venerdì 30 settembre 2016

SUL MONDIALISMO - 3) MONDIALISMO E MERCATO

Il rapporto fra capitalismo e stato nazionale è assai più complesso e meno lineare di quanto comunemente si pensi. Innanzitutto una premessa, fondamentale. Il capitalismo contemporaneo (in realtà il capitalismo, inteso nel senso lato di economia di mercato, è vecchio di millenni) è nato, grosso modo, insieme agli  stati nazionali. Il primo e più importante capitalismo del mondo è sorto in Inghilterra, uno dei più antichi e gloriosi stati nazionali europei. Gli uomini protagonisti del capitalismo agivano, ed agiscono, quali individui inseriti nella loro classe sociale ma anche nella loro realtà nazionale. Le due appartenenze, non coincidenti, si sono sempre intrecciate e condizionate a vicenda. Non a caso il capolavoro di Adam Smith si intitola: “La ricchezza delle nazioni”, o, per esteso: “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Il fondatore dell'economia politica indaga su quale sia il sistema economico in grado di accrescere al massimo la ricchezza delle nazioni. Il capitalismo nasce non in contrapposizione allo stato nazionale ed alla dimensione nazionale in cui si muovono gli esseri umani ma in accordo con questa.
Ma, anche a prescindere da queste considerazioni generali e fermando l'analisi ai fattori più direttamente economici, il rapporto capitalismo – stato nazione, appare tutto meno che lineare.
Il capitalismo mira, da sempre, alla internazionalizzazione degli scambi, la cosa è innegabile, e, per inciso, non è affatto negativa: rompe barriere, localismi, chiusure tribali. Ma, nel momento stesso in cui preme su confini e barriere il capitalismo ne cerca la protezione. Per potersi sviluppare l'economia di mercato ha bisogno di leggi, protezioni giuridiche, regole e queste oggi possono essere messe in atto solo dagli stati nazione. Solo simili stati sono sostenuti da un consenso diffuso, si basano su autentici sentimenti di appartenenza che ne impediscono sia la disgregazione che l'involuzione tirannica contraria, in ultima analisi, alle esigenze dell'economia. L'economia di mercato accompagna più o meno tutta la storia umana, ma si rafforza e diventa egemone solo in paesi in cui sia garantita ai cittadini almeno un minimo di tutela giuridica ed in cui gli stati non siano enormi mostri burocratici, accentrati e prevaricatori, né opprimenti teocrazie.

E' quasi un luogo comune che il capitalismo prema per la libertà degli scambi. C'è molto di vero in una simile affermazione, ma è completamente errato pensare che la spinta verso gli scambi internazionali si trasformi necessariamente in mondialismo, sia destinata cioè a distruggere la dimensione nazionale degli stati.
Nelle fasi iniziali del loro sviluppo le economie capitalistiche hanno fatto ricorso, spesso e volentieri, a pesanti dazi protettivi. Ed anche economie capitalistiche mature devono far ricorso, specie nei momenti di difficoltà o di crisi, a protezioni doganali. Ben lungi dall'essere una tendenza generalizzata ed invincibile di tutte le economie capitalistiche il libero scambio ne caratterizza, parzialmente, quelle più dinamiche nelle fasi di espansione del ciclo economico.
La moneta ed il suo tasso cambio rispecchiano i rapporti di forza fra le varie economie. Se in un paese la produttività del lavoro è doppia rispetto ad un altro il rapporto fra le loro monete deve adeguarsi: il paese più produttivo deve rivalutare e questo influenza l'andamento degli scambi. Senza diverse monete che rispecchino ed in parte correggano le relazioni strutturali fra le economie gli scambi sarebbero più difficili. Una moneta unica mondiale, logica conseguenza del superamento degli stati nazionali, sarebbe un formidabile ostacolo al commercio ed allo sviluppo economico. Ne sono prova le numerose disavventure dell'euro.
Come si sa gli stimoli alla domanda e le immissioni o i drenaggi di liquidità nel sistema servono a contrastare le impennate eccessive del ciclo economico. Indipendentemente dalla valutazione sull'efficacia di tali politiche, uno stato “mondiale” di certo non potrebbe metterle in atto. Le esigenze di liquidità, le variazioni della domanda sono estremamente variabili da luogo a luogo e nessuna politica economica super accentrata sarebbe in grado di farvi fronte.
Questi sono solo tre esempi, che riportano tutti ad un'unica considerazione. Il rapporto tra economia capitalistica e stati nazionali è tutto meno che unilineare. La tendenza all'internazionalismo, al superamento degli stati nazionali si intreccia continuamente con l'esigenza di conservarli, questi stati; gli stessi meccanismi che portano alla concentrazione ed alla unificazione mondiale dei mercati tendono di continuo a ricrearne l'esigenza.

L'approccio di molti all'economia capitalista è invece di tipo unilineare. Si esamina una tendenza del sistema, la si proietta ne futuro e si traggono da questa estrapolazione conseguenze generali di immane portata. Si disegnano in questo modo grandiosi scenari, ottimistici o cupamente pessimistici, che però raramente concordano con la realtà.
La stessa analisi marxiana, di cui qui ci possiamo occupare solo telegraficamente, è di questo tipo. Il modo di produzione capitalistico tende alla concentrazione ed alla socializzazione della produzione. Le grandi aziende sostituiscono inesorabilmente quelle più piccole, i confini statali vengono valicati, il mercato si unifica a livello mondiale. Un numero sempre più ristretto di imprese di enormi dimensioni domina l'economia nella sua interezza. Scrive Marx nell'ultimo capitolo del libro primo del “
Capitale”:
“Allorché il modo di produzione capitalistico ha gettato le proprie fondamenta, l'ulteriore socializzazione del lavoro e l'ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione socialmente sfruttati, vale a dire in
mezzi di produzione collettivi, quindi anche l'espropriazione dei proprietari privati assumono una nuova forma (…). Questa espropriazione si attua mediante il meccanismo delle leggi fondamentali della produzione capitalistica stessa , mediante la concentrazione dei capitali”.
Le leggi immanenti del sistema capitalistico lo spingono verso una crescente concentrazione e socializzazione della produzione. Nel capitalismo esiste una formidabile spinta in senso collettivista che però, ecco il punto decisivo, il capitalismo stesso blocca. I rapporti di produzione capitalistici entrano in contrasto con il modo di produzione capitalistico, bloccano le tendenze alla socializzazione pure attivissime in questo.
“L'accentramento dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro arrivano a un punto in cui entrano in contraddizione col loro rivestimento capitalistico. Ed esso viene infranto.
Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori divengono espropriati. (…) La produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la propria negazione. E' la negazione della negazione”.
E' il “
Capitale” di Marx ma può sembrare la “Scienza della logica” di Hegel. E' comunque impressionante il carattere unilineare, al limite della unilateralità, della analisi marxiana. Il capitalismo concentra e socializza produzione e lavoro. Questo processo di concentrazione e socializzazione abbatte ogni barriera, unifica i mercati e semplifica radicalmente il tessuto sociale. Entra però in contrasto coi rapporti di produzione capitalistici ancora basati sulla appropriazione privata del plusvalore. A questo punto entra in campo la classe rivoluzionaria, il proletariato, che rompe questi rapporti, socializza compiutamente la produzione, riorganizza l'economia in maniera armoniosamente programmata e spalanca per tutti le porte del regno. L'umanità esce dalla preistoria e, finalmente, entra nella storia.

