
Qualcuno lo definisce “un giochetto”, se così fosse si tratterebbe di un giochetto che ha avuto ed ha tuttora conseguenze di grande rilevanza in molti, fondamentali campi del sapere.
Pare lo abbia inventato (o scoperto) un tal Epimenide di Creta, nel quarto secolo avanti Cristo. Poi ne hanno parlato quasi tutti i logici e molti filosofi, fino ai giorni nostri. La sua formulazione è cambiata varie volte, quella iniziale era: “tutti i Cretesi sono mentitori”, che in realtà non da luogo al un paradosso nella sua forma perfetta, anche se ci si avvicina molto. La formulazione più perfetta, e sicuramente paradossale, consta di due parole, due paroline che hanno fatto letteralmente impazzire un sacco di menti eccelse: ”STO MENTENDO”, il famoso paradosso del mentitore. Non si tratta dell'unico paradosso, altri ne esistono ed hanno forma logica diversa: il paradosso barbiere, il paradosso del coccodrillo, quello dell'avvocato e poi ancora il paradosso del mucchio, quello della tartaruga, ma di certo è il più famoso e forse quello di più difficile soluzione. Soprattutto è il paradosso che ha probabilmente più legami con problemi filosofici di prim'ordine, alcuni terribilmente attuali.
Se “STO MENTENDO” è vera affermandola dico il falso, se invece “STO MENTENDO” è falsa dico la verità quando la affermo; la proposizione “STO MENTENDO” se è vera è falsa, se è falsa è vera. In quelle due paroline è compresa necessariamente una contraddizione... un bel rovello.
Il paradosso del mentitore è il più perfetto fra i paradossi della autoreferenzialità. Si tratta di affermazioni che si riferiscono a loro stesse, molto spesso di affermazioni che riguardano la totalità dei casi. Ed inoltre contengono in se una negazione. “STO MENTENDO” contiene in se una negazione: io affermo, in positivo, di non fare una affermazione vera, nego la verità della mia affermazione nel momento stesso in cui la faccio.
A
questo punto occorre fare una precisazione importante. “STO
MENTENDO” è auto
contraddittoria ma non necessariamente l'auto contraddittorietà
genera il paradosso. Esistono proposizioni auto contraddittorie che
non danno vita a paradossi ed esistono paradossi che discendono da
proposizioni non autocontraddittorie.
Riesaminiamo il paradosso del mentitore modificandone leggermente la formulazione, al posto di “sto mentendo” mettiamo “mento sempre”.
“Mento sempre” è auto contraddittoria: se è vera è necessariamente falsa, quindi non può mai essere vera. Però a ben vedere le cose questa proposizione non genera il paradosso perché se è vera è falsa, ma da questo non segue che se è falsa è vera. Se “mento sempre”è falsa può sembrare, a prima vista, che la sua falsità la renda vera (se dico il falso dicendo che mento sempre allora dico il vero) ma questo è inesatto. Dalla falsità di “Mento sempre” seguirebbe la sua verità solo se questa proposizione si riferisse unicamente a se stessa (è il caso di “sto mentendo”); ma “mento sempre” non si riferisce solo a se stessa. “Mento sempre” può essere falsa perché ieri o un mese fa ho detto, una volta tanto la verità. “Mento sempre” quindi non può essere vera ma può essere falsa, una sorta di “mezzo paradosso”. Il paradosso in senso pieno, perfetto, però si ha quando una proposizione non può essere né vera né falsa, quando dal suo essere vera segue la sua falsità e dal suo essere falsa la sua verità. Dalla auto contraddittorietà non segue quindi necessariamente il paradosso, inteso in senso pieno, compiuto; allo stesso modo il paradosso può seguire da due proposizioni ognuna della quali non è in se auto contraddittoria ma che considerate insieme lo generano. I logici medioevali hanno a suo tempo scisso il paradosso del mentitore in due proposizione che si richiamano a vicenda.
