venerdì 31 maggio 2019

VA DIMOSTRATA L'ESISTENZA DEL MONDO?

Se mi è concesso parlare di una piccola esperienza personale, ricordo che quando, tanti anni fa, mi sono imbattuto per la prima volta nell'argomento scettico sull'esistenza del mondo esterno questo mi ha profondamente irritato. “Il mondo non esisterebbe? Che sciocchezza” mi sono detto. “Io vedo, sento, tocco le cose del mondo, come può il mondo non esistere?”. Poi, man mano che prendevo conoscenza delle sottilissime argomentazioni dei filosofi, invece che irritarmi quell'argomento ha iniziato ad inquietarmi. “Il mondo è solo in me... come posso essere certo che esista fuori di me? Io conosco solo le sensazioni, le rappresentazioni... “ tutto questo mi sembrava assurdo, non mi convinceva affatto ma, mi chiedevo, il fatto che io sia intimamente convinto che la sedia su cui sono seduto continui ad esistere anche quando mi alzo ed esco di casa non dimostra che questa davvero esista indipendentemente da ciò che io sento. Come si può dimostrare che il mondo esiste?
Come si può dimostrare l'esistenza del mondo? Bel problema... ma... è davvero un problema reale?
“E' segno di impreparazione” afferma Aristotele nella
Metafisica, “ il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no. Difatti è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose (in tal caso infatti si andrebbe all’infinito e quindi neppure così si produrrebbe dimostrazione).” (1)
Qui Aristotele parla del principio di non contraddizione che, in quanto principio che rende possibile ogni dimostrazione, non può a sua volta essere dimostrato, ma quello che dice ha una valenza se possibile ancora più generale. Non tutto può essere dimostrato. La dimostrazione collega certe premesse a certe conclusioni ma le premesse non sono a loro volta dimostrabili, o lo sono solo se si parte da altre premesse ancora più generali, a loro volta, di nuovo, non dimostrabili.
Il notissimo sillogismo: “tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale”collega in maniera coerente due premesse per giungere ad una conclusione necessaria. Ma la verità delle premesse non è a sua volta dimostrata, è assunta come data o è considerata vera perché attestata dalla intuizione sensibile. Certo, si potrebbe dimostrare la mortalità degli uomini con un altro sillogismo: “tutti gli animali sono mortali, tutti gli uomini sono animali quindi tutti gli uomini sono mortali” ma in questo modo sarebbero la mortalità degli animali e la appartenenza degli uomini al genere degli animali ad essere attinte dall'esperienza sensibile. Qualsiasi discorso noi si faccia attingiamo continuamente il materiale che relazioniamo logicamente da qualcosa di extra logico. L'esistenza di qualcosa non è dimostrabile, la logica relaziona A e B, non dimostra la loro esistenza. Chi pretende che l'esistenza del mondo gli venga “dimostrata” non ha compreso la logica, e meno ancora ha compreso il mondo.
Nella celebre confutazione della dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio Kant nega esplicitamente che l'esistenza sia un attributo. L'esistenza non è un predicato che arricchisca minimamente il concetto di una cosa: concettualmente cento talleri solo pensati non differiscono minimamente dai cento talleri che ho depositato in banca. Il fatto che siano sul conto modifica non il loro concetto ma la loro posizione nei riguardi della esperienza sensibile. “Se si trattasse di un oggetto dei sensi non potrei scambiare l'esistenza della cosa col semplice concetto della cosa. Infatti, pel concetto, l'oggetto non vien pensato se non come conforme alle condizioni generali di una possibile conoscenza empirica in generale; per l'esistenza, invece, come contenuto nel contesto dell'esperienza totale. (…) Sia quale e quanto si voglia il nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza. Negli oggetto dei sensi questo accade mediante la connessione con una delle mie percezioni secondo le leggi empiriche” (2).
L'esistenza è fuori dal concetto, quindi anche fuori dalle relazioni fra concetti, quindi non è passibile di dimostrazione logica. Non tutto può essere dimostrato, su questo punto di cruciale importanza Kant la pensa esattamente come Aristotele.

