venerdì 31 maggio 2019

VA DIMOSTRATA L'ESISTENZA DEL MONDO?

Se mi è concesso parlare di una piccola esperienza personale, ricordo che quando, tanti anni fa, mi sono imbattuto per la prima volta nell'argomento scettico sull'esistenza del mondo esterno questo mi ha profondamente irritato. “Il mondo non esisterebbe? Che sciocchezza” mi sono detto. “Io vedo, sento, tocco le cose del mondo, come può il mondo non esistere?”. Poi, man mano che prendevo conoscenza delle sottilissime argomentazioni dei filosofi, invece che irritarmi quell'argomento ha iniziato ad inquietarmi. “Il mondo è solo in me... come posso essere certo che esista fuori di me? Io conosco solo le sensazioni, le rappresentazioni... “ tutto questo mi sembrava assurdo, non mi convinceva affatto ma, mi chiedevo, il fatto che io sia intimamente convinto che la sedia su cui sono seduto continui ad esistere anche quando mi alzo ed esco di casa non dimostra che questa davvero esista indipendentemente da ciò che io sento. Come si può dimostrare che il mondo esiste?
Come si può dimostrare l'esistenza del mondo? Bel problema... ma... è davvero un problema reale?
“E' segno di impreparazione” afferma Aristotele nella
Metafisica, “ il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no. Difatti è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose (in tal caso infatti si andrebbe all’infinito e quindi neppure così si produrrebbe dimostrazione).” (1)
Qui Aristotele parla del principio di non contraddizione che, in quanto principio che rende possibile ogni dimostrazione, non può a sua volta essere dimostrato, ma quello che dice ha una valenza se possibile ancora più generale. Non tutto può essere dimostrato. La dimostrazione collega certe premesse a certe conclusioni ma le premesse non sono a loro volta dimostrabili, o lo sono solo se si parte da altre premesse ancora più generali, a loro volta, di nuovo, non dimostrabili.
Il notissimo sillogismo: “tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale”collega in maniera coerente due premesse per giungere ad una conclusione necessaria. Ma la verità delle premesse non è a sua volta dimostrata, è assunta come data o è considerata vera perché attestata dalla intuizione sensibile. Certo, si potrebbe dimostrare la mortalità degli uomini con un altro sillogismo: “tutti gli animali sono mortali, tutti gli uomini sono animali quindi tutti gli uomini sono mortali” ma in questo modo sarebbero la mortalità degli animali e la appartenenza degli uomini al genere degli animali ad essere attinte dall'esperienza sensibile. Qualsiasi discorso noi si faccia attingiamo continuamente il materiale che relazioniamo logicamente da qualcosa di extra logico. L'esistenza di qualcosa non è dimostrabile, la logica relaziona A e B, non dimostra la loro esistenza. Chi pretende che l'esistenza del mondo gli venga “dimostrata” non ha compreso la logica, e meno ancora ha compreso il mondo.
Nella celebre confutazione della dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio Kant nega esplicitamente che l'esistenza sia un attributo. L'esistenza non è un predicato che arricchisca minimamente il concetto di una cosa: concettualmente cento talleri solo pensati non differiscono minimamente dai cento talleri che ho depositato in banca. Il fatto che siano sul conto modifica non il loro concetto ma la loro posizione nei riguardi della esperienza sensibile. “Se si trattasse di un oggetto dei sensi non potrei scambiare l'esistenza della cosa col semplice concetto della cosa. Infatti, pel concetto, l'oggetto non vien pensato se non come conforme alle condizioni generali di una possibile conoscenza empirica in generale; per l'esistenza, invece, come contenuto nel contesto dell'esperienza totale. (…) Sia quale e quanto si voglia il nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza. Negli oggetto dei sensi questo accade mediante la connessione con una delle mie percezioni secondo le leggi empiriche” (2).
L'esistenza è fuori dal concetto, quindi anche fuori dalle relazioni fra concetti, quindi non è passibile di dimostrazione logica. Non tutto può essere dimostrato, su questo punto di cruciale importanza Kant la pensa esattamente come Aristotele.

