sabato 28 novembre 2015

CONTESTUALIZZAZIONE

La parola magica è: “contestualizzazione”. Nel Corano, è cosa nota, abbondano i versetti truculenti, ma questi non spaventano gli occidentali “dialoganti”. Occorre “contestualizzare” dicono questi con aria saccente. “Se si citano frasi isolate, separate dal loro contesto”, aggiungono, “si possono trovare bestemmie nel vangelo”. Detto questo rivolgono al loro ignorante interlocutore un sorrisino di compatimento e si allontanano soddisfatti.
In effetti fare citazioni senza “contestualizzarle” può essere molto fuorviante. Peccato che a volte siano loro, i dialoganti moderati, musulmani o no, ad evitare ogni contestualizzazione.
In occasione delle manifestazioni dei musulmani “moderati” contro l'Isis, tenute tempo fa a Milano e Roma una ragazza esponeva un cartello con una citazione del Corano:

Chi uccide un uomo è come se avesse ucciso l'intera umanità

Molto bello, molto condivisibile. Peccato che si trattasse di una citazione del tutto decontestualizzata, un po' come se in un libro figurasse il seguente enunciato: “Solo uno stolto può affermare che Dio non esiste” ed io citassi solo: “Dio non esiste” per sostenere che si tratta di un libro inneggiante all'ateismo. Il Corano nella sura 5 versetto 32 afferma infatti:

“chi uccide un uomo senza che questi abbia ucciso un altro uomo o abbia portato la corruzione sulla terra è come se avesse ucciso tutta l'umanità; chi invece salva la vita di un uomo è come se avesse salvato la vita di tutti gli uomini.

Se un uomo ha portato la corruzione sulla terra può quindi benissimo essere ucciso. E chi porta sulla terra la corruzione? Lo specifica il successivo versetto 33:

In verità la ricompensa di quelli che fanno la guerra a Dio e al suo messaggero e cercano di portare la corruzione sulla terra è che saranno uccisi o crocifissi o avranno mani e piedi amputati dai lati opposti o saranno espulsi dal loro paese. Ad essi toccherà l'ignominia in questo mondo e un supplizio spaventoso nell'altro. Si farà eccezione solo per quelli che si pentono prima di cadere in vostro potere: sappiate infatti che Dio è indulgente e misericordioso” Corano, Sura 5 33. (sottolineature mie)

Chi combatte contro l'unico vero Dio porta la corruzione sulla terra e merita una fine spaventosa. Val la pena di sottolineare che non si fa qui nessuna distinzione fra guerra offensiva e guerra difensiva, anzi, dei nemici di Dio si dice che devono pentirsi prima di cadere in vostro potere, il che lascia intendere che portino “corruzione” sulla terra anche coloro che si limitano a difendere il loro paese e la loro fede. Facevano guerra a Dio e portavano corruzione sulla terra gli spagnoli che liberarono la Spagna dalla dominazione araba come i viennesi che resistettero all'assedio della loro città nel 1683, come, oggi, gli israeliani decisi ad impedire la distruzione del loro stato.
Anche del versetto 33 però, a ben vedere le cose, è possibile fare una citazione decontestualizzata: basta isolare dal resto la frase: “Dio è indulgente e misericordioso” ed il gioco è fatto.

Sono proprio quelli che più spesso invocano la “contestualizzazione” a non “contestualizzare” un bel nulla. Tuttavia, anche a prescindere da un simile “dettaglio”, è fin troppo chiaro che la richiesta di contestualizzare può facilmente diventare il pretesto per evitare ogni giudizio, ogni presa di posizione, a patto, ovviamente, che giudizio e presa di posizione riguardino l'altro da noi, l'Islam in questo caso. Se invece si tratta di prender posizione, giudicare e, ovviamente,condannare l'occidente allora la tanto reclamata contestualizzazione va a farsi benedire. Lo schiavismo nel mondo islamico è durato sino alla vigilia dei giorni nostri, l'Isis lo ha riportato in auge oggi, alle soglie di casa nostra, ma questo va “contestualizzato”. Lo schiavismo nell'antica Grecia, pesa invece come una macchia indelebile sulla nostra civiltà. Pareri...
Dicevo, la richiesta di “contestualizzare” può facilmente diventare il pretesto per non prender posizione su nulla. Contestualizzare significa
collocare in un contesto. Tutto ciò che diciamo, pensiamo e facciamo è in qualche modo “contestualizzato”. Non si può quindi parlare di un autore, di una dottrina politica o religiosa, di un evento senza “contestualizzarlo”. Il problema è: contestualizzarlo fino a che punto?
Prendiamo una citazione tratta dal “
manifesto del partito comunista” di Marx: “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”. Questa citazione va inserita nel contesto del capitolo: “borghesi e proletari” e questo capitolo nel contesto più ampio del “manifesto”. “Il manifesto” a sua volta va inserito nel contesto di tutta l'opera di Marx ed Engels, inseriti a loro volta nel contesto culturale europeo del loro tempo. Tale contesto culturale va inserito nel più ampio contesto storico, sociale ed economico di una data epoca e così via, praticamente all'infinito. Per potere sottoporre a critica l'affermazione marxiana secondo cui la storia è storia di lotte di classe, o anche solo per conferire ad un simile enunciato un senso qualsiasi, bisognerebbe esaminare la storia universale del mondo e dell'uomo. Una evidente assurdità che renderebbe impossibile ogni discorso sensato, col risultato che il termine stesso “contestualizzazione” perderebbe ogni senso ed il “contestualizzare” ogni valore euristico.
Occorre quindi contestualizzare, non sarebbe possibile non farlo visto che tutto avviene, sempre, in un certo contesto, ma occorre anche
porre dei limiti alla contestualizzazione, pena la possibilità stessa di esprimersi. E' possibile comprendere ed iniziare a discutere la affermazione marxiana secondo cui la storia è storia di lotte di classe anche senza aver letto tutta l'opera di Marx e, forse, neppure tutto il “manifesto del partito comunista”. Allo stesso modo la affermazione coranica “la ricompensa di quelli che fanno la guerra a Dio e al suo messaggero e cercano di portare la corruzione sulla terra è che saranno uccisi o crocifissi o avranno mani e piedi amputati dai lati opposti” ha un senso perfettamente comprensibile anche da chi non ha studiato per anni in una scuola coranica, e questo senso rende quanto meno problematica la melensa affermazione degli occidentali “dialoganti” secondo cui l'Islam è una “religione di pace”.

Lo confesso francamente: non credo sia corretto sottoporre a critica una ideologia, una religione ed anche una filosofia politica solo esaminando i suoi testi. L'analisi dei testi è, beninteso, molto importante, ma il senso di una religione, o di una ideologia o di una dottrina politica può essere compreso pienamente solo se si prendono in considerazione, e con la massima attenzione, anche le loro conseguenze pratiche. Non si può discutere del comunismo solo sulla base della lettura del “Capitale” di Marx o di “stato e rivoluzione” di Lenin. Bisogna anche, forse soprattutto, tener conto della esperienza storica del comunismo reale. E' lo stesso Marx del resto a darci indicazioni in tal senso. Nella “ideologia tedesca” Marx afferma: “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Il comunismo è il fine della storia, l'approdo necessario del suo corso reale, non una idea che si sovrapponga e si contrapponga ad esso. C'è molto inaccettabile determinismo in una simile concezione e molto, altrettanto inaccettabile, finalismo di stampo Hegeliano. Resta il fatto che per il fondatore del cosiddetto “socialismo scientifico” è insensato contrapporre l'idea pura alla sua applicazione pratica, condannare questa al solo fine di assolvere quella. Se una certa idea, apparentemente molto “bella”, produce concretamente solo mostruosità il meno che si possa dire di questa idea è che è del tutto irrealizzabile e che tentare di realizzarla provoca catastrofi.
Il comunismo marxista è una necessità storica che la storia
vera ha il pessimo difetto di non voler vedere realizzata. La storia del marxismo può essere letta, in fondo, come un lento, tragico, fare i conti con questa sua contraddizione di fondo. Posti di fronte al dato del non realizzarsi della astratta idea comunista alcuni marxisti hanno gradualmente abbandonato questa idea ed hanno optato per una politica di riforme più o meno buone, ma compatibili col liberalismo democratico e l'economia di mercato. Altri hanno cercato di imporre la purezza dell'ideale agli esseri umani in carne ed ossa ed hanno sottoposto interi popoli ad una spietata chirurgia sociale. Non hanno realizzato l'ideale ma prodotto montagne di cadaveri. In ogni caso, quale che sia il giudizio che si può dare di questa tragica esperienza, questa non può essere rimossa. Non si può dire: “il comunismo reale non ci interessa, non ha nulla a che fare col marxismo e l'ideale comunista”. No, il comunismo realizzato ha moltissimo a che fare con l'idea comunista, ne costituisce nientemeno che la traduzione nel mondo reale, e ogni discorso sulle idee che metta tra parentesi i risultati della loro applicazione al mondo è una pura, assoluta mistificazione.

Un discorso analogo si può fare per le grandi religioni. E' possibile dire che, ad esempio, i roghi ed il tribunale della santa inquisizione non hanno nulla a che fare col cattolicesimo? Si tratta solo del risultato tragico di alcune cattive interpretazioni dei testi sacri? Anche ammettendolo, resta il problema di come mai sia stato possibile interpretare in maniera tanto fuorviante questi testi. O si tratta della “umana cupidigia” che inquina anche le religioni? Ma, perché quando si insinua nelle religioni l'umana cupidigia provoca roghi, fanatismi, interminabili guerre mentre se inquina dottrine politiche liberali e democratiche provoca al più malgoverno e fenomeni di corruzione, cose gravi certo, ma di una ben diversa gravità? Non è qui mia intenzione emettere giudizi sulla storia delle fede cattolica, una cosa però è certa: questa fede non può essere separata e contrapposta alla storia concreta della Chiesa cattolica. Sarebbe una mistificazione inaudita dire che il processo a Galileo, o il rogo a Giordano Bruno o le guerre di religione non hanno relazioni con il cattolicesimo. Nessuno infatti fa simili affermazioni. La Chiesa, di recente,
troppo di recente, ha ammesso, ad esempio, l'errore commesso nel processare Galileo. Si ammettono gli errori, e ci si scusa per essi, quando li si riconosce come propri, qualcosa con cui si ha a che fare, che fa parte della propria storia. La Chiesa cattolica, per fortuna, è stata capace di fare, sia pure troppo tardivamente, simili ammissioni. L'islam NO, non fa autocritiche di questo tipo, MAI. Non condanna i suoi errori del passato, persevera in questi e dichiara a gran voce che non di errori si tratta ma di cristalline virtù. Il cattolicesimo ammette la paternità di roghi e tribunali della santa inquisizione , e li riconosce, in ritardo, come suoi errori. L'Islam ripropone oggi errori ed orrori del passato. Oggi lapida le adultere, condanna a morte apostati e bestemmiatori, perseguita gli omosessuali, accetta la poligamia ed i matrimoni combinati fra uomini sessantenni e ragazzine dodicenni. Considera i non credenti nemici da combattere, non esseri umani che esercitano un elementare diritto di libertà. Resta, con allucinante coerenza, sempre uguale a se stesso.