La storia, prima che l'analisi teorica, doveva smentire clamorosamente le previsioni, forse sarebbe meglio dire profezie, marxiane.

Non è scomparsa la piccola impresa, al contrario, la concentrazione dei capitali aumentando la produttività del lavoro e lo sviluppo economico complessivo ben lungi dal far sparire le piccole imprese, ha aperto loro nuove possibilità.
Non sono scomparsi gli stati nazionali, al contrario, stati che erano rimasti per secoli in una posizione subordinata sono emersi prepotentemente e sono oggi fra i protagonisti sia a livello politico che economico.
Non c'è stata la semplificazione del tessuto sociale, e la sua la proletarizzazione. L'economia capitalistica da tempo si basa sul consumismo, non sulla contrazione dei consumi e sulla riduzione del monte salari al “minimo vitale”. Invece che alla proletarizzazione dei ceti medi abbiamo assistito all'imborghesimento della classe operaia. La conseguenza di questo processo storico innegabile è stata non la semplificazione ma una rinnovata articolazione della società.
Da qualsiasi punto di vista si guardino le cose la conclusione è sempre la stessa. Non esiste nel capitalismo una unica, inarrestabile tendenza alla concentrazione ed alla omegeneizzazione di tutto, un impulso irresistibile alla semplificazione sociale, che si scontrerebbe con i rapporti di produzione borghesi. Del resto molti esponenti del movimento operaio cominciarono assai presto ad accorgersi che il movimento reale della storia contraddiceva le previsioni marxiane. Lo stesso Engels ebbe dubbi di questo tipo. Dopo di lui le correnti revisioniste della socialdemocrazia tedesca presero lentamente atto di come si stavano mettendo le cose. E, sul versante opposto, anche le correnti rivoluzionarie dovettero misurarsi con il fenomeno inquietante di un processo storico che non quadrava con schemi dialettici prestabiliti. Lenin era tormentato dall'imborghesimento della classe operaia dell'Europa occidentale, soprattutto di quella inglese, da lui sprezzantemente definita “aristocrazia operaia”. Non a caso pensò di sostituire agli operai il loro partito internazionale come soggetto della rivoluzione.
A parte ogni considerazione storica, resta da porsi la domanda: la mondializzazione costituisce davvero l'essenza del mercato o non è piuttosto espressione di una tendenza presente nell'economia capitalistica, quella che spinge nel senso della
pianificazione?
In ogni economia, in ogni società, esistono innumerevoli “piani”. Ogni individuo, ogni famiglia, ogni impresa od associazione ordinano le proprie scelte, si pongono degli obiettivi, in una parola, pianificano la propria esistenza. L'economia di mercato non abolisce i “piani”, ne riconosce invece la molteplicità. Rifiuta un'altra cosa: che tutta l'economia, tutta la vita sociale, le esistenze di tutti gli individui e di tutte le associazioni debbano essere sottoposte ad
un'unica pianificazione centralizzata. E' naturale che le imprese di dimensioni enormi, legate agli apparati statali, addirittura ad apparati di più stati, abbiano interessi pianificatori più accentuali, e tendano ad imporli al resto dei soggetti economici. Ed hanno interessi simili i grandi apparti burocratici statali, nazionali e sovranazionali. E tendenze pianificatrici esistono, oltre che a livello di imprese e stati, anche a livello di massa. Spingono nel senso della pianificazione quei non secondari settori della pubblica opinione che vedono nelle sovvenzioni statali e nella economia assistita un possibile mezzo di sussistenza, e spingono nello stesso senso quanti, e sono molti, restano influenzati dalla cultura della pianificazione e ritengono che il mercato sia il regno di una irrazionale anarchia. Si tratta di tendenze potenti, anche se non invincibili, ma, ecco il punto, possono davvero esser scambiate per “mercatismo”, “liberismo selvaggio”, “religione della concorrenza”? E, cosa ancora più importante, si tratta di tendenze positive o negative? Da favorire o da contrastare?

Che le tendenze pianificatrici insite nel capitalismo poco o nulla abbiano a che vedere col mercato ed il liberismo dovrebbe essere ovvio. Se davvero queste tendenze dovessero risultare inarrestabili vorrebbe dire che il capitalismo decreta da se stesso la propria fine o “superamento”, e non per mano della classe rivoluzionaria, come riteneva Marx, ma ad opera dei ceti burocratico manageriali che esso stesso ha prodotto. Qualcosa che può ricordare lo Shumpeter, di “
capitalismo, socialismo , democrazia”, di certo non “capitalismo e libertà” di Milton Friedman.
A parte ogni dissertazione pseudo erudita, basta esaminare l'esperienza forse più compiuta di superamento degli stati nazione per constatare quanto poco questa abbia a che fare col liberismo ed il liberalismo. L'Unione Europea viene spesso polemicamente definita unione
sovietica europea, e non a torto. Cosa c'è di liberale nella UE? Ha qualcosa di “liberale” la pretesa di stabilire da Bruxelles la temperatura del caffè espresso, la lunghezza dei gambi di carciofo, il diametro delle pizze o la portata degli sciacquoni nei bagni? Con l'introduzione dell'euro si è imposta un'unica moneta ad economia diversissime, con esigenze del tutto diverse. E per cercare di conferire un qualche grado di omogeneità alle economie sottoposte ad un'unica moneta si è imposto loro il rispetto di determinati parametri. Si è sostituito il cambio della moneta quale indice dei rapporti di forza fra le economia con l'imposizione dei rapporti deficit/PIL o debito/PIL. Difficile immaginare qualcosa di più centralistico, burocraticamente, sterilmente programmatorio. E non passa giorno senza che la commissione europea, una accolita di burocrati non eletti da nessuno e non responsabili di fronte a nessuno, non si inventi qualche nuova regola. Oggi delibera sul linguaggio, in linea ovviamente con la religione politicamente corretta.  Domani impone a tutti i paesi europei norme sulla qualità dei prodotti, sulla loro “tracciabilità”, o sulle transazioni di denaro. Dopodomani decide quanto latte si possa produrre in Italia o quanto vino in Spagna. C'entra qualcosa tutto questo col mercato e la concorrenza? Difficile poterci credere.