Proposizione 1: “ciò che dice la proposizione due è vero”
Proposizione 2: “ciò che dice la proposizione uno è falso”
Le chiameremo per comodità uno e due. Ora, né uno né due sono, isolatamente considerate, auto contraddittorie, ma, considerate insieme, danno vita ad un paradosso dello stesso tipo di quello del mentitore: entrambe sono false se vere e vere se false, non possono essere né vere né false, oppure sono, insieme, vere e false, cosa altrettanto inaccettabile.
E' proprio questo corto circuito logico a cui conduce il paradosso ad essere inaccettabile per i logici. La auto contraddittorietà costituisce un problema, più che per la logica, per coloro che fanno affermazioni o avanzano teorie auto contraddittorie. Se io dico: “il circolo è quadrato” dico una assurdità che non impensierisce minimamente lo studioso di logica. Allo stesso modo, se qualcuno afferma: “è vero che la verità non esiste”, districarsi dalla contraddizione in cui si è gettato e affar suo, non del logico. Ma se l'analisi logica di una proposizione ci porta a concludere che essa è nel contempo vera e falsa allora sorge un problema che riguarda la logica e chi la studia, oltre e prima di chi ha fatto l'affermazione. Da sempre gli studiosi di logica (e chi scrive non fa parte, neppure alla lontana, di questa categoria di persone) hanno quindi cercato di risolvere i paradossi, primo fra tutti quello del mentitore.
Riesaminiamo il paradosso del mentitore modificandone leggermente la formulazione, al posto di “sto mentendo” mettiamo “mento sempre”.
“Mento sempre” è auto contraddittoria: se è vera è necessariamente falsa, quindi non può mai essere vera. Però a ben vedere le cose questa proposizione non genera il paradosso perché se è vera è falsa, ma da questo non segue che se è falsa è vera. Se “mento sempre”è falsa può sembrare, a prima vista, che la sua falsità la renda vera (se dico il falso dicendo che mento sempre allora dico il vero) ma questo è inesatto. Dalla falsità di “Mento sempre” seguirebbe la sua verità solo se questa proposizione si riferisse unicamente a se stessa (è il caso di “sto mentendo”); ma “mento sempre” non si riferisce solo a se stessa. “Mento sempre” può essere falsa perché ieri o un mese fa ho detto, una volta tanto la verità. “Mento sempre” quindi non può essere vera ma può essere falsa, una sorta di “mezzo paradosso”. Il paradosso in senso pieno, perfetto, però si ha quando una proposizione non può essere né vera né falsa, quando dal suo essere vera segue la sua falsità e dal suo essere falsa la sua verità. Dalla auto contraddittorietà non segue quindi necessariamente il paradosso, inteso in senso pieno, compiuto; allo stesso modo il paradosso può seguire da due proposizioni ognuna della quali non è in se auto contraddittoria ma che considerate insieme lo generano. I logici medioevali hanno a suo tempo scisso il paradosso del mentitore in due proposizione che si richiamano a vicenda.
Proposizione 1: “ciò che dice la proposizione due è vero”
Proposizione 2: “ciò che dice la proposizione uno è falso”
Le chiameremo per comodità uno e due. Ora, né uno né due sono, isolatamente considerate, auto contraddittorie, ma, considerate insieme, danno vita ad un paradosso dello stesso tipo di quello del mentitore: entrambe sono false se vere e vere se false, non possono essere né vere né false, oppure sono, insieme, vere e false, cosa altrettanto inaccettabile.
E' proprio questo corto circuito logico a cui conduce il paradosso ad essere inaccettabile per i logici. La auto contraddittorietà costituisce un problema, più che per la logica, per coloro che fanno affermazioni o avanzano teorie auto contraddittorie. Se io dico: “il circolo è quadrato” dico una assurdità che non impensierisce minimamente lo studioso di logica. Allo stesso modo, se qualcuno afferma: “è vero che la verità non esiste”, districarsi dalla contraddizione in cui si è gettato e affar suo, non del logico. Ma se l'analisi logica di una proposizione ci porta a concludere che essa è nel contempo vera e falsa allora sorge un problema che riguarda la logica e chi la studia, oltre e prima di chi ha fatto l'affermazione. Da sempre gli studiosi di logica (e chi scrive non fa parte, neppure alla lontana, di questa categoria di persone) hanno quindi cercato di risolvere i paradossi, primo fra tutti quello del mentitore.
