi hanno bisogno di un recipiente solido per non disperdersi. A maggior ragione questo vale per i gas: senza una forza coesiva che ne tenga insieme le molecole queste si disperdono all'infinito. Società gassosa è in realtà un ossimoro: una società non può essere gassosa per il semplice motivo che se è davvero gassosa, priva di coesione, una società muore. Non a caso si è detto che la società gassosa è una forma di nichilismo, quello più diffuso ai nostri giorni. Per essere precisi, più che di società gassosa occorre parlare di deriva dell'occidente verso la società gassosa, cioè verso la non società, il nulla sociale. Deriva che purtroppo avanza rapidamente nei tempi tempestosi che stiamo vivendo.

Non è allora un caso se i sostenitori ed i teorici della società gassosa (che evitano accuratamente di usare questo nome) cadano nella loro azione e nelle loro teorizzazioni in continue contraddizioni.
I sostenitori della società gassosa amano presentarsi come persone sommamente tolleranti, aperte al dialogo ed al confronto, piene di comprensione verso tutto e tutti. Loro amano, non odiano, ed in effetti la loro capacità di amare è straordinaria. Mostrano comprensione addirittura nei confronti dei terroristi islamici. “Non avrete il nostro odio” strillano con dolce aria di sfida ogni volta che qualche fanatico assassino sgozza, in nome di Dio, qualche essere umano. Però le cose cambiano radicalmente non appena i politicamente corretti amici della assoluta fluidità sociale si trovano a misurarsi con chi politicamente corretto non è. I dolci angioletti si trasformano in questi casi in autentiche belve. Chi osa dubitare della loro melassa viene immediatamente etichettato come “razzista”, “fascista”, “omofobo”, “sessista”. Si cerca con tutti i mezzi di ridurre al silenzio il reprobo. L'uso di una parola proibita potrebbe costargli la perdita del posto di lavoro, addirittura il carcere. La comprensione, addirittura l'amore verso i tagliagole islamici si trasforma in condanna ed odio implacabile nei confronti di chi non prova simili sentimenti di amore e comprensione. La società gassosa diventa improvvisamente dura come l'acciaio. Coloro che negano la validità del concetto stesso di verità strillano contro le “fake news” dei supposti “sovranisti. Gli stessi che manifestano contro i muri vorrebbero sbattere tutti i reprobi entro le solide mura di un carcere. Qualcuno va anche oltre, e sogna le ghigliottine di Robespierre o i plotoni di esecuzione di Stalin. Gli angioletti a volte diventano cattivelli...

La contraddizione cui abbiamo fatto cenno non è tuttavia la principale in cui incorrono i teorici della società gassosa. Si tratta di qualcosa che riguarda il loro rapporto con gli “altri”, quelli che la società gassosa non la vogliono. Esiste però un'altra contraddizione con cui gli angioletti devono fare i conti, una contraddizione più radicale perché interna alla loro stessa dottrina.
Chi teorizza, senza nominarla, la società gassosa da un lato vuole la fine di ogni differenza, quindi, prima di ogni altra cosa, la fine di culture e civiltà, l'universale mistura di tutto e tutti. D'altro lato questa stessa teorizzazione è parte e prodotto di una civiltà, sia pure in crisi.
Ogni azione umana, teorica o pratica, è sempre interna a qualche tipo di società, cultura o civiltà. La società libera, democratica e pluralista è, appunto, una società. La tolleranza e l'apertura verso l'altro sono caratteristiche di certe civiltà e non di certe altre. Esistono valori che travalicano i limiti della civiltà in cui sono nati e acquisiscono respiro universale, ma, anche in questo travalicare, restano figli di quella civiltà. La filosofia di Aristotele, le tragedie di Shakespeare, le sinfonie di Beethoven hanno una portata universale ma sono interne alla civiltà occidentale.
Chi teorizza la fine di culture e civiltà, processi di migrazione senza limiti, società di individui sradicati non fa altro che teorizzare l'adesione di tutti gli esseri umani, quale che sia la loro cultura di origine, ad un certo modello di civiltà. La teorizzazione della fine delle civiltà non si pone fuori dalle civiltà, non è un punto d'appoggio archimedeo posto fuori dal mondo. E' parte di una civiltà in crisi. Chi la teorizza invita tutti ad aderire a questa crisi, ad unirsi alla deriva verso il nulla dell'occidente malato.

Naturalmente quasi nessuno di coloro che migrano in occidente accetta una simile prospettiva. I migranti hanno la loro identità culturale e non sono affatto disposti a rinunciarvi per far felici i teorici del politicamente corretto. Questi stessi teorici del resto si guardano bene dal chiedere ai nuovi venuti simili rinunce. La società di individui sradicati è qualcosa di “occidentale” (le virgolette non sono casuali) e sarebbe “non inclusivo” chiedere a chi viene dall'Africa o dal medio oriente di aderire a qualcosa che sa di occidente.
Un islamico non accetterà di certo, se e finché resta islamico, il matrimonio gay o il diritto alla blasfemia né sarà disposto a rinunciare alla poligamia e sarebbe “poco inclusivo” pretendere che lo faccia. Come uscire da questo angoscioso dilemma che, attenzione, si pone in paesi come la Francia o la Germania,
dentro l'occidente? Semplice: si accetterà che dentro alle comunità islamiche francesi, o tedesche o italiane valga la sharia. Con somma contraddizione Il teorico della società gassosa diventa propagandista del separatismo. Col risultato che la società di individui sradicati si trasforma in un aggregato di tribù etniche. Nella comunità “occidentale” i sessi non esistono, in quella islamica l'adulterio è un gravissimo reato penale. L'”occidentale” accetta tutti, gli altri possono non accettare nessuno. Nella tribù “occidentale” politicamente corretta ci si potrà prendere gioco del cattolicesimo (non dell'Islam ovviamente), in quella islamica ogni parola men che rispettosa nei confronti del profeta potrà essere punita con la morte. Burka e minigonne, poligamia e coppia aperta, fondamentalismo religioso e irrisione della fede, assoluta fluidità dei ruoli e ruoli ermeticamente chiusi si trovano in questo modo a convivere fianco a fianco. La legge perde la sua universalità, vale solo nei confini di determinate tribù. Oltre quei confini, in altri quartieri della stessa città valgono altre leggi, vigono, spesso obbligatori, altri costumi. L'uomo piuma dell'occidente malato vive a stretto contatto di gomito col fanatico di una religione intollerante. In prospettiva tutto questo non può portare ad altro che a sanguinosi scontri inter etnici. Al nulla della società gassosa si somma il nulla della rinascita del tribalismo. E l'occidente malato entra in coma.

Genesi del mostro

Le società democratiche e pluraliste dell'occidente hanno saputo affrontare e vincere nemici potenti. Hanno sconfitto il nazifascismo ed hanno retto alla sfida del totalitarismo comunista che alla fine è imploso su se stesso. Pluralismo, democrazia, diritti civili, economia di mercato non hanno trasformato l'occidente in un aggregato di società gassose, non hanno distrutto la sua solidità interna. Oggi invece assistiamo in occidente al pauroso tracollo di ogni collante sociale. Come è possibile un fatto simile, il cui unico precedente può essere forse considerato, fatti tutti gli innumerevoli distinguo, la caduta dell'impero romano? E' impossibile fornire in questa sede una risposta soddisfacente ad una simile domanda. I fattori che stanno alla base della crisi dell'odierno occidente sono molti e complessi. Fattori economici, politici, sociali, culturali.
E' fin troppo chiaro che a livello economico la mondializzazione, aspetto fondamentale della società gassosa, è perseguita dai grandi gruppi economici e finanziari più legati alla globalizzazione senza regole, i giganti del web in primo luogo. A livello politico puntano sulla mondializzazione partiti e movimenti che vedono decrescere l'area del consenso e tentano di modificare la base sociale dei propri paesi a puri fini elettorali. Una analisi approfondita di simili fattori va altre i fini di questo lavoro. Non la tento neppure e mi limito ad alcune brevi considerazioni sui fattori culturali della deriva “gassosa” della civiltà occidentale.

Prefigurazioni della società gassosa sono presenti in un po' tutte le fantasie utopiche che hanno percorso la storia del pensiero occidentale. Famosa quella che Marx descrive nella “
ideologia tedesca”:
“Nella società comunista, in cui ciascuno di noi non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così, come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né allevatore né critico” (2).
Com'è noto Marx pretende di fondare la società perfetta comunista sul solido terreno dello sviluppo delle forze produttive sociali. Questo però non diminuisce di un grammo il carattere utopico del suo discorso, dimostra solo che il pensatore di Treviri aveva una visione quasi magica delle forze produttive. Pensava che la pianificazione centralizzata dell'economia avrebbe assicurato l'illimitata abbondanza e che questa sarebbe stata in grado di risolvere tutti i problemi degli esseri umani. Non a caso la storia gli ha dato torto.
Il comunismo ispirato a Marx si è affermato in mezzo mondo. Durante la guerra fredda una parte importante della pubblica opinione dei paesi occidentali si è fatta sedurre dal mito del comunismo realizzato. Ma questo fatto di enorme importanza storica non ha dato origine alla deriva dell'occidente verso la società gassosa. Al contrario, proprio la presenza di un nemico agguerrito ha rafforzato la coesione della maggioranza degli occidentali attorno ai valori fondanti della propria civiltà.

