
Robert Nozick
Natura o società?
Molti egualitaristi rifiuterebbero con sdegno l’accusa di volere un appiattimento generale degli esseri umani. A dover essere eliminate sono le disuguaglianze sociali, non le differenze naturali, “tutti eguali ma diversi”, questo slogan riassume bene le loro concezioni. Eliminare le disuguaglianze sociali sarebbe per costoro il mezzo per far risaltare al massimo le differenze naturali che ci caratterizzano. La società capitalistica massifica gli esseri umani, fa perdere all’uomo molte delle sue caratteristiche riducendo tutti alla sola dimensione dell’avere. L’uomo che vive nelle società capitalistiche avanzate, dominate da una tecnologia alienante, è, diceva Marcuse, un uomo ad una dimensione un uomo che vive solo per produrre e consumare, privo di rapporti autenticamente umani con gli altri, alienato dalla sua autentica essenza.
Non è il caso di
dilungarci troppo sulla immagine catastrofica che Marcuse, e con lui
altri esponenti della scuola di Francoforte, hanno dato delle società
capitalistiche avanzate e, più in generale, di tutte le
organizzazioni sociali caratterizzate da un elevato sviluppo
tecnologico. Il capitalismo è un sistema socio economico in cui le
fondamentali scelte relative alla produzione ed al consumo non sono
decise centralmente ma sono lasciate all’autonomia dei singoli.
Nelle società libere ognuno può scegliere lo stile di vita che
preferisce; può tentare di diventare un grande imprenditore o
entrare in convento, può fare sport con l’obiettivo di guadagnare
un sacco di soldi o per il puro piacere di farlo, può fare il
lavoratore dipendente o autonomo, può amare il successo o aspirare
ad una vita anonima. Però deve essere coerente con le scelte che fa.
Non può lamentarsi di non aver troppo denaro se ha scelto di
praticare da professionista uno sport che non piace molto alle masse,
né può pretendere che lo stato finanzi la sua attività artistica
che non riesce a trovare estimatori. Per essere brevi, non si può
pretendere ricchezza e successo nel momento stesso in cui si esprime
un aristocratico disprezzo verso questi beni mondani.
Se l’economia di
mercato ha prodotto e produce quantità prima inimmaginabili di beni
ciò è dovuto, tra l’altro, al fatto che questi trovano
acquirenti, che gli esseri umani amano possedere beni materiali. Lo
stato in una società libera non educa i cittadini, chi produce dal
canto suo lo fa non per migliorare spiritualmente i consumatori ma
per venire incontro alle loro esigenze. Ricorda Ludwig von Mises: “i
capitalisti perdono il loro denaro non appena mancano di investirlo
in quei rami che soddisfano meglio le esigenze del pubblico” (1).
Ma non dover subire l’”educazione” dello stato o di qualche
produttore non significa perdere la propria essenza umana, decadere
da animale razionale ad animale consumista; solo chi ha una fede
superstiziosa nello stato e nei burocrati può pensare cose simili.
L’uomo che vive nelle società libere ad economia di mercato non è
necessariamente impegnato solo a produrre, guadagnare e consumare;
semplicemente ha la fortuna di non dover avere a che fare con un
potere politico che cerca di imporgli fini di vita che a lui non
piacciono e di poter disporre (almeno in molti casi) di alcuni degli strumenti
materiali necessari a realizzare le proprie aspirazioni. Se poter
viaggiare, leggere, vivere in una casa comoda, nutrirsi decentemente,
non dover lavorare dieci ore al giorno solo per potersi sfamare
massifica, l’uomo di oggi è massificato al massimo grado, per
fortuna, potremmo dire.