Analizzare tutti i
tentativi di risolvere il paradosso del mentitore è un'impresa
assolutamente superiore alle forze di chi scrive, quindi mi concentro
su quello che può ritenersi il meglio riuscito, anche se non risulta
comunque immune da critiche.
Nel 1969 il logico
polacco Alfred Tarski in un articolo afferma che esiste “una netta
distinzione tra il linguaggio che è oggetto della nostra discussione
e per il quale, in particolare, vogliamo costruire la definizione di
verità, e il linguaggio nel quale la definizione va formulata e ne
vengono studiate le implicazioni. Al secondo ci si riferisce come
metalinguaggio, al primo come linguaggio oggetto”(1).
Si
tratta di una svolta per molti aspetti decisiva. Esistono molti
linguaggi e quando si discute di un linguaggio lo si fa solo in un
altro linguaggio: il linguaggio di cui
si parla è il linguaggio oggetto, quello in cui si
parla il metalinguaggio. Per Tarski la attribuzione del valore di
verità ad una proposizione può essere fatto solo in un
metalinguaggio, diverso da quello in cui la proposizione è
formulata. La proposizione “Giovanni è un uomo”,
chiamiamola per comodità P,
è formulata nel linguaggio oggetto, invece la attribuzione di verità
a P: “P è
vera”, è fatta nel
metalinguaggio.
La
definizione che Tarski dà della verità è per certi aspetti vicina a
quella di Aristotele: una proposizione è vera se denota lo stato di
cose esistente, falsa se non lo denota, anche se, è importante sottolinearlo, il logico polacco tratta l'argomento dal punto di vista unicamente logico formale, senza alcun riferimento ontologico. E' rimasto famoso l'esempio di
Traski: La proposizione “la neve è bianca”
è vera se e soltanto se la neve è bianca. Più in generale, ogni
proposizione P è
vera “se e soltanto se p”.
Si tratta della famosa teoria semantica della verità. Tarski non fa
considerazioni metafisiche sulla verità, non dice “cosa sia” la
verità, cosa sia il mondo, cosa il soggetto conoscente, cosa la
conoscenza. Qualsiasi cosa sia lo stato di cose descritto da P,
quale che sia il modo in cui noi vediamo, controlliamo, ci
rapportiamo a questo stato di cose, "P
è vera se e soltanto se p".
Molti hanno storto il naso di fronte a quella che è loro sembrata
una concessione al senso comune, Popper dal canto suo
ha affermato che è difficile sopravalutare l'importanza della
scoperta di Tarski, personalmente mi sento più vicino a Popper che
ai critici del logico polacco.
“P è
vera se e soltanto se p”
afferma quindi Tarski, però... attenzione, P
è formulata nel linguaggio oggetto, “P è vera se e
soltanto se p”
è invece formulata nel metalinguaggio. Il linguaggio si sdoppia e
sdoppiandosi evita le trappole dell'autoriferimento, e questo è di
importanza enorme per il problema posto dal paradosso del mentitore.
La terribile frase che da vita a questo paradosso: “STO
MENTENDO” è
formulata nel linguaggio oggetto, la attribuzione di verità a “STO
MENTENDO” viene però
formulata in un altro linguaggio, nel metalinguaggio. In questo modo
dire “STO MENTENDO
è vera” non la rende falsa, non può farlo perché il
“vero” che predichiamo di questa proposizione non si applica alla
stessa. Non può applicarsi alla
stessa perché per attribuire il valore “vero” alla proposizione
in oggetto ci siamo collocati in un linguaggio in cui tale
proposizione non è formulata; la guardiamo, per così dire,
dall'esterno, meglio, dall'alto, da un punto di vista più ampio e
generale.