La deriva verso la società gassosa inizia paradossalmente, ma non troppo, con la fine del comunismo. Affamati di assoluto gli orfani della ideologia marxista leninista si mettono alla ricerca di nuove certezze. E sostituiscono alla compatta ideologia di un tempo un cocktail di ideologie in formato ridotto. Mondialismo, terzomondismo, misticismo ecologico, femminismo radicale, ideologia gender... nuovi assoluti si miscelano ed attirano anche quei liberali poco seri che confondono la libertà con la mancanza di qualsiasi idea forte. Ma la cosa più grave, ed importante di tutte è un'altra. Questa mistura di assoluti si fonde alla perfezione con la critica nichilista che il movimento del 68 aveva fatto di ogni valore consolidato e di ogni istituzione. Etica, amor di patria, famiglia, scuola, stato, istituzioni sanitarie, razionalità scientifica erano state fatte oggetto di una critica devastante da parte dei contestatori sessantottini. Ogni valore, ogni istituzione erano stati ridotti ad armi che le “classi dominanti” usavano per conservare il potere.
Questa critica affondava le sue radici nel marxismo ma andava oltre le stesse conclusioni di Marx ed investiva con furia nichilista tutti gli aspetti della civiltà occidentale. Condannava , insieme, il presente ed il passato della nostra civiltà. La nostra storia, e solo quella, era in toto assimilata all'oppressione schiavista, razzista ed imperialista. La stessa condanna riguardava il presente, la politica dei vari stati occidentali, ridotta in toto a mero strumento di dominio, estranea ad ogni considerazione sul bene comune. Non si trattava di sottoporre a critica questo o quell'aspetto della nostra storia e della nostra politica o un uso distorto della scienza, o le inefficienze della scuola. La critica era globale, totalizzante, investiva tutto e nulla salvava.
Non restò confinata entro ristrette elites intellettuali, influenzò settori importanti della pubblica opinione, penetrò largamente nei media ed alimentò un sentimento nuovo, via via sempre più forte:
l'odio dell'occidente verso se stesso. Si tratta di qualcosa probabilmente senza precedenti: nella storia ci sono state civiltà che si sono sfaldate ed entrate in crisi, ma è difficile trovare civiltà che odiano se stesse, rinnegano il proprio passato, si vergognano delle proprie tradizioni. Quest'odio tuttavia è il logico risultato della critica nichilista che ha devastato per anni la cultura occidentale.
L'ondata nichilista non distrusse i valori dell'occidente ma li indebolì radicalmente. E quando, venuto a mancare il nemico, venne meno uno dei fattori di coesione delle società occidentali l'indebolimento del collante sociale causato dall'ondata nichilista, combinato con l'emergere degli assoluti in formato ridotto, iniziò a far sentire i suoi effetti su larga scala. Ed iniziò la deriva verso la società gassosa.
Che dura ancora, e si aggrava. Ogni giorno di più.

Per concludere

Ci tengo a sottolinearlo: non ho nessuna simpatia per le società monolitiche, prive di fluidità. Il monolitismo è la forma specifica del totalitarismo, cioè di quanto di peggio ha prodotto la parte peggiore della civiltà occidentale. Una sciagura che è costata decine e decine di milioni di cadaveri al genere umano.
Le società libere, democratiche e pluraliste sono sempre caratterizzate da una notevole dose di fluidità. Se esistono diversi valori, idee, interessi esiste fluidità, non può essere altrimenti ed è un gran bene che sia così. Ed esiste anche una buona dose di relativismo. In una società libera ognuno vedrà le cose dal suo punto di vista e questo non sempre coincide con quello degli altri. Tanto basta perché il relativismo, un relativismo sano, esista nel corpo sociale. Ed anche di questo ci si deve solo rallegrare.
Il problema quindi non è costituito dalla fluidità o dal relativismo. Si tratta di caratteristiche essenziali delle società pluraliste che sarebbe deleterio cercare di eliminare. Il problema è costituito dalla mancanza o dall'indebolimento grave del collante sociale che impedisce alla fluidità ed al relativismo di diventare disgregazione. La fluidità può esistere, ed è bene che esista, solo in una società non disgregata. Il relativismo può essere riconosciuto come tale solo se non tutto è relativo. Senza alcuni concetti comuni, un linguaggio comprensibile da tutti lo stesso termine “relativismo” non può neppure essere inteso. Senza alcuni valori condivisi ogni discorso sul bene e sul male di ogni cosa, società liquida, solida o gassosa comprese, diventa impossibile. E tutto degrada nel non senso.

Certo, le società libere sono sempre in equilibrio instabile, o non abbastanza stabile. Nelle società libere esistono i collanti ma anche la fluidità, il relativismo ed alcuni valori che sono, o mirano ad essere, universali. L'equilibrio di tutto questo non è mai dato una volta per tutte, si tratta di una conquista da rinnovare giorno dopo giorno, con pazienza. Il grande problema dell'occidente di oggi è che questa conquista diventa ogni giorno più difficile. L'equilibrio sembra sempre più precario. Si tratta di una situazione estremamente pericolosa. Perché se l'equilibrio viene perso non può più essere riconquistato, almeno per molti, drammatici anni.
Nello scorso secolo l'occidente democratico ha perso in più di una occasione il suo equilibrio. E grandi paesi sono caduti negli orrori del totalitarismo, di destra o di sinistra. Oggi viviamo in una situazione di estremo pericolo. La degenerazione gassosa della civiltà occidentale non porterà alla dolce società arcobaleno di cui spesso parlano i media di regime.
Di questo si può essere certi. Potrebbe portare ad una frantumazione tribale senza ritorno delle società libere, o alla affermazione del fondamentalismo islamico, o alla riduzione dei grandi paesi occidentali a satelliti della super potenza cinese. O ancora a guerre, civili o fra stati.

Qualcuno potrebbe dire che il presente scritto pecca di eccessivo pessimismo. Può essere. Personalmente sarei ben felice se la situazione reale dell'occidente fosse meno grigia di quanto può apparire ad un vecchio brontolone. Il dibattito fra ottimisti e pessimisti del resto non può quasi mai arrivare a conclusioni definitive, il futuro è sempre aperto, almeno in una certa misura, difficilmente le situazioni sono senza uscita. Una cosa però è certa: una società priva di coesione non può sopravvivere. Meno che mai può sopravvivere una società che odia se stessa e di se stessa si vergogna. Allora, guardiamo alla situazione dei più importanti paesi dell'occidente e chiediamoci: si tratta di società caratterizzate da un grado appena soddisfacente di coesione interna? E' da pessimisti affermare che paesi come gli Stati Uniti d'America, la Francia, il Belgio, la stessa Italia sono caratterizzati da divisioni interne che poco hanno a che vedere con la normale disputa politica che dovrebbe caratterizzare le democrazie liberali? Si può considerare “americano” un movimento come il BLM che prende esplicitamente di mira tutta la storia degli USA, comprese le lotte del movimento per i diritti civili dei neri? Non credo. E' “normale” la situazione di paesi come la Francia o il Belgio, dove disegnare una vignetta di discutibile gusto può costare la decapitazione? E dove i terroristi vengono ben protetti in certi quartieri delle grandi città? E dove tanti occidentali sono prontissimi a snocciolare per ore argomentazioni pseudo filosofiche per giustificare il terrore?
No. Forse chi scrive esagera portata e dimensioni di simili fenomeni, ma in tutto questo non c'è assolutamente nulla di normale.
L'occidente è malato. Può guarire, certamente. Esistono nelle nostre società le possibilità di una ripresa. Hitler e Stalin sono stati sconfitti, alla fine. Possono esserlo anche gli stupidi adoratori del politicamente corretto, i teorici della società gassosa. Ma per guarire occorre riconoscere la gravità della malattia. Le facilonerie non servono a nulla. Se un po' di pessimismo razionale serve a meglio identificare il male, ben venga questo pessimismo.
E tanto basta.


note

1) Aristotele, Metafisica. Laterza 1988 pag. 97 98.
2) K. Marx F . Engels: L’ideologia tedesca. Editori riuniti 1972 pag. 24.

 

giovedì 8 ottobre 2020

ENCICLICA O MANIFESTO POLITICO - IDEOLOGICO?

 LA BATTAGLIA DI BERGOGLIO CONTRO L'ITALIA E PER L'ISLAM - Lo StranieroLo  Straniero

A modestissimo parere di chi scrive l'ultima enciclica di Jorge Mario Bergoglio, “fratelli tutti” non passerà alla storia come un documento di particolare profondità teorica. Neppure come un documento particolarmente nuovo. In questa enciclica Bergoglio non fa altro che ripetere cose già dette e ridette infinite di volte e già oggetto di discussioni e polemiche.

Parlando di economia Bergoglio fa la strabiliante scoperta che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”.
Nessuno in realtà ha mai considerato “assoluto” il diritto di proprietà e questo per il semplice, banale motivo che la proprietà è, appunto, un diritto ed ogni diritto si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano, quindi non è assoluto. Quanto alla alla “funzione sociale” della proprietà privata si può solo dire che questa è un fatto sociale ed ha quindi una evidente funzione sociale. I rapporti di compra vendita sono rapporti sociali, come sociali sono i modi di acquisizione, cessione e godimento della proprietà. In quanto fatto sociale la proprietà influisce sul funzionamento generale della società, sottolinearne la funzione sociale è un po' come sottolineare la funzione sociale delle leggi: una banale ovvietà.
Appurato che la proprietà ha sempre una funzione sociale la vera domanda da farsi è questa: è preferibile una società in cui sia presente quel fatto sociale che è la proprietà privata, ovviamente soggetta a limiti e regole, o una in cui la questa non esista o comunque sia soggetta a limiti che ne rendano di fatto impossibile il godimento?
La storia ha dato ampia risposta a tale quesito. La proprietà privata non solo è esistita in quasi tutte le organizzazioni sociali, ma si è rivelata del tutto compatibile con la massima estensione dei diritti civili e politici e del benessere. Altre esperienze storiche hanno dato esiti ben diversi. La abolizione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione e scambio ha esteso in maniera esponenziale la miseria, a tutti i livelli ed ha privato intere popolazioni di ogni diritto. Lo stato pianificatore è lo stato onnipotente, in grado di dirigere, sin nei minimi dettagli, la vita di milioni e milioni di esseri umani, con esiti catastrofici. Questo dice l'esperienza storica, ma questa è completamente ignorata da Bergoglio; non a caso questi, pur tanto attento ai fatti politici, economici e sociali, non pronuncia quasi mai la parola “comunismo”. Una delle più importanti, e tragiche, esperienze della storia recente (e non solo) non compare quasi mai nelle mielose prediche del pontefice. Non credo sia un caso...