Gli occidentali ”dialoganti” non si comportano in maniera tanto truculenta. Le loro specialità sono l'ipocrisia e la disonestà intellettuale, non la ferocia, e poco importa ad ipocriti e disonesti se le loro mistificazioni favoriscono la ferocia più sanguinaria. L'occidentale dialogante si comporta come il teorico della pura idea comunista da contrapporre al comunismo realizzato. Questo nega ogni legame fra comunismo e gulag, quello nega che terrorismo e guerra santa, lapidazioni ed infibulazioni, pena di morte per apostati e bestemmiatori, burka, persecuzione degli omosessuali, ed altre simili delizie abbiano qualcosa a che vedere con l'Islam. Nega tutto, anche la assoluta evidenza. Nega contro le stesse ammissioni dei musulmani. Fior di Mullah, persone che hanno passato anni della propria vita a studiare in scuole coraniche dichiarano a gran voce che bisogna combattere gli infedeli, infibulare le donne, imporre loro il velo o il burka , fare del Corano la costituzione dello stato, ma questo non scuote le certezze dell'occidentale dialogante. Impassibile egli ripete fino alla nausea il solito, stonato, ritornello:
il “vero“ Islam è un'altra cosa.
No, non sto esagerando, In rete è possibile trovare deliranti dichiarazioni in cui si sostiene che l'infibulazione non è una pratica islamica perché nata prima dell'islam, che la avrebbe adottata per motivi di “controllo sociale”. Per una persona capace di articolare un pensiero coerente questo dovrebbe provare che l'Islam mira al “controllo sociale”, ma chi si diletta a sparare stronzate non ama il pensiero coerente. In una grossa libreria mi è capitato personalmente di imbattermi in un libro in cui si fa la storia del velo imposto nell'Islam alle donne e si “scopre” che anche questa è una pratica ben anteriore all'Islam, quindi nella sostanza, “estranea” a tale religione. Insomma, non è imputabile all'Islam tutto ciò che l'Islam ha adottato ma che ha una origine ad esso anteriore, come dire che il nazismo non era antisemita perché l'antisemitismo è nato ben prima che un ometto coi baffi prendesse il potere in Germania. Nel mondo accademico dell'occidente sta nascendo una nuova figura di erudito:
l'esperto in Islam. Una persona che scava nella storia e scopre le tante brutte cose che noi abbiamo fatto subire agli islamici, ma non quelle che loro hanno fatto subire a noi, o risale fino alle radici non islamiche di discutibili pratiche che oggi caratterizzano l'Islam, o scopre che feste e tradizioni cristiane un tempo non esistevano, ed esistevano al loro posto altre feste e tradizioni. Potremmo anche rinunciare al Natale, o trasformarlo in una festività neopagana, visto che al tempo degli antichi romani si festeggiava, più o meno nello stesso periodo dell'anno, una festa pagana. Tutto ciò sarebbe, è vero, leggermente artificioso, ma avrebbe il grosso pregio di piacere ai nostri fratelli. Insomma, per l'erudito esperto in islam e super dialogante a noi non appartengono molte cose che, da perfetti ignoranti, credevamo nostre e, soprattutto tutto ciò che l'Islam è in realtà non è.

Il risultato di una simile azione però è, semplicemente,
la scomparsa dell'islam. L'Islam diventa un fantasma separato dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalle pratiche che per secoli lo hanno caratterizzato ed ancora lo caratterizzano. Separato anche dai versetti del Corano che a detta dell'occidentale politicamente corretto, esperto e dialogante, nulla hanno a che vedere con il “vero” spirito del testo sacro. Separato dalle elaborazioni dei musulmani colti, quelli che la loro religione la conoscono fin nei minimi dettagli, e che ne difendono tutte le caratteristiche, comprese quelle che a noi non piacciono. Separato dai sentimenti della gran maggioranza degli islamici veri, quelli che sono pronti a scendere in piazza a milioni se da qualche parte qualche giornale pubblica vignette non gradite, ma che se ne stanno quasi tutti ben tappati a casa loro se c'è da protestare contro chi, in nome del loro Dio, massacra gente innocente e “sfigura”, in questo modo, dicono i “dialoganti”, la loro fede.
L'occidentale politicamente corretto è un fanatico sostenitore della “contestualizzazione”. Vuole contestualizzare tutto, non vuole sentire citazioni “astratte” dal loro contesto. Amplia di continuo i contesti, allarga, a questo fine, gli orizzonti geografici e scava come una talpa nella storia. E tanto lavoro lo porta ad ammirevoli risultati. Una volta debitamente allargati i contesti l'occidentale dialogante, esperto e politicamente corretto scopre che, se situato nel giusto contesto storico, geografico e culturale l'Islam perde tutte quelle caratteristiche che lo rendono discutibile ai nostri occhi. L'Islam “discutibile” esce dalla storia e fa in questa il suo ingresso l'Islam “vero”, una religione di pace, amore, tolleranza, comprensione, dialogo.
Peccato che tale “vero” Islam sia una fede
priva di ogni contesto. E' una fede separata dalla sua storia, quindi non ha un contesto storico, è separata da usi e costumi che coinvolgono la vita di centinaia di milioni di esseri umani, quindi non ha un contesto culturale, non si sa in quale paese sia praticata, quindi non ha un contesto geografico, è separata dalle elaborazioni delle scuole coraniche e delle teorizzazioni dei musulmani colti, quindi non ha un contesto filosofico e teologico, è separa dagli stessi testi sacri, quindi non ha un contesto dottrinale.
In nome di questo fantasma privo di qualsiasi contesto noi occidentali dovremmo dialogare con l'Islam, quello vero, quello perfettamente inserito nei suoi contesti e caratterizzato da tante cosette che a nessuno di noi piacciono troppo. Francamente la pretesa degli occidentali esperti, dialoganti e politicamente corretti appare un po' eccessiva. Non devono prendersela quindi se qualcuno, incurante delle loro eruditissime dissertazioni, li qualifica per quello che sono: dei cialtroni ipocriti, tendenzialmente traditori e, soprattutto, pericolosissimi. Pericolosissimi per la nostra civiltà, e per la
vita di ognuno di noi.

giovedì 29 ottobre 2015

LA CARNE




Innanzitutto un paio di premesse.
Primo. non sono un medico, né uno scienziato e non ho particolari conoscenze mediche o scientifiche. Quelle che sto per fare sono considerazioni dettate solo dalla logica e dal buon senso.
Secondo. Non intendo trattare il problema del consumo di carne da un punto di vista etico. Mi permetto di rimandare chi fosse eventualmente interessato a questo tipo di tematiche allo scritto ”sul radicalismo animalista” presente nel blog “secondo Giovanni”.
Ognuno ha diritto di consumare o non consumare carne basandosi su convinzioni etiche o religiose, oppure perché convinto o non convinto che il consumo di carne sia dannoso alla salute. Quello che invece non si può fare è confondere i due livelli. Non si può motivare con considerazioni scientifiche il rifiuto etico di mangiare carne e viceversa. La scienza ha che fare con l'essere, l'etica col dover essere. La scienza può fornire solo quelli che Kant chiamava imperativi ipotetici: se vuoi X devi fare Y. L'etica invece ci obbliga con imperativi categorici: devi fare, o non fare, X. La differenza fra i due è essenziale. Una cosa è non mangiar carne perché si mettono tutte sullo stesso piano le varie forme di vita, quanto meno di vita senziente, cosa del tutto diversa è non mangiarla perché la si ritiene dannosa per la salute. Se qualcuno mi dicesse: “io non mangio bambini arrosto perché la loro carne non è salubre” avviserei immediatamente la polizia. Non sarei per niente interessato a chiarire se sia o non sia vero che il consumo di carne di bambino, arrosto, alla griglia o in umido che sia, faccia bene o male alla mia salute.

Mangiar carne è naturale?
Una enorme quantità di animali si ciba di carne. Gli animali di terra si dividono, grosso modo, in erbivori e carnivori, predatori e prede. Entrambi vivono l'uno grazie alla morte dell'altro. E' importante il termine entrambi. Nell'immaginario popolare si pensa che le prede siano povere vittime destinate da un triste destino a nutrire i predatori. Le cose stanno in realtà diversamente, e non solo perché a volte è la preda ad uccidere il predatore. Semplicemente sfuggendo agli artigli del leone la gazzella lo condanna a morte. In natura la vita di uno è sempre morte dell'altro, sia l'altro una preda o un predatore. Il cibarsi di carne è la cosa più naturale di questo mondo, è parte essenziale del meccanismo con cui la natura riproduce se stessa. Tutto questo non implica, dovrebbe essere chiaro nessuna condanna etica della natura. La natura è il regno dell'essere, non del dover essere. Applicare categorie etiche alla natura è quanto di più stupido si possa immaginare, significa trasformare la natura vera, bellissima e terribile, in un melenso cartone animato.

Queste considerazioni valgono anche per l'uomo? La risposta non può che essere positiva. L'uomo forse non è solo animale ma è di certo anche animale, per moltissimo tempo lo è stato prevalentemente. E si è cibato di carne, per millenni.
I primi uomini sono stati cacciatori e raccoglitori, ed il loro cibo assolutamente prevalente era la carne. Con la rivoluzione neolitica l'uomo ha inventato l'agricoltura e l'allevamento, ma anche dopo questa rivoluzione la carne ha costituito una parte essenziale della sua alimentazione. Certi popoli hanno quasi del tutto ignorato le pratiche agricole fino a ieri. I cosiddetti indiani d'America si sono nutriti per millenni quasi esclusivamente di carne di bisonte. Chi considera le carni rosse una sorta di killer spietato dovrebbe porsi la semplice domanda: come mai non si sono estinti gli indiani d'America che di questo killer, quasi solo di questo, si sono nutriti per un lunghissimo periodo?
Tutto si potrà dire del consumo umano di carne meno che si tratti di qualcosa di “non naturale”, una sorta di “moda culturale” che gli uomini avrebbero imposto a loro stessi, o un consumo “innaturale e fittizio” che le “multinazionali dell'alimentazione” avrebbero indotto negli esseri umani. Può darsi che ad essere una “moda” culturale siano il veganismo ed il vegetarianismo, di certo non lo è il mangiar carne.

Una obiezione seria.
Qualcuno potrebbe obbiettare: “tu metti sullo stesso piano uomini ed animali, eguagli il comportamento dei primi e dei secondi. Ma fra i due comportamenti esistono differenze basilari.

Il comportamento umano è quasi sempre mediato dalla capacità di ragionamento, è più lento, meno immediato, ma, appunto per questo, molto più ponderato ed efficace di quello animale. Per restare al campo dell'alimentazione, l'animale “sa” cosa può e cosa non può mangiare e “sa” come procurarsi il cibo. L'uomo queste cose deve, in larga misura, apprenderle e apprendendole impara a riconoscere ciò che è salubre da ciò che non lo è. Rifarsi ad un antico comportamento naturale dell'uomo vuol dire di fatto rifiutare il processo di civilizzazione, ma nulla è tanto umano, tanto naturalmente umano, quanto la civilizzazione.
L'obiezione è seria e contiene molta verità. Personalmente non eguaglio affatto uomini ed animali, detto per inciso questo è il motivo principale per cui respingo le argomentazioni di chi rifiuta di cibarsi di carne per motivi etici. Il comportamento umano è mediato, verissimo. L'uomo valuta, confronta, instaura fra fini e mezzi una serie di relazioni che l'animale, guidato da un infallibile istinto, non può che ignorare. Il concetto di salute, per fare un esempio non casuale, è fino in fondo qualcosa di umano. Un animale può sentirsi bene o male, può provare sensazioni di piacere o di dolore, ma non può sentirsi “sano” o “malato”, tutto vero.
Ma, cosa vuol dire precisamente che il comportamento umano è mediato, riflessivo, efficace? Ecco il punto.

Non sappiamo se l'uomo disponga o meno di libero arbitrio, se sia o meno dotato di anima immortale o di anima tout court, se davvero sia stato creato ad “immagine e somiglianza” di Dio. Una cosa però la sappiamo: l'uomo non è, rifiuta di essere, la mera componente di qualche ecosistema. Possiamo considerare questo rifiuto come il segno di una perversa volontà di potenza o della nostra origine divina, le cose non cambiano. L'uomo modifica il mondo circostante, cerca di adattarlo alle sue esigenze, ma con questo si pone forse fuori, sopra o sotto o a lato del mondo naturale? Modificando il mondo l'uomo ne crea forse uno in toto nuovo, in cui le leggi di natura non valgono più? Basta porre la domanda giusta per avere la risposta.
L'uomo modifica il mondo adattandosi alle leggi naturali che lo regolano. Conoscere ed adattarsi a queste leggi è la condizione preliminare di ogni attività volta a cambiare il mondo.
Con la sua azione l'uomo non crea una
nuova natura, semplicemente migliora, o mira a migliorare, o crede di migliorare, nella natura, le sue condizioni di esistenza. Tornando al tema della alimentazione, con la sua attività l'uomo cerca di migliorare la qualità e di incrementare la quantità del cibo che naturalmente serve alla sua sopravvivenza. Col tempo le diete migliorano, quando migliorano, diventano più varie, appetitose, salubri ed aumenta anche il numero di persone in grado di nutrirsi in maniera soddisfacente. Tutto questo però non cambia la sostanza del rapporto fra l'uomo e ciò che lo nutre, non può indurre a pensare che per millenni l'uomo si sia nutrito di veleni estranei od ostili alla sua natura. Se per millenni l'uomo si è nutrito di carne, in certi casi quasi esclusivamente di carne, questo prova che la carne in quanto nutrimento non è estranea alla natura umana, non è per questa un pericoloso veleno. Il rapporto dell'alimento carne con l'uomo non può in nessun modo essere assimilato a quello fra l'alimento erba ed il leone, o fra l'alimento carne e la pecora. Si possono rifiutare per i più vari motivi le diete a base di carne ma questo non è sinonimo di un costante ed inevitabile “progresso” dell'uomo, di una sua presunta emancipazione dalla propria natura animale. Non possiamo “liberarci” della nostra natura animale, essa è parte essenziale di noi.