A parte ogni discorso sulla “essenza" del fenomeno di cui stiamo parlando, restano le domande: si tratta di un fenomeno inarrestabile? Ed è positivo o negativo? Di inarrestabile ci sono poche cose a questo mondo. Certo, tutti prima o poi moriamo, ma questo non determina affatto il tipo di vita che facciamo, che invece dipende molto dalle nostre scelte. Le tendenze al mondialismo ed alla concentrazione sono potenti, ma niente affatto incontrollabili. In fondo nel mondo ci sono oggi più stati nazionali che non un secolo fa, e se la UE dimostra ogni giorno di più di essere in crisi non si capisce quali potrebbero essere, in un futuro prevedibile, le possibilità di affermazione di uno stato mondiale. Quanto alla sua positività o negatività, mi sembra che la risposta emerga abbastanza chiaramente da quanto si è scritto sinora. C'è solo da aggiungere che qualsiasi economia centralmente programmata si trova a dover fare i conti con due formidabili difficoltà. La prima, sottolineata da Von Mises, riguarda la mancanza, nelle economie pianificate di un efficiente strumento di selezione e valutazione degli investimenti. Le variazioni dei prezzi, collegate all'andamento della domanda e dell'offerta, indicano se si è investito troppo o troppo poco in un determinato prodotto o settore. Ci si privi del mercato e questo formidabile strumento di valutazione razionale delle scelte scompare. La seconda difficoltà riguarda l'utilizzo di quella che Hayek chiamava la conoscenza diffusa. Una mole enorme di conoscenze particolari in possesso di una altrettanto enorme quantità di persone, ognuna competente nella realtà limitata in cui opera. Queste conoscenze possono essere socializzate e utilizzate a beneficio di tutti solo grazie all'azione impersonale del mercato, nessun programmatore centrale è in grado di acquisirle. La programmazione centralizzata priva la società tutta di una gran mole di conoscenze, una programmazione mondiale farebbe diventare enorme una simile perdita. Anche fermandoci a valutazioni strettamente economiche del problema la negatività del mondialismo programmatorio salta agli occhi.

Del resto, per concludere, ha senso interrogarsi sulla inevitabilità o meno, e sulla positività o negatività, del mondialismo affrontando il problema dal solo punto d vista economico? L'attività economica, lo si è detto e ripetuto, non si sviluppa in vitro. Gli esseri umani che producono, comprano e vendono sono sempre inseriti in determinate realtà non produttive od economiche: culture, civiltà, nazioni. Le relazioni commerciali ed economiche fra gli uomini si intrecciano di continuo con relazioni culturali, con solidarietà e contrasti nazionali o religiosi, appartenenze di civiltà. Pensare al mondialismo come ad un fenomeno che riguarda solo o prevalentemente i mercati e la loro internazionalizzazione è fuorviante. Quel grande fenomeno storico che sono le migrazioni delle popolazioni prevalentemente africane, medio orientali e più in generale di religione islamica ha ben poco a che vedere con la globalizzazione dei mercati: riguarda infatti, fra l'altro, molti paesi del tutto emarginati dai processi di globalizzazione. Le migrazioni di popoli africani verso l'Europa, un fenomeno che sta assumendo i caratteri e le dimensioni di una autentica
sostituzione di popolazioni, ha origine anche nella miseria di certi paesi, ma questa da sola non lo spiega, anche perché la miseria non è un fatto nuovo, mentre sono nuovi i processi migratori a cui stiamo assistendo. Si elimini dalla scena l'Islam, la sua aggressività, le continue guerre civili da cui è dilaniato, la sua volontà di imporsi in quanto religione mondiale, e si capisce ben poco delle “migrazioni”. Si elimini dalla scena la crisi culturale dell'occidente, il diffondersi nella nostra civiltà di quel cancro che è l'ideologia del politicamente corretto, la ristrettezza di vedute delle elites occidentali, pronte a vendere la propria civiltà per un barile di petrolio, e dei fenomeni migratori in corso si capirà ancora meno.
Le frontiere della mondializzazione oggi coincidono solo in parte con quelle del mercato globalizzato. Accanto alla globalizzazione dei mercati è in opera un diverso tipo di globalizzazione: quella culturale e religiosa i cui confini coincidono con quelli del radicalismo islamico in espansione. In espansione anche, forse soprattutto, grazie ai processi migratori che l'occidente subisce passivamente. La vera, paurosa distopia con cui abbiamo, ed avremo sempre più a che fare non è solo, né tanto, quella di un mondo grigio, burocraticamente programmato ed invaso di soli prodotti standardizzati. La distopia davvero spaventosa è quella rappresentata dal califfato islamico ed impersonata da Abu Bakr Al Baghdadi. Ma questo è un altro discorso.

martedì 27 settembre 2016

SUL MONDIALISMO - 2) MONDIALISMO E LOCALISMO

Molti pensano che il mercato sia il regno delle omologazione, della scomparsa delle differenze. Nel mercato ognuno di noi è solo venditore o compratore, si dice, e questa riduzione di ognuno alla pura dimensione commerciale distrugge le caratteristiche individuali, le particolarità culturali e sociali di tutti noi. Sul mercato le varie merci perdono le loro peculiarità, diventano mero valore di scambio. Un paio di scarpe ha lo stesso prezzo di un libro e questo lo stesso prezzo di due bistecche. Tutto è uguagliato, reso indistinto. La stessa sorte tocca agli esseri umani che la relazione mercantile riduce a puri venditori ed acquirenti, cose fra cose, che hanno fra loro relazioni “cosali” o “reificate”, per dirla con Marx. Ed ancora, stessa sorte tocca ai vari tipi di relazione comunitaria che gli uomini instaurano fra loro. Il mercato irrompe nei rapporti familiari e, più in generale, in ogni tipo di rapporto comunitario e lo distrugge, inesorabilmente. Le persone non contano in quanto padre o figlio, marito o moglie, membro di questa o quella associazione. Contano solo, di nuovo, in quanto produttori o consumatori, venditori o compratori, pure astrazioni slegate da ogni particolarità individuale o sociale.