Anche sulle migrazioni Bergoglio non fa che ripetere nella sua ultima enciclica cose dette e ridette. Tutti gli esseri umani sono figli di Dio, tutti hanno uguale dignità morale, quindi abbiamo il dovere etico di accogliere tutti, e non solo di accogliere. Dobbiamo garantire alle persone che accogliamo una vita dignitosa, dar loro un lavoro eccetera.
Bergoglio non deve essere troppo bravo in logica, infatti compie spesso l'errore di derivare da premesse anche condivisibili conclusioni che con queste hanno poche relazioni.
E' vero che tutti gli esseri umani hanno pari dignità, ma da questo NON deriva che esista un obbligo morale di accoglienza generalizzata. Io riconosco senza esitazioni che Tizio ha la mia stessa dignità ed i miei stessi diritti, ma da questo non discende che io ho l'obbligo morale di accoglierlo in casa mia e di mantenerlo, meno che mai che ho l'obbligo di accogliere e mantenere, oltre a lui, sua moglie ed i suoi figli, parenti ed amici. Ed ancora, in certe situazioni io ho l'obbligo morale di aiutare i miei simili, ma questo non può estendersi a tutte le situazioni, non può fondare diritti e doveri generalizzati. Se per strada mi imbatto in un ferito che invoca aiuto ho il dovere morale, ed anche giuridico, di fermarmi, cercare di aiutarlo, chiamare aiuto, se posso un'ambulanza. Ma non ho il dovere di accogliere il ferito in casa mia e di mantenerlo vita natural durante. Ciò che è moralmente doveroso in certe situazioni, nei riguardi di alcuni, non lo è sempre e nei riguardi di tutti. Nella sua enciclica Bergoglio ricorda la parabola del buon samaritano. Ma il buon samaritano aiuta un uomo aggredito, picchiato e lasciato nudo in mezzo alla strada da un gruppo di briganti. Non accoglie mezzo mondo in casa sua.
Del resto, è forse generalizzabile questo presunto dovere di accoglienza illimitata? La possibilità di generalizzazione è centrale, come si sa, nell'etica kantiana, ma è più o meno presente in tutte le varie concezioni della morale. Io ho il diritto al rispetto ma anche il dovere di rispettare gli altri; più o meno tutte le etiche vietano l'auto esenzione. Il presunto diritto di essere accolti può essere generalizzato? Con tutta evidenza NO. Se io ho il dovere di accogliere Tizio questi ha il dovere di accogliere me, al suo diritto di essere accolto da me io posso con giusta ragione contrapporre il mio di essere accolto da lui: la generalizzazione è impossibile. Il dovere di aiutare gli altri esiste, ma non è un dovere primario, al contrario può valere se e solo e solo se ognuno intanto aiuta se stesso, fa tutto ciò che è possibile fare per rendersi autosufficiente.

Parlando dei migranti Bergoglio finge una apertura nei confronti di papa Benedetto XVI. Questi aveva a suo tempo affermato che bisognerebbe favorire lo sviluppo economico dei paesi poveri onde poter garantire il diritto a “non emigrare” piuttosto che a “migrare”.
Nella sua enciclica Bergoglio afferma:
l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità”. Sembra una apertura nei confronti di quanto detto a suo tempo da papa Benedetto. Ma l'apertura viene non a caso immediatamente chiusa. Subito dopo Bergoglio aggiunge infatti: “Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona”.
Altro che favorire lo sviluppo nei paesi di origine! Questo riguarda un futuro assolutamente indeterminato. Per intanto va affermato un diritto universale di andare ovunque, senza riguardo alcuno per confini, frontiere, differenze culturali, e non si deve sottoporre a limitazione alcuna questo presunto “diritto” sino a quando non si raggiungano ovunque determinati livelli di sviluppo economico, umano e sociale. Insomma, sino a quando, per fare un esempio a caso, il Sudan non avrà un livello di sviluppo economico, umano e sociale pari a quello della Svizzera ogni sudanese avrà il diritto di trasferirsi in Svizzera o dove gli pare. Bergoglio non è attraversato dal sospetto che in questo modo si impoveriscono, insieme, la Svizzera ed il Sudan. E neppure è scosso dal pensiero che il famoso “dialogo interculturale”, cui dedica molte zuccherose pagine, diventa, proprio in questo modo,
impossibile. Perché non è possibile dialogo vero quando interi popoli si trasferiscono in paesi stranieri. Di nuovo, la storia ci da esempi a iosa. Le migrazioni di popoli, quali che possano essere state le loro conseguenze positive, hanno sempre portato alla scomparsa di alcune culture. Scomparsa, non dialogo, non integrazione. Nessuna omelia mielosa può cancellare questo dato di fatto.

La parte più importante della lettera enciclica di Bergoglio è però, a mio modesto parere, quella dedicata al dialogo inter religioso ed al terrorismo.
Con tutto il rispetto le parole che Bergoglio dedica al terrorismo mi ricordano un tale che si diceva convintissimo che i leoni siano erbivori.
“I leoni sono erbivori” dice costui ad un suo caro amico.
“Ma” risponde questi, “guarda la quel leone: sta sbranando una zebra, non mi sembra sia erbivoro”.
“Sta sbranando una zebra? Allora non è un vero leone”.

Bergoglio segue un procedimento simile parlando del terrorismo. Inizia infatti dicendo che
Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società”. Ed ancora: “Nell'incontro, che ricordo con gioia, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue”
Le religioni,
tutte le religioni sono per la giustizia e la fraternità: uniscono, non dividono gli esseri umani. Niente estremismo, niente sangue, niente odio. Le religioni, tutte le religioni sono sempre e solo amore. Che bello!
Su cosa si basa questa visione irenica delle religioni? Non su una analisi dei testi sacri, in cui spesso abbondano brani niente affatto pacifici, né, tanto meno, sulla storia o l'esperienza empirica. Si tratta di affermazioni apodittiche: è così perché io dico che è così, punto.
Detto per inciso, il grande Iman Ahmad Al Tayyeb ruppe nel 2011 le relazioni con la Santa sede e papa Benedetto sedicesimo. Quale la causa? Papa Benedetto aveva protestato per le persecuzioni e gli assassinii che in Egitto dovevano subire i cristiani Copti. Il grande Iman tanto caro a Bergoglio aveva seccamente risposto al Vescovo di Roma di non intromettersi negli affari interni dell'Egitto. Inezie...
Ma se tutte l e religioni sono sempre e solo amore, come mai il terrorismo? E, si potrebbe aggiungere, come mai secoli di sanguinose guerre di religione, sia fra che all'interno delle varie fedi? La risposta di Bergoglio è di estrema semplicità:
“Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni”.
Insomma, le religioni sono sempre per la pace, se non lo sono si tratta di religioni male interpretate. Un po' come il leone che se mangia la zebra non è un “vero“ leone...
“il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, (…) non è dovuto alla religione (…) ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia.... “ Insomma, oltre che alle “scorrette interpretazioni” il terrorismo è
addebitabile a noi, è colpa degli occidentali, che sguazzano nel “consumismo” e sono colpevoli di provocare fame, povertà e ingiustizia. Le azioni dei terroristi non c'entrano con la religione (cioè, per uscire da ogni equivoco ed essere chiari, con l'Islam). Si tratta di “crimini internazionali” e basta.

Usando le tecniche argomentative di Bergoglio si potrebbe facilmente assolvere qualsiasi filosofia politica da tutti i suoi peccati.
I nazisti gasavano gli ebrei, ma non si trattava di “veri” nazisti. Il nazismo autentico non era antisemita, meno che mai criminale. Hitler avrebbe “deformato” la dottrina nazista (in gran parte opera sua...) e in questo sarebbe stato aiutato dai plutocrati delle democrazie occidentali. Discorsi analoghi si potrebbero fare sul comunismo di Stalin, Mao e Pol Pot cui, a dire il vero, Bergoglio non presta attenzione alcuna: è troppo impegnato a criticare i crimini del “consumismo”. In ogni caso, usando il metodo interpretativo di Bergoglio il comunismo “vero” sarebbe una dottrina trasudante amore. E le numeroso decine di milioni di morti che questa “amorosa” dottrina ha causato? Sono causate da “erronee interpretazioni” e dalla “cattiveria” del capitalismo consumista. Facile vero?
Si,
troppo facile. Perché ogni dottrina va esaminata non solo tenendo conto dei fini ultimi che dice di voler perseguire, ma della visione generale in cui questi (apparentemente) nobili fini sono inseriti. Nella visione marxista del modo, ad esempio, la radicale trasfigurazione dell'uomo sarebbe il risultato necessario della guerra di classe con la conseguente eliminazione delle classi “possidenti” e dell'edificazione di uno stato che controlli tutte le attività umane. Questo, una volta messo in atto, ha inevitabilmente prodotto non la utopica, sovrumana, “trasfigurazione” dell'uomo ma una delle più mostruose macchine repressive di ogni tempo, e montagne di cadaveri. Non si tratta di una caso.
E ogni dottrina va esaminata anche per la
storia che le sta alle spalle. Non si può separare una dottrina politica, o una religione, dalla sua storia. A volte la storia di una religione può entrare in contrasto con i suoi propositi originari, ma, appunto, si tratta di un contrasto che nasce della storia , dallo sviluppo interno di quella religione, non di qualcosa ad essa estraneo. I tribunali della santa inquisizione, il rogo a Giordano Bruno ed il processo di Galileo fanno parte della storia e della tradizione del cattolicesimo, come fanno parte della storia e della tradizione del cristianesimo gli scismi e le guerre di religione. Non li si può definire semplici “atti criminali”. Il cardinale Roberto Ballarmino faceva parte del Sant'uffizio che giudicò e condannò al rogo Giordano Bruno e costrinse all'abiura Galileo Galilei. E' sensato dire che quei processi non riguardano il cattolicesimo? Li si può considerare semplici “atti di criminalità”? Non scherziamo. Del resto il cardinale Ballarmino è stato proclamato santo e dottore della Chiesa e lo è tutt'ora...