La soluzione di
Tarski è stata soggetta a molte critiche. Il logico americano Saul
Kripke ha sostenuto che in certe situazioni esistono difficoltà
logiche insuperabili a porsi ad un livello superiore a quello di
certi linguaggi, ha inoltre sottoposto ad analisi il termine “vero”
per giungere alla conclusione che una proposizione come “mento
sempre” è in realtà non contraddittoria ma insensata; per il
filosofo britannico P. F. Strawson il termine “vero” con cui
attribuiamo valore di verità positivo ad una proposizione è un
termine operativo che non da vita a sua volta ad una nuova
proposizione. Si tratta di tentativi, su cui francamente non mi sento
grado di dare giudizi logicamente approfonditi, di evitare,
esattamente come fa Tarski, l'autoreferenzialità. Il polemista e
filosofo britannico Roger Scruton in “La filosofia moderna,
compendio per temi” afferma dal canto suo che, spostando
continuamente la attribuzione di verità ad un livello linguistico
più alto rispetto a quello della proposizione analizzata, si rischia
di far perdere progressivamente senso agli stessi termini “vero”
e “falso”. C'è molto di vero, a mio parere, in ciò che afferma
Scruton. In effetti analizzando le varie proposizioni in un
metalinguaggio diverso da quello in cui queste sono formulate si
sottopone il significato di queste proposizioni ad una torsione
significativa. La proposizione “mento sempre” analizzata
in un metalinguaggio non ha l'identico significato di “mento
sempre” nel linguaggio oggetto. Il “sempre” di “mento
sempre” appare depotenziato, ridotto nella sua estensione una
volta che il linguaggio si sdoppia in linguaggio oggetto e
metalinguaggio: diventa un “sempre” che non copre tutti i casi,
un “quasi sempre”. Inoltre anche la divisione del linguaggio ha
delle condizioni che possiamo definire trascendentali. Affinché io
possa parlare nel metalinguaggio di proposizioni formulate nel
linguaggio oggetto occorre che in entrambi i termini abbiano lo
stesso senso, che in entrambi valgano le stesse regole grammaticali,
sintattiche e semantiche o valgano comunque regole traducibili. Senza
queste precondizioni lo sdoppiamento del linguaggio sarebbe
impossibile perché sdoppiandosi il linguaggio diverrebbe
incomunicabile e la stessa torsione nel significato che assumono i
termini nei linguaggi diversi risulterebbe irriconoscibile. Resta da
stabilire fino a che punto questa torsione risulti accettabile. Date
queste precondizioni trascendentali il porsi continuamente a livelli
linguistici diversi non relativizza, il linguaggio. Esiste una
generale comprensibilità che ci permette di passare a punti di vista
linguistici di volta in volta diversi senza che questo li faccia
cadere tutti nel non senso. Avviene nel linguaggio qualcosa di
simile a quanto avviene nella conoscenza sensibile. Io vedo sempre
il mondo da un certo punto di vista. Dalla vetta di un monte vedo la
valle, dalla valle vedo la vetta, non posso mai vedere il
mondo nella sua totalità, non posso farlo perché almeno il punto di
vista in cui mi colloco è per definizione escluso dalla totalità.
Questo però non relativizza, se non in senso debole, il mondo. Non
lo relativizza perché i punti di vista sono interscambiabili: io
guardo la valle dalla vetta e Tizio la vetta dalla valle, però Tizio
può salire in vetta ed io scendere a valle, e io vedrò ciò che lui
vedeva e lui ciò che vedevo io, e potremo scambiarci pareri su ciò
che vediamo e abbiamo visto. Diversi punti di vista visivi possono
esistere solo se esiste una visibilità generale del mondo, se la
visibilità coincidesse col punto di vista uscire dal punto di vista
sarebbe impossibile, non ci sarebbero molte prospettive ma una unica
prospettiva assolutizzata.