Ma, stanno davvero così le cose? Ad una semplice disamina storica la realtà appare piuttosto diversa. L'affermarsi della economia di mercato ha portato alla moltiplicazione delle aggregazioni spontanee e volontarie, e non mercantili, fra gli esseri umani. Nelle economie precapitalistiche il matrimonio era  deciso dalle famiglie, dal padre il più delle volte, indipendentemente dai sentimenti di chi si sposava. L'affermazione delle economie di mercato ha coinciso, sia pure in maniera lenta e faticosa, con l'emancipazione della donna e questa con l'affermazione di un tipo di matrimonio basato per lo più sulla libera scelta degli interessati.
Considerazioni analoghe si possono fare per altri tipi di aggregazione spontanea fra le persone. Nelle società liberal democratiche ad economia di mercato sono sorte e si sono rapidamente diffuse associazioni di ogni tipo, prima in larga misura sconosciute. Partiti politici, associazioni ricreative, culturali, sportive, religiose, caritative. Aggregazioni fra gli esseri umani inseriti nel mercato ma estranee, al loro interno, all'ottica mercantile. E' quella che Hegel ha definito “società civile” la cui autonomia nei confronti del potere politico o religioso è una caratteristica della modernità.
Al contrario in società in cui i rapporti mercantili sono stati aboliti, o sottoposti a fortissime restrizioni da parte del potere politico, la autonomia della società civile è stata, letteralmente, fatta a pezzi.
Il potere totalitario si è intrufolato in maniera più o meno profonda, ma sempre invasiva, nella famiglia. Nella Germania di Hitler come nella Russia di Stalin l'educazione dei figli è stata sottratta ai genitori, più in generale il potere totalitario ha cercato di allentare al massimo i rapporti d'affetto interni ai nuclei familiari per sostituirli con l'amore forzato che ognuno doveva allo stato ed al leader. Nella Russia staliniana mogli e figli dei “nemici del popolo” denunciavano pubblicamente i “crimini” di padri e mariti. Nella Cina di Mao avvenivano cose analoghe. Nella Cambogia di Pol Pot ci si poteva sposare solo se il partito autorizzava a farlo e la prassi di bambini in tenerissima età che denunciavano al partito i genitori, condannandoli ad una morte orribile, era tanto diffusa che i bambini erano in quello sventurato paese gli esseri umani più temuti.
Si possono fare considerazioni simili per la società civile intesa in senso più generale. Sia nella Germania nazional socialista che in URSS, nella Cina di Mao e più o meno in tutti i paesi comunisti le associazioni scoutistiche, religiose, caritative, sportive, ricreative o culturali sono state sciolte o snaturate. Il partito doveva avere il monopolio assoluto su ogni forma di umana aggregazione. Mentre nei paesi ad economia di mercato si è consolidata la autonomia della società civile, in quelli ad economia pianificata, o comunque caratterizzati da un controllo pesantissimo dello stato sulle attività economiche, questa è stata distrutta.

L'equiparazione del mercato alla distruzione delle differenze non regge ad una neppure sommaria analisi storica, e non regge neppure ad un minimo approfondimento teorico.
Le relazioni commerciali eguagliano tutto, si dice; il prezzo riduce tutto a mero numero, relazione quantitativa. Un libro ed un paio di scarpe, un violino ed una cena in ristorante, tutto diventa quantità, la qualità scompare. Si tratta di tesi che possono affascinare ma che, ad un esame minimamente accurato, rivelano tutta la loro inconsistenza.
Dire che il prezzo riduce tutto a quantità, annullando le peculiarità qualitative dei vari oggetti, è come affermare che, dicendo che il monte Bianco è alto 4810 metri, se ne annullano le caratteristiche peculiari. Quando dico che il monte Bianco è alto 4810 metri fisso in un numero la distanza in verticale fra la sua vetta ghiacciata ed il livello del mare. Questo non fa scomparire il ghiaccio e le guglie di granito nero che caratterizzano il massiccio del monte bianco, esattamente come il fatto che la terra giri su se stessa in 24 ore non riduce a mero tempo quantitativo mari e monti, città e continenti. Se un paio di scarpe vale quanto un libro ciò vuol dire, in ultima istanza, che Tizio è disposto a dare a Caio un libro per avere da lui un paio di scarpe, e viceversa. Questo non annulla le peculiarità di Tizio e Caio, del libro e del paio di scarpe. Fa solo in modo che questi due oggetti vadano a chi, in base alle sua peculiarità specifiche, desidera possederli. Lo scambio ed il valore di scambio non eliminano il valore d'uso, al contrario, fanno in modo che il valore d'uso sia davvero tale. Senza lo scambio scarpe e libro non avrebbero valore d'uso, o ne avrebbero uno minore a quello che acquisiscono dopo lo scambio, perché resterebbero in mano a persone per le quali questo valore non esiste o è ridotto. Lo scambio è sempre scambio di oggetti con le proprie caratteristiche, fra persone anch'esse con le proprie specifiche caratteristiche. Contrapporre lo scambio alla specificità dei singoli è privo di senso perché è su questa specificità che lo scambio si regge.

Lo scambio è rapporto, relazione quantitativa, ma agli estremi dello scambio c'è qualcosa che non è rapporto né relazione quantitativa, e neppure semplice quantità. Agli estremi dello scambio ci sono le persone con i loro gusti, le loro aspettative, i loro progetti di vita. E non solo le singole persone. Ci sono anche gruppi, unioni di persone, comunità, tutta quella miriade di associazioni spontanee fra gli uomini in cui si articola la società civile. Soggetti collettivi che operano sul mercato anche se i loro rapporti interni non sono, o non sono solo, mercantili.
La famiglia è la più importante, anche se non la sola, di queste piccole comunità. I membri di una famiglia non intrattengono fra loro relazioni mercantili, ma sono comunque inseriti nel mercato e le stesse famiglie, collettivamente considerate, sono spesso protagoniste degli scambi commerciali. Pensare che la logica dello scambio conduca alla distruzione dei rapporti comunitari fra gli esseri umani vuol dire non capire che le associazioni che nascono da questi rapporti sono pienamente inserite nelle relazioni di scambio. Opera scambi una impresa che mira al profitto come il padre di famiglia che vuole assicurare un buon futuro ai suoi figli, come una associazione no profit o una società sportiva, ricreativa o culturale. Il discorso è sempre lo stesso, in fondo. Lo scambio serve non a se stesso, ma alla vita, alla vita delle persone e delle varie forme di associazione che le persone creano nei loro reciproci rapporti. Sono queste che stanno agli estremi dei rapporti di scambio. Le si elimini e lo scambio muore con esse.
Val la pena di chiedersi: le nazioni, e di conseguenza gli stati nazionali,  fanno parte di queste comunità inserite sul mercato? In un certo senso no. I rapporti fra i membri di uno stato nazionale sono completamente diversi da quelli esistenti in una famiglia o in una piccola comunità. In un altro senso però è possibile rispondere si a questa domanda. Anche se i cittadini di uno stato nazionale non formano affatto qualcosa di simile ad una grande famiglia esistono fra loro sentimenti e rapporti che non esistono, di solito, con i cittadini di altri stati. Ed ogni stato si comporta, nelle sue relazioni con gli altri, come una grande comunità, sia pure “suis generis”. Uno stato firma accordi commerciali se ritiene che questi possano essere favorevoli ai propri produttori e consumatori, o almeno ad una loro parte. Si mettono in atto politiche protezioniste se queste possono favorire la propria economia, si accetta il libero scambio se questo, oltre a favorire, come si dice con una punta di retorica, il “comune benessere”, favorisce il benessere del proprio popolo, o di sue parti rilevanti. Gli stati insomma cercano di favorire la posizione dei propri operatori nel mercato internazionale ed agiscono spesso in questo mercato in prima persona, come soggetti collettivi, con propri obiettivi e  finalità. Si affiancano, in forme ovviamente del tutto specifiche, ai singoli ed ai gruppi quali protagonisti del mercato, estremi degli scambi che in esso si compiono.