Lo sanno tutti: il Corano abbonda di esortazioni alla guerra contro gli “infedeli”; basterebbe questo a rendere del tutto erronea la affermazione papale secondo cui tutte le religioni sono sempre e solo portatrici di pace. A parte questo resta il fatto, fondamentale, che nessuna religione, come nessuna teoria politica, può essere giudicata senza tener conto della sua storia. La violenza è presente anche nella storia del cristianesimo, e sarebbe del tutto fuori luogo volerla considerare solo come il frutto di “erronee interpretazioni”. Tra l'altro giudicare una certa interpretazione più o meno “erronea” dipende dai tempi. Ai tempi di Giordano Bruno pochi o nessuno giudicavano “erronee” le posizioni del cardinale Ballarmino, fra pochi anni molti, forse, potrebbero giudicare “erronee” le teorie esposte da Bergoglio nelle sue encicliche. C'è chi già oggi le giudica tali.
Il cristianesimo però ha saputo faticosamente lasciarsi alle spalle gli aspetti meno difendibili della sua storia. Oggi condanna roghi e persecuzioni degli eretici ed accetta i principi fondamentali della modernità. Molti sostengono che così facendo il cristianesimo sia tornato ai suoi principi più autentici. Può essere vero, ma non si tratta di un fatto fondamentale. Ad essere davvero importante è la positiva evoluzione storica del cristianesimo, costituisca o non costituisca questa un ritorno ai "principi originari".
L'Islam non ha saputo fare altrettanto. L'Islam di oggi non accetta il principio della laicità dello stato, non distingue fra peccato e reato, pone limiti rigorosissimi alla libertà di coscienza e di pensiero. Per questo nell'Islam odierno adulterio e apostasia, per fare solo due esempi, sono reati spesso punibili con la morte, o con orribili pene corporali.
Tutto questo nella enciclica di Bergoglio semplicemente scompare. Resta un irenismo tanto utopico quanto mieloso e una gran quantità di affermazioni apodittiche su una presunta natura sempre tollerante e pacifica di ogni fede (e, soprattutto, dell'Islam).
Un simile irenismo toglie inoltre a chi crede ogni motivazione. Per Bergoglio tutte le religioni sono più o meno sullo stesso piano. Dio ama tutti, cattolici e musulmani, credenti e non credenti, le varie religioni positive altro non sono che diverse vie per avvicinarsi al Dio di tutti. Ma, se le cose stanno così, perché credere nel Dio del cristianesimo? Perché credere che Cristo non sia un semplice profeta ma insieme vero Dio e vero uomo? Perché credere nei dogmi della trinità e della incarnazione, nella necessità della grazia? Il Dio di Bergoglio, che in realtà di Dio parla pochissimo, assomiglia molto al Dio dei deisti dell'illuminismo: un essere supremo estraneo ad ogni forma di rivelazione. Nulla di male, intendiamoci, in una simile fede, solo... questa è compatibile con l'esistenza di un papa? C'è da dubitarne.

Non è il caso di continuare. Tutta la lettera enciclica è caratterizzata da una ostilità profonda verso i valori fondamentali della civiltà occidentale. Autonomia individuale e libertà personali, benessere, mercato e denaro sono guardati nel migliore dei casi con sospetto, nel peggiore con avversione quasi rancorosa. La storia dell'occidente è ridotta a sfruttamento colonialistico, oppressione dei popoli e distruzione dell'ambiente, l'epidemia di covid addebitata al mercato, come se non fosse nata in un paese in cui uno degli ultimi partiti comunisti del mondo governa col pugno di ferro. Il rancore anti occidentale che caratterizza tutta l'enciclica è talmente forte da fare emergere nel testo autentiche contraddizioni logiche. Nella “
fratelli tutti” si condanna di continuo il “consumismo”, ma si lanciano invettive contro la povertà, come se superare la povertà non significasse aumentare, e di molto, i detestati consumi. Ed ancora, nella parte dell'enciclica dedicata alle migrazioni si parla da un lato della necessità di preservare radici e culture dei popoli e si sostiene dall'altro il “diritto” alle migrazioni senza limiti e controlli, come se simili migrazioni incontrollate non distruggessero culture e radici. Bergoglio forse non coglie quest'ultima contraddizione perché le migrazioni incontrollate minano soprattutto la cultura occidentale, e questa non gode delle papali simpatie...
La “
fratelli tuttinon è in realtà una enciclica. Non a caso non affronta alcun tema teologico, non dedica una parola a Dio ed alla trascendenza. “Fratelli tutti “ è un manifesto politico, meglio, un manifesto ideologico, una difesa senza se e senza ma della nuova, grande, utopia ideologica dei nostri giorni: il mondialismo.
L'ideologia ama solo le sue astrazioni, non il mondo reale. E se il mondo reale differisce dalle astrazioni ideologiche queste sostituiscono quello.
Esattamente questo fa la “
fratelli tutti”. Bergoglio semplicemente sostituisce la sua ideologia al mondo. Parla di religioni tutte e sempre portatrici di pace e cancella dal mondo il fondamentalismo islamico e il terrorismo fondamentalista. Elimina dal mondo le persecuzioni dei cristiani, le adultere lapidate o frustate, gli apostati decapitati, i gay impiccati, i liberi pensatori condannati a morte o a lunghissime pene detentive e sostituisce a tutto questo la melassa di un presunto amore universale. Elimina dal mondo l'esperienza del comunismo che è costata molte decime di milioni di morti al genere umano e riserva le sue invettive al “consumismo capitalista”. Non vede il degrado derivante dai processi migratori incontrollati, l'involuzione che sta trasformando grandi paesi occidentali in meri aggregati tribali, il perfetto contrario della integrazione, e sostituisce a questo squallore l'ideologia irenica di una armoniosa e generalizzata integrazione.
O il mondo si adegua all'ideologia o vada al diavolo. Così ragionano tutti coloro che di ideologia sono malati.
Purtroppo questo modo di non pensare è arrivato sino al soglio di Pietro. Una tragedia per la cristianità. E per l'occidente tutto.

sabato 19 settembre 2020

L'OSPITE INDESIDERATO

 Arthur Schopenhauer - La vera sapienza è qualcosa di intuitivo, non  qualcosa di astratto

Tutte le forme di relativismo, di scetticismo e, in genere, tutte le filosofie che riducono il mondo empirico al soggetto cercano di tenere lontano da loro un ospite che, chissà perché, viene considerato impresentabile. Lo tengono lontano più che altro ignorandolo, se sono costrette a parlarne lo fanno solo per dire che questo personaggio non ha nulla a che fare con loro, un po' come si fa in certe ricche famiglie con i parenti poveri di cui ci si vergogna. Eppure si tratta di un personaggio che ha la sua dignità ed è da sempre presente nel dibattito filosofico. Il suo nome è solipsismo.
Il solipsismo nega l'esistenza di ogni realtà esterna al soggetto, compresa l'esistenza di altri esseri senzienti e pensanti. Noi non vediamo mai le cose, e neppure le persone, vediamo sempre solo le nostre rappresentazioni delle cose e delle persone. Tutto ciò che ci sembra oggettivo, fuori di noi, è in realtà in noi, nella nostra mente o nei nostri organi di senso. Le “cose” e le “persone” (non sono casuali le virgolette) sono in realtà sensazioni, o rappresentazioni nel soggetto.
Sono chiaramente solipsistiche le considerazioni scettiche di Cartesio. Tutto è nel soggetto ma, attenzione, il soggetto autentico, l'unico della cui esistenza posso essere indubitabilmente certo, sono IO. Gli altri esseri umani sono infatti esterni a me esattamente come alberi, fiumi e monti. Io non vedo Tizio come Tizio è in realtà è: lo vedo nei miei occhi, sento nelle mie orecchie ciò che lui dice, lo tocco, sento il suo odore. Esattamente come un sasso Tizio è solo un insieme di rappresentazioni in me. “Penso, dunque esisto” questa è per Cartesio l'unica certezza originaria, la base su cui costruire tutto l'edificio del sapere. Cartesio non è un teorico del solipsismo. Parte dal “cogito” per costruire una concezione del mondo in cui l'esistenza della realtà esterna e, a maggior ragione, degli altri soggetti, non possa più essere messa in dubbio. La certezza granitica su cui tutto si fonda è però di tipo chiaramente solipsistico: “Penso, esisto”, appunto... IO penso, IO esisto.

Non è mia intenzione esaminare le varie forme di solipsismo che hanno fatto da sempre capolino nella storia del pensiero. Si tratta di una impresa assolutamente superiore alle mie forze. Quello che mi interessa sottolineare è che molti pensatori le cui posizioni hanno, se coerentemente sviluppate, conseguenze solipsistiche si sono sempre tirati indietro di fronte a queste. La cosa non deve stupire in fondo. Il solipsismo appare talmente assurdo al senso comune che anche quei filosofi che col senso comune non vogliono averci nulla a che fare non possono non sentirsi in imbarazzo accanto ad un compagno di strada tanto strano. Che il mondo, e col mondo gli altri esseri umani, non esistano, che io sia l'unico essere pensante e senziente al mondo, che tutto sia rappresentazione in me è difficile da sostenere, anche da parte di chi quasi trova un sottile, perverso, piacere nello stupire la gente. Sopratutto le tesi solipsistiche sono contraddette in ogni momento dal concreto agire degli esseri umani, compresi quegli strani esseri umani che sono i filosofi. Il professore di filosofia che sostiene che “tutto è rappresentazione in me”, polemizza con Tizio, parla con Caio, legge le opere di Sempronio. Ed inoltre fa tante altre cosette. Si alza la mattina e si reca all'università dove spiega ai suoi studenti che il mondo è solo “rappresentazione in me”, si... ma in quale “me”? Nel “me” del professore che parla? O in quello degli studenti che ascoltano? Non viene specificato. Finita la lezione il solipsista va a a pranzo con amici, poi entra in un negozio e compra una camicia, la sera si incontra con la fidanzata e magari, se la serata è quella giusta, fa con lei un po' di sesso. E' la vita, prima delle confutazioni teoriche a far apparire il solipsismo una assurdità. Schopenhauer definisce il solipsismo “un problema psichiatrico e non filosofico”, forse ha ragione, peccato che alcune parti del suo sistema, quelle in cui definisce “rappresentazione” il mondo empirico, abbiano implicite conseguenze solipsistiche; forse sta proprio qui la causa della sua invettiva. Come tutti i parenti o gli amici di cui ci si vergogna il solipsismo è riempito di improperi proprio da chi gli è a volte piuttosto vicino.