Provare” o “dimostrare” l'esistenza del mondo non è possibile perché il mondo è dato, è dato nell'esperienza sensibile; tutto ciò che si può fare è analizzare ciò che ci è dato nell'esperienza per vedere che tipo di evidenze questa ci offre. E' proprio vero che, come dice Cartesio, solo della mia esistenza io posso essere assolutamente certo mentre l'esistenza del mondo mi è data non immediatamente ma in maniera mediata dalle mie sensazioni? Val la pena di richiamare telegraficamente alcuni punti deboli di questa concezione. L'esistenza di un mondo fenomenico caratterizzato da almeno certe regolarità empiriche è essenziale per l'autocoscienza dell'io, lo stesso dicasi del linguaggio e del suo carattere non meramente privato ma intersoggettivo. Inoltre io stesso sono fenomeno fra i fenomeni, anche la conoscenza di me, o almeno una grande parte di questa, può quindi essere considerata mediata e non immediata. Non è il caso di approfondire in questa sede queste argomentazioni. Il problema su cui invece si concentrerà l'attenzione è quello della immediatezza o meno della conoscenza del mondo esterno.
Il mondo esterno mi è dato non immediatamente ma in maniera mediata. Io ho la percezione di un albero e da questa deduco, in maniera mediata che, forse, un albero esiste realmente. Afferma Roger Scruton nel già citato: la filosofia moderna, compendio per temi: “La teoria rappresentazionale (..) sostiene che noi percepiamo gli oggetti mediante le loro rappresentazioni mentali. Queste rappresentazioni mentali possono corrispondere o meno alla loro realtà fisica, la cui natura deve perciò essere colta eliminando le illusioni, le delusioni e le ambiguità che affliggono le nostre carriere mentali” (3)
Insomma, io non vedo l'albero, vedo la rappresentazione di un albero e da questa deduco che forse esiste qualcosa dietro a quella rappresentazione, qualcosa che noi chiamiamo albero. Ma ha senso dire che io vedo, o percepisco una rappresentazione? Scruton mette molto bene in evidenza come questo modo di procedere conduca ad un regresso all'infinito. Percependo una rappresentazione io avrò una nuova rappresentazione che dovrà a sua volta essere percepita e così via, all'infinito. Si potrebbe dire, afferma Scruton che “percepiamo le rappresentazioni direttamente e gli oggetti soltanto indirettamente. Ma cosa significa? Presumibilmente questo: mentre io posso commettere errori sull'oggetto fisico non posso commetterne sulla rappresentazione che per me è immediata” (4)
A questo punto però diventa insensato affermare che io “percepisco”, più o meno direttamente, una rappresentazione. “La percezione è un modo di trovare come sono le cose; essa implica una separazione fra la cosa che percepisce e la cosa percepita, e con questa separazione arriva la possibilità dell'errore. (…) La rappresentazione mentale non è affatto percepita; essa è semplicemente parte di me. In altre parole, la rappresentazione mentale è la percezione. In questo caso il contrasto fra percezione diretta e indiretta scompare. Noi percepiamo effettivamente oggetti fisici e li percepiamo direttamente. (…) e noi percepiamo oggetti fisici avendo esperienze rappresentazionali” (5)
Io non percepisco la “rappresentazione” di un albero, percepisco l'albero e lo percepisco avendo una immagine mentale dell'albero
, proprio per questo la percezione può essere giusta o sbagliata, nitida o confusa; se l'albero coincidesse con la percezione che ho di esso questa non sarebbe mai sbagliata o confusa. Tutto questo in fondo non fa che confermare ciò che emerge chiaramente dal linguaggio comune. Nessuno dice: “vedo la rappresentazione di una casa”, o: “ascolto la rappresentazione di un concerto” o ancora: “la rappresentazione tattile di una puntura di spillo mi duole”. Tutti diciamo: “vedo una casa”, o “ascolto un concerto” o “la puntura di uno spillo mi duole”. Ed il linguaggio comune non fa a sua volta che confermare quello in cui crede in maniera immediata la totalità praticamente degli esseri umani. Il punto centrale è tutto qui, in fondo. Lo scettico afferma che il mondo esterno ci è dato solo indirettamente, risaliremmo all'esistenza del mondo esterno solo in maniera mediata, dalla sensazione al mondo, e questo comporterebbe tutta una serie di difficoltà. Ma questo, molto semplicemente, non è vero. Nessuno dice o pensa: “ho la sensazione di un albero, ora devo dedurre da questa l'esistenza reale dell'albero”, tutti diciamo: “lì c'è un albero”. Il mondo esterno ci è dato immediatamente, ci si presenta con immediata evidenza, con una evidenza almeno pari a quella con cui siano consci della nostra stessa esistenza.