Ma torniamo alla
formula “tutti uguali ma diversi”, torniamoci perché merita di
venire analizzata attentamente. Una simile formula sarebbe del tutto
condivisibile se col termine “uguali” si intendesse formalmente
uguali o ci si riferisse ad una situazione in cui oltre ad
essere tutti formalmente uguali, gli esseri umani potessero disporre
di alcune protezioni sociali volte a garantirli dalle turbolenze del
mercato e da sempre possibili eventi disastrosi. Ma per eguali qui si
intende “socialmente uguali", ci si riferisce cioè, se le parole
hanno un senso, ad una società in cui non dovrebbero esistere
disuguaglianze sociali fra gli esseri umani, o per lo meno queste
dovrebbero essere contenute entro limiti estremamente ridotti.
Sarebbe precisamente questa eguaglianza delle condizioni sociali a
garantire il pieno dispiegamento delle differenze naturali che ci
caratterizzano. L’egualitarismo sociale garantirebbe un accettabile
individualismo, si potrebbe avere eguaglianza senza appiattimento.
Anche se affascinante
una simile formula è intimamente contraddittoria. Non è
possibile affermare che le differenze naturali fra gli esseri umani
siano un fatto positivo e farsi promotori nel contempo
dell’egualitarismo sociale. Chi propugna una simile concezione non
può neppure affrontare il problema delle conseguenze sociali
delle differenze naturali fra gli esseri umani.
Se ho una
intelligenza superiore a quella di altri, se ho una migliore capacità
di apprendere o una maggior forza di volontà, probabilmente
riuscirò a raggiungere una posizione sociale migliore della loro,
sarà proprio il riconoscimento del valore delle mie caratteristiche
naturali a permettermelo. Le differenze naturali fra gli esseri umani
hanno molto spesso conseguenze sociali. Un atleta capace di correre i
100 metri piani in nove secondi e sette decimi non solo vincerà
medaglie alle olimpiadi ed ai campionati del mondo; stipulerà contratti vantaggiosi con i migliori
sponsor, guadagnerà somme più elevate di quelle percepite da molti
suoi competitori meno dotati. Per impedire situazioni di questo
genere bisognerebbe fare in modo che le differenze naturali fra gli
esseri umani fossero prive di conseguenze sociali, ma questo porta,
oltre che a restrizioni della libertà personale paragonabili a
quelle che sono state esaminate nel punto precedente, anche a
situazioni al limite dell’assurdo. Poniamo che l’atleta Tizio
corra i 100 metri in nove e sette, cosa occorrerebbe fare per
impedire che questa sua superiorità atletica si tramuti in
disuguaglianza sociale? Stabilire d’ufficio che Tizio non possa
vincere più di tante gare? Ogni atleta dovrebbe avere assicurato un
quantum di medaglie: tante d’oro, tante d’argento e tante di
bronzo? O il pareggio dovrebbe essere il risultato, deciso a priori,
di tutte le competizioni? O bisognerebbe impedirgli di trarre
profitti dalla sua abilità? Se Tizio gareggia gli stadi si riempiono
però lui non dovrebbe avere un centesimo dei maggiori introiti
derivanti dalla sua sola presenza. A qualcuno questa potrebbe
apparire una buona soluzione, ma, trattato in questo modo, Tizio
potrebbe rifiutarsi di gareggiare. Lo si dovrebbe allora obbligare?
L’illiberalismo di certe concezioni è palese.
Il filosofo americano
Robert Nozick in “Anarchia, stato e utopia” immagina che
il governo di un certo paese, poniamo un governo democraticamente
eletto, decida una certa distribuzione dei beni, una distribuzione
equa che risponda alle esigenze di uguaglianza votate dalla maggioranza
della popolazione “Chiamiamo D1 questa distribuzione” (2) afferma
Nozick. Anche il campione di basket Wilt Chamberlain partecipa a
questa equa divisione dei beni; il governo stabilisce quale quota
della ricchezza sociale deve andare ai giocatori di basket e
Chamberlain riceve esattamente quanto gli altri giocatori. Visto però
che è fortemente richiesto dalle squadre di basket, Chamberlain firma
con una di esse il seguente contratto: “Per ciascuna partita in
casa avrà venticinque centesimi del prezzo di ogni biglietto
d’ingresso (…) Supponiamo che in una stagione assistano alle sue
partite in casa un milione di persone, e Wilt Chamberlain concluda
con 250.000 dollari, una somma di gran lunga maggiore del reddito
medio e maggiore perfino di quanto abbia chiunque altro. E’
ingiusta” si chiede Nozick “questa nuova distribuzione D2?”