Naturalmente avvicinarsi a volte al solipsismo non significa aderire alla sua tesi di fondo. Si parlava di Schopenhauer, ebbene, la sua filosofia può essere definita tutto meno che solipsista. Il grande filosofo ritiene addirittura di aver scoperto l'essenza ultima del mondo, l'intellegibile noumeno che sta sotto ai fenomeni e che si identifica per lui, è noto, con la volontà; siamo ben lontani, come si vede, non solo dal solipsismo ma da ogni tipo di soggettivismo. Però, se Schopenhauer ritiene di avere nel suo sistema penetrato l'arcano della misteriosa cosa in se, il suo atteggiamento verso il mondo fenomenico può definirsi senza ombra di dubbio radicalmente soggettivista. “Il mondo è la mia rappresentazione” così comincia il mondo come volontà e rappresentazione, e prosegue: “ è questa una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto possa tradurla nella coscienza riflessa, astratta: e se ciò egli fa realmente, ecco che è cominciata in lui la riflessione filosofica. Allora si fa per lui chiaro e certo che egli non conosce il sole e la terra, ma sempre e solo un occhio che vede un sole e una mano che sente una terra; che il mondo che lo circonda esiste solo come rappresentazione, cioè sempre e solo in rapporto ad un altro, al portatore della rappresentazione, che è egli stesso” (1)
Il mondo fenomenico esiste come rappresentazione in me. Schopenhauer interpreta in maniera fortemente soggettivistica il fenomenismo di Kant. Il mondo esiste nel cervello, negli organi di senso, nel soggetto, è nulla al di fuori del soggetto. Questa verità, afferma Schopenhauer, “fu Berkeley che la enunciò decisamente: egli si è in tal modo acquistato un merito immortale verso la filosofia” (2) ma ben prima di Berkeley questa verità era stata affermata, sia pure in forma di mito, dalla antica filosofia vedantica che aveva negato alla materia una esistenza autonoma dalla percezione.
Per Schopednhauer il mondo empirico quindi è sempre rappresentazione, è qualcosa che non ha esistenza autonoma ma che esiste solo nel soggetto. Esiste nel soggetto non come informe rapsodia di sensazioni ma come insieme strutturato e coerente di fenomeni. Su questo Schopenhauer segue Kant: l'esperienza è qualcosa di ordinato, conforme all'apriori dell'intelletto, anche se il filosofo di Danzica riduce alla sola causalità le categorie kantiane. Schopenhauer è però un pensatore non solo di estrema intelligenza ma anche di profonda onestà intellettuale e non si nasconde il problema che sorge spontaneamente nel suo sistema: “ Da una parte” afferma, “l’esistenza di tutto il mondo dipende necessariamente dal primo essere conoscente (..) dall’altra vediamo che questo primo animale conoscente dipende altrettanto necessariamente e in modo assoluto da una lunga catena a lui precedente di cause ed effetti in cui esso medesimo rientra come un piccolo anello. Queste due vedute contraddittorie a ciascuna delle quali in realtà noi siamo condotti con uguale necessità potrebbero veramente essere dette un’antinomia della nostra facoltà conoscitiva” (3).
L'ordine che le categorie impongono al mondo fenomenico non è qualcosa di soggettivo, una sorta di capriccio al quale il soggetto assoggetterebbe i fenomeni. E' un ordine oggettivo, universalmente valido, costituisce il fondamento stesso delle scienze e del loro valore conoscitivo; in questo, di nuovo, Schpenhauer segue Kant, anche se rigetta undici delle dodici categorie kantiane e ritiene che la concordanza dei fenomeni con la causalità possa essere oggetto di una intuizione intellettuale. Però sono proprio le scienze a dirci che il mondo, il mondo così come empiricamente ci appare, il mondo fatto di uomini e montagne, gatti e fiumi, è esistito prima dell'uomo, ed il mondo inanimato ha preceduto l'entrata in scena degli esseri viventi. Se questo è vero come è possibile sostenere che l'oggetto esista solo in relazione al soggetto conoscente? Schopenhauer accetta questa antinomia, non la risolve. Il tempo e lo spazio sono solo nel soggetto, e solo nel soggetto è la causalità, e solo nel soggetto sono le rappresentazioni. D'altra parte il soggetto è nel tempo e nello spazio, è determinato da cause. Se cerca di uscire dall'antinomia Schopenhauer lo fa approfondendo il livello della speculazione, passando dal livello della rappresentazione a quello della volontà, dal mondo dei fenomeni a quello sottostante della cosa in se.

Rilevando nel suo sistema una antinomia della facoltà conoscitiva Schopenhauer sfiora il problema del solipsismo, ma subito se ne ritrae, leggermente infastidito. Afferma, lo si è già ricordato, che il solipsismo è un problema psichiatrico e non filosofico ma questo non risolve il problema implicito nella antinomia da lui stesso evidenziata.
Esiste una autonomia del mondo dal soggetto? Il mondo esisteva prima che apparisse un qualsiasi soggetto senziente? E' evidente che nella mia esperienza io sono in costante rapporto col mondo ed il mondo è in costante rapporto con me, ma il punto è: il mondo esiste solo nella mia esperienza o la mia esperienza mi rivela, in piccolissima parte, il mondo? Non appena il problema sia posto in questi termini esso inevitabilmente si amplia. Quasi tutti i soggettivisti parlano di soggetto ma usano poi spesso e volentieri il pronome “noi”. Parlano delle rappresentazioni “nell'uomo” ed intendono rappresentazioni in Tizio, Caio e Sempronio, addirittura si riferiscono alle rappresentazioni degli animali. Ma se il mondo è rappresentazione,  se esiste solo in relazione al soggetto, a quale soggetto è relazionato? In chi è rappresentazione?  Basta porre la domanda per avere la risposta: gli altri soggetti sono per me oggetti, oggetti esterni come le case ed i gatti; se il mondo esiste solo relazionato al soggetto esiste relazionato a me, è  rappresentazione in me. Tutto il resto, compresi gli altri esseri umani esistono solo come mie rappresentazioni. Con quale fondamento allora posso parlare di Tizio, Caio e Sempronio come di soggetti senzienti distinti da me? Io vedo Tizio, parlo con lui, lo sento. Ma, se Tizio esiste solo come rappresentazione in me, posso ipotizzare che io sia a mia volta rappresentazione in lui? In realtà io non ho, non ho mai avuto e non posso avere la rappresentazione di Tizio che vede me come sua rappresentazione. Se io posso essere rappresentazione in Tizio allora Tizio non è, non può essere, solo rappresentazione in me, è, deve essere, almeno in parte, autonomo da me. Tizio ha rappresentazioni che io non ho né posso avere, la mia ad esempio, esiste anche quando io non lo vedo e non lo sento, esisteva prima che io nascessi se è più anziano di me, esisterà dopo che io sarò morto, se mi sopravviverà. O Tizio è rappresentazione in me, e in questo caso non ha autonomia da me e non ha a sua volta rappresentazioni, oppure Tizio ha sue rappresentazioni, ha una sua autonomia da me, ed allora non è solo rappresentazione in me. Tertium non datur.
Non è vero che il rapporto soggetto oggetto di cui parlano spesso i soggettivisti sia, come a volte qualcuno di loro afferma, un rapporto alla pari. Se il mondo è sensazione, o percezione, o rappresentazione allora la realtà primaria è il soggetto, non il mondo, e tutto ciò che consideriamo mondo non ha esistenza autonoma al di fuori del soggetto. Ma nel mondo ci sono anche gli altri esseri umani, gli altri esseri senzienti, gli altri centri in cui dovrebbero apparire rappresentazioni non mie. Se tutto è rappresentazione questi altri esseri umani e senzienti non esistono come esseri autonomi da me, solo io esisto. Piaccia o non piaccia la cosa, se il mondo è solo rappresentazione, o percezione, o sensazione allora il solipsismo è vero.

Il problema del solipsismo è legato a quello della verità. E' evidente che se non esiste alcuna realtà esterna al soggetto non si pone neppure il problema del confronto fra questa realtà e le nostre rappresentazioni, ed i nostri pensieri. Poniamo che io veda in lontananza una città e dica: “è Parigi”. Poi mi avvicino e dico: “no, non è Parigi, è Roma”. Se il mondo è sensazione, o percezione, o rappresentazione in me, ha senso dire che la prima affermazione è falsa e la seconda è vera? Se la realtà esterna non esiste potrò solo dire che prima ho avuto una rappresentazione che ho chiamato “Parigi” e dopo un'altra che ho chiamato “Roma”. Si elimini una realtà indipendente dal soggetto e si potranno ordinare percezioni, sensazioni e rappresentazioni, le si potrà confrontare fra loro ma non le si potrà mai dividere in “vere“ e “false”. E neppure si potranno dividere le rappresentazioni in nitide e confuse, chiare o sbiadite. Perché la visione di un palazzo distante, di cui non riesco ad intravedere il colore né, con precisione, le forme, dovrebbe essere “confusa”? Il significato di confusa o di nitida riferito ad una rappresentazione ha senso se esiste qualcosa di esterno alla rappresentazione stessa, qualcosa che la rappresentazione raffigura in maniera più o meno fedele, chiaramente o confusamente. Si elimini la realtà esterna e tutte le rappresentazioni sono sullo stesso piano, posso definirle simili o dissimili fra loro ma non più o meno nitide, più o meno confuse. Una volta che si accetti il solipsismo il problema della verità svanisce, tutto diventa vero perché qualsiasi percezione, o sensazione o rappresentazione è vera per il solo fatto di essere esperita dal soggetto. In effetti chi accetta davvero il solipsismo non ha difficoltà alcuna a negare il concetto stesso di verità. Per lui la verità è un falso problema, o ci sono molteplici verità, tante verità quante sono le rappresentazioni, il che equivale a dire che non c'è verità alcuna. E' meno chiaro invece l'atteggiamento di coloro che negano validità al concetto stesso di verità e rifiutano il solipsismo. E' questo il triste destino dell'ospite indesiderato: molti gli sono piuttosto vicini ma pochissimi lo accettano, anzi, gli improperi più duri gli arrivano a volte proprio da coloro che dovrebbero essergli amici.