Se si tiene conto di queste considerazioni il discorso sul miglioramento delle diete, sulla loro maggiore salubrità (quando questa esiste) assume un carattere diverso da come certi lo intendono. Un certo cibo è salubre per certe persone, dannoso per altre, è salubre in certe quantità e dannoso in altre, risulta facilmente digeribile da persone adulte ed indigesto per i bambini, non ha conseguenze negative per la salute se cucinato in un certo modo, ne ha invece se cucinato in maniere diverse. Si potrebbe continuare. Il rapporto del cibo con la salute non instaura fra i vari alimenti una sorta di classifica valida per tutti, sempre, in ogni situazione. Non esiste una scala di valori assoluta fra i vari cibi in base alla quale si possano impartire ordini e proibizioni che la scienza giustificherebbe in ogni caso (qui prescindo volutamente dal considerare il valore etico di tali ordini e proibizioni).

Il massimo che si può dire è che fra i cibi che storicamente l'uomo ha consumato ne esistono alcuni che soddisfano meglio di altri le esigenze alimentari e di salute di un numero maggiore o minore di persone. Nessun assoluto, né nel bene né nel male quindi e non a caso. L'assoluto non riguarda l'uomo, meno che mai può riguardare ciò che serve a nutrirlo.

Qualche numero
La Organizzazione mondiale della sanità ha sentenziato che le carni rosse sono cancerogene. Pare abbia inserito anche l'agnello fra le carni rosse, dando prova di un certo daltonismo, ma questo è solo un dettaglio. La OMS non si è limitata a dire che un consumo eccessivo di carni rosse, cucinate in un certo modo, può aumentare, statisticamente parlando, le possibilità che un certo numero di persone contragga, nel corso di tutta la vita, il cancro. Ha definito “cancerogene” le carni rosse, equiparandole al fumo ed all'amianto. Se si pensa che è in atto da decenni una violentissima campagna contro il fumo e che l'amianto è stato proibito ci si può rendere conto dell'impatto emotivo di una simile dichiarazione, e delle sue conseguenze in tutti i campi, compreso quello economico.
Però, ci sono alcuni numeri che fanno sorgere qualche sospetto sulla attendibilità, comunque sulla portata, delle dichiarazioni della OMS. Vediamo un po'.

Il paese più vegetariano del mondo è l'India. Circa un terzo della sua popolazione dichiara di non mangiare carne, per lo più per motivi religiosi. L'India è molto indietro nella classifica dei paesi in base alla durata media della vita. Per la precisione si situa al posto 163 con una durata media di vita di 67,80 anni. E' preceduta in questa classifica dalla Guyana, posto 162 e vita media di 67,81 anni, dal kirghizistan, posto 153 e vita media di 70,06 anni e dalla Mongolia, posto 157 e vita media di 68,98 anni. Da notare che Guyana, Kirghizistan e Mongolia sono paesi economicamente più arretrati dell'India. E' interessante il confronto con la Cina, che ha un livello di sviluppo non troppo dissimile da quello dell'India, ed è un paese il cui consumo di carne è fortemente aumentato negli ultimi decenni: dal 1963 ad oggi si è quasi decuplicato. La Cina occupa il posto 99 nella classifica dei paesi per durata media di vita, con 75, 15 anni di vita media. Fra l'India piuttosto vegetariana e la Cina il cui consumo di carne si avvicina a quello dei paesi occidentali ci sono quasi
otto anni di differenza nella vita media.
Andiamo avanti. Il paese al primo posto nel mondo per consumo di carne per persona è il Lussemburgo. Bene, il Lussemburgo occupa la posizione numero 36 nella classifica della durata media della vita, con una speranza di vita di 80,01 anni. Al secondo posto fra i consumatori di carne troviamo gli Stati Uniti che nella classifica della vita media occupano il posto 42, con una speranza di vita di 79,56 anni. l'Australia è al terzo posto fra consumatori di carne ed al settimo per la durata di vita con 82,07 anni di vita media. La Spagna occupa il quarto posto fra i consumatori di carne ed il quattordicesimo per la durata media di vita, con una speranza di vita di 81,47 anni. Il Canada è al posto n° 7 per consumo di carne ed 11 per vita media, con speranza di vita pari a 81,67 anni. L'Italia occupa rispettivamente la quattordicesima e la undicesima posizione, con una speranza di vita pari a 82,03 anni.
Globalmente, i paesi maggiori consumatori di carne si situano tutti nella parte alta della classifica relativa alla speranza di vita; fra i primi venti paesi per speranza di vita ne troviamo sette che si situano nei primi 14 per il consumo di carne. Al contrario, nessun paese che occupa le ultime cento posizioni nella classifica per speranza di vita è presente nelle prime 18 posizioni dei consumatori di carne. Fra i principali consumatori di carne solo uno, gli Stati Uniti, ha una vita media appena inferiore agli 80 anni, tutti gli altri si situano oltre questa soglia con il primato di durata che va all'Australia, con i suoi rispettabilissimi 82,07 anni di vita media. Insomma, la carne sarà anche un pericolosissimo killer, ma nei paesi in cui se ne consuma molta la vita è piuttosto lunga.

Sono evidenti le obiezioni che è possibile opporre a cifre di questo genere. Non ha troppo senso confrontare degli aggregati molto differenziati al loro interno per concludere qualcosa sulla salubrità o dannosità di un certo cibo, o più in generale di un qualsiasi prodotto. In Australia si vive in media più a lungo che in India, ma questo
non implica che gli australiani vivano più a lungo degli indiani perché mangiano più carne. Esistono molti altri fattori che possono spiegare la differente speranza di vita nei due paesi. Verissimo, nulla da replicare. Però una simile obiezione vale anche per le conclusioni della OMS sulla pericolosità della carne.
L'allarme della OMS sulle carni rosse cancerogene si basa su studi osservazionali o prospettici. Si prendono due campioni di popolazione uno dei quali segue un regime alimentare a base di carne e l'altro no o semplicemente in uno dei quali ci siano più persone carnivore che nell'altro. Si eseguono delle rilevazioni e si constata se nel decorso del tempo nel primo i casi di tumore al colon siano maggiori che nell'altro. Senza entrare troppo nello specifico è chiaro che studi simili non possono portare ad autentiche certezze scientifiche. Possono infatti esistere, e di fatto esistono, molti altri fattori in grado di spiegare la differenza nell'insorgere dei tumori in un campione e nell'altro. Va da se che quanto più è basso lo scarto fra i tumori riscontrati nei due campioni tanto meno attendibili sono le conclusioni che se ne possono trarre, e viceversa.


Cause ed effetti

La discussione sulla causalità appassiona da sempre il dibattito filosofico, ma non è di questa che si intende qui parlare. Ai fini del nostro discorso possiamo dare per scontato che esistano nel mondo certe regolarità, che il principio di induzione sia giustificato e che a certe cause seguano certi effetti. Resta tuttavia un grosso problema,
che tipo di cause sono quelle “scoperte” dalla OMS?
Si può dire che
A causa B se e solo se tutte le volte che c'è o avviene A c'è o avviene anche B, a meno che non esistano fattori perturbativi. Se mi butto dal sesto piano mi sfracello al suolo, a meno che un telone dei vigili del fuoco non attenui l'impatto della caduta. Tenendo conto di questo esaminiamo le seguenti due proposizioni:

1) Tagliare la testa ad un qualsiasi uomo ne causa la morte.

2) Mangiare carne rossa causa il cancro al colon.

Sono evidenti, direi, le differenze fa la
uno e la due. La uno è intuitivamente vera, la due no. Mentre infatti non si conosce alcun caso di un corpo senza testa che passeggi tranquillamente per le vie del centro o di una testa senza corpo che discuta di cause ed effetti, ci sono nel mondo centinaia di milioni di esseri umani che mangiano carne rossa e salsicce senza contrarre il cancro al colon. E non solo di questo si tratta. La uno può essere ulteriormente approfondita. Se si taglia la testa ad un uomo si interrompe la irrorazione del sangue al cervello, questo ne causa la morte, ed un corpo senza cervello non può continuare a vivere perché... eccetera eccetera.
La
uno rimanda da una causa primaria ad altre cause sempre più dettagliate. La due no o, quanto meno, se rimanda ad altre cause più dettagliate lo fa, a differenza che la uno, in termini assai vaghi e generici. Per farla breve, la uno ci parla di cause nel senso stretto e scientifico del termine, la due rimanda non a cause in senso stretto ma a generalizzazioni statistiche. Statisticamente è possibile affermare che nel campione “mangiatori di carne” si riscontra un certo numero in più di insorgenze di tumori al colon che non nel campione “non mangiatori di carne”, un po' come si può statisticamente affermare che in Australia si vive più che in India. E' possibile da una simile generalizzazione statistica inferire una autentica causa? La cosa è assai dubbia, per lo meno, lo è quando le differenze riscontrate nelle insorgenze di cancro fra i vari campioni non siano particolarmente elevate, come avviene invece nel caso del fumo.
Un articolo apparso sul blog “
Italia unita per la scienza” a firma di Alessandro Tavecchio chiarisce bene la questione. Lascio la parola a chi è assai più esperto di me.
“Quanta poco attendibili sono gli studi osservazionali? C’è un famoso articolo di epidemiologia che viene tipicamente riassunto sarcasticamente con “Ogni affermazione che viene da uno studio osservazionale è probabilmente falsa “. Lo studio in questione prendeva in considerazione 52 affermazioni derivate da studi osservazionali, e cercava di verificare quante di queste fossero poi ripetibili in studi più precisi e rigorosi (…). Nessuna, ovvero 0/52, aveva avuto riscontro in studi successivi che utilizzassero metodologie più rigorose. Sia chiaro: questo non significa che gli studi osservazionali siano spazzatura: significa solo che dobbiamo aver presenti in testa le limitazioni di questo strumento quando andiamo ad osservare i risultati.” (1)
Ovviamente sono possibili campionature più rigorose:
“Si può fare uno studio prospettico allora. Si segue un singolo gruppo per un lungo periodo annotando cosa fa o non fa, per poi registrare le malattie e le morti che saltano fuori. Questo è ben meglio di uno studio osservazionale perché permette di seguire le stesse persone nel tempo invece che trarre conclusioni da una fotografia su gruppi diversi”. Questo però non risolve i problemi: “La gente sceglie cosa fare e mangiare, quindi i gruppi sono ancora sbilanciati. Se i cinesi hanno una resistenza genetica al cancro che gli americani non hanno, con uno studio prospettico non lo si nota: magari si può vedere l’effetto ma lo si attribuirà ad altre cose che stai misurando, tipo il consumo di tea verde.” (2)
Si possono superare molte difficoltà cercando di costruire campioni omogenei da confrontare. A quali risultati pervengono questi gli studi più rigorosi? Tralasciamo i tecnicismi e veniamo al sodo:
“In termini assoluti, la probabilità che nella vita venga il cancro al colon è del 5 %, che sale al 6 % mangiando hamburger tutti i giorni. Ci sono circa 50 casi di cancro al colon ogni 100 mila persone l’anno (...) se mettessimo 100 mila persone a mangiare hamburger a pranzo
tutti i giorni per un anno, avremmo, in media, 60 casi di cancro l’anno invece che 50. O, in altri termini, se somministrassimo 50 g di hamburger ogni giorno a 100 persone, alla fine avremmo una persona in più con il cancro al colon rispetto a una popolazione che non va a mangiare al fast food. Oppure, la probabilità di evitare il cancro al colon nella vita è del 95%, che scende al 94% andandoci ogni giorno.” (3)
Decretare che le carni rosse sono “cancerogene” in base a simili dati appare quanto meno azzardato, ma c'è di più:
“Stiamo bene attenti, tutti i vari conti di cui sopra danno per scontato che ci sia una perfetta relazione di causa ed effetto tra carne e cancro. Cioè che ci sia qualcosa specificamente nella carne che causi il cancro, al di là dei nitriti eventualmente usati come conservanti o dei composti policiclici aromatici che si formano nei casi in cui viene cotta sulla griglia, che sono cancerogeni, ma che non sono intrinseci alla carne. (4)
Ma è proprio la prova di questa specificità a mancare, o ad essere assai dubbia. Non sembra esistere nella carne qualcosa di specifico che causi o favorisca il sorgere dei tumori, come esiste invece nel fumo. Se si approfondiscono i dati si arriva alla conclusione che Paracelso aveva perfettamente ragione quando diceva che “la dose è tutto”. La luce solare può essere cancerogena, specie se presa in alta montagna e pare possa esserlo anche il basilico, ingrediente base del meraviglioso pesto alla genovese. Ma questo non giustifica chi rinuncia ad una salutare e bellissima escursione in altura o a gustare un piatto di trenette al pesto. Non pare che i genovesi ed i valdostani siano falcidiati dai tumori molto più che i toscani o i milanesi.