Provare” o “dimostrare” l'esistenza del mondo non è possibile perché il mondo è dato, è dato nell'esperienza sensibile; tutto ciò che si può fare è analizzare ciò che ci è dato nell'esperienza per vedere che tipo di evidenze questa ci offre. E' proprio vero che, come dice Cartesio, solo della mia esistenza io posso essere assolutamente certo mentre l'esistenza del mondo mi è data non immediatamente ma in maniera mediata dalle mie sensazioni? Val la pena di richiamare telegraficamente alcuni punti deboli di questa concezione. L'esistenza di un mondo fenomenico caratterizzato da almeno certe regolarità empiriche è essenziale per l'autocoscienza dell'io, lo stesso dicasi del linguaggio e del suo carattere non meramente privato ma intersoggettivo. Inoltre io stesso sono fenomeno fra i fenomeni, anche la conoscenza di me, o almeno una grande parte di questa, può quindi essere considerata mediata e non immediata. Non è il caso di approfondire in questa sede queste argomentazioni. Il problema su cui invece si concentrerà l'attenzione è quello della immediatezza o meno della conoscenza del mondo esterno.
Il mondo esterno mi è dato non immediatamente ma in maniera mediata. Io ho la percezione di un albero e da questa deduco, in maniera mediata che, forse, un albero esiste realmente. Afferma Roger Scruton nel già citato: la filosofia moderna, compendio per temi: “La teoria rappresentazionale (..) sostiene che noi percepiamo gli oggetti mediante le loro rappresentazioni mentali. Queste rappresentazioni mentali possono corrispondere o meno alla loro realtà fisica, la cui natura deve perciò essere colta eliminando le illusioni, le delusioni e le ambiguità che affliggono le nostre carriere mentali” (3)
Insomma, io non vedo l'albero, vedo la rappresentazione di un albero e da questa deduco che forse esiste qualcosa dietro a quella rappresentazione, qualcosa che noi chiamiamo albero. Ma ha senso dire che io vedo, o percepisco una rappresentazione? Scruton mette molto bene in evidenza come questo modo di procedere conduca ad un regresso all'infinito. Percependo una rappresentazione io avrò una nuova rappresentazione che dovrà a sua volta essere percepita e così via, all'infinito. Si potrebbe dire, afferma Scruton che “percepiamo le rappresentazioni direttamente e gli oggetti soltanto indirettamente. Ma cosa significa? Presumibilmente questo: mentre io posso commettere errori sull'oggetto fisico non posso commetterne sulla rappresentazione che per me è immediata” (4)
A questo punto però diventa insensato affermare che io “percepisco”, più o meno direttamente, una rappresentazione. “La percezione è un modo di trovare come sono le cose; essa implica una separazione fra la cosa che percepisce e la cosa percepita, e con questa separazione arriva la possibilità dell'errore. (…) La rappresentazione mentale non è affatto percepita; essa è semplicemente parte di me. In altre parole, la rappresentazione mentale è la percezione. In questo caso il contrasto fra percezione diretta e indiretta scompare. Noi percepiamo effettivamente oggetti fisici e li percepiamo direttamente. (…) e noi percepiamo oggetti fisici avendo esperienze rappresentazionali” (5)
Io non percepisco la “rappresentazione” di un albero, percepisco l'albero e lo percepisco avendo una immagine mentale dell'albero
, proprio per questo la percezione può essere giusta o sbagliata, nitida o confusa; se l'albero coincidesse con la percezione che ho di esso questa non sarebbe mai sbagliata o confusa. Tutto questo in fondo non fa che confermare ciò che emerge chiaramente dal linguaggio comune. Nessuno dice: “vedo la rappresentazione di una casa”, o: “ascolto la rappresentazione di un concerto” o ancora: “la rappresentazione tattile di una puntura di spillo mi duole”. Tutti diciamo: “vedo una casa”, o “ascolto un concerto” o “la puntura di uno spillo mi duole”. Ed il linguaggio comune non fa a sua volta che confermare quello in cui crede in maniera immediata la totalità praticamente degli esseri umani. Il punto centrale è tutto qui, in fondo. Lo scettico afferma che il mondo esterno ci è dato solo indirettamente, risaliremmo all'esistenza del mondo esterno solo in maniera mediata, dalla sensazione al mondo, e questo comporterebbe tutta una serie di difficoltà. Ma questo, molto semplicemente, non è vero. Nessuno dice o pensa: “ho la sensazione di un albero, ora devo dedurre da questa l'esistenza reale dell'albero”, tutti diciamo: “lì c'è un albero”. Il mondo esterno ci è dato immediatamente, ci si presenta con immediata evidenza, con una evidenza almeno pari a quella con cui siano consci della nostra stessa esistenza.