Spesso varie filosofie che si avvicinano pericolosamente al solipsismo gli sfuggono indirizzando l'analisi verso livelli più profondi di realtà. La conclusione a cui Cartesio giunge nelle sue “meditazioni” è chiaramente solipsistica: “penso, dunque esisto”. Io penso, io esisto, solo di questo posso essere certo. Il soggetto cartesiano che pensa e dubita è solo al mondo, quanto meno, solo della sua isolata esistenza può essere certo. Cartesio però sfugge al solipsismo. Passa dal cogito all'esistenza di Dio e questa fonda e garantisce in maniera indubitabile l'esistenza del mondo esterno e degli altri esseri pensanti e senzienti.
Schopenhauer dal canto suo riduce il mondo a rappresentazione ma non fa del soggetto isolato l'unica realtà, al contrario. Dietro al mondo delle rappresentazioni c'è la volontà che si particolarizza nel mondo empirico. Tizio che vedo e con cui parlo esiste in realtà fuori di me, ma non come Tizio, come essere umano che vive nello spazio e nel tempo, in quel senso Tizio è solo una mia rappresentazione. Il vero Tizio è la volontà, meglio, una particolarizzazione della volontà che mi appare nella forma fenomenica di Tizio. L'altro da me esiste quindi ma esiste in una forma del tutto diversa da quella in cui mi appare, del tutto diversa ed assolutamente inaccessibile.
Però noi quando parliamo di esistenza del mondo e di Tizio intendiamo precisamente esistenza di enti che esistono nello spazio e nel tempo, che sono sostanze e vivono in un mondo in cui opera la legge di causalità. E' di questi enti che parla la scienza quando afferma che alcuni di loro sono esistiti prima che l'uomo, o addirittura ogni essere senziente, comparissero sul pianeta. Quando parlo di autonomia di Tizio nei miei confronti mi riferisco al fatto che ora io non vedo né sento Tizio, eppure egli è da qualche parte nel mondo, parla con altri esseri umani, ha rappresentazioni che io ora non ho, non ho avuto e forse non avrò mai. E' in relazione ad un ente di questo tipo che sorge il problema del solipsismo. Qualsiasi cosa sia a fondamento di Tizio, quale che sia il “Tizio in se”, egli ha una esistenza autonoma nello spazio e nel tempo, è una sostanza, vive in un mondo in cui esistono cause ed effetti? Oppure questo Tizio spazio temporale, empirico, è solo un insieme di rappresentazioni in me?
Anche un filosofo dichiaratamente soggettivista come Berkeley cerca di sfuggire alla sirena solipsistica mettendo sopra al soggetto un ente che è totalmente altro da lui: Dio. Per Berkeley essere coincide con percepire, non esiste un mondo materiale in se, indipendente dalle percezioni soggettive. Tutto questo però non porta al solipsismo: le cose esistono anche quando non le percepiamo perché vengono costantemente percepite da Dio.
La scoperta di un livello più profondo di realtà, di Dio o del misterioso “in se” rende non assoluto il solipsismo, pone sopra, o sotto, o accanto al soggetto senziente qualcosa di diverso da lui che lo salva dalla assoluta solitudine. Si tratta però di una garanzia che, a ben vedere le cose, salva ben poco del mondo. Io non sono l'unico essere pensante e senziente al mondo perché sopra, o accanto, o sotto di me esiste un ente inconoscibile, o Dio. Però... però mia moglie e i miei figli, ed i miei amici, ed il mio fedele cane, ed il monte che vedo dalla finestra di casa mia non hanno una esistenza propria, sono solo nella mia mente e nei miei organi di senso. Se si limita l'analisi al mondo fenomenico tutte le filosofie che riducono il mondo a sensazione, o percezione o rappresentazione cadono o si avvicinano pericolosamente al solipsismo.

Il problema diventa ancora più intricato se si pensa che io stesso sono una rappresentazione. Il mio corpo è esteso nello spazio, i miei stati interni si dipanano nel tempo, ritengo di essere una realtà sostanziale, sono sottoposto alla legge di causalità. Insomma, io sono un essere empirico, quindi una rappresentazione. Ma se io sono una rappresentazione in cosa sono rappresentazione? E di cosa lo sono? Risorgono le contraddizioni relative al noumeno kantiano. Come può un essere fuori da spazio e tempo, sostanza e causalità, quantità e qualità conoscere se stesso e il mondo in forma spaziale e temporale? Come può conoscersi e conoscere il mondo come sostanza quali quantitativa, come causa ed effetto? Si può dire che l'albero in se, colpendo i miei organi di senso mi appare in forma spazio temporale, o che la mia mano in se, stimolando i miei organi sensoriali mi appare grande e colorata. Ma, che senso hanno queste affermazioni? L'albero in se è fuori da spazio e tempo, sostanza e causalità, non ha relazione alcuna con i miei organi sensoriali; dal canto loro i miei organi sensoriali sono qualcosa che esiste ed opera nello spazio e nel tempo, sono grandi o piccoli, e colorati, insomma sono parte del mondo empirico come gli alberi e le mani. Il salto dall'in se al fenomeno è sempre troppo ampio.
Nel bel “saggio sulla critica della ragion pura” il filosofo analitico Peter F. Strawson, che pure riconosce il grandissimo valore della prima critica, coglie molto bene questa debolezza del concetto di noumeno inteso non come limite al conoscibile ma come fondamento e causa dei fenomeni. Esattamente come percepisco in forma fenomenica il mondo in se io, come soggetto noumenico, mi conosco fenomenicamente. Kant, ricorda Strawson, fa spesso simili affermazioni. Però, aggiunge il filosofo inglese “l'identità che si deve spiegare – l'identità del soggetto empiricamente autocosciente e del soggetto reale o sopra sensibile – è semplicemente assunta, senza essere minimamente resa più comprensibile. Se le apparenze di X a X si presentano nel tempo, non possono far parte della storia di un soggetto trascendentale soprasensibile che, in quanto tale, non può avere una storia. In altre parole, non possono essere descritte in modo fondato come apparenze per me come IO (soprasensibilmente) sono in me stesso. Il riferimento a me stesso come IO (soprasensibilmente) sono in me stesso cade, in quanto è superfluo e ingiustificato; di conseguenza cade ogni fondamento per affermare che io, nell'autocoscienza empirica, appaio a me stesso diverso da come sono realmente” (4)
Io appaio come non sono ad un essere che non sono. Apparendo fenomenicamente, quindi come non è, l'io noumenico non conosce se stesso, non appare, in senso proprio, a se stesso: questa la conclusione di Strawson. Se la conclusine è fondata (e sembra davvero esserlo) che senso ha parlare del fenomenico come di un "apparire"?
Considerazioni simili possono farsi se si passa dall'analisi dell'io noumenico a quella del mondo noumenico. Questo appare come non è ad un soggetto che non è come appare. Le cose che sono nel mondo acquistano in questo modo caratteristiche assai strane. Io vedo una di queste, ad esempio una sedia. La tocco, sento il rumore che fa strisciando sul pavimento, mi è capitato di inciampare su questa dannata sedia una volta, camminando in una stanza buia. Ma tutto questo non riguarda la sedia noumenica. Questa non la tocco, né la sento, né inciampo in essa. La cosa noumenica non ha nessuna di quelle caratteristiche che fanno di un ente una cosa. Non è nello spazio né nel tempo, non ha relazione alcuna, né diretta né indiretta, con la sensibilità, non è causa né effetto di nulla. Un simile ente è davvero qualcosa?
Ancora una volta, non appena ci si avvicina al baratro che separa l'in se dai fenomeni questo ci appare incolmabile. L'in se si ritrae e scompare, resta il mondo fenomenico, inteso però non come apparenza o percezione o rappresentazione. Inteso come mondo reale. “La vera cosa in se è il fenomeno”. Qualcuno ha cercato in una simile affermazione la chiave per una interpretazione di Kant che elimini dal criticismo ogni traccia di soggettivismo.

Questa eliminazione tuttavia risulta difficile, perché un certo soggettivismo affonda le sue radici in quello che è giustamente considerato uno dei concetti basilari del criticismo: il concetto di sintesi. Che ogni conoscenza sia in una certa misura una sintesi non può, dopo Kant, essere messo in dubbio. Se non collegassi in una rappresentazione unitaria il molteplice dell'intuizione sensibile non avrei in senso proprio una esperienza ma solo un insieme caotico di sensazioni. Se non considerassi unitariamente le mura, il tetto e le finestre non potrei dire che quella che mi sta di fronte è una casa, ed il considerare unitariamente non è mera passività, è attività dell'intelletto, sua capacità sintetica. In questo senso chi parla di sintesi coglie in larga misura nel segno. Ma, una cosa è dire che se io non collegassi in una rappresentazione unitaria le mie sensazioni il mondo per me sarebbe caos, altra cosa è dire che in effetti il mondo è caos e che solo la mia sintesi crea in esso un certo ordine. C'è chi dice proprio questo, forte, occorre ammetterlo, di agganci nell'opera principale di Kant. Il mondo sarebbe caos, caos in cui la sintesi mette ordine. E' il soggetto ad ordinare spazialmente e temporalmente le impressioni sensibili, a collegarle secondo categorie e a costruire in questo modo il mondo. In questa concezione mondo esiste fuori dal soggetto ma non come mondo in cui esistono le case, e le mura, e le finestre, ed i tetti, esiste come caos inintellegibile di sensazioni puntuali che solo grazie alla sintesi del soggetto prendono forma e diventano, appunto, mondo. Lo scetticismo di chi non crede al “fuori di noi” diventa scetticismo di chi crede che non esista nulla di comprensibile, e neppure di intuibile, fuori di noi.
Ma, come osserva giustamente Strawson nel già citato “saggio sulla critica della ragion pura”, l'ipotesi della sintesi creatrice dell'ordine poggia su quella del caos originario, e l'ipotesi del caos originario si basa su quella della sintesi ordinatrice. La sintesi è creatrice dell'ordine perché il mondo è caos, il mondo è caos perché ogni ordine in esso rinvenibile è il risultato di una sintesi: le due tesi si richiamano e si sostengono a vicenda. In realtà ogni sintesi presuppone un certo ordine. Per poter sintetizzare nello spazio e nel tempo qualcosa, occorre che questo qualcosa abbia già una dimensione spaziale e temporale. Io posso collegare la porzione di spazio A con quella B, ed entrambe con le porzioni di tempo T' e T'' solo se A e B, T' e T'' hanno già uno spessore spaziale e temporale, sono già parti di spazio e di tempo. Se il tempo e lo spazio non esistessero al di fuori della sintesi non potrebbe esistere alcuna sintesi spazio temporale per il semplice motivo che non ci sarebbe nulla da sintetizzare. Ed ancora, per poter considerare unitariamente come una casa, tetto e pareti, porte e finestre occorre che queste abbiano un minimo di stabilità e contiguità spazio temporale: se porta, pareti e tetto si trasformassero di continuo in un albero, e poi in un insieme di colori, e poi ancora in sprazzi di luce, quale sintesi potrei mai instaurare fra simili fenomeni? E lo stesso soggetto ordinatore deve a sua volta essere in qualche modo ordinato per poter ordinare, deve essere in qualche modo una sostanza per potersi riconoscere come sostanza e poter riconoscere nel mondo delle sostanze. Se tutto nel mondo è caos e ogni tipo di ordine discende da una sorta di sintesi creatrice dell'ordine, a diventare incomprensibile è proprio questa sintesi.
Ogni costruttivismo presuppone una realtà, oggettiva e soggettiva, in qualche modo già costruita. Si elimini questa e nella stessa sintesi kantiana si intrufola, di nuovo, l'ospite indesiderato, il solipsismo. Si, proprio lui, anche dove sembrava non potersi intrufolare. Perché, se ogni ordine nel mondo è, tutto e per intero, il prodotto di una sintesi soggettiva, come posso ammettere l'esistenza, fuori di me, di Tizio e Caio? Tizio e Caio sono enti strutturalmente ordinati, con una loro permanenza spazio temporale, sono fuori di me ed autonomi da me. Ma, se ogni ordine nel mondo promana dal soggetto perché mai l'ordine che è in Tizio e Caio, e che fa si che essi siano Tizio e Caio, non potrebbe, meglio non dovrebbe essere il prodotto della mia sintesi? La sintesi kantiana è una sintesi intersoggettiva, si potrebbe dire, una sintesi di tutti i soggetti, si, ma per me gli altri soggetti sono in realtà oggetti, enti che hanno un loro ordine sostanziale, una propria permanenza spazio temporale solo grazie alla mia sintesi. Come posso riconoscere tutti i soggetti, quindi gli altri soggetti, capaci come me di sintesi ordinatrice, se sono io a donar loro ordine e sostanzialità con la mia sintesi? Come posso dire che Tizio compie una sintesi simile alla mia se è la mia stessa sintesi ordinatrice che pone in essere quella realtà che chiamo Tizio? Ci imbattiamo in difficoltà simili a quelle cui si è fatto cenno parlando delle “rappresentazioni” di Schopenhauer.
Nel suo capolavoro Kant si scontra spesso con simili problematiche senza riuscire a sciogliere i nodi ad esse connessi. La sua opera si presta così a molteplici interpretazioni, da quelle che vi vedono una forma particolarmente ingegnosa di realismo empirico ad altre, che tendono ad assimilare il criticismo ad un soggettivismo tendenzialmente scettico. Capita a tutte le grandi filosofie di aprire strade diverse, che spesso vanno in direzioni opposte.