Esultanza
“I vegetariani esultano” ha affermato un giornalista televisivo parlando delle conclusioni sulla carne della OMS. Non so se la notizia sia vera, ma è per lo meno verosimile. In ogni caso fa pensare.
Perché esultare alla notizia che un nuovo alimento viene ad aggiungersi alla fin troppo lunga lista dei cibi dannosi? Se io fossi convinto che le mele fossero cancerogene avrei da esultare se la OMS confermasse le mie paure? Non sarebbe meglio che queste venissero invece definite infondate? Il pensiero che nel mondo esistono centinaia di milioni di persone che mangiano carne e rischiano di morire di cancro fa esultare? Non dovrebbe invece rattristare tutti, anche coloro che la carne non la mangiano?
Vegetariani e vegani, meglio, alcuni di loro, probabilmente hanno accolto con esultanza l'uscita della OMS per il semplice motivo che la loro avversione alla carne non si basa su considerazioni salutistiche. Se io fossi convinto che le mele hanno un'anima e che mangiarle costituisce un crimine orrendo forse esulterei se si venisse a sapere che le mele sono cancerogene, magari mi farebbe piacere sapere che i criminali che uccidono le povere mele avranno finalmente la giusta posizione. I nemici delle diete a base di carne esultano alla comunicazione della OMS come si esulta per la vittoria di un partito politico o di una squadra di calcio: nulla che abbia a che vedere con la salute e la scienza.
Ha invece molto a che vedere con la ideologia, e di peggior tipo.
Rispetto chi evita di mangiare carne in base a considerazioni etiche, religiose o filosofiche, anche se non le condivido. Il mio rispetto però viene meno quando questo rifiuto diventa fanatismo, intolleranza, incapacità di distinguere fra i valori. Esultare perché molti esseri umani rischiano il cancro, esser felici perché allevatori, macellai, salumieri rischiano la crisi e sono in pericolo moltissimi posti di lavoro, pensare ai vitelli e non agli uomini è sintomo di una aberrazione culturale che da tempo affligge l'occidente. Il cancro più pericoloso che ci minaccia si chiama ideologia, un male terribile che può uccidere la nostra vecchia civiltà.


Altre ideologie

Lo dico chiaramente, mi da sempre più fastidio un certo modo di pensare diffuso in occidente che valuta tutto in funzione della salute. Di ogni cibo dobbiamo conoscere gli ingredienti, la loro composizione chimica, la provenienza, il modo di lavorazione e così via, in una catena pressoché infinita. Il menù di un ristorante rischia ormai di trasformarsi in un trattato di chimica, praticamente illeggibile. Quante calorie contiene il tal cibo? Quante proteine, quante vitamine, quanti zuccheri? Dai teleschermi occhiuti “esperti” ci esortano ad “informarci”, sempre, in tutte le occasioni, su tutto. Sembra che anche chi è sano come un pesce debba mangiare come se fosse affetto dalla peggior forma di diabete, se non da peggio.
La salute è importante, nessuno lo nega, ma non è tutto. In fondo non si vive solo per stare al mondo, e se è giusto cercare di aggiungere giorni alla vita lo è altrettanto cercare aggiungere vita ai giorni. Non si mangia solo per fornire all'organismo sostanze nutritive, esattamente come non si fa sesso solo per avere dei figli, e non si fanno figli solo per riprodurre la specie umana. Il cibo ed il sesso sono piaceri, oltre che necessità, della vita, contribuiscono a renderla sopportabile. Prendersi cura di figli e nipoti è bello, indipendentemente da ogni considerazioni sulla riproduzione della specie umana: conferisce senso al nostro vivere e l'animale uomo è letteralmente affamato di senso.
Ammettiamo pure che se domani mangio una favolosa bistecca alla fiorentina le mie possibilità di contrarre, da oggi al termine dei miei giorni, un tumore al colon aumentino di uno zero virgola. E allora? Tutto sommato si deve comunque morire, è bene non scordarlo mai, e forse la soddisfazione di una fiorentina compensa il maggior rischio che decido di assumermi. Forse chi decide di vivere come se fosse malato pur essendo del tutto sano dimostra maggior saggezza, ma forse la saggezza non è tutto nella vita, o forse la vera saggezza consiste nel saper equilibrare le esigenze di salvaguardia della propria salute con il tentativo di non rinunciare ai piccoli piaceri che la vita è in grado di offrirci. In ogni caso si tratta di scelte che devono essere lasciate alla discrezione dei singoli. Nessun burocrate della UE, della OMS o dell'ONU può imporcele o tentare di imporcele, neppure col terrorismo mediatico.

E neppure mi piace una ideologia sorella del salutismo radicale: il radicalismo ecologico. Probabilmente non sono solo gli animalisti radicali ad esultare per le comunicazioni della OMS. A loro si affiancano coloro che misurano ogni nostra azione in termini di “impronta ecologica”. “Per allevare una mucca servono tot quintali di foraggio, tot litri d'acqua eccetera”, pontificano questi signori e concludono severi: “vedete? Un chilo di bistecche ha un costo ecologico esorbitante”. Sono gli stessi che strillano indignati se qualcuno annaffia il proprio giardino o se fa la doccia più di una volta al mese, o aziona il condizionatore d'estate ed accende d'inverno il riscaldamento.
E sono gli stessi che ci ricordano che in cento calorie di broccoli ci sono più proteine che in cento calorie di bistecca, e che per produrre i broccoli occorre meno acqua che per produrre bistecche.
A parte il fatto che allevando una mucca non si produce solo un chilo di bistecche ma anche latte, formaggio, burro, ricotta e tante altre ottime cose, e a parte il fatto che per avere 100 calorie occorrono circa 500 grammi di broccoli e solo 60 di bistecca, a parte questi piccoli dettagli, ha senso vivere misurando tutto ciò che facciamo? Essere rispettosi dell'ambiente deve necessariamente significare vivere come se fossimo sotto assedio, cercando di misurare le conseguenze ecologiche di ogni nostro respiro? Se gli esseri umani avessero ragionato in questi termini non ci sarebbero state la civiltà e la storia. Saremmo ancora cacciatori raccoglitori o, più probabilmente, ci saremmo estinti da tempo. E, nell'ipotesi inveriosimile che non ci fossimo estinti ma moltiplicati restando cacciatori - raccoglitori, avremmo distrutto il pianeta. Si, distrutto il pianeta, perché nessuna attività è tanto distruttiva per l'ambiente quanto quella dei cacciatori - raccoglitori.
Abbiamo evitato l'estinzione, ci siamo moltiplicati senza distruggere il pianeta perché abbiamo inventato l'agricoltura, l'allevamento, i trasporti, gli scambi, la tecnologia. Perché, insomma, siamo diventati civili.
Dobbiamo cercare di continuare ad esserlo, malgrado l'ideologia nichilista imperante e gli allarmismi terroristici di tutti i falsi profeti del mondo.






Note
1) Alessandro Tavecchio: La carne causa il cancro? In Italia unita per la scienza
2) Ibidem
3) Ibidem sottolineature mie
4) Ibidem sottolineature mie












domenica 4 ottobre 2015

SCETTICISMO SUL MONDO?















Peter Strawson


L'ESPERIENZA E' UNA COSTRUZIONE DEL SOGGETO?


Nel
“saggio sulla critica della ragion pura” il filosofo analitico Peter F. Strawson sostiene che il miglior risultato della prima critica consiste nell'aver stabilito che una delle condizioni fondanti l'esperienza è costituita dalla separazione che il soggetto è in grado di compiere fra il corso temporale delle sue percezioni soggettive e quello degli oggetti d'esperienza. Io vedo una casa dall'esterno, poi entro nella stessa casa. Come percezioni soggettive l'esterno e l'interno della casa sono l'una successiva all'altra, ma interno ed esterno sono in realtà contemporanei fra loro come parti dell'oggetto casa. Senza la distinzione fra il corso delle percezioni e le cose di cui le percezioni sono tali non sarebbe possibile, afferma Strawson, l'autocoscienza del soggetto. E' questo, a parere del filosofo inglese, il senso migliore e più condivisibile dell'io penso kantiano. Io non sono una X misteriosa in cui si dipana la mia esperienza, ma il centro della stessa, il momento di collegamento unitario di tutti i miei stati, tanto interni che esterni. Il fulcro di questo collegamento unitario è precisamente la distinzione temporale fra percezioni ed oggetti di cui queste sono percezioni. Io sono IO mentre vivo nel mondo e compio in questo i miei percorsi di esperienza. Questi non potrebbero essere tali se non marcassi la differenza fra me ed il mondo che mi circonda, fra i rapporti temporali delle mie percezioni soggettive e l'intelaiatura temporale oggettiva in cui si collocano le cose. Prima sono fuori dalla casa, dopo sono al suo interno, le mie percezioni sono temporalmente diverse dalla contemporaneità in cui si trovano le diverse parti della casa. Questa contemporaneità distinta dal corso delle mie percezioni segna la differenza fra me e la casa in cui mi trovo, fa di me un soggetto che sta compiendo un suo percorso di esperienza, distinto dal fluire dei suoi stati. Se non esistesse oggettività alcuna e tutto si riducesse al fluire dei miei stati io non sarei, a rigore, IO, qualcosa di relativamente permanente che HA una esperienza, cesserei di essere un soggetto.

