
La dialettica in Hegel oscilla continuamente fra quelli che potremmo definire il momento logico ed il momento del divenire temporale. Da un lato ogni concetto si definisce tramite l’altro e nella sua relazione con l’altro, si rispecchia nell’altro e trapassa nell’altro. Questo definirsi, rispecchiarsi e trapassare sono però relazioni logiche fra concetti, non momenti di un divenire temporale. D’altro canto l’idea nella forma dell’altro da se è natura e come natura è sottoposta al divenire. Ed opera egualmente nella temporalità lo spirito che esplicita ed espone se stesso nella storia. Momento logico e momento temporale convivono in Hegel e non a caso. L’assoluto hegeliano deve contenere tutto, compresa l’estrinsecità spazio temporale della natura, compreso il divenire storico, anzi, è precisamente nel divenire storico che si realizza la riconciliazione dell’idea con se stessa. Che una simile convivenza di momento storico-temporale e di momento logico sia foriera di contraddizioni inestricabili è sin troppo ovvio. L’assoluto è sempre assoluto nella forma dell’altro da se? Come può l’auto esposizione puramente logica dell’assoluto convivere e compenetrasi con la sua auto esposizione storico temporale? Di nuovo la chiave di tutto è il “superamento” hegeliano del principio di non contraddizione.
Nella
sinistra hegeliana ed in particolare in Marx il momento del divenire
storico temporale prende tuttavia nettamente il sopravvento sul
momento logico. In Hegel la storia è un momento, sia pure di enorme
importanza, dell’auto esposizione dell’assoluto, in Marx diventa
il terreno assolutamente privilegiato, se non unico, di applicazione
del “metodo” dialettico. Ma la differenza forse più importante
fra Marx ed Hegel è un’altra. In Hegel la filosofia è una
ricapitolazione razionale del reale, ne evidenzia la necessità.
Riferita alla storia la filosofia mostra la razionalità e la
necessità di ciò che è accaduto. Come la nottola di minerva la
speculazione filosofica prende il volo quando si fa sera, svolge la
sua funzione chiarificatrice al termine di un periodo storico,
illumina razionalmente il passato. La posizione di Marx da questo
punto di vista è diametralmente opposta. Ben lungi dal limitarsi ad
illuminare il passato la filosofia (che diventa in Marx teoria
rivoluzionaria) deve indicare la via del futuro. Il marxismo non è
ricapitolazione razionale di ciò che è avvenuto ma tensione al
futuro, volontà di rivoluzionare il mondo. Questa tensione tuttavia
non si riduce a puro volontarismo. La tensione al rivoluzionamento
della realtà parte da e si giustifica con una visione complessiva
del corso storico. In Marx la dialettica diventa interpretazione
della storia e previsione “scientifica” del suo andamento futuro.
La coincidenza hegeliana di razionale e reale viene a coincidere in
Marx con la razionalizzazione del corso storico. La storia passata è
stata così perché doveva essere così, il futuro sarà così
perché così deve essere.
Marx
offre un riassunto molto chiaro ed incisivo della sua concezione
della storia nella celebre prefazione del ‘57 a “Per la critica
dell’economia politica”. Cediamogli la parola.
“Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano
in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà,
in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado
di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di
questi rapporti costituisce la struttura economica della società,
ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica
e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza
sociale. (…) Non è la coscienza degli uomini che determina il loro
essere ma e, al contrario il loro essere sociale che determina la
loro coscienza. Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze
produttive materiali della società entrano in contraddizione con i
rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà
(..) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. (…)
E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il
cambiamento della base economica si sconvolge rapidamente tutta la
gigantesca sovrastruttura.” (1)
E, più avanti: “A grandi linee i modi di produzione asiatico,
antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come
epoche che marcano il progresso della formazione economica della
società. I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma
antagonistica del processo di produzione sociale (…) ma le forze
produttive che si sviluppano in seno alla società borghese creano in
pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo
antagonismo. Con questa formazione sociale si conclude dunque la
preistoria della società umana” (2)
Il discorso come si vede è molto chiaro. La successione delle
diverse epoche storiche, segnate dai diversi modi di produzione,
prepara e rende possibile la conclusione comunista del divenire
storico, la definitiva uscita dalla “preistoria” del genere
umano. E’ interessante notare che in tale schema esiste una
(notevole) sbavatura: il modo di produzione asiatico, contrariamente
a quanto si evince dal testo marxiano, non precede affatto gli altri
modi di produzione ma si sviluppa parallelamente ad essi. Non a caso
il concetto stesso di modo di produzione asiatico è stato oggetto di
una polemica durissima nel marxismo che si è conclusa con la
cancellazione staliniana di questo concetto dal vocabolario marxista
e con l’assimilazione del modo di produzione asiatico a quello
feudale. Questo però è secondario nell'economia del presente
scritto. Ciò che vale la pena di sottolineare è la
razionalizzazione hegeliana che Marx compie della storia. La storia
ha un inizio, uno svolgimento razionale ed una fine. L’avventura
terrena dell’uomo, cosparsa di tanti lutti, lacrime e sangue si
concluderà con la salvezza. L’uscita dalla preistoria aprirà le
porte del paradiso.