(3). Per il filosofo americano (ed io, modestamente, concordo) la
risposta è no. Le persone che hanno pagato per vedere
Chamberlain possedevano legittimamente il loro denaro: era stato loro
assegnato dallo stato in base ad una distribuzione giusta.
“Ciascuna di queste persone ha scelto di dare venticinque
centesimi del suo denaro a Chamberlain. Avrebbero potuto spenderlo
andando al cinema o in un negozio di dolciumi o acquistando copie
della rivista Dissent o della Montly Review. Invece tutti, o quanto
meno un milione di loro, convengono nel darli a Wilt Chamberlain in
cambio dello spettacolo che offre giocando a basket. Se D1 era una
distribuzione giusta e le persone si spostano volontariamente da
questa a D2 (…) non è forse giusta anche D2?” (4)
Si ammetta che
esistano differenze naturali fra gli esseri umani, che alcuni siano
più abili o forti o simpatici o intelligenti di altri, si conceda
loro un minimo di libertà e qualsiasi modello di “equa”
distribuzione dei beni è destinato ad essere modificato dalle scelte
dei singoli. “Per mantenere un modello” conclude Nozick ”si
deve interferire continuamente per impedire alla gente di trasferire
risorse secondo i suoi desideri” (5) e tutto ciò ha conseguenze
devastanti per la libertà. Chi mette in atto comportamenti capaci di
modificare il modello di distribuzione (chi va a veder giocare
Chamberlain per capirci) “andrà forse rieducato o costretto a
sottoporsi ad autocritica” (6)?. La storia ha purtroppo risposto
affermativamente a questa domanda.
Nozick parte
dall’ipotesi che lo stato divida in maniera egualitaria la
ricchezza patrimoniale fra i cittadini. Si possono, volendo, fare
ipotesi anche più restrittive che conducono tutte allo stesso
risultato. Si supponga che lo stato decida non solo la distribuzione
della ricchezza patrimoniale ma anche l’ammontare dei redditi. Il
nostro Wilt Chamberlain stavolta non può firmare contratti
vantaggiosi con le varie società di basket, deve accettare il
reddito deciso dal potere politico. Nessuno però impedirà ai
dirigenti della società per cui Chamberlain gioca di pagare un
premio ulteriore al campione per invogliarlo a giocare meglio, non
solo, potrebbero essere gli spettatori ad accettare di pagare un
biglietto maggiorato per finanziare il loro idolo. L’unico modo per
impedire che le libere scelte dei singoli modifichino il modello di
distribuzione egualitaria dei redditi dovrebbe consistere nella
proibizione di questi comportamenti, non solo lo stato
deciderebbe i redditi dei cittadini, ma impedirebbe a questi di
trasferire ad altri parte di quelli. Si può anche ipotizzare che lo
stato non solo decida i redditi ma anche il lavoro delle persone.