Note
1) A. Schopenhauer: Il Mondo come volontà e rappresentazione. RCS quotidiani 2009. pag. 110
2) Ibidem pag. 111
3) Ibidem pag. 141
4) Peter F. Strawson: “Saggio sulla critica della ragion pura”. Laterza 1985 pag. 236-237.



venerdì 21 agosto 2020

IL COLEOTTERO DI WITTGENSTEIN

  Coleotteri - Mille Animali

Scrive Ludwig Wittgenstein in “Ricerche filosofiche”:

“Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c'è qualcosa che che noi chiamiamo 'coleottero'. Nessuno può guardare nella scatola dell'altro; e ognuno dice di sapere cos'è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. Ma supponiamo che la parola 'coleottero' avesse tuttavia un uso per queste persone! Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non farebbe parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe essere vuota.” (1)

Qui Wittgenstein sta affrontando il tema del linguaggio privato. Il linguaggio si riferisce alle nostre sensazioni, indica cosa c'è dentro ogni parlante, affermano i teorici del linguaggio privato. Se dico: “vedo una macchia rossa” mi riferisco alla mia sensazione di rosso, a qualcosa di privato che è, e non può che essere, solo mio. Il linguaggio esprime gli stati interni, ma ogni stato interno è solo della persona che parla, di quella e di nessun'altra. Se Tizio dice a Caio: “provo dolore” Caio può capire cosa significhi la frase di Tizio? Partendo dai presupposti del linguaggio privato la risposta non può che essere no. Il dolore di Tizio è solo il suo dolore, esattamente come il coleottero chiuso nella sua scatola è solo il suo coleottero. Il linguaggio però è qualcosa che relaziona gli esseri umani. Se una certa parola per me significa qualcosa deve significare lo stesso anche per gli altri, se le cose non stessero così non esisterebbe comunicazione, quindi neppure linguaggio. Ma come è possibile una simile generalizzazione partendo dai presupposti del linguaggio privato?
“Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so cosa significa la parola 'dolore', non debbo dire la stessa cosa anche agli altri? E come posso generalizzare quest'unico caso in maniera così irresponsabile?” (2)
Se le parole significano i miei stati interni come posso generalizzarne il significato?come possiamo io e Tizio comunicarci il significato di parole come “dolore” o “rosso” se “rosso” o “dolore” sono qualcosa di assolutamente interno, di mio, o di suo? Se le parole si riferiscono a stati interni allora il modello “oggetto – designazione diventa insensato.
“Se si costruisce la grammatica dell'espressione di una sensazione secondo il modello 'oggetto e designazione', allora l'oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante” (3).
L'oggetto di designazione scompare: è come il coleottero chiuso nella scatola, qualcosa che nessuno conosce tranne il proprietario della scatola e che pertanto non può essere oggetto di discorso, comunicazione, linguaggio.

Parlando del linguaggio privato Wittgenstei polemizza implicitamente col Cartesio delle “Meditazioni metafisiche”. In queste Cartesio si misura col dubbio, un dubbio totale, onnicomprensivo. Io non posso esser certo di nulla, afferma Cartesio. Gli oggetti che vedo, sento e tocco potrebbero essere solo un insieme di sensazioni, o di rappresentazioni, il nome in fondo poco conta, in me. Certo, quando vedo un albero o il mare sono del tutto certo che qui c'è l'albero e lì il mare, ma anche quando sogno ho la sensazione di vivere una vita reale, circondato da oggetti reali, eppure... sto sognando. Come faccio allora ad essere indubitabilmente certo dell'esistenza del mondo che mi circonda, del mio stesso corpo? Non posso esserlo, questa la desolante conclusione di Cartesio. Anzi, non posso esser certo neppure di verità che da sempre appaiono indubitabili, come le verità matematiche. Potrebbe infatti esserci un genio maligno che mi induce continuamente in errore su tutto. Cartesio immagina un essere pensante solo, tragicamente solo, in un oceano tenebroso di dubbio. L'esistenza del mondo fisico e degli altri esseri umani, le stesse verità matematiche non poggiano su alcuna incrollabile base di certezza. Il dubbio cartesiano sfocia coerentemente nel solipsismo più radicale e distruttivo.
“ Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niun luogo e che tuttavia io senta tutte queste cose e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io giudico qualche volta che altri mi ingannino anche nelle cose che credono di sapere con la maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che io mi inganni tutte le volte che fo l'addizione di due e di tre, o che enumeri i lati di un quadrato o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile...” (4)
Una simile, malvagia volontà di inganno non può essere attribuita a Dio, si affretta ad aggiungere Cartesio, perché Dio è infinitamente buono, si può tuttavia supporre “che vi sia non già un vero Dio che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo genio non meno astuto e ingannatore che possente che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi” (5).
“Salvata”, per ovvi motivi, la bontà divina la X pensante di Cartesio si ritrova, sola, immersa nel dubbio cosmico.
Sappiamo quale è per Cartesio la via d'uscita da una simile, angosciosa, situazione. C'è qualcosa d cui non posso dubitare: il fatto di stare dubitando, quindi pensando. Ma se penso esisto, di questo posso essere assolutamente certo. Lo stesso genio ingannatore non può distruggere questa mia incrollabile certezza.
“Non v'è dunque dubbio che io esisto, s'egli mi inganna; e m'inganni fin che vorrà, egli non potrà mai fare che io sia nulla, fino a che penserò di essere qualcosa” (6)
Penso, esisto, questa la verità prima, incrollabile. Una verità che riguarda i miei stati interni e solo quelli. Una volta raggiunta questa base incrollabile Cartesio procede dimostrando l'esistenza di Dio e, come conseguenza, del mondo, dei corpi, delle altre menti e degli altri esseri umani. Il dubbio solipsistico è battuto ed il sapere posto su una granitica base di certezza.
Non è questa la sede per seguire il complesso itinerario cartesiano, né per esaminare le varie obiezioni cui questo è stato sottoposto, né ancora per cercare di avanzare risposte a vari argomenti scettici (quello del sogno, ad esempio). Quello che qui interessa sottolineare è la assoluta preminenza accordata da Cartesio agli stati interni. Di ciò che è in me non posso dubitare. Non so se esista l'albero ma so di provare la sensazione, o l'impressione, dell'albero.
C'è però una cosa di cui Cartesio sembra non rendersi conto: del fatto di usare, per esprimere il suo dubbio solipsistico, il linguaggio privato. Di conseguenza Cartesio salva dal dubbio una cosa molto importante: la costanza di significati del linguaggio stesso.
Dubito di tutto, afferma Cartesio, ma non dubita del fatto che parole come “dubbio”. “pensare”, “verità”, “genio ingannatore” ed altre conservino il loro significato nel corso del tempo. Cartesio arriva a scoprire la base incrollabile di ogni certezza nel cogito, ma ci arriva usando un linguaggio che non può essere altro che il suo linguaggio privato, basato su sensazioni e ricordi di sensazioni. Se l'interno ha la assoluta preminenza sull'esterno il linguaggio con cui il pensante si esprime deve essere il linguaggio interno, il suo discorso un dialogo con se stesso.
Ma è possibile una cosa simile? Qui si innesta la critica di Wittgenstein.