Gli stessi, svariati, argomenti scettici che vorrebbero indurre il dubbio sull'esistenza del mondo esterno a partire dagli errori cui sono soggette le sue percezioni non solo non sono conclusivi, come si è già visto, ma possono benissimo essere applicati alla stessa percezione dell'io. Spesso le sensazioni inducono in errore, si dice, quando ci mettono in relazione con oggetti del mondo esterno. Una nuvola all'orizzonte ci sembra una montagna e nella nebbia un lampione può sembrarci un albero. Però, commettiamo errori simili anche a proposito di noi stessi. Dimentichiamo spesso cose fatte anche poco tempo fa, o ci può capitare di trovarci in una situazione di vuoto, se non di caos mentale. La parte di noi che davvero conosciamo è in fondo solo una piccola porzione dell'io: il flusso dei ricordi si perde inevitabilmente col passare del tempo; la scoperta dell'inconscio inoltre ci ha rivelato che parti fondamentali di noi non emergono affatto alla luce della coscienza ma restano nel profondo, lontane, difficilmente interpretabili. A livello fisico gli errori che possiamo fare su noi stessi sono numerosissimi; spesso ignoriamo l'esistenza di organi fondamentali, o possiamo avere l'illusoria convinzione di essere assolutamente sani mentre ci portiamo dentro terribili malattie.
Qualcuno potrebbe obiettare che, con tutta l'ignoranza che possiamo avere di noi, stessi è indubbio che pensiamo, proviamo sensazioni quindi esistiamo. Ma considerazioni analoghe possiamo farle per il mondo esterno. Perché, anche ammettendo che io non veda il gatto sulla poltrona ma la mia sensazione dello stesso, ed anche tralasciando di considerare le aporie cui una simile impostazione ci conduce, resta il fatto che quella sensazione è del tutto diversa da quelle che comunemente si chiamano percezioni interne. Il gatto che vedo sulla poltrona sarà anche solo sensazione, ma è altra cosa dallo scorrere dei miei pensieri o dalla tristezza che sento di provare in certe giornate. Questo senza contare che certi stati interni sono strettamente legati a sensazioni esterne: la pressione che sento sulla mano se qualcuno me la stringe è, insieme, percezione di qualcosa si esterno e sentire interno. Il "gatto sensazione" è completamente diverso dalle sensazioni interne. E', anche come sensazione, estraneo al mio interno, esterno a me.
Tutti questi discorsi si riferiscono, ovviamente, all'io empirico che altro non è, in fondo, che una parte del mondo e questo potrebbe non piacere ad uno scettico cartesiano. Spiace per lo scettico cartesiano, ma, di quale altro io possiamo avere coscienza? Solo l'io che è collocato nello spazio e nel tempo può essere oggetto di conoscenza, più o meno mediata o immediata, l'io noumenico è al di fuori della conoscenza, di qualsiasi tipo di conoscenza.

L'io non ha quindi nessun privilegio sul mondo, l'interno non è oggetto di una conoscenza più immediata e certa di quanto non lo sia l'esterno, possiamo sbagliare a proposito del mondo come dell'io, e di entrambi possiamo essere profondamente ignoranti.
Quando Cartesio afferma, nelle “
meditazioni metafisiche” che il “cogito” non può essere oggetto di dubbio la sua affermazione appare sostenuta anche da evidenti ragioni logiche. Il pensare è infatti momento dell'esistere, se penso devo esistere, in qualche modo. L'enunciato “penso quindi esisto” appare quindi logicamente vero. Ma con eguali ragioni potrei dire: vedo, quindi esisto, passeggio, quindi esisto, parlo, corro, mangio, quindi esisto, perché il vedere, il passeggiare, il parlare, il correre, il mangiare sono tutti momenti dell'esistere.
Non solo. Le stesse ragioni logiche che mi fanno passare dal pensare (o dal vedere, mangiare, camminare...) all'esistere valgono per il mondo esterno. Esaminiamo l'enunciato: “vedo un libro sulla tavola”. Questo enunciato può essere trasformato, senza modifiche di significato, in “un libro sulla tavola è visto da me”. A questo punto ci troviamo nella stessa situazione logica di prima, perché, esattamente come il “vedere”, l'”essere visto” è momento dell'esistere. Se penso esisto, questo enunciato è analiticamente vero perché, come osservò a suo tempo in polemica con Cartesio Gassendi, si tratta di un sillogismo camuffato: “tutto ciò che pensa esiste, io penso, quindi io esisto”. Ma se questo è vero si può dire con eguale coerenza: “tutto ciò che mangia esiste, io mangio quindi io esisto”, oppure: “tutto ciò che è mangiato esiste, una bistecca è mangiata, quindi la bistecca esiste”. La logica del procedimento cartesiano conduce alla affermazione del mondo esterno come a quella del soggetto.
E' nota la risposta di Cartesio alla obiezione di Gassendi: il “cogito” non è un sillogismo camuffato ma una affermazione basata su una immediata, indubitabile evidenza. Correttamente non si dovrebbe dire “penso
quindi esisto”, ma “penso, esisto”, forma che evidenzia il carattere immediato, non deduttivo del cogito. Se però le cose stanno così scompare la pretesa superiorità della apprensione del mio esistere rispetto a quella del mondo esterno. Perché, è vero, io ho una immediata, indubitabile percezione del mio esistere e il solo fatto che io abbia questa percezione attesta che io, in qualche modo, esisto, magari solo come uomo che sogna o cervello in una vasca, per usare il celebre esperimento mentale di John Searle. E questa immediata percezione è il presupposto di ogni discorso, di ogni pensiero, di ogni dubbio. Ma con altrettante ragioni io posso affermare di avere una immediata percezione del mondo esterno ed il semplice fatto di avere questa percezione dimostra che il mondo esterno in qualche modo esiste, magari come uomo che sogna, che in quanto tale è esterno alla mia esperienza sognata (l'esperienza è sogno da cui è escluso per definizione il sognatore) o come impulso elettrico che induce nel cervello nella vasca i pensieri e le sensazioni (l'impulso è esterno al cervello).
Comunque si affronti la questione, il cogito cartesiano ci conduce ad un dilemma: o si tratta di un sillogismo camuffato, ed allora è possibile passare dal pensare, ma non solo, all'esistere del soggetto, ma anche del mondo. O si tratta di una apprensione immediata, ma in questo caso scompare la superiorità della conoscenza del me rispetto a quella del mondo.