E' possibile prevedere un superamento di questa situazione? Ed è auspicabile un simile superamento? E cosa spinge in questa direzione? Si tratta di domande importanti, cui val la pena di cercare di dare risposte.
A questo proposito occorre prioritariamente esaminare due errori speculari ed altrettanto gravi.
Il primo è quello dei teorici del localismo. Sottolineare l'importanza delle comunità negli scambi non significa affatto fare concessioni al localismo. Le comunità agiscono negli scambi come suoi estremi, non sono isole di auto consumo sottratte alle relazioni commerciali. Uno stato che mette in atto sue politiche di mercato non è uno stato autarchico. Anche quando fa scelte protezioniste persegue l'obiettivo di rendere, in prospettiva, la propria economia più forte sul mercato internazionale. Il localismo, la retorica del “chilometro zero”, la teorizzazione della economia di autoconsumo sono semplicemente delle idiozie, da tutti i punti di vista. Si prenda un qualsiasi oggetto, si esamini come viene prodotto e si scoprirà quanto sia legato alla divisione internazionale del lavoro. Se davvero il “chilometro zero” fosse qualcosa di più che uno slogan l'economia subirebbe un crollo spaventoso. Del resto, i teorici del chilometro zero e dell'auto consumo propagandano le loro sciocchezze... in rete! Provino ad esaminare la tastiera ed il monitor del loro PC e scopriranno che NULLA in questi oggetti è a chilometro zero, e non a caso.
Ma il localismo non è solo reazionario, anti economico e, nel mondo di oggi, impossibile. Contraddice, ed è questa la cosa più grave, un carattere di fondo della natura umana: la sua apertura universalistica. L'uomo non vive in habitat rigidamente definiti, non è parte subordinata di qualche ecosistema. L'uomo è aperto al dialogo, alla relazione col diverso, allo scambio. La chiusura nel proprio orticello, il chilometro zero, l'auto produzione e l'autoconsumo sono una terrificante distopia perché impediscono quell'arricchimento umano che solo gli scambi garantiscono. Arricchimento non solo materiale, e scambi non solo materiali. Scambi di idee, esperienze, punti di vista oltre e prima che di beni e servizi. Poter leggere una storia della filosofia cinese arricchisce culturalmente un occidentale esattamente come la lettura di Platone ed Aristotele un cinese. Ed è bello, poter mangiare del sushi a Milano o degli spaghetti al ragù a Tokyo. Il commercio internazionale universalizza gusti e consumi, e questo può spaventare solo delle mentalità meschine.

La universalizzazione di gusti e consumi è cosa molto positiva, ma potrebbe esistere in un mondo, si scusi l'espressione, “mondializzato”? Un mondo in cui le differenze siano scomparse e sia stato trasformato, in un'unica, indistinta comunità?
Ci troviamo qui di fronte all'errore opposto e speculare rispetto al localismo, il cosiddetto mondialismo.
Si possono confrontare Platone ed Aristotele con Confucio e Lao Tzu perchè sono esistite  le filosofie cinese e greca. Sushi e spaghetti sono il prodotto di certe culture, le si elimini e non è possibile gustare nè l'uno nè gli altri. Senza particolarità, culture, tradizioni scompare l'universalizzazione. Si sostituiscano i prodotti figli di determinate colture con una valanga di prodotti standardizzati e l'universalizzazione scompare.
Per non essere fraintesi: non ho nulla contro la standardizzazione. In alcuni settori questa è necessaria (si pensi ai grandi trasporti, o alle comunicazioni), in altri utile, in altri ancora del tutto accettabile. Ma ridurre ogni realtà produttiva alla standardizzazione è semplicemente orribile. Equivarrebbe a ridurre la enorme varietà dei linguaggi ad un solo inglese elementare, o peggio, a quella pseudo lingua artificiale che è l'esperanto. Potrebbe esistere una grande letteratura in esperanto? O in quell'inglese elementare imposto a tutti dalle grandi organizzazioni internazionali? Difficile pensarlo.
Si dice che la mondializzazione sia il prodotto inevitabile della economia di mercato, ne costituisca per così dire l'essenza. Si tratta di una eccessiva semplificazione. Chi effettua scambi guarda con ostilità alle barriere, è vero, ma guarda con ancora maggiore ostilità alla uniformità. Non varrebbe la pena di effettuare scambi commerciali col Giappone se i prodotti giapponesi fossero uguali a quelli italiani in tutto. La mondializzazione elimina le barriere, ma, riducendo tutto alla più piatta uniformità, elimina una delle radici profonde, forse la più profonda ed importante di tutte, dello scambio.
Un sostenitore del mondialismo potrebbe ribattere che questo non elimina le differenze, elimina solo i gli stati nazionali ed i loro confini. Ma se le differenze hanno davvero rilevanza sono inevitabilmente destinate a cristallizzarsi in formazioni statali, quindi in confini, sia pure superabili. Le relazioni mercantili fra gli esseri umani si intrecciano inevitabilmente con le divisioni che le differenze nazionali, linguistiche e culturali creano fra loro. Si elimini la realtà degli stati nazionali e scompare la maggioranza delle differenze socialmente rilevanti fra gli esseri umani, sia quelle che meritano che quelle che non meritano di scomparire. In questo modo, piaccia o non piaccia la cosa, il mondo diventa inesorabilmente uniforme, grigio. E in un Mondo grigio si scambiano solo cose grigie. Forse non val neppure la pena di scambiarle.
Localismo e mondialismo sono due facce della stessa medaglia, due orribili distopie. Il localismo frammenta il mondo in tante piccole comunità che si presumono auto sufficienti. Elimina gli scambi, le relazioni, è nemico mortale del commercio. Apparentemente il localismo esalta la molteplicità, in realtà nulla è più lontano dalla molteplicità quanto la frammentazione del mondo in tante mini realtà prive di contatti fra loro; che contatti occorrono infatti fra comunità autosufficienti, innamorate ognuna solo della propria insuperabile particolarità? Il localismo elimina la molteplicità nello stesso momento in cui trasforma le diverse realtà in atomi sociali, monadi senza finestre sul mondo.
Il mondialismo invece sembra identificarsi con la massima apertura al mondo ed allo scambio, ma si tratta di una apertura fasulla, perché sostituisce la estrema differenziazione in cui il mondo si articola con una onnicomprensiva, grigia, uniformità. Non esistono più confini, ma solo perché non c'è più nulla che valga la pena di tutelare con dei confini. La frammentazione è superata non dal contatto, dal confronto, dalle relazioni, ma da una generalizzata reductio ad unum. Il mondialismo vorrebbe ridurre tutto a mercato e scambi, ma non c'è molto da scambiare in un mondo tristemente uniforme.