Chamberlain in questo caso non farà il giocatore di basket ma
l’impiegato di banca, finalmente non potrà trarre vantaggi sociali
dalle sue doti naturali! Ma Chamberlain potrebbe, finito il lavoro,
organizzare partite con i suoi amici e chiedere un compenso a chi
volesse vederlo, potrebbe anche allenarsi a giocare a basket e
chiedere denaro a chi assiste ai suoi allenamenti. Ancora una volta
la possibilità di scelta concessa agli esseri umani scompaginerebbe
i piani egualitari del potere politico. Per impedire che le scelte
libere dei singoli scompaginino i vari modelli politici di equa
distribuzione dei beni occorre che le limitazioni della libertà
personale siano sempre più ampie, estese, profonde. Non solo le idee
politiche ma le idee in generale dovrebbero essere controllate, e non
solo le idee, ma i comportamenti, e non solo i comportamenti, ma i
desideri, le aspirazioni, le pulsioni degli esseri umani dovrebbero
essere sottoposte ad un controllo statale soffocante. L’ideale di
chi sogna un generale egualitarismo è una società integralmente
controllata dal potere politico, meglio, una società un cui il
potere politico non controlla ma stabilisce quali devono essere le
idee, le aspirazioni, i desideri, i comportamenti, le pulsioni degli
esseri umani. Va da sé che una simile società oltre a distruggere
ogni libertà creerebbe la più grave ed intollerabile forma di
ineguaglianza che sia possibile concepire: quella che contrappone chi
può decidere sul destino di moltissimi suoi simili a chi invece può
solo subire le scelte del potere. E queste non sono, sia ben chiaro,
fantasie, esercitazioni logiche. C’è chi ha tentato simili
esperimenti sociali che non a caso hanno sempre avuto esiti
disastrosi.
Note
1) Ludwig von Mises: La
mentalità anticapitalistica: Armando editore, 1988. Pag. 24.
2) Robert Nozick:
Anarchia, stato e utopia. Il saggiatore 2005. Pag. 174
3) Robert Nozick: opera
citata pag. 174
4) Robert Nozick, opera
citata pag. 174. Sottolineature di Nozick
5) Robert Nozick: opera
citata pag. 176
6) Robert Nozick: opera
citata pag. 176.

L’eguaglianza di
opportunità
La richiesta che tutti
possano disporre nella vita di eguali opportunità appare assai meno
estremistica della rivendicazione dell’egualitarismo sociale. Lo
appare ed in una certa misura lo è. Chi rivendica l’eguaglianza di
opportunità vuole uguali punti di partenza, non uguali punti di
arrivo. Noi tutti siamo diversi, è vero, ed è anche vero che le
differenze naturali fra noi hanno profonde conseguenze sociali, danno
vita a situazioni di disuguaglianza. Tutti però abbiamo diritto ad
avere gli stessi punti di partenza. Forse Tizio è migliore di me,
forse è destinato ad occupare una posizione sociale migliore della
mia, nulla da eccepire se questo avviene, ma non è giusto che Tizio
parta avvantaggiato nei miei confronti. Se Tizio è destinato a
superarmi che lo faccia in una gara in cui entrambi partiamo alla
pari; se questo non avviene la gara è truccata.
Posizioni di questo
tipo sono del tutto accettabili se intese in senso debole, se si
traducono cioè, oltre che nella sacrosanta richiesta della più
rigida uguaglianza formale, nella rivendicazione di riforme sociali
miranti a garantire ad ognuno una certa quantità di opportunità che
gli consentano di cercare di realizzare le proprie aspirazioni e,
perché no, i propri sogni. Ma molto spesso l’eguaglianza di
opportunità non viene intesa in questo modo. Ciò che si teorizza
non è una società in cui tutti possano godere di certe opportunità,
una società, per intenderci, in cui esista una scuola dell’obbligo,
in cui i capaci e meritevoli possano trovare i mezzi per proseguire
gli studi fino ai livelli più elevati (borse di studio, prestiti
sull’onore ecc.) o in cui siano garantiti a tutti certi livelli di
previdenza e di assistenza sanitaria. No, quella che si teorizza
spesso è la assoluta uguaglianza dei punti di partenza.