L'evidenza del mondo esterno è tale che nessuno seriamente ne dubita, neppure il più scettico fra i filosofi, esattamente come nessuno, neppure il più scettico dei filosofi, dubita seriamente di esistere.
Ciò che è mediato non è la percezione del mondo esterno, è il dubbio sulla sua esistenza. E' il dubbio ad essere la conseguenza di un ragionamento, di un porsi domande sul mondo, insomma, di una mediazione intellettuale. Non c'è nulla di male nel ragionare e nel porsi domande, sia ben chiaro. Ma non c'è niente di male neppure nel mettere in evidenza i limiti di certi ragionamenti, le assurdità a cui conducono certi dubbi. Ciò che voglio sostenere non è l'illiceità del dubbio, è il carattere non veritiero del suo assunto fondamentale: non è vero che l'esistenza dell'altro da noi ci sia data in maniera indiretta: ci è data direttamente, appare con evidenza ai sensi e nessuno ne dubita davvero, nessuno si comporta come se davvero l'esistenza di alberi e case, sedie ed altri esseri umani sia davvero dubbia. Ovviamente possiamo sbagliare nel giudicare ciò che si presenta ai nostri occhi. E' l'esistenza, non un certo modo di essere del mondo, ad esserci data con evidenza immediata. La terra ci appare piatta eppure è sferica, un remo nell'acqua appare storto invece è dritto... però questi stessi errori dimostrano che la terra, l'acqua e i remi esistono indipendentemente dai giudizi che noi possiamo dare si di loro, ed è questo l'essenziale.