Afferma con molta chiarezza Strawson:
“Una distinzione necessaria fra 1) i rapporti temporali fra i membri di una serie soggettiva di percezioni e 2) i rapporti temporali fra almeno alcuni degli oggetti di cui le percezioni sono percezioni, è possibile solo a condizione che gli oggetti in questione siano riconosciuti come appartenenti ad una intelaiatura costante di rapporti, in cui quegli stessi oggetti hanno rapporti temporali reciproci (di coesistenza e di successione) indipendentemente dall'ordine delle nostre percezioni di essi” (1).
Per Strawson i rapporti temporali di una serie di percezioni soggettive “sono del tutto inadeguati a fondare, o a dare un contenuto, all'idea della
consapevolezza che il soggetto ha di se stesso come tale che ha una determinata esperienza in un determinato tempo (…). La consapevolezza di cose permanenti, che siano distinte da me stesso, è perciò la condizione indispensabile perché io possa attribuire a me stesso delle esperienze, della coscienza che ho di me stesso come ciò che ha, in tempi diversi, diverse esperienze” (2)
Io non potrei conservare la consapevolezza del mio io se il mondo si riducesse allo scorrere dei miei stati soggettivi, questo è il succo della tesi kantiana che Strawson ritiene la più accettabile della prima critica. Cosa o chi sarebbe il mio io se tutto si riducesse allo scorrere dei miei stati? Prima la visione di X, poi il profumo di Y, poi un certo stato interno, poniamo gioia, e dopo un altro, poniamo tristezza; cosa mi distinguerebbe da questi stati sempre fluidi e fuggenti se non esistessero rapporti temporali oggettivi fra le cose distinti dallo scorrere delle loro percezioni
in me? Io Sono IO perché mi differenzio dalla sedia su cui sono seduto e la considero esistente anche quando non la percepisco, e sono io perché considero contemporanee fra loro tutte le parti del mio corpo, anche quelle che non vedo mai direttamente, come la mia nuca, ed ancora, perché considero il mio corpo qualcosa di unitario e diverso dal mondo che lo circonda. La stessa auto attribuzione di alcuni stati interni come gioia, tristezza o rabbia è possibile solo sulla base di questa unificazione e distinzione empiriche. Si eliminino i rapporti temporali oggettivi fra gli oggetti d'esperienza e tutto diventa un fluire di impressioni non collegate fra loro; in una simile situazione anche i miei sentimenti, ammesso che potessi ancora provare sentimenti, sarebbero solo un fluire privo di centro. Proverei (forse) dei sentimenti, ma questi non potrebbero dirsi miei.
Per riassumere tutto in una formula sintetica: l'io non è una sostanza misteriosa in cui si imprimono i dati d'esperienza ma il centro unificante dell'esperienza stessa. Se si distrugge qualsiasi oggettività scompare la distinzione fra stati d'esperienza e mondo oggettivo, ma in questo modo l'io si riduce ad un fluire di percezioni soggettive e questo ne disgrega l'unità. La riduzione di tutto a soggettività distrugge il soggetto.

Per Strawson è possibile leggere la “
critica della ragion pura” come una analitica dell'esperienza, come una ricerca cioè mirante a stabilire quali caratteri debba necessariamente avere ogni esperienza per essere tale. Inteso in questo senso il fenomenismo kantiano può essere compatibile col realismo empirico, cosa che del resto lo stesso Kant afferma nella “confutazione dell'idealismo” da lui inserita nella seconda edizione della prima “critica”. Strawson tuttavia si guarda bene dall'affermare che sia questa la lettura corretta del capolavoro kantiano. Parti essenziali dell'opera di Kant contraddicono questa lettura: la soggettività dello spazio e del tempo, la distinzione assoluta fra fenomeno e cosa in se, la affermazione, che Kant non si stanca di ripetere, secondo cui le cose nella spazio fuori di noi sono nulla se considerate autonomamente dalle nostre percezioni. Non è questo il luogo per un esame approfondito di simili problemi, va invece affrontata una questione che è relativa alla stessa analitica della esperienza di cui stiamo discutendo. L'esperienza è strutturata, unificata in maniera tale da poter essere resa oggettiva, ed uno dei momenti centrali di tale unificazione è costituito dalla distinzione fra il corso temporale delle percezioni soggettive ed i rapporti temporali fra gli oggetti d'esperienza. Ma questa concezione implica che gli oggetti d'esperienza siano davvero tali, esistano cioè indipendentemente dal fatto dell'essere percepiti? Le relazioni temporali fra interno ed esterno di una casa sono diverse da quelle esistenti nella mia percezione di essi, ma la casa esiste realmente? Esiste anche quando io non la percepisco? Per Strawson non vi sono dubbi che le cose stiano così, che questo sia anche il parere di Kant è dubbio; qui comunque si cercherà di approfondire la questione indipendentemente dalla risposta che ad essa da il filosofo prussiano.

Qualcuno potrebbe chiedersi se la presupposizione di una realtà oggettiva sia davvero necessaria alla costruzione di un esperienza unificata. Non potrebbero bastare a questo fine la memoria e la capacità unificante dell'intelletto? Le mie percezioni dell'esterno e dell'interno della casa sono successive, ma la mia memoria le ricorda ed il mio intelletto le unifica “rendendole” percezioni di cose contemporanee fra loro. L'esperienza appare in questo modo come un qualcosa di coerente ed unificato senza che sia necessario ammettere l'esistenza di oggetti che esistono indipendentemente dalle percezioni. Questi oggetti in realtà non esistono, è l'esperienza che il soggetto costruisce a darci l'illusione della loro esistenza. Una ipotesi di questo genere risponde alla domanda: “quali sono i caratteri basilari che deve necessariamente avere ogni esperienza per essere considerata tale?” in maniera molto semplice. Questi caratteri altro non sono che la memoria e la capacità dell'intelletto di unificare secondo categorie le percezioni sensibili del soggetto, senza il rimando ad una presunta realtà collocata fuori dal soggetto stesso. Ma, stanno davvero così le cose? Val la pena di approfondire la questione.
Il concetto di una realtà oggettiva permanente e dotata di una certa regolarità potrà essere giusto o sbagliato, ma sicuramente non è contraddittorio. Certo, è possibile che da domani questa realtà cambi, che perda ogni regolarità o che Dio la annichilisca, ma finora questo non è avvenuto. Finora l'esperienza mia e di milioni di altri esseri umani, ed anche di animali non umani, è stata esperienza di un mondo relativamente stabile e regolare. La proposizione: “io ho esperienza di un mondo oggettivo che esiste indipendentemente dalla mia esperienza, che esisteva prima che io nascessi e continuerà ad esistere dopo la mia morte” può non essere vera ma spiega senza contraddizioni la mia ed altrui esperienza e la spiega senza che sia necessario far ricorso ad alcuna ipotesi aggiuntiva. La quasi totalità, degli esseri umani inoltre considera giusta una simile proposizione, ed anche coloro che, a livello teoretico, dubitano della sua correttezza, a livello pratico dimenticano i loro dubbi e si comportano come tutti gli altri. Il rimando ad un mondo oggettivo è quindi in grado di render conto del dato di fatto dell'umana, e non solo, esperienza.
Si può fare un discorso analogo riducendo il mondo alle percezioni? No.
La percezione esiste solo nel momento in cui la si esperisce. Non esiste una percezione dotata di permanenza, oggettività e regolarità. Se percepisco prima X o poi Y non posso dire che X continua ad esistere mentre percepisco Y, non lo posso dire perché non esiste alcun X (né alcun Y) diverso dalle loro percezioni. La proposizione: “il mondo è l'insieme oggettivo e permanente delle mie percezioni” è contraddittoria perché non può esistere un insieme oggettivo e permanente di percezioni: ogni percezione è quella che è nel momento in cui è. Io posso considerare contemporanei l'esterno e l'interno della casa, ma non posso considerare contemporanee le loro percezioni: non lo sono ed è contraddittorio pensare che lo siano.
Chi riduce l'umana esperienza ad insieme coordinato di percezioni potrebbe a questo punto obiettare che lui non contesta che noi si consideri realmente esistenti gli oggetti delle percezioni, si limita ad affermare che questi in realtà non esistono. Le percezioni sono successive ma noi le consideriamo percezioni di oggetti contemporanei, anche se questi in realtà non ci sono. In questo non esiste contraddizione alcuna. Prima di esaminare con più attenzione il senso di tale risposta val la pena di fare una considerazione di carattere probabilistico.
Nello scorrere del tempo io ho una quantità enorme e crescente di percezioni e sempre queste mi danno la sensazione di trovarmi di fronte ad un mondo relativamente stabile e regolare. Se si presuppone l'esistenza oggettiva del mondo questo non da luogo a problema alcuno, ma se si riduce il mondo a scorrere di percezioni almeno un problema sorge, e si tratta di un grosso problema. Che probabilità ci sono che in una certa unità di tempo tutte le mie percezioni appaiano coerenti e collegate fra loro? La coerenza ed il collegamento sono il risultato della attività unificante dell'intelletto, si potrebbe, kantianamente, rispondere. Ma la risposta è quanto mai insoddisfacente. L'intelletto può unificare qualcosa solo se questo si lascia unificare. Posso collegare fra loro esterno ed interno della casa, ma cosa potrei unificare se una volta entrato nella casa mi trovassi di fronte ad un fiume, ed un attimo dopo il fiume si trasformasse in un albero, e poi calasse il buio e la mia unica percezione fosse quella di un suono acuto e fastidioso? L'attività coordinatrice dell'intelletto è essenziale per dar conto dell'esperienza, ma non potrebbe operare se le nostre percezioni fossero caotiche. Una certa regolarità delle percezioni deve esistere se si vuole spiegare in qualsiasi modo l'esperienza, ma qual'è la probabilità che questa regolarità ci sia? Se le percezioni non sono legate all'esistenza di un mondo oggettivo e relativamente stabile nulla in alcun modo garantisce che la percezione A e quella B siano in qualche modo collegabili; ogni percezione è solo se stessa e nessuna impone all'altra di essere così e così. L'ordine che finora si è di fatto manifestato fra le mie percezioni è solo una fra le infinite combinazioni possibili fra le stesse e la probabilità di una simile combinazione tende a zero con lo scorrere del tempo.
Si potrebbe obiettare che anche l'esistenza di un mondo dotato di relativa stabilità è alquanto improbabile, ma, a parte il fatto che è altrettanto improbabile l'esistenza di un intelletto unificante le percezioni, non è questo il punto. Dato per scontato che esista una (improbabile) esperienza regolare, quale è la sua spiegazione più probabile? Quella che presuppone un mondo oggettivo o quella che identifica il mondo con un insieme di percezioni? Rispondere che si presuppone un insieme coerente di percezioni vuol dire solo optare per l'ipotesi meno probabile perché è proprio questa coerenza ad essere altamente improbabile. Affermare invece che si presuppone un insieme oggettivo di percezioni è contraddittorio perché il fluire delle percezioni tutto può essere meno che oggettivo. L'ipotesi che non esista un mondo oggettivo per non essere contraddittoria deve risultare assai poco probabile, e può abbandonare la sua improbabilità solo diventando contraddittoria.