Perché il rampollo di una ricca famiglia può accedere
tranquillamente alle migliori università mentre il figlio di un
bracciante, non in grado di pagare le tasse universitarie, se vuole
laurearsi deve sperare in una borsa di studio o contrarre un
prestito? E anche nella scuola dell’obbligo c’è forse vera
parità fra gli studenti? Anche prescindendo dal fatto che un giovane
benestante può usufruire di lezioni private, magari frequentare una
scuola privata eccetera, il solo fatto che i ragazzi di classi
sociali diverse vivano in diversi ambienti sociali non crea fra loro
enormi disuguaglianze? Sono davvero sullo stesso piano il figlio di
un medico ed il figlio di un borgataro semi analfabeta? Il primo vive
in un ambiente colto, ha genitori che parlano correttamente
l’italiano e magari altre lingue, abita in una casa piena di libri,
viaggia; il secondo invece vive con genitori che non vedono l’ora
che egli lasci la scuola per guadagnare qualche soldo. Il fatto di
frequentare la stessa scuola rende davvero uguali i loro punti di
partenza? Gli esempi potrebbero continuare. Davanti ai giudici un
povero immigrato assistito da un avvocato d’ufficio è davvero
uguale all’industriale che può farsi difendere da un principe del
foro? Il ricco che può pagarsi i migliori specialisti gode della
stessa tutela della salute di colui che può solo fare ricorso alla
sanità pubblica? L’eguaglianza di opportunità, a vedere bene le
cose, è una pura illusione; ognuno di noi affronta il gioco della
vita non partendo alla pari con gli altri, ma da posizioni di
privilegio o di svantaggio. Chi vuole una vera eguaglianza di
opportunità dovrebbe eliminare tutti i privilegi che rendono le
opportunità di ciascuno diseguali, spesso molto diseguali, da quelle
degli altri.
Che rispondere ad
argomentazioni di questo tipo? Al di là delle esagerazioni esse
contengono molto di vero. Ad esse si può rispondere solo: “E
allora?”
Certo, i punti di
partenza di tutti non sono mai del tutto uguali, non possono esserlo.
Nessuno di noi partecipa al gioco della vita partendo da posizioni
uguali a quelle degli altri, e questo per il semplicissimo motivo che
è proprio questo gioco a differenziare continuamente le
posizioni, a renderle diseguali. Tizio e Caio possono anche
partire da posizioni uguali, se Tizio però ha più fortuna di Caio,
o è più abile di lui, le loro posizioni subito si differenziano.
Tizio e Caio hanno iniziato la scuola da posizioni uguali ma Tizio è
arrivato sino all’università, Caio si è fermato prima. Il
proseguo della loro esistenza sarà segnato da questa disuguaglianza,
i nuovi punti di partenza di Tizio e Caio non saranno più uguali.
Tizio sarà avvantaggiato quando entrambi cercheranno un lavoro,
i suoi titoli conteranno di più in un concorso, forse godrà di un
certo vantaggio sull’amico-rivale anche corteggiando le ragazze.
Caio potrà superare a sua volta Tizio, ovviamente, ma la cosa gli
costerà più di quanto costi a Tizio conservare il vantaggio
acquisito. I figli di Tizio e Caio poi partiranno da posizioni ancora
più nettamente diseguali; ereditando quanto di positivo e di
negativo (e non mi riferisco solo alla ricchezza materiale) hanno
loro lasciato i genitori essi verranno da subito a trovarsi in
posizioni diseguali, non avranno le stesse opportunità. Come ovviare
a una tale “ingiustizia”? Stabilendo fra tutti gli esseri umani
posizioni di assoluta eguaglianza sociale e naturale? Abbiamo già
visto nei punti precedenti che questo distrugge la libertà e crea
nel contempo nuove, spaventose forme di disuguaglianza. Intervenendo
continuamente per ristabilire la parità di opportunità che è stata
modificata? Questo è del tutto assurdo. Farlo significherebbe
permettere la concorrenza ma intervenire di continuo per modificare i
risultati della sfida concorrenziale, favorire la meritocrazia ma
togliere a chi ha più meriti ciò che ha saputo conquistare per
darlo a chi è rimasto indietro. Meritocrazia e concorrenza sono
incompatibili con l’egualitarismo sociale, quindi anche con
l’assoluta eguaglianza delle opportunità. Correggere continuamente
i risultati del gioco della vita è un po’ come giocare a poker
intervenendo ogni due o tre mani per ridistribuire i premi fra i
giocatori, accettare il rischio salvo poi pretendere che chi perde
venga rimborsato e chi vince perda ciò che ha vinto. Una assurdità
del tutto contraddittoria.