Il mondo ci appare con immediata e realistica evidenza, tuttavia non è logicamente impossibile dubitare anche della più realistica delle evidenze. Il dubbio non è logicamente contraddittorio, non può quindi essere logicamente confutato, esattamente come non si può logicamente provare o dimostrare l'esistenza del mondo. Molti sono restii ad accettare questo fatto. Non sembra sufficiente a costoro che l'esistenza del mondo sia un dato immediato dei sensi. In questo modo resta nel mondo qualcosa di non perfettamente trasparente alla ragione, il dubbio conserva un suo angolino. Per quante evidenze e buone ragioni ci siano per credere che il mondo esista, qualcuno, volendo, può avanzare argomenti per mettere in dubbio questa convinzione, e conta poco che questi argomenti non siano per niente convincenti. Il dubbio è comunque possibile, e tanta basta per lasciare in qualcuno un sottile sentimento di fastidio. Molto spesso chi avanza con più forza argomenti scettici è tutt'altro che scettico: è il desiderio di certezze assolute ad alimentare il dubbio, molto spesso.
Chi pretende che l'esistenza del mondo sia “provata” o “dimostrata” logicamente vuole in fondo una cosa sola:
mondare il mondo dal dato. Del dato si può sempre logicamente dubitare, anche quando è un dato che ci si presenta con immediata, palmare evidenza. Il fatto che il mondo ci sia dato in maniera immediata non implica che, anche nella sua immediatezza, non possa essere oggetto di dubbio. E' comprensibile in fondo che qualcuno voglia liberarsi del dato, voglia “provare” tutto, tutto “dimostrare”. Ma il dato è inesorabilmente legato alla nostra dimensione di uomini. Il mondo è dato e le stesse leggi della logica sono date. E' dato, e in quanto tale non dimostrabile, il principio sommo della logica formale: il principio di non contraddizione. Anche se fosse possibile “dimostrare” l'esistenza del mondo in questa dimostrazione resterebbe sempre qualcosa di dato, di non dimostrabile, e si tratterebbe nientemeno che del principio della dimostrazione stessa. L'unica dimostrazione che del principio sommo della logica si può dare, lo ricordava Aristotele, consiste nel suo uso: anche chi lo nega deve usarlo per cercare di contestarne la validità. E' un tipo di “dimostrazione” molto simile a quella che si può dare dell'esistenza del mondo: chi la nega deve intanto darla per scontata anche solo per poterla negare. Il solipsista che ritiene di essere l'unico essere pensante e senziente distrugge, vorrebbe teoreticamente distruggere, il mondo e col mondo gli altri esseri umani. Però vive e si rapporta al mondo, parla e interagisce continuamente con altri esseri umani. Il suo pensiero, e le sue parole, e le sue azioni, il suo stesso dichiarato solipsismo confutano in ogni istante la sua teoria. Questa è probabilmente l'unica confutazione possibile del dubbio scettico e solipsista, e nel contempo l'unica possibile “dimostrazione” dell'esistenza del mondo. Altro tipo di dimostrazione del fatto che il mondo, e nel mondo altri esseri umani, esistano non è consentita alla nostra ragione finita. A qualcuno questo provoca fastidio, irritazione? C'è chi si sente insopportabilmente impotente per il fatto che l'esistenza di alberi e case ed altri esseri umani, e con loro della totalità dell'esistente, non possa venir logicamente fondata ed acquistare così una razionale, indiscutibile certezza? Beh, non possiamo che dolerci delle sue afflizioni.






























Note1) Aristotele, Metafisica. Laterza 1988 pag 95
2)Kant: Critica della ragion pura, Laterza 1983 pag. 473 474.
3) Roger Scruton: la filosofia moderna compendio per temi. Laterza 1998 pag. 348.
4) Ibidem pag. 349
5) Ibidem pag. 349 350.

lunedì 13 maggio 2019

PERCHE' ODIANO TANTO?

Perché sono tanto faziosi? Come è possibile che riescano ad esprimere una così formidabile capacità di odiare? Perché devono avere sempre un mostro, ieri Berlusconi, oggi Salvini, da additare quale responsabile di tutti i mali del mondo? Tanta faziosità, tanta ostentazione di odio sono, tra l'altro, controproducenti. Possibile che non lo capiscano? Zingaretti e Martina non sono particolarmente intelligenti, è vero, ma anche uno stupido queste cose riuscirebbe a capirle, loro no. Perché?
La risposta è semplice: sono comunisti. Per essere più precisi, hanno da tempo abbandonato i fini comunisti ma conservano la mentalità comunista, il che è anche peggio.
Qualcuno considera il partito comunista un partito, più o meno, simile a tutti gli altri, solo più intollerante, più estremista. Il partito comunista avrà magari una forte vocazione autoritaria ma è comunque, e si sa, parte della società e mira a governarla, anche se con metodi poco ortodossi. Chi la pensa così non ha capito nulla del comunismo, meno ancora capisce la mentalità comunista
Il partito comunista non è un normale partito autoritario, non mira semplicemente a governare autoritariamente la società, al fine di tutelare determinati strati sociali, i loro interessi, i loro valori. No, è qualcosa di completamente diverso. Il partito comunista è l'autocoscienza della storia che si esprime come auto coscienza di quella classe che ha il destino storico di traghettare il genere umano dal regno della necessità a quello della libertà: il proletariato.
Il mondo borghese è un mondo alienato, gli esseri umani che vivono in questo mondo sono poveri, esangui fantasmi, non-uomini che hanno fuori di se la propria umanità. Grazie all'azione della classe operaia e del partito che ne rappresenta l'autocoscienza questo mondo sarà distrutto, si ricomporrà ad un livello più alto la originaria unità fra uomo e natura, individuo e collettività, essenza ed esistenza umana. Dopo millenni di sfruttamento ed alienazione si concluderà il dramma terreno dell'uomo. La scissione dell'uomo con se stesso sarà superata e regnerà, per sempre, una superiore armonia.
Nella teoria e nella prassi del partito comunista si esplicita e si realizza il rovesciamento della storia, dell'uomo e della società. Non l'emancipazione umana ma la trasfigurazione dell'uomo è il fine del partito comunista, la rigenerazione integrale, la torsione a 180 gradi della sua natura. Con questa torsione la storia raggiunge il suo fine immanente, il paradiso abbandona l'al di la ed entra trionfante nel mondo terreno.