Improbabile tuttavia non significa impossibile. L'ipotesi di chi nega la realtà oggettiva del mondo va esaminata da altri punti di vista. Davvero questa ipotesi è in grado di spiegare il dato di fatto della nostra esperienza? Per rispondere a tale domanda non basta sottolineare l'improbabilità di una simile ipotesi, occorre esaminare la sua legalità.
Non si può negare che l'attività dell'intelletto abbia un ruolo decisivo nella costruzione della nostra esperienza, aver scoperto tale importanza è merito imperituro di Kant. Ma separare l'attività dell'intelletto dalla presupposizione di un mondo realmente oggettivo porta a risultati soddisfacenti? E' davvero in grado di dar conto dell'esperienza? La risposta non può che essere, di nuovo, no.
Se un mondo di oggetti distinti dalle nostre percezioni non esiste allora l'azione dell'intelletto che ordina le percezioni sensibili in una griglia temporale oggettiva si basa in realtà sul nulla. Le percezioni sono davvero sempre successive l'una all'altra e solo le percezioni esistono. La griglia di rapporti temporali fra le cose diversa da quella fra le percezioni risulta essere in questo modo, un auto inganno o una illusione. L'interno della casa non è contemporaneo all'esterno perché l'esterno ha cessato di esistere nel momento stesso in cui io ho cessato di percepirlo. Allo stesso modo le varie parti del mio corpo si dissolvono: viso e nuca, occhi e mani non sono parti contemporanee fra loro del mio essere corporeo, anzi, nuca ed occhi di fatto non esistono perché io non li percepisco mai direttamente. In realtà io non ho il diritto di dire che esterno ed interno di casa mia, o palmi e dorsi delle mie mani siano contemporanei malgrado che le loro percezioni siano successive se non ammetto l'autonoma esistenza della casa e delle mani. E se cercassi di difendere questo diritto con l'argomento che rende possibile l'esperienza mi si potrebbe rispondere: “la tua esperienza è un nulla, vada pure al diavolo!”
Ma la riduzione del mondo esterno a percezione non distrugge solo il mondo esterno, distrugge anche l'io interiore.
In primo luogo è quanto meno molto difficile immaginare l'autocoscienza dell'io staccata da criteri di identificazione empirica dello stesso. Un io che abbia coscienza di se senza poter fare riferimento al proprio corpo, localizzare in questo le proprie sensazioni, non è un io di questo mondo, è il puro spirito della fede e della teologia. Può, forse, godere le delizie del paradiso o soffrire i tormenti dell'inferno, non costruire nel mondo i suoi percorsi di esperienza.
La negazione della oggettività del mondo pone inoltre, sempre riguardo all'io, dei problemi di coerenza logica. Il mondo non esiste perché noi non vediamo il mondo ma solo le nostre percezioni del mondo, dice il soggettivista. Ma, se vogliamo essere coerenti, dovremmo dire, partendo dallo stesso presupposto, che l'io non esiste perché noi non vediamo l'io ma solo le nostre percezioni dell'io. Come posso dire, in quest'ottica, che la tristezza che provo ora, e che ha fatto seguito alla gioia che provavo ieri, sia qualcosa di mio? Dove è l'io prima gioioso e dopo triste? Esiste solo una stato, la gioia, seguito da un altro, la tristezza. Fine non diversa fanno i rapporti fra essere e pensiero. Ridotto a percezione il mio io, come posso dire che sono miei i pensieri che sto pensando? E che rapporto potrà mai esistere fra i miei pensieri e le mie sensazioni e fra queste ed il mio corpo?
Certo, non siamo obbligati ad essere coerenti, non è contraddittorio affermare l'esistenza dell'io e negare quella del mondo anche se entrambi ci appaiono non “in se” ma solo come percezioni; una teoria non coerente però è quanto di più debole ed aperto allo scetticismo si possa immaginare.
Che si parli del mondo esterno o di quello interiore, la eliminazione di una realtà esterna al soggetto, ben lungi dal poter fondare razionalmente l'esperienza, introduce in questa uno scetticismo radicale e nichilista che la rende del tutto incomprensibile.
Questo autentico groviglio di contraddizioni cui porta la attribuzione al solo soggetto della costruzione dell'esperienza e la contemporanea riduzione del mondo a percezione, è parte ed aspetto di una contraddizione più profonda. Chi sostiene una simile concezione pensa che l'attività con cui l'intelletto plasma secondo categorie i dati della sensibilità sia sufficiente a conferire oggettività all'esperienza e a spiegarla razionalmente. Alla base di tutto starebbe la attività sintetica dell'io. Ma questa attività presuppone un io, ed un mondo, già in qualche modo unificati. L'io può “plasmare” i dati della sensibilità solo se la sua sensibilità ed il suo intelletto sono già in qualche modo connessi, se il suo sentire e pensare non sono separati dalla corporeità e se le percezioni che l'io esperisce non sono un caos che rende impossibile qualsiasi tipo di unificazione categoriale. Sostituire alla relativa stabilità di un mondo oggettivo l'attività unificante dell'io non ha senso perché questa attività presuppone quella stabilità, e, come si è visto, nulla garantisce quella stabilità se il mondo reale viene eliminato.

La pretesa che l'attività con cui l'intelletto organizza i dati della sensibilità possa da sola garantire il carattere ordinato della esperienza risulta particolarmente assurda se si prendono in considerazione alcuni caratteri peculiari dell'esperienza e di questa stessa attività unificatrice.
Innanzitutto il carattere intersoggettivo dell'esperienza. Non intendo dilungarmi su questo punto, già trattato altrove, ma val la pena di sottolineare il fatto che quasi tutti coloro che negano la realtà oggettiva del mondo parlano di “nostra” esperienza, “nostre” percezioni ed usano spesso e volentieri il pronome personale “noi”. Si tratta però di un uso scorretto di pronomi e possessivi. Le percezioni che provo sono, rigorosamente, solo mie; se nego l'esistenza di un mondo indipendente dalle percezioni devo negare anche l'esistenza di altri esseri umani oltre me. Il solipsismo è la conseguenza logica della riduzione del mondo a percezione, ma il solipsismo contraddice uno dei caratteri più importanti dell'esperienza, la sua intersoggettività. Non a caso tutti noi contraddiciamo di continuo il solipsismo in ogni istante della nostra vita; lo contraddice anche chi afferma che le cose fuori di noi, nello spazio, sono nulla al di fuori delle nostre percezioni...
Le teorie che stiamo esaminando sostengono che la oggettività della nostra esperienza può essere sostenuta senza che si riconosca l'esistenza del mondo di cui abbiamo esperienza. L'attività dell'intelletto che ordina i dati della sensibilità sarebbe sufficiente a questo scopo. In questa attività è essenziale la memoria. Chi riduce il mondo a percezioni intende parlare in realtà di percezioni e ricordi. Io percepisco l'interno della casa, mi ricordo della della percezione del suo esterno, collego la percezione presente al ricordo della passata e considero contemporanei gli oggetti delle due percezioni, oggetti che però, a rigore, non esistono. Apparentemente sembra plausibile, in realtà un simile processo non tiene conto delle caratteristiche reali del ricordare.
Lo aveva già sottolineato Wittgenstein nella sua critica del linguaggio privato: chi mi assicura che un certo ricordo sia esatto? Il rimando ad altri ricordi? No, evidentemente, sarebbe come confrontare la correttezza della notizia riportata su un giornale consultando altre copie dello stesso giornale. Senza la presupposizione di un mondo oggettivo il ricordare diventa una attività evanescente, del tutto incapace di garantire un minimo di stabilità all'esperienza. Io ricordo che il libro che sto leggendo si trova di là, in libreria perché lo vedo lì tutti i giorni, perché mi appare regolarmente in quel luogo, e do per scontato che ci resti anche quando non lo vedo. Non ricordo dove si trova una certa strada, allora chiedo ad un passante se sa dove quella strada si trovi, consulto una mappa, guardo con attenzione gli edifici e le targhe. Il ricordo è sempre ricordo di qualcosa che ricordo non è. Nella mia esperienza non mi limito ad unificare percezioni e ricordi, unifico percezioni e ricordi partendo dalla presupposizione che esista una realtà oggettiva ed indipendente da entrambi. E' la presupposizione, mai messa in discussione, di questa realtà a fornire a ricordi e percezioni il loro fondamento. Si elimini questo fondamento e l'unificazione di percezioni e ricordi diventa una nebbia evanescente, che non garantisce nulla.

Le tesi di chi nega l'esistenza del mondo al di fuori delle percezioni contrastano anche, ed in maniera radicale, con il carattere storico della nostra esperienza. Per il solo fatto di essere temporale la nostra esperienza è storica, ma nulla come la storia presuppone l'oggettività del mondo. La storia estende l'oggettività dalle cose agli eventi, rende oggettiva, distinta da percezioni e ricordi, la nostra stessa vita.
Guardo una vecchia foto scolastica che ritrae la mia classe di prima elementare. Vedo le immagini dell'anziana maestra, dei miei compagni; in seconda fila ci sono io, stento quasi a riconoscermi. Guardare una vecchia foto, ricordare tempi lontani... per chi è convinto che esista il mondo indipendentemente dalle percezioni, e che certi eventi lontani siano davvero accaduti tutto questo non è fonte di alcun problema. Ma si provi a prescindere dalla oggettività di cose ed eventi e subito ci si trova immersi in un groviglio di insolubili contraddizioni. Esisteva davvero, molti anni fa, un essere che oggi riconosco come me stesso? Davvero ha posato per quella foto, ha frequentato quella scuola, ascoltato le lezioni dell'anziana maestra? Di quell'essere non ho oggi alcuna percezione, percepisco solo la vecchia foto; lo ricordo, molto vagamente, quell'essere, meglio, quel bambino un po' timido. Ma, il mio ricordo è successivo allo scatto di quella foto ed è successiva a quello scatto la mia percezione della foto stessa. Io ordino temporalmente ricordi e percezioni, dice chi vorrebbe prescindere dalla esistenza oggettiva di mondo ed eventi, ma quale percezione ordino temporalmente? Quella odierna della vecchia foto? E quale ricordo ordino temporalmente, quello di oggi? Colloco forse nel passato la percezione della foto ed i vaghi ricordi che questa mi ispira? No, evidentemente. Io non ordino temporalmente ricordi e percezioni, ordino temporalmente eventi oggettivi cui ricordi e percezioni mi rimandano. Se questi eventi fossero privi di una loro oggettività l'idea stessa di un loro ordinamento temporale sarebbe contraddittoria. Proiettare indietro nel tempo ricordi e percezioni di oggi, ben lungi dal garantire la regolarità della nostra esperienza la renderebbe caotica.
Le stesse difficoltà si presentano, è ovvio, se dalla storia privata passiamo a quella pubblica. Leggo su un libro: “Napoleone ha vinto ad Austerliz”. Cosa vuol dire precisamente quella frase? Vuol dire, si può rispondere, che un certo uomo chiamato Napoleone ha vinto una battaglia in una certa località chiamata Austerliz e questo evento è accaduto molto tempo fa, prima che io nascessi ed avessi ricordi o percezioni di alcun genere. Ma se cose ed eventi sono niente al di fuori di percezioni e ricordi una simile risposta diventa priva di senso. Io non ho nessuna percezione né ricordo alcuno della battaglia di Austerliz e di Napoleone, ho solo la percezione di un libro su cui ho letto di un certo evento. E questo, non la percezione che ordino temporalmente. Senza distinzione fra evento reale, ricordo e percezione la storia e la sua cronologia diventano prive di senso. Non occorre dilungarsi troppo. Basta fare un rapido accenno al fatto che se dalla storia umana si passa a quella naturale, le difficoltà e le aporie del soggettivismo fenomenico si accentuano ancora.


La difficoltà del soggettivismo e dello stesso fenomenismo kantiano a giustificare razionalmente la storia è parte, a ben vedere le cose, di una difficoltà più ampia, che porta soggettivismo e fenomenismo ad autentiche aporie. Vediamo di chiarire.
La forma spazio è l'esser l'uno fuori dell'altro. La forma tempo l'esser uno prima o dopo l'altro. Che spazio e tempo siano qualcosa di soggettivo od oggettivo, che siano un insieme di relazioni o qualcosa di assoluto che precede ogni relazione la cosa non cambia. Se X è nello spazio si trova fuori da Y, se è nel tempo si trova prima o dopo Y. Su questo Kant concorda. Per lui spazio e tempo sono soggettivi ma non illusori, sono forme soggettive a priori della sensibilità, non sogni o illusioni. Io e la tastiera su cui sto scrivendo siamo entrambi nello spazio e nel tempo, questo vuol dire che la tastiera è davvero fuori di me, e che la parola che sto scrivendo ora viene davvero scritta dopo quella che ho scritto alcuni istanti fa. Il fenomenismo kantiano su questo concorda. Kant parla, nella dialettica trascendentale, dell'origine del mondo nel tempo e dei suoi limiti nello spazio. Il fatto che ritenga che a simili domande non può essere data risposta non significa che non ammetta l'esistenza del mondo prima che qualsiasi ente potesse percepirlo e l'esistenza di zone dell'universo che nessun essere potrà mai percepire.
Ma, possono simili ammissioni accordarsi con una concezione soggettiva dello spazio e del tempo? L'essere fuori, o prima o dopo di me sono qualcosa di soggettivo solo se sono qualcosa di illusorio. Il fuori da me è solo apparenza se lo spazio è solo in me. Il prima o dopo di me sono solo apparenze se il tempo è solo in me.
Se spazio e tempo sono realmente tali non possono essere meramente soggettivi perché la loro forma consiste esattamente nell'andare oltre il soggetto. Rimandano al prima, al dopo e al fuori da me e da qualsiasi essere senziente. Se ne era reso conto benissimo Shopenhauer. Fare del tempo una forma della sensibilità vuol dire, per il filosofo di Danzica, ammettere che è esistito un mondo prima che l'uomo e qualsiasi essere senziente potesse percepirlo e questo contraddice la soggettività del tempo. Si tratta a parere di Shopenhauer di una autentica antinomia della nostra facoltà conoscitiva, che egli pensa di poter risolvere scoprendo l'in se che sta dietro ai fenomeni, la volontà che determina la rappresentazione. Abbia o non abbia successo nel suo tentativo di andare oltre i fenomeni, Shopenhauer ha colto una difficoltà nella concezione fenomenico - soggettiva dello spazio e del tempo che sembra esser sfuggita a Kant.