Il paradosso del mentitore ci ricorda così che neppure la più apoditticamente certa delle nostre conoscenze, la logica, riesce a diventare un sapere assoluto. La logica non è conoscenza assoluta né conoscenza dell'assoluto, e questo non solo perché è una scienza solo formale, vuota di contenuto. La logica non può diventare conoscenza assoluta anche perché a volte inizia a girare a vuoto e dà vita a paradossi, e non è un caso che questo “girare a vuoto” si verifichi tutte le volte che l'uomo cerca di avvicinarsi alla totalità, o addirittura all'assoluto. “Sto mentendo”, “mento sempre” sono proposizioni che includono se stesse e diventano quindi auto contraddittorie o addirittura paradossali. E' l'estensione che pretendono di avere a spingerle su questa china pericolosa. Il gioco delle due proposizioni: “La proposizione 2 è vera”, “la proposizione 1 è falsa” porta al paradosso perché nella loro combinazione queste proposizioni vogliono includere in se tutti i valori di falsità è verità, compresi quelli contraddittori fra loro. Se la proposizione 1 dicesse: “la proposizione due è vera” e la proposizione 2 affermasse: “il Cervino è un monte” non ci sarebbe nessun paradosso perché combinate fra loro le due proposizioni non riempiono tutto lo spazio logico. “La contraddizione”, dice Wittgenstein nel tractatus “riempie tutto lo spazio logico e non lascia alla realtà alcun punto” (2). E' precisamente questo invece che avviene nel caso della combinazione originaria delle proposizioni 1 e 2, così come in proposizioni come “sto mentendo”. Cercando di coprire tutto lo spezio logico, di dire tutto, simili proposizioni cadono nel non senso.
Allo stesso modo, i tentativi di risolvere il paradosso, quello di Tarski in particolare, ci dimostrano che una conoscenza non assoluta né totale non è per questo destinata al nichilismo relativista, non deve divorziare dal concetto di verità. A questo proposito val la pena di accennare ad un fatto che andrebbe approfondito: ben lungi dal relegare il concetto di verità fra le anticaglie metafisiche la logica contemporanea si basa in larghissima misura proprio su questo concetto. Una parte fondamentale della logica contemporanea è estensiva e verofunzionale, si basa sulla attribuzione di valori di verità alle varie proposizione e sul calcolo del valore di verità delle proposizioni composte a partire dai valori di verità delle proposizioni componenti; ciò, è ovvio, non ne mette minimamente in discussione il carattere solo formale. Se “Giovanni è Italiano” è vera e “Giovanni è anziano” è vera, la combinazione delle due proposizioni in “Giovanni è italiano e anziano” sarà anch'essa vera, e lo sarebbe anche se Giovanni fosse in realtà australiano ed avesse tre anni.
Il paradosso del mentitore ci ricorda così che neppure la più apoditticamente certa delle nostre conoscenze, la logica, riesce a diventare un sapere assoluto. La logica non è conoscenza assoluta né conoscenza dell'assoluto, e questo non solo perché è una scienza solo formale, vuota di contenuto. La logica non può diventare conoscenza assoluta anche perché a volte inizia a girare a vuoto e dà vita a paradossi, e non è un caso che questo “girare a vuoto” si verifichi tutte le volte che l'uomo cerca di avvicinarsi alla totalità, o addirittura all'assoluto. “Sto mentendo”, “mento sempre” sono proposizioni che includono se stesse e diventano quindi auto contraddittorie o addirittura paradossali. E' l'estensione che pretendono di avere a spingerle su questa china pericolosa. Il gioco delle due proposizioni: “La proposizione 2 è vera”, “la proposizione 1 è falsa” porta al paradosso perché nella loro combinazione queste proposizioni vogliono includere in se tutti i valori di falsità è verità, compresi quelli contraddittori fra loro. Se la proposizione 1 dicesse: “la proposizione due è vera” e la proposizione 2 affermasse: “il Cervino è un monte” non ci sarebbe nessun paradosso perché combinate fra loro le due proposizioni non riempiono tutto lo spazio logico. “La contraddizione”, dice Wittgenstein nel tractatus “riempie tutto lo spazio logico e non lascia alla realtà alcun punto” (2). E' precisamente questo invece che avviene nel caso della combinazione originaria delle proposizioni 1 e 2, così come in proposizioni come “sto mentendo”. Cercando di coprire tutto lo spezio logico, di dire tutto, simili proposizioni cadono nel non senso.