Il carattere mistico ed escatologico di una simile concezione è talmente evidente che non vale  la pena di sottolinearlo troppo. Una cosa invece val la pena di mettere in evidenza: i rapporti fra i comunisti e gli esponenti di altre forze politiche non sono in nulla assimilabili ai rapporti, più o meno pacifici, che le altre forze politiche hanno fra loro. Liberali e socialdemocratici, progressisti e conservatori, laici e cattolici, per tutti c'è posto nella concezione comunista della storia e del suo corso. Però sono loro, i comunisti, a rappresentare la autocoscienza di questo corso. La vittoria finale del comunismo rappresenta il lieto fine di un dramma di cui anche gli altri sono attori, ma attori necessariamente comprimari, inconsapevoli agenti della loro stessa, inevitabile, sconfitta. I rapporti fra i comunisti e gli altri non sono, non possono mai essere, rapporti alla pari. Si tratta, sempre, di rapporti fra l'agente dello sviluppo storico ed i suoi inconsapevoli strumenti.

Il comunista può essere anche molto “dialogante”, a volte è dispostissimo ad accordi tattici o strategici con altri partiti, mira spesso a creare ampi fronti “democratico progressisti”, ma, sempre, considera gli altri, siano essi nemici o momentanei alleati, come esponenti di forze politiche e sociali destinate a sparire, magari dopo aver subito per un certo periodo di tempo la sua egemonia.
La faziosità del comunista nasce da qui, dalla pretesa di essere radicalmente diverso dagli altri, diverso perché destinato a realizzare un ineluttabile destino storico. Ma, attenzione, l'essere il consapevole attore di un destino storico non induce nel comunista alcun senso di quietismo. Il destino si realizza nella e grazie alla volontà, le leggi immanenti alla storia trovano la loro attuazione nella cosciente pratica rivoluzionaria. Il comunista è, insieme, determinista e volontarista, la cosa non lo preoccupa perché lui, da buon marxista hegeliano, ha “superato” il principio di non contraddizione. Si sa predestinato a riscattare il mondo e lotta con tutte le forze contro chi intende rallentare, o condizionare, o impedire questo riscatto. E' un calvinista laico.
E da buon calvinista ha una formidabile capacità di odiare, oltre che di amare. Ed odia in effetti chi in qualsiasi modo si oppone alla sua azione redentrice; soprattutto odia con la massima intensità chi non dialoga con lui, chi non accetta la sua visione escatologica della storia, la sua concezione del bene come trasfigurazione dell'uomo, insomma, chi rifiuta la sua egemonia culturale oltre che la sua politica.
Il comunista rigetta con veemenza ogni forma di reciprocità con le altre forze politiche. E' ridicolo chiedergli una sincera accettazione delle regole democratiche, o il riconoscimento del pluralismo sociale e politico o il rispetto delle libertà individuali.
Il comunista pretende il massimo rispetto dagli altri ma non è disposto a rispettarli, se non a fini tattici. Una manifestazione è una grande “espressione di democrazia” se ad essa aderiscono i comunisti, diventa “eversione populista” se a guidarla sono i suoi nemici. Il comunista è pronto a definire “borghese“ la legalità, ma la invoca se il leader di un partito nemico finisce nel mirino di qualche magistrato politicizzato. Esalta la pace quando si tratta di protestare contro un intervento armato “made in USA”, ma esalta la guerra se sono i suoi compagni a condurla, vuole la libertà di stampa ma è pronto ad eliminarla se questo favorisce la sua politica, urla contro la pena di morte, ma la sua storia è un martirologio di esecuzioni, spessissimo sommarie, sempre illegali. La democrazia va bene se agevola l'azione politica dei comunisti, può essere gettata alle ortiche se la ostacola. Si potrebbe continuare, molto, molto a lungo.
Una faziosità tanto radicale non deriva da cattiva fede, scarso attaccamento all'ideale, degenerazione corruttiva. No tanta faziosità deriva precisamente dall'attaccamento all'ideale, dalla convinzione profonda di far parte della crema del genere umano, di essere superiore agli uomini “comuni”. Il comunista è tanto più fazioso quanto più è in buona fede, è tanto più feroce quanto più è onesto, in questo è sinistramente simile al suo gemello-nemico nazista. Il nazista più pericoloso era quello più in buona fede, quello meno corruttibile, intimamente convinto della superiorità della “razza ariana” e del carattere criminale del giudaismo. Alcuni fra i più grandi ed orrendi crimini della storia sono stati commessi da persone assolutamente integerrime, spesso “incorruttibili”.