Il commercio esiste ed ha una enorme importanza nella vita degli uomini. Ma a commerciare sono, appunto, gli uomini, con le loro identità. Ed alla costruzione di queste identità contribuiscono non poco le culture. Va detto con molta chiarezza: non tutto ciò che esiste nelle varie culture è positivo
. Nelle culture, ed in alcune più che in altre, ci sono molte cose che contrastano con la dignità e la libertà della persona, e non meritano di essere conservate. Se la globalizzazione mondializzante contribuisce a far sparire la poligamia o la lapidazione delle adultere, ben venga questa globalizzazione!
Ciò che invece non può scomparire, ed è bene non scompaia, sono, in generale, le appartenenze culturali, linguistiche, nazionali, con le loro positive specificità. Le relazioni commerciali fra gli uomini non solo si intrecciano con le innumerevoli differenze che queste appartenenze creano fra loro, ma da queste ricevono, molto spesso, una spinta propulsiva. La riduzione di tutto allo scambio non solo elimina differenze che sono essenziali nella costruzione della umana identità, ma distrugge una delle molle dello scambio stesso. Per questo val la pena di chiedersi: l'essenza del mondialismo va davvero ricercata, tutta, nel mercato e l'economia di mercato?
Ce ne occuperemo nella seconda parte di questo scritto.

venerdì 23 settembre 2016

SUL MONDIALISMO - 1) UNIVERSALISMO O MONDIALISMO?

L'universalismo è quella concezione tipicamente liberale e democratica secondo cui ognuno di noi vale soprattutto in quanto uomo, generico appartenente alla specie umana. Chi è universalista ritiene che esista, al di la di ogni differenza storica, sociale o culturale una razionalità universalmente umana, quella che ci permette di comprendere oggi, malgrado le enormi distanze spaziali, temporali e culturali, sia la filosofia di Aristotele che quella di Confucio. E ritiene che esistano alcuni fondamentali valori che riguardano le persone in quanto tali, indipendentemente dal loro sesso, dal colore della loro pelle o dalla loro collocazione sociale. L'universalismo ritiene che ogni essere umano abbia la sua dignità e che abbia diritto al rispetto, sempre, al di là di ogni sua particolarità.
L'universalismo è figlio dell'illuminismo, della democrazia e del liberalismo e si oppone con forza a tutte quelle filosofie politiche che mettono il particolare al primo posto, sia questo un particolare etnico o razziale, sessuale, culturale o sociale. E' quindi quanto meno strano che a difendere l'universalismo siano oggi molti di coloro che hanno simpatizzato in passato per concezioni politiche lontanissime da questo. Il comunismo innanzitutto. Il comunismo è universalista nel fine, ma colloca questo in un lontanissimo ed indeterminato futuro e mette al centro per intanto non l'uomo ma il membro di una certa classe sociale. L'uomo non esiste, esistono il borghese o il proletario, e non esistono valori umani, né una generica razionalità umana; meno che mai esistono un'etica ed una estetica umane. Il fine è universale, ma sarà una particolare classe sociale a realizzarlo. Come poi possa una classe particolare, mossa unicamente dai suoi particolari interessi di classe, realizzare un fine universale, e come possa quel fine universale esser riconosciuto come tale visto che mancano dei valori ed una razionalità genericamente umani che ci permettano di riconoscerlo, è e resta un mistero della dialettica marxiana.

Ma non è del mistero della dialettica marxiana che mi interessa ora discutere, ma di una mistificazione oggi estremamente di moda, creata e propagandata, guarda caso, proprio da coloro che fino a ieri erano i sacerdoti di quel mistero. Detto telegraficamente la mistificazione consiste in questo: si usa il concetto di universalismo per giustificare la politica delle porte aperte alla immigrazione senza limiti e controlli. Siamo tutti uomini, si dice, quindi ognuno di noi deve aprire benevolmente le braccia a tutti. Bianchi, neri o gialli, cristiani, buddisti o musulmani siamo tutti comunque persone, esseri umani. Perché allora innalzare muri, sorvegliare confini? Perché parlare di nazionalità, culture, civiltà? Siamo esseri umani ed ogni essere umano ha diritto di vivere dove crede, di spostarsi come e quando gli pare, e nessuno può limitare questo suo sacrosanto diritto. Il mondo è la casa di tutti. L'universalismo si trasforma in mondialismo, pretesa che il genere umano possa formare un'unica, indistinta comunità priva di barriere, vincoli o confini.
I mondialisti esaltano l'universalità fino ad eliminare, o a depotenziare rendendola irrilevante, la particolarità. Un errore speculare a quello commesso da chi mette il particolare al posto dell'universale. Non a caso questi errori, simili anche se contrapposti, sono spesso commessi dalle stesse persone.
L'universale ha in effetti enorme importanza, ma non esiste mai come "puro" universale. L'universale è sempre particolarizzato ed individualizzato. Non esiste l'astratta “persona”, esiste quella certa persona, col suo sesso, le sue peculiarità individuali, nata in un certo paese, in un determinato momento storico, all'interno di una determinata società, in una certa cultura, e civiltà. Si eliminino le caratteristiche individuali degli esseri umani, le loro particolarità storiche, sociali e culturali e non ci resta che una astrazione vuota, una idea platonica inafferrabile ed indefinibile. Lo aveva ben compreso Aristotele, per il quale l'universale, la “forma”, ha importanza decisiva, ma è sempre una forma indissolubilmente fusa con la materia, un universale che appare concretamente in una determinata particolarità ed individualità.