Se
si tiene conto del contributo dato al marxismo dall’opera di Engels
la natura dialettica della concezione marxiana della storia diventa
ancora più evidente. Engels parla infatti di una società comunista
primitiva che avrebbe preceduto il sorgere della società di classe.
Il dissolvimento della società comunista primitiva porta alla
nascita dello sfruttamento, dell’oppressione della donna e dello
stato, garante armato degli interessi della classe dominante. La
originaria armonia ed unità fra gli esseri umani si spezza per dar
luogo a società antagoniste. Il capitalismo rappresenta il culmine
di questo antagonismo. Il capitalismo infatti non è caratterizzato
solo dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel capitalismo
questo sfruttamento si realizza in una società atomizzata e divisa.
Le precedenti società di classe conservano, pur nel loro
antagonismo, una natura in qualche modo organica, il tutto precede in
esse le parti, anche se si tratta di un tutto iniquo ed oppressivo
(ma, ha senso parlare di iniquità riferendosi ad una totalità
organica? Il cervello è forse un “oppressore” degli arti a cui
comanda?). Nel capitalismo questo legame organico fra gli esseri
umani si spezza. Ogni uomo diventa un atomo, un mondo a sé i cui
unici rapporti con gli altri esseri umani sono costituiti dalla
egoistica ricerca del tornaconto individuale. E’ su questa base che
nasce e si sviluppa lo sfruttamento capitalistico. A differenza dello
sfruttamento schiavistico lo sfruttamento dell’operaio salariato si
basa sullo scambio di equivalenti, sul rapporto formalmente libero
fra soggetti formalmente uguali fra loro. Nel capitalismo si ha
quindi contemporaneamente la frantumazione atomistica del vincolo
sociale, lo sfruttamento dei proletari da parte dei borghesi e, in
prospettiva, la crisi economica causata dal contrasto insanabile fra
sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione
borghesi.
E’ lo stesso capitalismo, afferma Marx, ad avere sviluppato e a
sviluppare sempre più la concentrazione del capitale. Lo sviluppo
della produzione capitalistica ha distrutto o è destinato a
distruggere l’artigianato, la piccola impresa, il lavoro autonomo.
Tutto questo però non può proseguire oltre certi limiti nell’ambito
del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo socializza la
produzione ma può farlo solo fino ad un certo punto e comunque in
maniera profondamente antagonistica. “Il modo di appropriazione
capitalistico che si genera dal modo di produzione capitalistico, e
perciò la proprietà privata capitalistica” afferma Marx “sono
la prima negazione della proprietà privata individuale, basata sul
lavoro personale. Ma la produzione capitalistica partorisce dal suo
seno, con la necessità di un processo della natura, la sua
negazione. E’ la negazione della negazione. Essa ristabilisce non
la proprietà privata, ma al contrario la proprietà individuale
basata sulla conquista dell’età del capitale, sulla cooperazione e
sul possesso collettivo del suolo e dei mezzi di produzione prodotti
dal lavoro stessi” (3).
All’alba della storia esiste una società armonica ma povera. Ad
essa seguono varie forme di società antagonistiche che hanno il loro
culmine nella società capitalistica; in essa trionfano l’atomismo
individualistico e lo sfruttamento. La stessa società capitalistica
sviluppa però, a modo suo, la socializzazione della produzione e la
sviluppa sino ad un punto tale che essa diviene incompatibile con i
rapporti di produzione capitalistici. La soluzione di questa
“contraddizione” è il comunismo che ristabilisce la originaria
unità ma in forma diversa; si tratta di una unità che si basa non
sulla miseria e su un rapporto semi animale dell’uomo con la natura
ma sulle conquiste, grandi conquiste, che il modo di produzione
capitalistico lascerà in dote al genere umano, soprattutto su uno
straordinario sviluppo delle forze produttive sociali. Dalla unità
si torna all’unità su una base nuova e più ampia. Bastano queste
poche considerazioni per rendersi conto di quanto Marx sia debitore
nei confronti di Hegel.