Ci sono altri due aspetti della faziosità comunista che occorre chiarire, aspetti piuttosto importanti.
Il primo risiede nella concezione comunista del bene. Si sente spesso dire che i comunisti sono meno esecrabili dei nazisti perché il loro fine sarebbe stato il “bene” degli esseri umani mentre i nazisti rivendicavano con feroce coerenza il male. Non intendo affrontare un tema tanto complesso come quello del confronto fra comunismo e nazismo, mi limito ad osservare che l'etica delle intenzioni non può guidarci nella valutazione di ciò che concretamente producono certe ideologie. Se una certa ideologia mira al bene ma sempre, in tutte le situazioni, produce solo il male può darsi che ci sia in lei qualcosa di profondamente, radicalmente sbagliato, può darsi che il bene per cui questa ideologia si batte non sia poi tanto un “bene”. E siamo così al punto. Il “bene” a cui mirano i comunisti non è lo stesso “bene” a cui mirano ad, esempio, i liberali, o i socialdemocratici. Per tutti questi è “bene” che gli esseri umani godano di estese libertà civili e politiche, che esista un buon livello di benessere, che tutti, o la gran maggioranza, degli esseri umani possano realizzare alcuni almeno dei loro fini. Si tratta insomma del bene dell'uomo empirico, dell'essere limitato, dato, accidentale che vive qui ed ora nel mondo. Il comunista ride di questa concezione del bene, si tratta per lui di una concezione piccolo borghese, filistea. Il “bene“ del comunista si identifica col superamento dell'egoismo in ogni sua forma, nella fine e di quello che Rousseau chiamava l'amor proprio, del desiderio di riconoscimento, di benessere materiale. Il bene ideale del comunista si realizza nell'integrazione senza residui dell'io nel tu, del singolo nel collettivo, nella armonia totale, senza smagliature di tutti con tutti. Si tratta non di fare il bene dell'uomo che vive qui ed ora nel mondo ma di cambiare radicalmente la natura di questo piccolo, miserabile, filisteo che è l'uomo che vive qui ed ora nel mondo. Il bene comunista si realizza nella costruzione dell'uomo nuovo, non nella soddisfazione dei meschini desideri dell'uomo “vecchio”. Si tratta di un fine impossibile, impossibile nel senso letterale del termine, posto al di fuori delle possibilità umane. Però è facilissimo uccidere milioni di uomini “vecchi” per realizzarlo; è possibile farlo perché chi ha una simile concezione del bene gli uomini vecchi in fondo li disprezza. L'ometto che vuole qualche soldo in più in busta paga, che aspetta con ansia una settimana di vacanze al mare, che è preoccupato per la scarsa sicurezza del quartiere in cui vive, fa schifo all'intellettuale comunista. Se ne possono sostenere le rivendicazioni se questo è utile alla causa, lo si può spedire in un comodo campo di concentramento se invece è questo ad essere utile; lo si può fare senza batter ciglio. Un simile sotto uomo non merita molte attenzioni.

Ed infine, la cosa forse più importante. Il grande ideale è scritto nel destino della storia ma si realizza con la volontà, nella lotta, lotta dura, durissima, spietata. E nella lotta si deve odiare, odiare senza riserve il nemico. E non si odiano una classe o un sistema economico, non si odiano delle relazioni sociali. Si odiano, si possono odiare solo degli esseri umani, esattamente come si possono amare solo degli esseri umani, in carne ed ossa. La grande causa ha bisogno di grandi leader che le folle possano adorare e di nemici che le stesse possano, anzi, debbano odiare, con tutte le loro forze. Le grandi ideologie escatologiche hanno sempre bisogno di nemici.
Ed infatti il comunismo è sempre vissuto circondato da nemici, esseri demoniaci, uomini che rappresentavano il male assoluto, mostri coi quali ogni dialogo era impossibile, che dovevano solo esser distrutti, schiacciati come vermi. Il caso più enorme è quello di Trotskj. Il protagonista del colpo di mano dell'ottobre che diventa il nemico numero uno degli operai di tutto il mondo, l'insetto velenoso che da sempre ha tramato contro il partito bolscevico, colui che era complice del fascismo prima ancora che il fascismo nascesse. E oltre a Trotskj tanti altri, interni o esterni al movimento comunista, di destra o di sinistra: il “rinnegato Kautsky”, Liu Shao Chi, Saragat, Scelba, Craxi, Almirante, fino ai mostri di iri e di oggi: Berlusconi, Salvini. La lotta per il bene assoluto ha bisogno di angeli ed ha, parimenti, bisogno di demoni. Certo, a volte le cose cambiano, col mutare delle esigenze tattiche. Qualche mostro viene riabilitato, qualche altro diventa, per limitati periodi di tempo, un po' meno mostro. Saragat è stato additato per anni come “servo degli imperialisti”, poi è stato votato, anche dai comunisti, presidente della repubblica; lo stesso Berlusconi, dopo esser stato demonizzato per anni viene oggi guardato con un certo rispetto, oggi il mostro non è più lui. Ma se si guarda alla storia del movimento comunista nel suo complesso ci si accorge subito che sempre, in questa storia, è presente qualche mostro, qualche nemico del popolo contro cui manifestare il proprio furore , la propria sacrosanta indignazione.