Gli stessi, svariati, argomenti scettici che vorrebbero indurre il dubbio sull'esistenza del mondo esterno a partire dagli errori cui sono soggette le sue percezioni non solo non sono conclusivi, come si è già visto, ma possono benissimo essere applicati alla stessa percezione dell'io. Spesso le sensazioni inducono in errore, si dice, quando ci mettono in relazione con oggetti del mondo esterno. Una nuvola all'orizzonte ci sembra una montagna e nella nebbia un lampione può sembrarci un albero. Però, commettiamo errori simili anche a proposito di noi stessi. Dimentichiamo spesso cose fatte anche poco tempo fa, o ci può capitare di trovarci in una situazione di vuoto, se non di caos mentale. La parte di noi che davvero conosciamo è in fondo solo una piccola porzione dell'io: il flusso dei ricordi si perde inevitabilmente col passare del tempo; la scoperta dell'inconscio inoltre ci ha rivelato che parti fondamentali di noi non emergono affatto alla luce della coscienza ma restano nel profondo, lontane, difficilmente interpretabili. A livello fisico gli errori che possiamo fare su noi stessi sono numerosissimi; spesso ignoriamo l'esistenza di organi fondamentali, o possiamo avere l'illusoria convinzione di essere assolutamente sani mentre ci portiamo dentro terribili malattie.
Qualcuno potrebbe obiettare che, con tutta l'ignoranza che possiamo avere di noi, stessi è indubbio che pensiamo, proviamo sensazioni quindi esistiamo. Ma considerazioni analoghe possiamo farle per il mondo esterno. Perché, anche ammettendo che io non veda il gatto sulla poltrona ma la mia sensazione dello stesso, ed anche tralasciando di considerare le aporie cui una simile impostazione ci conduce, resta il fatto che quella sensazione è del tutto diversa da quelle che comunemente si chiamano percezioni interne. Il gatto che vedo sulla poltrona sarà anche solo sensazione, ma è altra cosa dallo scorrere dei miei pensieri o dalla tristezza che sento di provare in certe giornate. Questo senza contare che certi stati interni sono strettamente legati a sensazioni esterne: la pressione che sento sulla mano se qualcuno me la stringe è, insieme, percezione di qualcosa si esterno e sentire interno. Il "gatto sensazione" è completamente diverso dalle sensazioni interne. E', anche come sensazione, estraneo al mio interno, esterno a me.
Tutti questi discorsi si riferiscono, ovviamente, all'io empirico che altro non è, in fondo, che una parte del mondo e questo potrebbe non piacere ad uno scettico cartesiano. Spiace per lo scettico cartesiano, ma, di quale altro io possiamo avere coscienza? Solo l'io che è collocato nello spazio e nel tempo può essere oggetto di conoscenza, più o meno mediata o immediata, l'io noumenico è al di fuori della conoscenza, di qualsiasi tipo di conoscenza.