Lasciamo Platone ed Aristotele nell'Olimpo che loro compete. Non è del resto necessario scomodarli per rendersi conto della insostenibilità delle tesi mondialiste. L'universalismo sostiene, a ragione, che ogni essere umano ha la sua essenziale dignità, che tutti siamo tenuti a rispettare. Le persone valgono in quanto tali, quale che sia il loro sesso, il colore della loro pelle o la loro nazionalità. Da questo però non deriva che tutte le persone debbano dar vita ad un'unica, indistinta, comunità, priva di confini, che abbracci, come diceva il noto canto degli anarchici, “il mondo intero”. Io sono moralmente obbligato a rispettare tutti, non ad essere amico di tutti, meno che mai a dover convivere con tutti. Ho il dovere di rispettare la autonomia di ognuno, ma fa parte di questa autonomia la possibilità di sentirsi particolarmente legato ad alcuni esseri umani e non ad altri. Preferisco formare una comunità con persone di cui condivido idee, valori e modo di intendere la vita. Provo simpatia per certe persone e non per altre, rispetto tutte le donne, ma non cerco di trasformare ognuna di loro in mia moglie. E quello che vale per gli individui vale per le comunità, i popoli. Anzi, un popolo esiste proprio perché un certo numero di esseri umani riconosce che esistono fra loro legami storici, culturali, linguistici che non esistono invece con altri. Ci sono un popolo ed una nazione dove ci sono sentimenti unificanti che in qualche modo trasformano un indistinto insieme di uomini e donne in una comunità. Lingua, storia, attaccamento ad un certo territorio, tradizioni sono fattori che uniscono e nel contempo dividono. Uniscono chi fa parte di una certa comunità e dividono da chi non ne fa parte. Certo, non si tratta di una divisione assoluta, che possa cancellare l'importanza della nostra comune appartenenza al genere umano. Ma si tratta comunque di un diversità essenziale, che contribuisce a definire la identità di ognuno di noi.

Identità, una brutta parola, quasi un insulto per i mondialisti. Però un individuo, un popolo, una nazione sono tali solo se hanno la loro identità. Un essere umano privo di identità non è un essere umano, è al massimo un aggregato di funzioni vitali puramente animali. Un popolo ed una nazione non sono tali se mancano della loro identità, sono al massimo un insieme disorganico di individui, non uniti da nulla. E lo stesso dialogo, a partire dal famoso “dialogo interculturale” oggi tanto do moda, è impossibile se non esistono delle identità. Che dialogo può mai svilupparsi fra culture prive di caratteristiche, valori, identità? Che arricchimento reciproco può mai venire dall'incontro fra entità non identitarie, amorfe, prive di contenuto? Affinché un dialogo possa esistere devono esistere norme razionali universali, infra culturali, che permettano agli esseri umani di parlare e di comprendersi, ma devono esistere anche identità capaci di confrontarsi, ed eventualmente di trasformarsi nel confronto, proprio perché diverse, dotata ognuna delle proprie caratteristiche essenziali.
Proviamo ad immaginare un dialogo fra Aristotele e Confucio. I due grandi filosofi avrebbero potuto capirsi, una volta superati gli ostacoli linguistici? Sicuramente si perché entrambi condividevano una universale razionalità umana. Si sarebbero vicendevolmente trasformati nel corso del loro confronto? Forse si, non lo possiamo sapere, ma, almeno a livello teorico, la cosa appare possibile. Però, avrebbero potuto dialogare ed eventualmente cambiare alcuni dei loro punti di vista proprio perché quei punti di vista esistevano, ed esistono, proprio perché entrambi erano dotati della propria fortissima identità. Chi non ha identità, chi non è se stesso, non può dialogare, ne trasformarsi, né contribuire ad alcuna altrui trasformazione. E' un essere privo di forma, un contenitore vuoto. E ciò vale per i singoli come per i popoli, le culture, le civiltà.

Il mondialismo non è affatto la stessa cosa dell'universalismo. L'universalismo Si basa sul fatto che siamo persone oltre e prima di essere maschi o femmine, bianchi o neri, italiani o cinesi. Ma l'universalismo vive e si alimenta sulle insopprimibili diversità fra le persone. Diversità individuali, sociali, culturali. Permette agli esseri umani di conoscersi, dialogare, scambiarsi idee ed esperienze malgrado, o grazie, alle differenze di ogni tipo che li caratterizzano. Il mondialismo invece vorrebbe cancellare le differenze, ridurre tutto ad uno, costruire un'unica comunità mondiale che cancelli ogni caratteristica storica, culturale, sociale. L'antropologa Ida magli, di recente scomparsa, ha definito il mondialismo come il regno della non – forma. Una definizione estremamente azzeccata. Per il mondialista conta solo la generalità astratta, l'uomo in generale. Ma l'uomo in generale è l'uomo non formato perché l'uomo vive sempre come forma specifica, particolare, con il suo sesso, la sua storia, la civiltà in cui è inserito, le sue relazioni sociali, la sua cultura.
La cultura della non - forma, di cui il mondialismo è massima espressione, è del resto assai diffusa nell'occidente malato di oggi, nei più svariati ambiti della vita sociale.
Permea di se varie concezioni, oggi assai di moda, inerenti il sesso. La differenza sessuale non esiste, si dice con incredibile stupidità, o, se esiste, non ha rilevanza sociale alcuna. La differenza sessuale è ridotta a puro momento ludico nel gioco erotico. Si può far sesso da soli, a due fra uomo e donna, oppure fra uomo ed uomo, donna e donna, o a tre, a quattro o a quaranta. Il sesso è tutto lì, privo di rilevanza nella riproduzione della specie, di legami con il fisico e la psicologia di uomini e donne. Perde ogni valenza ontologica e con questa ogni ruolo nel definire la identità delle persone. Il sesso si sceglie, come si sceglie un prodotto in un centro commerciale.
Tutto è omogeneo, intercambiabile, legato ai gusti del momento. Ovunque domina la reductio ad unum, l'omissione della differenza. Gli esponenti più di spicco del radicalismo animalista hanno esteso questa eliminazione della differenza agli stessi rapporti fra mondo umano e mondo animale. Nulla di rilevante ci distingue da topi ed ippopotami che devono godere del nostro stesso status etico e giuridico. Ancora oltre si sono spinti i teorici della “ecologia profonda” che teorizzano l'eguaglianza di status etico fra tutti gli enti naturali, dall'uomo al sasso. Alla base di queste follie sta sempre l'omissione, o il “superamento”, della differenza, l'eliminazione della forma. Tutto è omogeneo perché tutto è privato delle sue particolarità e della sua individualità. Il mondo è un unicum, senza confini, barriere, muri di nessun tipo fra nessun tipo di ente. Follie...