In società davvero
libere e democratiche le ineguaglianze anche assai marcate che
esistono non conducono, almeno nella maggioranza dei casi, a
situazioni drammatiche ed è comunque compito dei governi
operare affinché queste situazioni non si producano. Molto spesso le
ineguaglianze sono sentite come intollerabilmente ingiuste solo da
chi ritiene l’uguaglianza il valore assolutamente prioritario. Per
chi invece non considera l’uguaglianza, l’uguaglianza reale o
sostanziale, il valore più importante non è gravissimo che, ad
esempio, a scuola il figlio di un bracciante non sia sullo stesso
piano del figlio di un medico. La superiorità del figlio del medico
non è un problema troppo grave se si hanno scuole che funzionano
bene, con insegnanti preparati e buoni strumenti didattici. In una
scuola simile il figlio del bracciante potrà avere buone possibilità
di conseguire un livello di istruzione più che accettabile, ed è
questo che davvero conta. In una società libera inoltre le
disuguaglianze non sono quasi mai definitive. Se è vero che i punti
di partenza non sono mai del tutto uguali è anche vero che non
sempre chi parte avvantaggiato riesce a conservare il vantaggio sui
chi è partito dietro. Dove la disuguaglianza non è garantita per
legge le posizioni possono sempre rovesciarsi, l’ultimo di ieri può
diventare il primo di domani, le grandi fortune così come si
accumulano possono disfarsi; l’affermato imprenditore che non
riesce a tener dietro ai mutamenti del mercato è destinato al
declino, il giovane rampante appena entrato nella sfida
concorrenziale, e che gli anziani guardano con commiserazione, può
affermarsi, scoprire nuovi mercati, lanciare nuovi prodotti,
inventare nuovi processi produttivi e in poco tempo tutti smetteranno
di guardarlo con commiserazione. Se dal mercato volgiamo lo sguardo
alle elitès della società possiamo renderci conto che è quanto
meno azzardato affermare che queste provengono sempre, o anche solo
prevalentemente, dalle classi ricche. In maggioranza i grandi
artisti, scienziati, filosofi, statisti non appartengono né
appartenevano alla elite finanziaria o alla nobiltà. I più erano di
origini abbastanza umili, provenivano dalle classi medie o
addirittura da quelle povere. Molti uomini che hanno onorato se
stessi, il loro paese ed il genere umano con le loro opere sono
partiti da posizioni di grande svantaggio sociale, sicuramente molto
indietro rispetto a loro coetanei di cui oggi nessuno ricorda il
nome. Per tutta la vita Mozart è stato tormentato da problemi
economici, Kant era figlio di un sellaio, il padre di Einstein era proprietario di una modesta officina che gestiva col fratello, tutti sono stati poco favoriti dalla
sorte, ciò non ha impedito loro di fare quello che hanno fatto. Le
disuguaglianze hanno la loro importanza, ovviamente, ma in molti casi
meno di quanta comunemente si attribuisca loro.