Allo stesso modo, i tentativi di risolvere il paradosso, quello di Tarski in particolare, ci dimostrano che una conoscenza non assoluta né totale non è per questo destinata al nichilismo relativista, non deve divorziare dal concetto di verità. A questo proposito val la pena di accennare ad un fatto che andrebbe approfondito: ben lungi dal relegare il concetto di verità fra le anticaglie metafisiche la logica contemporanea si basa in larghissima misura proprio su questo concetto. Una parte fondamentale della logica contemporanea è estensiva e verofunzionale, si basa sulla attribuzione di valori di verità alle varie proposizione e sul calcolo del valore di verità delle proposizioni composte a partire dai valori di verità delle proposizioni componenti; ciò, è ovvio, non ne mette minimamente in discussione il carattere solo formale. Se “Giovanni è Italiano” è vera e “Giovanni è anziano” è vera, la combinazione delle due proposizioni in “Giovanni è italiano e anziano” sarà anch'essa vera, e lo sarebbe anche se Giovanni fosse in realtà australiano ed avesse tre anni.
Prima di
concludere su questo punto occorre chiarire un possibile equivoco
riguardo alla soluzione (non definitiva) fornita da Tarski al
paradosso del mentitore. Scindendo il linguaggio dal metalinguaggio
Tarski evita che una proposizione diventi auto referenziale e cada
così nel paradosso o nell'auto contraddizione. A qualcuno potrebbe
sembrare che in questo modo il logico polacco salvi le teorie
incoerenti e auto contraddittorie, per lo meno salvi quelle teorie la
cui auto contraddittorietà deriva dall'autoreferenzialità.
Esaminiamo ad esempio la semplice proposizione che afferma che “la
verità non esiste” (per brevità chiamiamola V). E'
evidente che si tratta di una proposizione auto contraddittoria.
Infatti se V è vera è falsa: se è vero che la verità non
esiste allora V che afferma la non esistenza della verità è
falsa e V genera il paradosso del mentitore o quanto meno si
avvicina molto a questo. Però, applicando la divisione di Tarski fra
metalinguaggio e linguaggio oggetto si può, sembra, evitare la
difficoltà. Io posso affermare che la attribuzione del valore “vero”
a “la verità non esiste” è stata fatta non nel
linguaggio in cui V è formulata ma in un altro linguaggio di
ordine superiore. In questo modo l'auto riferimento è evitato e con
questo la caduta nella contraddizione.
Se così fosse chiunque potrebbe formulare ipotesi auto contraddittorie senza timore alcuno, invece di risolvere i paradossi la teoria di Tarski molto semplicemente li annullerebbe. Sarebbe possibile affermare che la verità non esiste o che tutte le opinioni sono vere (o false) senza timore di cadere in contraddizione alcuna e, paradosso dei paradossi, questo dissolvimento del concetto stesso di verità sarebbe reso possibile da un procedimento che si basa sulla logica verofunzionale. Le cose stanno però in maniera leggermente diversa. Nessuno infatti mi vieta di analizzare in un metalinguaggio la proposizione: “la verità non esiste è auto contraddittoria” e di attribuirle il valore di verità “vero”. E' quanto fa in fondo proprio Tarski quando afferma che, attribuendo il valore di verità a certe proposizioni nell'ambito dello stesso linguaggio in cui sono espresse, si può giungere a situazioni paradossali. Tarski insomma riconosce le situazioni paradossali e auto contraddittorie, le analizza e cerca di risolvere il problema logico che da queste nasce, non annulla col suo procedimento questo problema. Il fatto che la attribuzione del valore di verità avvenga nel metalinguaggio non eguaglia una proposizione come “il Cervino è un monte” ad una come “sto mentendo”. La prima non è mai contraddittoria, non lo sarebbe anche se il linguaggio non si scindesse, la seconda lo è sempre, da vita al paradosso che la scissione del linguaggio risolve ma la sua contraddittorietà si può riproporre a nuovi livelli. Risolto il paradosso al primo livello si può infatti formulare la nuova proposizione “sto mentendo è vera” che da vita ad un nuovo paradosso che deve essere risolto ad un livello linguistico superiore e così via. La differenza con “il Cervino è un monte” risulta palmare.