L'io non ha quindi nessun privilegio sul mondo, l'interno non è oggetto di una conoscenza più immediata e certa di quanto non lo sia l'esterno, possiamo sbagliare a proposito del mondo come dell'io, e di entrambi possiamo essere profondamente ignoranti.
Quando Cartesio afferma, nelle “
meditazioni metafisiche” che il “cogito” non può essere oggetto di dubbio la sua affermazione appare sostenuta anche da evidenti ragioni logiche. Il pensare è infatti momento dell'esistere, se penso devo esistere, in qualche modo. L'enunciato “penso quindi esisto” appare quindi logicamente vero. Ma con eguali ragioni potrei dire: vedo, quindi esisto, passeggio, quindi esisto, parlo, corro, mangio, quindi esisto, perché il vedere, il passeggiare, il parlare, il correre, il mangiare sono tutti momenti dell'esistere.
Non solo. Le stesse ragioni logiche che mi fanno passare dal pensare (o dal vedere, mangiare, camminare...) all'esistere valgono per il mondo esterno. Esaminiamo l'enunciato: “vedo un libro sulla tavola”. Questo enunciato può essere trasformato, senza modifiche di significato, in “un libro sulla tavola è visto da me”. A questo punto ci troviamo nella stessa situazione logica di prima, perché, esattamente come il “vedere”, l'”essere visto” è momento dell'esistere. Se penso esisto, questo enunciato è analiticamente vero perché, come osservò a suo tempo in polemica con Cartesio Gassendi, si tratta di un sillogismo camuffato: “tutto ciò che pensa esiste, io penso, quindi io esisto”. Ma se questo è vero si può dire con eguale coerenza: “tutto ciò che mangia esiste, io mangio quindi io esisto”, oppure: “tutto ciò che è mangiato esiste, una bistecca è mangiata, quindi la bistecca esiste”. La logica del procedimento cartesiano conduce alla affermazione del mondo esterno come a quella del soggetto.
E' nota la risposta di Cartesio alla obiezione di Gassendi: il “cogito” non è un sillogismo camuffato ma una affermazione basata su una immediata, indubitabile evidenza. Correttamente non si dovrebbe dire “penso
quindi esisto”, ma “penso, esisto”, forma che evidenzia il carattere immediato, non deduttivo del cogito. Se però le cose stanno così scompare la pretesa superiorità della apprensione del mio esistere rispetto a quella del mondo esterno. Perché, è vero, io ho una immediata, indubitabile percezione del mio esistere e il solo fatto che io abbia questa percezione attesta che io, in qualche modo, esisto, magari solo come uomo che sogna o cervello in una vasca, per usare il celebre esperimento mentale di John Searle. E questa immediata percezione è il presupposto di ogni discorso, di ogni pensiero, di ogni dubbio. Ma con altrettante ragioni io posso affermare di avere una immediata percezione del mondo esterno ed il semplice fatto di avere questa percezione dimostra che il mondo esterno in qualche modo esiste, magari come uomo che sogna, che in quanto tale è esterno alla mia esperienza sognata (l'esperienza è sogno da cui è escluso per definizione il sognatore) o come impulso elettrico che induce nel cervello nella vasca i pensieri e le sensazioni (l'impulso è esterno al cervello).
Comunque si affronti la questione, il cogito cartesiano ci conduce ad un dilemma: o si tratta di un sillogismo camuffato, ed allora è possibile passare dal pensare, ma non solo, all'esistere del soggetto, ma anche del mondo. O si tratta di una apprensione immediata, ma in questo caso scompare la superiorità della conoscenza del me rispetto a quella del mondo.

L'evidenza del mondo esterno è tale che nessuno seriamente ne dubita, neppure il più scettico fra i filosofi, esattamente come nessuno, neppure il più scettico dei filosofi, dubita seriamente di esistere.
Ciò che è mediato non è la percezione del mondo esterno, è il dubbio sulla sua esistenza. E' il dubbio ad essere la conseguenza di un ragionamento, di un porsi domande sul mondo, insomma, di una mediazione intellettuale. Non c'è nulla di male nel ragionare e nel porsi domande, sia ben chiaro. Ma non c'è niente di male neppure nel mettere in evidenza i limiti di certi ragionamenti, le assurdità a cui conducono certi dubbi. Ciò che voglio sostenere non è l'illiceità del dubbio, è il carattere non veritiero del suo assunto fondamentale: non è vero che l'esistenza dell'altro da noi ci sia data in maniera indiretta: ci è data direttamente, appare con evidenza ai sensi e nessuno ne dubita davvero, nessuno si comporta come se davvero l'esistenza di alberi e case, sedie ed altri esseri umani sia davvero dubbia. Ovviamente possiamo sbagliare nel giudicare ciò che si presenta ai nostri occhi. E' l'esistenza, non un certo modo di essere del mondo, ad esserci data con evidenza immediata. La terra ci appare piatta eppure è sferica, un remo nell'acqua appare storto invece è dritto... però questi stessi errori dimostrano che la terra, l'acqua e i remi esistono indipendentemente dai giudizi che noi possiamo dare si di loro, ed è questo l'essenziale.