Molto spesso il discorso
sulla disuguaglianza dei punti di partenza è ampliato alla
competizione politica. Si sente spesso dire che la competizione
politica non è davvero uguale, che certi partiti possono godere di
grandi finanziamenti di cui altri sono invece privi, che solo chi
dispone di grandi somme può aspirare alla presidenza degli Stati
Uniti e cose simili. Sulla competizione politica possono farsi
considerazioni analoghe a quelle fatte a proposito degli individui. I
partiti già affermati godono di un indiscutibile vantaggio su quelli
nuovi, chi dispone di ingenti finanziamenti o di notevoli ricchezze
private avrà maggiori possibilità di essere eletto presidente degli
Stati Uniti eccetera. Anche qui la situazione può essere
parzialmente corretta ma non eliminata. Si possono riservare a tutti
i partiti degli spazi televisivi, garantire un tot di visibilità a
tutte le posizioni politiche che godono di un minimo di seguito,
molto oltre non si può, e a mio modesto parere non si deve,
andare. Significa poco o nulla il fatto che un candidato alla
presidenza degli Usa debba disporre di elevati mezzi finanziari. Come
si potrebbe correggere un fatto tanto ovvio? Finanziando con denaro
pubblico chiunque voglia tentare la scalata alla presidenza? Dovremmo
pagare le tasse per consentire a Luigi Rossi o Mario Bianchi di
diventare presidenti? Considerazioni simili possono farsi sul
finanziamento ai partiti. Se io, mia moglie ed un amico fondiamo un
partito abbiamo forse diritto, in nome della eguaglianza delle
opportunità, di godere di finanziamenti pubblici? O chi finanzia il
partito X deve essere obbligato a finanziare anche me? O si deve
impedire a chiunque di finanziare un partito? E se io invece lo
voglio finanziare? Se decido di versare tutti i mesi una certa somma
su un conto intestato al partito X, perché non dovrei poterlo fare?
Iscriversi a un partito pagando tessera, contributi e quant’altro
non significa finanziare quel partito? E se è lecito finanziare un
partito diventando suoi iscritti perché non dovrebbe esserlo
finanziarlo senza iscriversi? Certo, molto spesso dietro al
finanziamento privato ai partiti ci sono tangenti, corruzione e tante cose
poco chiare. Il problema però sono la corruzione e le tangenti, non
il finanziamento privato in quanto tale.
Ma la critica degli
egualitaristi alla politica democratica è più sottile. Per far
politica occorrono notevoli mezzi finanziari, questo proverebbe
secondo loro che gli unici interessi che le forze politiche
proteggono sono quelli delle classi agiate. Se i partiti sono
costosissimi apparati, se i candidati alla carica di presidente o
primo ministro sono persone piene di soldi come si può pensare che
possano tutelare gli interessi della povera gente? Noam Chaomsky lo
ha detto chiaramente parlando della corsa alla casa bianca: entrambi
i candidati hanno alla spalle grossi potentati economici, nessuno
quindi rappresenta davvero il popolo. L’impareggiabile Noam
dovrebbe spiegare perché quel popolo che nessuno rappresenta non
abbia mai dato il minimo sostegno a formazioni di estrema sinistra,
che non hanno alle spalle i potentati economici. Il partito comunista
americano è sempre stato solo una piccola setta, la stessa cosa può
dirsi a proposito della sezione americana della trotskista “quarta
internazionale”. Quando negli anni 70 dello scorso secolo il
partito democratico presentò quale candidato alla presidenza un uomo
nettamente schierato a sinistra come il senatore Mc Govern subì la
sconfitta più bruciante della sua storia. Noam Chaomsky forse
dovrebbe prendersela col suo popolo, e forse sotto sotto lo fa…
In effetti i partiti sono
apparati piuttosto costosi e sono spesso finanziati da gruppi di
potere economico, questo però non dimostra affatto che non possano e
debbano cercare di soddisfare con la loro azione le esigenze dei loro
elettori. Se un gruppo di potere economico finanzia il partito X lo
fa perché ritiene di essere in qualche modo avvantaggiato dal suo
programma. Ma il partito X andrebbe incontro alla scomparsa se
elaborasse i suoi programmi tenendo conto unicamente o
prevalentemente delle esigenze del suo potente finanziatore. La forza
di un partito in ultima analisi sta tutta nella sua capacità di
mettersi in sintonia con le idee, gli interessi, le aspettative, i
sentimenti di grandi masse di esseri umani. Se un partito riesce
davvero ad interpretare e a fare sue le esigenze profonde di larghi
strati della popolazione è destinato a diventare forte, a contare e
quindi anche ad ottenere finanziamenti. Se invece un partito diventa
solo la cassa di risonanza politica di certi potentati economici è
destinato a giocare un ruolo marginale nella competizione politica.