La brevi considerazioni che si sono fatte hanno voluto solo esemplificare come il paradosso del mentitore, ben lungi dall'essere un giochino o un problema puramente e solamente logico, abbia in realtà legami profondi con essenziali problemi filosofici. E non solo filosofici. Sarebbe un gioco divertente cercare di stabilire chi, fra gli italici politici, cada più spesso nel paradosso del mentitore o nella auto contraddittorietà, e in quante e quali occasioni ci cada. Ci sarebbe da ridere, credo.
Note
Se così fosse chiunque potrebbe formulare ipotesi auto contraddittorie senza timore alcuno, invece di risolvere i paradossi la teoria di Tarski molto semplicemente li annullerebbe. Sarebbe possibile affermare che la verità non esiste o che tutte le opinioni sono vere (o false) senza timore di cadere in contraddizione alcuna e, paradosso dei paradossi, questo dissolvimento del concetto stesso di verità sarebbe reso possibile da un procedimento che si basa sulla logica verofunzionale. Le cose stanno però in maniera leggermente diversa. Nessuno infatti mi vieta di analizzare in un metalinguaggio la proposizione: “la verità non esiste è auto contraddittoria” e di attribuirle il valore di verità “vero”. E' quanto fa in fondo proprio Tarski quando afferma che, attribuendo il valore di verità a certe proposizioni nell'ambito dello stesso linguaggio in cui sono espresse, si può giungere a situazioni paradossali. Tarski insomma riconosce le situazioni paradossali e auto contraddittorie, le analizza e cerca di risolvere il problema logico che da queste nasce, non annulla col suo procedimento questo problema. Il fatto che la attribuzione del valore di verità avvenga nel metalinguaggio non eguaglia una proposizione come “il Cervino è un monte” ad una come “sto mentendo”. La prima non è mai contraddittoria, non lo sarebbe anche se il linguaggio non si scindesse, la seconda lo è sempre, da vita al paradosso che la scissione del linguaggio risolve ma la sua contraddittorietà si può riproporre a nuovi livelli. Risolto il paradosso al primo livello si può infatti formulare la nuova proposizione “sto mentendo è vera” che da vita ad un nuovo paradosso che deve essere risolto ad un livello linguistico superiore e così via. La differenza con “il Cervino è un monte” risulta palmare.
La brevi considerazioni che si sono fatte hanno voluto solo esemplificare come il paradosso del mentitore, ben lungi dall'essere un giochino o un problema puramente e solamente logico, abbia in realtà legami profondi con essenziali problemi filosofici. E non solo filosofici. Sarebbe un gioco divertente cercare di stabilire chi, fra gli italici politici, cada più spesso nel paradosso del mentitore o nella auto contraddittorietà, e in quante e quali occasioni ci cada. Ci sarebbe da ridere, credo.
Note
1) Alfred Tarski: Truth and Poof, citato in: Nicholas Falletta, “il libro dei paradossi” Longanesi 2008 pag. 95.
2) L:
Wittgenstein: Tractatus logicus philosophicus. Einaudi 1958
pag. 38 39
Grande Giovanni. La condivido e faccio impazzire gli altri miei amici. Grazie.
RispondiElimina"Tutti gli ateniesi sono bugiardi; se io vi dico che sto mentendo, sapendo che sono ateniese, vi dico la verità?"
RispondiEliminaSe dice la verità --> sta mentendo --> gli ateniesi non sono bugiardi
Se non dice la verità --> non sta mentendo --> gli ateniesi (di nuovo) non sono bugiardi.
Forse un modo per dire semplicemente che gli ateniesi non sono mai bugiardi?
Se affermo il vero mento, se mento affermo il vero. Se è vera è falsa, se è falsa è vera. Un paradosso, appunto... :-)
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