Il soggettivista fenomenico potrebbe a questo punto ribattere che l'esistenza del mondo va presupposta per rendere comprensibile l'esperienza e che lui fa di buon grado questa presupposizione; solo, a questa non corrisponde nulla di reale. Insomma, dobbiamo presupporre che il mondo esista anche se in realtà questo non esiste. Una simile argomentazione manca, lo si è già visto, di qualsiasi legalità razionale: non siamo razionalmente autorizzati a presupporre l'esistenza del mondo se pensiamo che questo non esista. Inoltre chi fosse davvero convinto da tale argomentazione si troverebbe in una situazione psicologicamente impossibile. Non è possibile teorizzare sinceramente la non esistenza di un mondo oggettivo ed, altrettanto sinceramente presupporlo esistente. Un simile atteggiamento ricorda coloro che affermano di credere in Dio perché credere aiuta a sopportare meglio le avversità della vita, o coloro che invocano la fede perché questa garantisce stabilità sociale. Pensare che Dio non esista ma credere in Dio per i presunti vantaggi della fede è impossibile. La fede può portare vantaggi solo se è assolutamente sincera.

Ma l'argomentazione del soggettivista si scontra con un'altra, formidabile, difficoltà e questa è costituita dal linguaggio.
Proposizioni come: “c'è un albero in giardino”, o “Roma è capitale d'Italia” o “Napoleone vinse ad Austerliz” indicano che davvero esistono un albero ed un giardino e che il primo si trova nel secondo, che davvero esiste una città chiamata Roma che è capitale di uno stato chiamato Italia, e che davvero, tempo fa, un uomo di nome Napoleone ha vinto una battaglia in una località chiamata Austerliz. Il linguaggio si riferisce direttamente al mondo, le parole rimandano alle cose, non alle mie percezioni, ai miei ricordi, e neppure alle mie presupposizioni. Se dico che “il libro è sul tavolo” le mie parole non significano che io ho la sensazione che il libro sia sul tavolo, significano che fuori di me, nello spazio, ci sono due oggetti uno dei quali si trova sull'altro. Questo è talmente vero che spesso il termine “sensazione” è usato per indicare qualcosa di fugace, forse illusorio. Proposizioni come “ho la sensazione che ci sia qualcuno in casa”, o “ho la sensazione che tu stia male” hanno un significato ben diverso da: “c'è qualcuno in casa”, o “tu stai male”. Allo stesso modo il termine “percezione” è usato come percezione di qualcosa. Negare l'esistenza del mondo riducendo il mondo a percezioni è linguisticamente scorretto perché il termine stesso “percezione” rimanda alla cosa che viene percepita.


Il rimando del linguaggio al mondo è essenziale al linguaggio, talmente essenziale che senza questo rimando il linguaggio perde la sua stessa comprensibilità. La riduzione del mondo ad insieme di percezioni implica, lo si è visto, che non sia vero che le cose sussistono anche quando non le percepiamo. Ora, può qualcosa di simile essere espresso dal linguaggio? Vediamo.
Si prenda la proposizione “il Cile confina con l'Argentina”. Può una simile proposizione indicare non cose sussistenti ma percezioni che esistono solo nel momento in cui sono vissute? Ovviamente no. Io non vedo ora il Cile e l'Argentina e meno che mai vedo il loro confine. Ad essere rigorosi io non vedrei l'Argentina ed il Cile neppure se ora fossi a Santiago o a Buenos Aires. Se fossi in una di queste capitali vedrei delle case, o delle strade, o delle piazze ma non l'Argentina ed il Cile. Per parlare di Cile ed Argentina devo considerare qualcosa di sussistente, una totalità di oggetti e di esseri viventi inserita in una intelaiatura temporale diversa da quella in cui si dipanano le mie percezioni., E devo anche considerare altre cose: delle istituzioni, una storia intesa come insieme di eventi effettivamente accaduti, e di cui mai io ho avuto percezione alcuna, una cultura, un linguaggio che è comprensibile ad una gran quantità di esseri umani anche se io non lo comprendo. Si riduca il mondo ad una serie di percezioni o sensazioni, comunque ad un flusso di stati soggettivi di coscienza e termini come Cile ed Argentina, e con loro tantissimi altri, perdono tutto il loro senso.

Non è il caso di dilungarsi troppo con gli esempi. Non tutto il linguaggio si riferisce al mondo e non tutto ciò che si dice è una descrizione del mondo, ma il linguaggio è costruito dando per scontato che il mondo esista. Non ci sono parole per descrivere una esperienza priva di un mondo oggettivo.
E come mai qualcuno invece la descrive, questa esperienza? Come può farlo se non dispone delle parole adeguate? Lo può fare solo perché usa il linguaggio in modo inappropriato. Usa termini che presuppongono l'esistenza di un mondo oggettivo riferendosi ad un mondo di puri stati interiori. Parla di libri, alberi e case intendendo sensazioni di case, alberi e libri. Ma chi lo ascolta può capre ciò che dice, e lui stesso può capirlo, solo perché entrambi hanno bene in mente il comune significato delle parole. Tutto il discorso di chi nega il mondo si basa in realtà su una illusione. Le sue argomentazioni appaiono comprensibili perché lui e noi diamo per scontata l'esistenza di un mondo oggettivo e, nel mondo, di altri esseri umani, diamo un certo significato alle parole ed agiamo di conseguenza. Se il soggettivista, più o meno radicale, ed il più radicale di tutti i soggettivisti: il solipsista, parlassero ed agissero conformemente a ciò in cui credono i loro discorsi sarebbero del tutto privi di senso e le loro azioni di ogni ordine e coerenza. Accade al soggettivista ciò che accade a chi nega il principio di non contraddizione: è costretto ad usare tale principio anche solo per contestarne la validità. Allo stesso modo il soggettivista deve accettare l'esistenza del mondo, e comportarsi di conseguenza, anche solo per dubitare di tale esistenza.

Separare l'attività con cui l'intelletto ordina i dati della sensibilità dal franco riconoscimento dell'esistenza di un mondo oggettivo porta alle teorie che sono state oggetto di questo scritto. Queste possono essere espresse solo se si usa in modo improprio il linguaggio; ipotizzano stati di cose la cui probabilità tende a zero, fanno affermazioni gratuite ed incoerenti e se cercano di essere coerenti incorrono in contraddizioni. Soprattutto, non riescono a spiegare la nostra esperienza e contraddicono le sue caratteristiche peculiari. Gli stessi filosofi scettici, o, per lo meno, i più grandi fra questi, non prendono troppo sul serio simili teorizzazioni. Lo scettico infatti non cerca di dimostrare o, tanto meno, di convincere qualcuno della non esistenza del mondo. Si limita a sottolineare l'impossibilità dell'umana ragione a dimostrare l'esistenza di qualcosa oltre le impressioni sensibili, La sua opera può, in questo senso, costituire uno stimolo per la ricerca e ed un antidoto contro il dogmatismo. Non è la verità ciò a cui lo scettico mira, dal suo punto di vista avrebbe poco senso chiedersi se le teorizzazioni di cui abbiamo parlato possano, malgrado tutto, essere vere. Eppure non si tratta di una domanda assurda, per chi scettico non è e ritiene importante il problema della verità.  E la risposta a tale domanda è si. Teorie espresse in un linguaggio improprio, incoerenti, improbabili ed incapaci di render comprensibili i fenomeni che intendono spiegare possono sempre, in linea puramente teorica, essere vere.
In linea teorica potrebbe essere vero che la luna è fatta di formaggio o che esistono i fantasmi ed i draghi sputafuoco. Da questo punto di vista anche il solipsismo potrebbe, in linea del tutto teorica, essere vero. Ma una teoria non può essere accolta e neppure essere presa sul serio solo perché, forse, malgrado tutto, potrebbe essere vera. Una teoria deve spiegare, rendere comprensibili, o più comprensibili, i fenomeni di cui tratta. Da questo punto di vista non solo il solipsismo ma tutte le filosofie che negano la realtà del mondo non possono essere accettate, e neppure prese sul serio.
La forma generale delle teorie che abbiamo discusso è questa: forse il mondo non esiste anche se tutto ci fa credere che esista ed anche se tutti, compresi gli scettici, devono presupporne l'esistenza, se vogliono dar senso ai loro discorsi e coerenza al loro agire. Come molte altre fantasie filosofiche anche questa è costruita in modo da essere inconfutabile. Ma, così come non occorre dimostrare che il mondo esista non ha molto senso cercare dimostrare che la negazione della sua esistenza sia logicamente impossibile. L'esistenza del mondo è il presupposto di ogni azione, ogni discorso ed ogni dimostrazione, la teorizzazione della sua non esistenza l'anticamera della inesprimibilità. E tanto basta.

Note
1) Peter Strawson: Saggio sulla critica della ragion pura. Laterza 1985, pag. 112
2) Ibidem pag. 113 114 sottolinetaura di S.




VA PROVATA L'ESISTENZA DEL MONDO?


Se mi è concesso parlare di una piccola esperienza personale, ricordo che quando, tanti anni fa, mi sono imbattuto per la prima volta nell'argomento scettico sull'esistenza del mondo esterno questo mi ha profondamente irritato. “Il mondo non esisterebbe? Che sciocchezza” mi sono detto. “Io vedo, sento, tocco le cose del mondo, come può il mondo non esistere?”. Poi, man mano che prendevo conoscenza delle sottilissime argomentazioni dei filosofi, invece che irritarmi quell'argomento ha iniziato ad inquietarmi. “Il mondo è solo in me... come posso essere certo che esista fuori di me? Io conosco solo le sensazioni, le rappresentazioni... “ tutto questo mi sembrava assurdo, non mi convinceva affatto ma, mi chiedevo, “il fatto che io sia intimamente convinto che la sedia su cui sono seduto continui ad esistere anche quando mi alzo ed esco di casa non dimostra che questa davvero esista indipendentemente da ciò che io sento. Come si può dimostrare che il mondo esiste?”
Come si può dimostrare l'esistenza del mondo? Bel problema... ma... è davvero un problema reale?
“E' segno di impreparazione” afferma Aristotele nella Metafisica, “ il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no. Difatti è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose (in tal caso infatti si andrebbe all’infinito e quindi neppure così si produrrebbe dimostrazione).” (1)
Qui Aristotele parla del principio di non contraddizione che, in quanto principio che rende possibile ogni dimostrazione, non può a sua volta essere dimostrato, ma quello che dice ha una valenza se possibile ancora più generale. Non tutto può essere dimostrato. La dimostrazione collega certe premesse a certe conclusioni ma le premesse non sono a loro volta dimostrabili, o lo sono solo se si parte da altre premesse ancora più generali, a loro volta, di nuovo, non dimostrabili.
Il notissimo sillogismo: “tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale”collega in maniera coerente due premesse per giungere ad una conclusione necessaria. Ma la verità delle premesse non è a sua volta dimostrata, è assunta come data o è considerata vera perché attestata dalla intuizione sensibile. Certo, si potrebbe dimostrare la mortalità degli uomini con un altro sillogismo: “tutti gli animali sono mortali, tutti gli uomini sono animali quindi tutti gli uomini sono mortali” ma in questo modo sarebbero la mortalità degli animali e la appartenenza degli uomini al genere degli animali ad essere attinte dall'esperienza sensibile. Qualsiasi discorso noi si faccia attingiamo continuamente il materiale che relazioniamo logicamente da qualcosa di extra logico. L'esistenza di qualcosa non è dimostrabile, la logica relaziona A e B, non dimostra la loro esistenza. Chi pretende che l'esistenza del mondo gli venga “dimostrata” non ha compreso la logica, e meno ancora ha compreso il mondo.
Nella celebre confutazione della dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio Kant nega esplicitamente che l'esistenza sia un attributo. L'esistenza non è un predicato che arricchisca minimamente il concetto di una cosa: concettualmente cento talleri solo pensati non differiscono minimamente dai cento talleri che ho depositato in banca. Il fatto che siano sul conto modifica non il loro concetto ma la loro posizione nei riguardi della esperienza sensibile. “Se si trattasse di un oggetto dei sensi non potrei scambiare l'esistenza della cosa col semplice concetto della cosa. Infatti, pel concetto, l'oggetto non vien pensato se non come conforme alle condizioni generali di una possibile conoscenza empirica in generale; per l'esistenza, invece, come contenuto nel contesto dell'esperienza totale. (…) Sia quale e quanto si voglia il nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza. Negli oggetto dei sensi questo accade mediante la connessione con una delle mie percezioni secondo le leggi empiriche” (2).
L'esistenza è fuori dal concetto, quindi anche fuori dalle relazioni fra concetti, quindi non è passibile di dimostrazione logica. Non tutto può essere dimostrato, su questo punto di cruciale importanza Kant la pensa esattamente come Aristotele.