Il linguaggio privato si riferisce agli stati interni del soggetto unificati e di volta in volta richiamati dalla sua memoria. Ma, lo si è visto, con l'argomento del coleottero, gli stati interni sono solo e inesorabilmente privati. Se il termine “coleottero” significasse ciò che solo io vedo, l'ospite della mia privatissima scatola, inaccessibile a tutti tranne che a me, se questo fosse il suo significato, tale termine non potrebbe far parte di un discorso intersoggettivo. Tutti, o molti, sanno cosa significa “coleottero”, usano questo termine nel linguaggio di tutti i giorni, ma, se il discorso sul linguaggio privato è fondato, questa è solo una illusione. Il “tuo” coleottero è qualcosa di assolutamente diverso dal “mio” e nessun paragone è possibile fra i due. Io e te che parliamo di coleotteri in realtà facciamo discorsi che non significano nulla. Il linguaggio privato, che Cartesio usa senza probabilmente rendersene conto, rende insensata la comunicazione fra soggetti diversi. Questa però non è una critica definitiva al dubbio cartesiano. Cartesio infatti accetta di buon grado, all'inizio delle sue “meditazioni”, l'isolamento solipsistico. Il suo soggetto che dubita è solo al mondo, dialoga con se stesso. E' solo più avanti, con la scoperta del “cogito” e la dimostrazione dell'esistenza di Dio che si apre al discorso con gli altri. Però... però è possibile questo iniziale dialogo con se stesso? La domanda è fondamentale ed a questa Wittgenstein risponde: NO. Il linguaggio privato non distrugge solo la possibilità di un discorso intersoggettivo, rende impossibile anche il dialogo del soggetto con se stesso, mina l'unità dell'io pensante quindi anche la possibilità stessa del pensiero.
“Immaginiamo” scrive Wittgenstein sempre nelle ricerche filosofiche, “una tabella che esista solo nella nostra memoria, per esempio, un vocabolario. Mediante un vocabolario possiamo giustificare la traduzione di una parola X con una parola Y. Ma sarà il caso di parlare di giustificazione anche quando questa tabella venga consultata solo nell'immaginazione? Ebbene, si tratterà appunto di una giustificazione soggettiva. Ma la giustificazione consiste nell'appellarsi ad un ufficio indipendente. Posso però anche appellarmi al ricordo di un altro. Per esempio, non so se mi sono impresso esattamente nella memoria l'ora di partenza del treno e, per controllare l'esattezza di questo ricordo richiamo alla memoria l'immagine dei fogli dell'orario delle ferrovie. Non ci troviamo qui di fronte allo stesso caso? No; perché questo procedimento deve effettivamente evocare il ricordo esatto. Se non fosse dato controllare l'esattezza dell'immagine mentale dell'orario ferroviario, come potrebbe questa confermare l'esattezza del ricordo precedente? (sarebbe come acquistare più copie dello stesso giornale per assicurarci che le notizie in esso contenute siano vere)”. (7)
Il soggetto di Cartesio è solo con le sue sensazioni che si trasformano immediatamente in ricordi. Ogni controllo sulla esattezza dei ricordi si basa sul confronto fra un ricordo e l'altro, si tratta quindi di un controllo che non porta a nulla, non può garantire certezza alcuna, esattamente come comprare più copie dello stesso giornale non ci permette di verificare l'esattezza di quanto quel giornale riporta. Il discorso di Wittgenstein qui non è affatto contrario a quella cosa che alcuni filosofi disprezzano in massimo grado: il senso comune. Ognuno di noi ricorda qualcosa perché controlla costantemente i propri ricordi con la corposa realtà del mondo. So dove si trova casa mia perché ci vivo gran parte del mio tempo. Ricordo cosa pensa una tal persona perché parlo spesso con lei. Ricordo cosa dice Kant nella prima critica perché ogni tanto do un'occhiata ad un vetusto volume. Se cerco un indirizzo in una città che che non visito da moltissimo tempo consulto una mappa o chiedo informazioni. Ogni ricordo si rapporta al mondo, è ricordo del mondo. Si riduca tutto a ricordo e a ricordo di ricordo e non solo non si ha più diritto di parlare di esattezza dei ricordi, ma la stessa unità dell'io ricordante si sfalda.

Cartesio non è uno scettico, al contrario, vuole fondare la scienza su alcune indubitabili certezze. Parte dal dubbio per raggiungere una verità indubitabile su cui costruire l'edificio del sapere. Il suo punto di partenza sono gli stati interni perché è convinto della loro assoluta superiorità rispetto alle percezioni esterne. Ma, come sottolinea Roger Scruton in “filosofia moderna compendio per temi”, questa convinzione si basa su una illusione grammaticale. Cartesio riduce tutto ai suoi stati interni, qualcosa di unicamente, rigorosamente “suo”, e, senza neppur rendersi conto dell'incongruenza, cerca di esprimerli usando un linguaggio pubblico, intersoggettivo, l'unico che possa avere un senso.
Per Cartesio l'unica, indubitabile verità è il “cogito”. Penso, esisto, su questo il genio malefico non può ingannarmi. Kant sosterrà, nella “confutazione dell'idealismo” aggiunta alla seconda edizione della “critica della ragion pura” che l'io pensante può avere coscienza della sua permanenza nel tempo solo se inserto in un mondo di oggetti permanenti che esistono fuori di lui, nello spazio. Wittgenstein sottoporrà ad ulteriore critica il “cogito” cartesiano contestando la possibilità stessa del linguaggio privato, l'unico che il soggetto solipsistico di Cartesio possa usare (ma che in realtà non usa perché il linguaggio non può essere privato)
Il linguaggio non può che essere pubblico, questo è il punto decisivo. Un linguaggio non è qualcosa che appartenga ai singoli soggetti, al contrario relaziona fra loro i diversi soggetti. Senza una pluralità di parlanti (e pensanti, e scriventi) non esiste linguaggio. E non esiste senza regole grammaticali, sintattiche, semantiche, pubbliche. La parola “demone” ha quel certo significato perché questo è fissato nelle regole del linguaggio e prima ancora negli atteggiamenti di coloro che di quel linguaggio fanno uso. La proposizione. “Giovanni è un uomo” ha senso. “Giovanni perlopiù metafisica” invece non ha senso alcuno perché l'accostamento a casaccio di parole contravviene ad ogni regola pubblica del linguaggio e, prima ancora, perché nessuna comunità di esseri razionali si esprime in modo simile, a meno che qualcuno non voglia fare esempi di non senso o divertirsi a dire cose insensate (la supercazzola).

Ribadire che il linguaggio è qualcosa di pubblico non risolve però tutti i problemi. Gli stati interni esistono, ovviamente. Noi non vediamo le immagine mentali del mondo ma il mondo tramite le nostre immagini mentali. Questo elimina la possibilità del soggettivismo scettico ma anche di ogni tentativo di ridurre l'essere umano ai suoi comportamenti, eliminando il “mentale”. Un simile eliminazione non è solo assai discutibile sul piano scientifico, ma porta ad un radicale impoverimento dell'uomo, lo trasforma in un robot privo di anima. Il mentale, l'interno esistono quindi; ognuno di noi sente di essere vivo e, da vivo, il centro unificante della propria esperienza, Ma come entra l'interno, per definizione privato, soggettivo, in un linguaggio pubblico? Questa la difficoltà.

Può aiutarci a risolverla la distinzione di Wittgenstein fra sintomi e criteri.
Il sintomo indica l'esistenza di qualcosa, il criterio rappresenta la condizione identificativa di questo qualcosa. Il fumo può essere sintomo di un incendio, ma le fiamme che divorano un bosco, il fumo che oscura il cielo, il crepitio del legno descrivono la situazione che designiamo col termine “incendio”.
Scrive John Searle in “vedere le cose come sono”:
“Wittgenstein fa notare che dobbiamo distinguere fra 'criteri' e 'sintomi'. Se vedo un uomo che, mentre stringe il proprio fianco, fa delle smorfie, potrei inferire che egli ha male al fianco. Sta manifestando i sintomi del provare dolore. Ma se vedo un uomo che è appena stato investito da un'automobile e posso vedere la sua gamba che viene tirata sotto dall'automobile e lo sento urlare dal dolore, allora ciò che osservo in questo caso non sono i sintomi del dolore; questa è (...) una situazione che chiamiamo 'provare dolore' ” (8)
Il sintomo ci fa inferire qualcosa, il criterio mostra la situazione in cui è lecito dire che questo qualcosa esiste. Se Tizio dice di sentire dolore allo stomaco posso inferire che forse egli ha una gastrite, me se urla, si contorce, ha conati di vomito non faccio nessuna inferenza fra questi comportamenti ed il suo stato interno chiamato “dolore”. Dico semplicemente: “Tizio prova dolore” perché la sua situazione è quella cui ci riferiamo con le parole “provare dolore”.
Ovviamente possiamo sbagliarci. Tizio si può dimenare ed urlare e non provare dolore: sta fingendo; ma, appunto, sta fingendo di provare dolore, esibisce i criteri del dolore, ne simula la situazione. Potrebbe essere, continua Searle riferendosi all'esempio dell'uomo investito da una macchina “ che tutto l'accaduto fosse parte di un film di Holliwood (…) ma è importante notare che (...) la scena recitata è precisamente quella di un uomo che 'prova dolore'. Vale a dire: in questo caso (…) il gioco linguistico dell'attribuire dolore è tale che questo è un caso che legittimamente chiamiamo dolore perché i criteri sono soddisfatti” (9).
Gli stati interni esistono ed hanno la massima importanza, ma quando ci relazioniamo gli un agli altri altri usando un linguaggio pubblico non mettiamo in atto alcuna inferenza fra le cose che i nostri interlocutori ci dicono ed i loro stati interni. Semplicemente sappiamo ciò di cui noi e loro stiamo parlando perché comprendiamo il linguaggio che stiamo usando ed  i criteri che di questo fanno parte. Se Tizio mi dice che è appena stato dal dentista ed ora ha mal di denti capisco ciò che dice, non effettuo alcuna inferenza per arrivare al suo stato interno, so, senza dubbio alcuno, cosa sia il dolore che prova
Molte tesi sia del “primo” che del “secondo” Wittgenstein sono discutibili ovviamente. L'attacco alla possibilità stessa della metafisica presente nel “tractatus” non mi pare accettabile e Il suo insistere, nelle “ricerche” sullo stretto rapporto fra significato e giochi linguistici può portare, forse, a forme inaccettabili di relativismo. Con tutto questo Wittgenstein resta, a modesto parere di chi scrive, uno dei più grandi, forse il più grande, pensatore dello scorso secolo. Il suo attacco al linguaggio privato è fondamentale per smontare il nichilismo solipsistico dello scetticismo radicale, ed in una direzione simile vanno, sempre a modesto parere di non esperto, le sue riflessioni sulle proposizioni di senso comune cui lavorò sino a due giorni prima di morire.
In un'epoca di imbecilli “post - qualcosa” (post moderni, post comunisti, post liberali, post politici, post industriali, post filosofi) seguire Wittgenstein nel suo stile telegrafico è spesso assai arduo, ma assomiglia al respirare l'aria pura di montagna mentre si effettua una faticosa escursione. Si è stanchi, sudati, i muscoli dolgono. Ma ci si sente sottilmente appagati.



Note
1) L. Wittgenstein: Ricerche filosofiche in “i grandi filosofi Wittgenstein”. Ed sole 24 ore 2007 pag. 405.
2) Ibidem pag. 405
3) Ibidem pag. 406

4) R. Descartes: Meditazioni metafisiche. La Nuva Italia 1983 pag. 21.
5) Ibidem pag. 22
6) Ibidem pag. 27
7) L. Wittgenstein, op. cit. pag.397 - 398. Sottolineature di W.
8) John Searle: Vedere le cose come sono. Raffaele Cortina editore 2015 pag. 231.
9) Ibidem pag. 231 sottolineatura di S.