Follie che raggiungono il loro apice quando si affronta il tema, per nulla solo teorico, dei rapporti fra le civiltà ed i processi migratori.
Che la abolizione della differenza significhi prima di ogni altra cosa equiparare tutte le culture e tutte le civiltà è cosa sin troppo ovvia. E può esser fatta risalire abbastanza indietro nel tempo, ad un'epoca in cui il mondialismo, almeno nelle sue forme spinte di oggi, non era ancora di moda. Risale alle teorizzazioni sulla non superiorità di ogni cultura nei confronti di ogni altra, al famoso contadino la cui conoscenza della natura non è inferiore ma solo diversa da quella del fisico atomico. Ed è ancora ovvio che ridurre il mondo ad un'unica, indistinta, comunità equivale ad accettare ogni spostamento di popolazioni da una parte all'altra del globo, quali che siano le sue dimensioni. Tutte le culture sono equivalenti, si dice; soprattutto non esistono culture che possono esser definite “migliori” di altre dal punto di vista etico. In un paese una donna può divorziare, in un altro viene ripudiata dal marito, le due situazioni sono moralmente sullo stesso piano; perché allora lo spostamento di una massa enorme di persone che trovano “normale” il ripudio delle mogli, o la lapidazione delle adultere, dovrebbe creare problemi in un paese in cui invece una moglie può divorziare e chiedere alimenti ed affidamento dei figli?
Io, occidentale dei giorni nostri, posso frequentare un dojo di karate, pranzare in un ristorante cinese e cenare in uno indiano, frequentare un corso di yoga o leggere “La regola celeste” di Lao Tzu. Tutto questo non mi crea problema alcuno, anzi, costituisce una fonte preziosa di arricchimento culturale. Perché mai allora, si chiede qualcuno, dovrebbe crearmi problemi vivere fianco a fianco con il signor Alì, la cui la moglie indossa il burka? Il signor Alì è convintissimo che mia moglie sia una “puttana” perché esce in minigonna, ma perché questo dovrebbe essere un problema? Mia moglie e quella in burka del signor Alì possono benissimo andare insieme a fare shopping in un centro commerciale mentre il signor Alì amplia i miei orizzonti culturali spiegandomi la tecnica della lapidazione. Tutto è semplice, facile, cristallino.
Si sostituiscano sogni grondanti melassa alla realtà e si monda la realtà da ogni problema. Peccato che i sogni non durino in eterno.

I sogni spesso diventano incubi, e questo vale anche per il sogno mondialista. Sono sotto gli occhi di tutti gli aspetti più traumatici e sanguinari di questo incubo, se ne è molto parlato e non val la pena di tornarci in questa sede. Vorrei solo accennare ad un aspetto spesso trascurato del mondialismo: la sua incompatibilità sostanziale con la democrazia, soprattutto con la democrazia liberale.
Il perché di una simile incompatibilità è piuttosto evidente: non può esistere una democrazia senza che esistano alcuni importanti valori comuni che tengano uniti gli individui e le forse sociali che formano la comunità democratica. Affinché esista una democrazia tutti o la stragrande maggioranza degli interessati devono, come minimo, accettare le regole democratiche. Se qualcuno ha delle riserve mentali, se partecipa alle elezioni pronto a cercare di ribaltare con la forza un risultato elettorale sfavorevole, o a cercare di usare l'eventuale vittoria per distruggere gli oppositori, la democrazia non può esistere. In realtà i valori alla base di una democrazia vanno assai oltre questo “minimo”. Nella democrazia governa chi riscuote la maggioranza dei consensi, ma chi accetta di partecipare a questo “gioco”? E perché lo accetta? Perché un italiano non partecipa al gioco democratico con un francese o un australiano? Perché certi si uniscono per prendere, democraticamente, decisioni in comune ed altri si trovano a far parte di diverse unioni? Dietro ad una comunità democratica non stanno solo alcuni valori forti, sta una tradizione, una storia, l'attaccamento ad un territorio, una lingua. E' su questa base che le persone stanno insieme e deliberano in maniera democratica, e si rispettano come individui e come gruppi. Ora, il mondialismo distrugge questa base, pretende di unire individui e gruppi senza che esistano fra questi autentiche tradizioni comuni. Non una comune storia, non il comune attaccamento ad una terra, non una lingua, non una religione. Persone tanto estranee fra loro non possono dar vita ad una comunità democratica. Non possono farlo perché sono una non – comunità. E una non – comunità, non può essere democratica. La democrazia di una non – comunità non può che degenerare: diventa guerra fra gruppi faziosi, o tirannia della maggioranza, quando per caso una maggioranza si forma, o degrada in dittatura, addirittura in tirannide. Per questo le varie istituzioni sovranazionali ispirate al mondialismo sono profondamente non democratiche. Mostri burocratici che cercano di imporre a popoli riluttanti quella unità che non può scaturire da un autentico processo democratico. Una unità fasulla, burocratica, che si traduce in norme assurde, spesso ridicole, molto spesso anti economiche, quasi sempre liberticide. La UE è un esempio da manuale di questa tendenza, ma lo sono anche l'ONU e le sue varie organizzazioni.

La “democrazia” mondialista è quindi, nel migliore dei casi, una democrazia fasulla. Ma è fasullo, va detto per concludere, il mondialismo stesso. Il mondialismo è fasullo perché è fasulla l'idea di una comunità fra chi non ha in comune nulla se non l'appartenenza al genere umano. Questa appartenenza, val la pena di ripeterlo, ha un enorme valore, ma può fondare l'universalismo, non il mondialismo. Ed è fasullo, il mondialismo, nei fatti. Si, perché i fatti stanno li a dimostrare che la presunta “comunità democratica sovranazionale” che i processi migratori dovrebbero contribuire a costruire non esiste. Il risultato di questi processi non è una armoniosa comunità sovra nazionale, ma la crisi di certe comunità, la sostituzione di certi popoli con altri. Soprattutto questi processi stanno mettendo in crisi, forse distruggendo, quella civiltà al cui interno è nata l'idea stessa di universalismo democratico e liberale. Al suo posto avanza un diverso tipo di civiltà, una comunità retta da principi diversi: la teocrazia, l'intolleranza, il ripudio del laicismo in tutte le sue forme. Il mondialismo è irrealizzabile, almeno per tutto il futuro prevedibile. Ad essere sinistramente realizzabile è invece l'egemonia mondiale del fondamentalismo islamico. Ma di questo sono in moltissimi a non VOLERSI accorgere.