“Provare” o “dimostrare” l'esistenza del mondo non è possibile perché il mondo è dato, è dato nell'esperienza sensibile; tutto ciò che si può fare è analizzare ciò che ci è dato nell'esperienza per vedere che tipo di evidenze questa ci offre. E' proprio vero che, come dice Cartesio, solo della mia esistenza io posso essere assolutamente certo mentre l'esistenza del mondo mi è data non immediatamente ma in maniera mediata dalle mie sensazioni? Abbiamo già brevemente esaminato alcuni punti deboli di questa concezione. L'esistenza di un mondo fenomenico caratterizzato da almeno certe regolarità empiriche è essenziale per l'autocoscienza dell'io, lo stesso dicasi del linguaggio e del suo carattere non meramente privato ma intersoggettivo. Inoltre io stesso sono fenomeno fra i fenomeni, e il mio corpo è un oggettio esterno, esattamente come i tavoli e le sedie; anche la conoscenza di me, o almeno una grande parte di questa, può quindi essere considerata mediata e non immediata. Non è il caso di riprendere ora queste argomentazioni. Il problema su cui invece si concentrerà l'attenzione è quello della immediatezza o meno della conoscenza del mondo esterno.
Il mondo esterno mi è dato non immediatamente ma in maniera mediata. Io ho la percezione di un albero e da questa deduco, in maniera mediata che, forse, un albero esiste realmente. Afferma Roger Scruton nel già citato: la filosofia moderna, compendio per temi: “La teoria rappresentazionale (..) sostiene che noi percepiamo gli oggetti mediante le loro rappresentazioni mentali. Queste rappresentazioni mentali possono corrispondere o meno alla loro realtà fisica, la cui natura deve perciò essere colta eliminando le illusioni, le delusioni e le ambiguità che affliggono le nostre carriere mentali” (3)
Insomma, io non vedo l'albero, vedo la rappresentazione di un albero e da questa deduco che forse esiste qualcosa dietro a quella rappresentazione, qualcosa che noi chiamiamo albero. Ma ha senso dire che io vedo, o percepisco una rappresentazione? Scruton mette molto bene in evidenza come questo modo di procedere conduca ad un regresso all'infinito. Percependo una rappresentazione io avrò una nuova rappresentazione che dovrà a sua volta essere percepita e così via, all'infinito. Si potrebbe dire, afferma Scruton che “percepiamo le rappresentazioni direttamente e gli oggetti soltanto indirettamente. Ma cosa significa? Presumibilmente questo: mentre io posso commettere errori sull'oggetto fisico non posso commetterne sulla rappresentazione che per me è immediata” (4)
A questo punto però diventa insensato affermare che io “percepisco”, più o meno direttamente, una rappresentazione. “La percezione è un modo di trovare come sono le cose; essa implica una separazione fra la cosa che percepisce e la cosa percepita, e con questa separazione arriva la possibilità dell'errore. (…) La rappresentazione mentale non è affatto percepita; essa è semplicemente parte di me. In altre parole, la rappresentazione mentale è la percezione. In questo caso il contrasto fra percezione diretta e indiretta scompare. Noi percepiamo effettivamente oggetti fisici e li percepiamo direttamente. (…) e noi percepiamo oggetti fisici avendo esperienze rappresentazionali” (5)
Io non percepisco la “rappresentazione” di un albero, percepisco l'albero e lo percepisco avendo una immagine mentale dell'albero, proprio per questo la percezione può essere giusta o sbagliata, nitida o confusa; se l'albero coincidesse con la percezione che ho di esso questa non sarebbe mai sbagliata o confusa. Tutto questo in fondo non fa che confermare ciò che emerge chiaramente dal linguaggio comune. Nessuno dice: “vedo la rappresentazione di una casa”, o: “ascolto la rappresentazione di un concerto” o ancora: “la rappresentazione tattile di una puntura di spillo mi duole”. Tutti diciamo: “vedo una casa”, o “ascolto un concerto” o “la puntura di uno spillo mi duole”. Ed il linguaggio comune non fa a sua volta che confermare quello in cui crede in maniera immediata la totalità praticamente degli esseri umani. Il punto centrale è tutto qui, in fondo. Lo scettico afferma che il mondo esterno ci è dato solo indirettamente, risaliremmo all'esistenza del mondo esterno solo in maniera mediata, dalla sensazione al mondo, e questo comporterebbe tutta una serie di difficoltà. Ma questo, molto semplicemente, non è vero. Nessuno dice o pensa: “ho la sensazione di un albero, ora devo dedurre da questa l'esistenza reale dell'albero”, tutti diciamo: “lì c'è un albero”. Il mondo esterno ci è dato immediatamente, ci si presenta con immediata evidenza, con una evidenza almeno pari a quella con cui siano consci della nostra stessa esistenza.

Gli stessi, svariati, argomenti scettici che vorrebbero indurre il dubbio sull'esistenza del mondo esterno a partire dagli errori cui sono soggette le sue percezioni non solo non sono conclusivi, come si è già visto, ma possono benissimo essere applicati alla stessa percezione dell'io. Spesso le sensazioni inducono in errore, si dice, quando ci mettono in relazione con oggetti del mondo esterno. Una nuvola all'orizzonte ci sembra una montagna e nella nebbia un lampione può sembrarci un albero. Però, commettiamo errori simili anche a proposito di noi stessi. Dimentichiamo spesso cose fatte anche poco tempo fa, o ci può capitare di trovarci in una situazione di vuoto, se non di caos mentale. La parte di noi che davvero conosciamo è in fondo solo una piccola porzione dell'io: il flusso dei ricordi si perde inevitabilmente col passare del tempo; la scoperta dell'inconscio inoltre ci ha rivelato che parti fondamentali di noi non emergono affatto alla luce della coscienza ma restano nel profondo, lontane, difficilmente interpretabili. A livello fisico gli errori che possiamo fare su noi stessi sono numerosissimi; spesso ignoriamo l'esistenza di organi fondamentali, o possiamo avere l'illusoria convinzione di essere assolutamente sani mentre ci portiamo dentro terribili malattie. Tutto vero, si potrebbe obbiettare, però, qui ci si riferisce all'io empirico e l'io empirico in fondo altro non è che una parte del mondo. Si, è proprio così, ma, di quale altro io possiamo avere coscienza? Solo l'io che è collocato nello spazio e nel tempo può essere oggetto di conoscenza, più o meno mediata o immediata, l'io noumenico è al di fuori della conoscenza, di qualsiasi tipo di conoscenza.
L'io non ha nessun privilegio sul mondo, quindi, l'interno non è oggetto di una conoscenza più immediata e certa di quanto non lo sia l'esterno, possiamo sbagliare a proposito del mondo come dell'io, e di entrambi possiamo essere profondamente ignoranti. L'evidenza del mondo esterno è tale che nessuno seriamente ne dubita, neppure il più scettico fra i filosofi, esattamente come nessuno, neppure il più scettico dei filosofi, dubita seriamente di esistere. Ciò che è mediato non è la percezione del mondo esterno, è il dubbio sulla sua esistenza. E' il dubbio ad essere la conseguenza di un ragionamento, di un porsi domande sul mondo, insomma, di una mediazione intellettuale. Non c'è nulla di male nel ragionare e nel porsi domande, sia ben chiaro. Ma non c'è niente di male neppure nel mettere in evidenza i limiti di certi ragionamenti, le assurdità a cui conducono certi dubbi. Ciò che voglio sostenere non è l'illiceità del dubbio, è il carattere non veritiero del suo assunto fondamentale: non è vero che l'esistenza dell'altro da noi ci sia data in maniera indiretta: ci è data direttamente, appare con evidenza ai sensi e nessuno ne dubita davvero, nessuno si comporta come se davvero l'esistenza di alberi e case, sedie ed altri esseri umani sia davvero dubbia. Ovviamente possiamo sbagliare nel giudicare ciò che si presenta ai nostri occhi. E' l'esistenza, non un certo modo di essere del mondo, ad esserci data con evidenza immediata. La terra ci appare piatta eppure è sferica, un remo nell'acqua appare storto invece è dritto... però questi stessi errori dimostrano che la terra, l'acqua e i remi esistono indipendentemente dai giudizi che noi possiamo dare si di loro, ed è questo l'essenziale.

Il mondo ci appare con immediata e realistica evidenza, tuttavia non è logicamente impossibile dubitare anche della più realistica delle evidenze. Il dubbio non è logicamente contraddittorio, non può quindi essere logicamente confutato, esattamente come non si può logicamente provare o dimostrare l'esistenza del mondo. Molti sono restii ad accettare questo fatto. Non sembra sufficiente a costoro che l'esistenza del mondo sia un dato immediato dei sensi. In questo modo resta nel mondo qualcosa di non perfettamente trasparente alla ragione, il dubbio conserva un suo angolino. Per quante evidenze e buone ragioni ci siano per credere che il mondo esista, qualcuno, volendo, può avanzare argomenti per mettere in dubbio questa convinzione, e conta poco che questi argomenti non siano per niente convincenti. Il dubbio è comunque possibile, e tanta basta per lasciare in qualcuno un sottile sentimento di fastidio. Molto spesso chi avanza con più forza argomenti scettici è tutt'altro che scettico: è il desiderio di certezze assolute ad alimentare il dubbio, molto spesso.
Chi pretende che l'esistenza del mondo sia “provata” o “dimostrata” logicamente vuole in fondo una cosa sola: mondare il mondo dal dato. Del dato si può sempre logicamente dubitare, anche quando è un dato che ci si presenta con immediata, palmare evidenza. Il fatto che il mondo ci sia dato in maniera immediata non implica che, anche nella sua immediatezza, non possa essere oggetto di dubbio. E' comprensibile in fondo che qualcuno voglia liberarsi del dato, voglia “provare” tutto, tutto “dimostrare”. Ma il dato è inesorabilmente legato alla nostra dimensione di uomini. Il mondo è dato e le stesse leggi della logica sono date. E' dato, e in quanto tale non dimostrabile, il principio sommo della logica formale: il principio di non contraddizione. Anche se fosse possibile “dimostrare” l'esistenza del mondo in questa dimostrazione resterebbe sempre qualcosa di dato, di non dimostrabile, e si tratterebbe nientemeno che del principio della dimostrazione stessa. L'unica dimostrazione che del principio sommo della logica si può dare, lo ricordava Aristotele, consiste nel suo uso: anche chi lo nega deve usarlo per cercare di contestarne la validità. E' un tipo di “dimostrazione” molto simile a quella che si può dare dell'esistenza del mondo: chi la nega deve intanto darla per scontata anche solo per poterla negare. Il solipsista che ritiene di essere l'unico essere pensante e senziente distrugge, vorrebbe teoreticamente distruggere, il mondo e col mondo gli altri esseri umani. Però vive e si rapporta al mondo, parla e interagisce continuamente con altri esseri umani. Il suo pensiero, e le sue parole, e le sue azioni, il suo stesso dichiarato solipsismo confutano in ogni istante la sua teoria. Questa è probabilmente l'unica confutazione possibile del dubbio scettico e solipsista, e nel contempo l'unica possibile “dimostrazione” dell'esistenza del mondo. Altro tipo di dimostrazione del fatto che il mondo, e nel mondo altri esseri umani esistano non è consentita alla nostra ragione finita. A qualcuno questo provoca fastidio, irritazione? C'è chi si sente insopportabilmente impotente per il fatto che l'esistenza di alberi, case ed altri esseri umani, e con loro della totalità dell'esistente, non possa venir logicamente fondata ed acquistare così una razionale, indiscutibile certezza? Beh, non possiamo che dolerci delle sue afflizioni.


Note
1) Aristotele, Metafisica. Laterza 1988 pag 95
2)Kant: Critica della ragion pura, Laterza 1983 pag. 473 474.
3) Roger Scruton: la filosofia moderna compendio per temi. Laterza 1998 pag. 348.
4) Ibidem pag. 349
5) Ibidem pag. 349 350.