Qualcuno potrebbe obbiettare: “Giovanni, non ti sembra di esagerare? Zingaretti che vuole rifondare l'uomo? Martina che vuole rivoltare come un calzino la società? Ma è tutta gente impelagata con Monte Paschi!
E' vero, i post comunisti di oggi hanno abbandonato le vecchie utopie, sono ben inseriti nel sistema capitalistico, amministrano banche, a volte quasi le fanno fallire, hanno buoni rapporti con nomi importanti della nomenclatura industriale e finanziaria. Insomma, non sono affatto degli incorruttibili e spietati angeli dell'ideale, piuttosto piccoli e grandi burocrati con una moralità spesso assai elastica, più di una volta coinvolti in gravi scandali.
Però, la mentalità degli esseri umani non cambia automaticamente col variare del loro stile di vita, delle loro stesse idee. Si può accettare il sistema capitalista e continuare a sentire nei suoi confronti una sottile ostilità. Ci si può, anche in buona fede, dichiarare pluralisti ma continuare a sognare la società unificata, omogenea, priva di contrasti. I valori degli attuali leader PD sono il mondialismo e l'accoglienza illimitata, il misticismo ecologico e la filosofia gender, l'europeismo marca UE e la strenua difesa dei famosi “parametri”. Tutte cose che col comunismo hanno decisamente poco a che vedere. Tutto vero, ma qui non si tratta del
merito dei valori e degli obiettivi oggi difesi dalla sinistra, ma della loro forma. E questa è oggi, più o meno la stessa di ieri. La società integrata, multicolore, caratterizzata da una illimitata mobilità, priva di sessi e di ruoli sessuali è considerata oggi un valore assoluto esattamente come erano fino a ieri valori assoluti la pianificazione centralizzata di tutta l'economia e la difesa sempre e comunque della “patria del socialismo”. E l'incondizionata fedeltà che oggi il PD giura alla UE ricorda abbastanza da vicino la vecchia fedeltà al “campo socialista”. La sinistra proprio non riesce a considerare le idee, gli interessi, i valori che difende come qualcosa di non assoluto, come normali idee, interessi, valori che devono convivere con altri, anch'essi pienamente legittimi, in una società pluralista. Chi non accetta la loro visione del mondo è, sempre, un essere abbietto, un nemico del progresso, della pace, della democrazia, qualcuno da espellere dalla contesa politica , non da battere politicamente. In questo un Martina ed uno Zingaretti restano, nella forma mentis, comunisti, come erano comunisti Longo o Togliatti.

Al momento del suo crollo l'impero comunista era tutto meno che il regno dell'ideale incontaminato, era divorato da una corruzione generalizzata, distruttiva. Però i vecchi modi di pensare e sentire restavano, ben saldi, convivevano con una realtà gretta, miserabile. E nessuno fra i vecchi modi di pensare e sentire è tanto saldo, duro a morire quanto la faziosità, la convinzione di essere comunque superiori agli altri. Tanto più l'ideale viene contraddetto dalla prassi tanto più si fa forte questa convinzione, tanto più feroce diventa, a volte, questa faziosità. Si tratta di un'arma difensiva, in fondo, qualcosa che tiene lontane le insidie del mondo e permette al post comunista di non rimettere in discussione la sua storia, i suoi valori, di far convivere la sua grigia prassi presente con i nobili e mai rinnegati ideali di ieri.

Fino a quando i post comunisti non diventeranno ex comunisti, fino a quando cioè non sottoporranno ad un esame spietato la loro vecchia ideologia, fino a quando continueranno a voler far convivere passato e presente, idealità e grigia prassi quotidiana, fino a quel momento resteranno, sempre, degli insopportabili faziosi. Divorati dall'odio.