Il partito nazionalsocialista riuscì, purtroppo, nella Germania del
primo dopoguerra a mettersi in sintonia con i sentimenti profondi di
larghi settori del popolo tedesco. La satanica grandezza politica di
Hitler consistette precisamente nel saper assimilare le ansie, i
timori, le pulsioni di larghe masse di tedeschi. Questo e solo questo
spiega il mistero di un fallito, che entra in un partitino
praticamente sconosciuto e riesce in poco tempo a diventare il
dittatore assoluto di uno stato come la Germania. Il partito
nazionalsocialista non è diventato forte grazie ai finanziamenti di
alcuni magnati dell’industria, è vero il contrario: i magnati
dell’industria hanno deciso, commettendo un imperdonabile atto di
cecità e criminalità politica, di finanziare il partito
nazionalsocialista dopo che questo aveva già acquistato un
notevolissimo seguito di massa. Gli stessi, o altri magnati del resto
finanziavano anche altri partiti ma questo non impedì a tali partiti
di essere spazzati via dal trionfo dell’oscuro demagogo austriaco.
Il fatto che non tutti i
partiti politici siano sullo stesso piano, che abbiano a disposizione
mezzi non del tutto uguali non falsifica quindi la competizione
politica, non rende illusoria la democrazia. I partiti che
interpretano davvero le esigenze di vasti settori della popolazione
troveranno le loro fonti di finanziamento (va ricordato per inciso
che una delle principali fonti di finanziamento di un partito sono i
suoi iscritti, i militanti, i simpatizzanti, gli elettori), altri che
si dimostrano incapaci di assolvere questo compito perderanno alla
lunga anche i finanziamenti e per primi perderanno quelli dei loro
militanti, simpatizzanti, elettori. Ho fatto sopra l’esempio di
Hitler, altri sono possibili. I partiti socialisti non avevano al
loro nascere grandi mezzi, ciò non ha impedito loro di crescere e di
affermarsi, la lega nord al suo nascere era quasi completamente priva
di mezzi ed era inoltre osteggiata da tutti i media. Però
interpretava esigenze e sentimenti assai diffusi nel “profondo
nord”, per questo ha avuto successo. Il segreto del successo di
Berlusconi non sta nei suoi soldi, anzi, questi hanno offerto ai suoi rivali innumerevoli argomenti polemici. Berlusconi si
è imposto perché è riuscito ad apparire come l’uomo nuovo della
politica italiana, ha saputo sintonizzarsi con le idee ed i
sentimenti di milioni di italiani anticomunisti che la distruzione
della vecchia DC aveva lasciato politicamente orfani.
L’assoluta parità
di opportunità è una chimera anche in politica ma questo non ha
risultati necessariamente disastrosi. Le disuguaglianze fra forze
politiche hanno la loro importanza, ed è bene ridurle, ma non sono un
fattore decisivo. La democrazia è minacciata assai più che dalla
disuguaglianza di opportunità dalle ventate di irrazionalismo che
spesso attraversano i corpi elettorali, avvelenando la vita politica
e culturale di intere nazioni. Il caso di Hitler è assai
significativo ed inquietante, ma lo è anche il fatto che per
decenni milioni di onesti lavoratori abbiano visto in uno Stalin il
loro leader e potenziale liberatore. Forse non è un caso che chi
protesta con più veemenza contro la disuguaglianza delle opportunità
in politica cavalchi ed alimenti queste ondate di pericoloso
irrazionalismo. Ma questo è un altro discorso.
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