Il mondo ci appare con immediata e realistica evidenza, tuttavia non è logicamente impossibile dubitare anche della più realistica delle evidenze. Il dubbio non è logicamente contraddittorio, non può quindi essere logicamente confutato, esattamente come non si può logicamente provare o dimostrare l'esistenza del mondo. Molti sono restii ad accettare questo fatto. Non sembra sufficiente a costoro che l'esistenza del mondo sia un dato immediato dei sensi. In questo modo resta nel mondo qualcosa di non perfettamente trasparente alla ragione, il dubbio conserva un suo angolino. Per quante evidenze e buone ragioni ci siano per credere che il mondo esista, qualcuno, volendo, può avanzare argomenti per mettere in dubbio questa convinzione, e conta poco che questi argomenti non siano per niente convincenti. Il dubbio è comunque possibile, e tanta basta per lasciare in qualcuno un sottile sentimento di fastidio. Molto spesso chi avanza con più forza argomenti scettici è tutt'altro che scettico: è il desiderio di certezze assolute ad alimentare il dubbio, molto spesso.
Chi pretende che l'esistenza del mondo sia “provata” o “dimostrata” logicamente vuole in fondo una cosa sola:
mondare il mondo dal dato. Del dato si può sempre logicamente dubitare, anche quando è un dato che ci si presenta con immediata, palmare evidenza. Il fatto che il mondo ci sia dato in maniera immediata non implica che, anche nella sua immediatezza, non possa essere oggetto di dubbio. E' comprensibile in fondo che qualcuno voglia liberarsi del dato, voglia “provare” tutto, tutto “dimostrare”. Ma il dato è inesorabilmente legato alla nostra dimensione di uomini. Il mondo è dato e le stesse leggi della logica sono date. E' dato, e in quanto tale non dimostrabile, il principio sommo della logica formale: il principio di non contraddizione. Anche se fosse possibile “dimostrare” l'esistenza del mondo in questa dimostrazione resterebbe sempre qualcosa di dato, di non dimostrabile, e si tratterebbe nientemeno che del principio della dimostrazione stessa. L'unica dimostrazione che del principio sommo della logica si può dare, lo ricordava Aristotele, consiste nel suo uso: anche chi lo nega deve usarlo per cercare di contestarne la validità. E' un tipo di “dimostrazione” molto simile a quella che si può dare dell'esistenza del mondo: chi la nega deve intanto darla per scontata anche solo per poterla negare. Il solipsista che ritiene di essere l'unico essere pensante e senziente distrugge, vorrebbe teoreticamente distruggere, il mondo e col mondo gli altri esseri umani. Però vive e si rapporta al mondo, parla e interagisce continuamente con altri esseri umani. Il suo pensiero, e le sue parole, e le sue azioni, il suo stesso dichiarato solipsismo confutano in ogni istante la sua teoria. Questa è probabilmente l'unica confutazione possibile del dubbio scettico e solipsista, e nel contempo l'unica possibile “dimostrazione” dell'esistenza del mondo. Altro tipo di dimostrazione del fatto che il mondo, e nel mondo altri esseri umani, esistano non è consentita alla nostra ragione finita. A qualcuno questo provoca fastidio, irritazione? C'è chi si sente insopportabilmente impotente per il fatto che l'esistenza di alberi e case ed altri esseri umani, e con loro della totalità dell'esistente, non possa venir logicamente fondata ed acquistare così una razionale, indiscutibile certezza? Beh, non possiamo che dolerci delle sue afflizioni.






























Note1) Aristotele, Metafisica. Laterza 1988 pag 95
2)Kant: Critica della ragion pura, Laterza 1983 pag. 473 474.
3) Roger Scruton: la filosofia moderna compendio per temi. Laterza 1998 pag. 348.
4) Ibidem pag. 349
5) Ibidem pag. 349 350.

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