Si
sente dire, meglio, si diceva, a volte, che il marxismo è una
scienza. Non è il caso di ricordare qui i molti marxisti, o presunti
tali, che non sono stati o non sono d’accordo con una simile
definizione (basti pensare agli esponenti della scuola di
Francoforte). E’ certo tuttavia che Marx, e, ancora più di lui
Engels, erano sicuri di aver edificato il loro edificio
teorico-pratico sulle solide basi del sapere scientifico. E’ grazie
al marxismo che il comunismo cessa di essere un utopico ideale cui da
sempre aspirano gli esseri umani per diventare una necessità
storica. Non a caso Engels scrisse un opuscolo intitolato appunto:
“L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”.
Ma è fondata tale pretesa del marxismo? La scienza, quella vera, si
basa su almeno due principi fondamentali. Innanzitutto la scienza non
fa profezie ma previsioni, previsioni che l’esperienza può sempre
smentire. Una scienza che pretendesse di prevedere con certezza quale
sarà il corso storico nei prossimi cento anni non meriterebbe il
nome di scienza. Tutte le teorie scientifiche sono vere fino a prova
contraria. Nelle scienze sociali poi i vincoli al potere di
previsione sono ancora maggiori e questo per il semplice fatto che
tali scienze devono tenere conto di quel fattore spesso imponderabile
che sono le scelte degli esseri umani. La scienza economica ad
esempio non dice: il futuro sarà così e così, dice: il futuro sarà
così se si fa X, sarà invece diverso se si fa Y. Se le banche
centrali aumentano i tassi si avranno più difficoltà per lo
sviluppo di produzione ed occupazione, se li abbassano troppo
potrebbero manifestarsi tensioni inflattive. Marx invece si è
avventurato in previsioni che andavano ben oltre i poteri di una
scienza sociale rigorosa ed il marxismo a lui successivo ha fatto
anche di peggio: ha continuato a ritenere valido l’essenziale della
dottrina di Marx anche dopo che essa aveva ricevuto smentite sempre
più eclatanti dal reale andamento degli eventi storico sociali. Marx
parlava di contrasto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti
di produzione borghesi. Ne parlava nel 1857, quando non c’erano
aerei e viaggi nello spazio, PC e internet, biotecnologie e trapianti
di organi. Oggi qualche marxista parla negli stessi termini. Non che
le conquiste scientifiche contemporanee siano prive di rischi,
figuriamoci, una cosa però è discutere di questi rischi e valutarli
oggettivamente, altra è cianciare di stallo nello sviluppo delle
forze produttive. Tale stallo in realtà si è verificato non nei
paesi capitalisticamente sviluppati me negli sventurati paesi che
hanno fatto l’esperienza del comunismo reale.
In secondo luogo la scienza distingue fra fatti e valori. Se il tale
fenomeno ha le tali caratteristiche esse non potranno mai essere
negate solo perché non ci piacciono. Se nella natura umana esistono
istinti aggressivi non si potrà dire che questo non è vero perché
la cosa disturba le nostre concezioni metafisiche. Se i rapporti fra
animali, e in una certa misura anche fra gli uomini, si
basano sulla lotta per l’esistenza non si potrà negare questo
fatto in base alla considerazione che questa sarebbe una concezione
“razzista”. Certo, uno scienziato ha dei valori, e compie scelte
di valore, ma non piega a queste i risultati delle sue analisi
scientifiche. Lo scienziato cercherà di mettere in atto i suoi
valori tenendo conto dei risultati della ricerca scientifica ma non
sacrificherà a quelli il rigore di questa..
Il marxismo, con tutta evidenza non rispetta questa impostazione. Il
comunismo è per Marx un valore e nel contempo il risultato
inevitabile del corso storico, è un valore che emerge dal divenire
dei fatti. E’ qualcosa che va perseguito in quanto tale, un “dover
essere” da realizzare e nel contempo un “essere” la cui
necessità va analizzata come si potrebbe analizzare un’eclissi di
sole. Marx era già comunista prima di “scoprire” l’inevitabilità
storica del comunismo, il Marx politico lotta per realizzare ciò
che il Marx scienziato scopre essere inevitabile. Non si tratta di un
problema da poco.
Ma
esiste un altro aspetto della dialettica marxiana che rende molto
difficile l’assimilazione di questa alla scienza. Per Marx la
rottura della comunità organica e la nascita di formazioni sociali
antagoniste segna anche la frattura dell’uomo con se stesso, la
separazione fra l’essenza e l’esistenza umane. Nella società di
classe ed in maniera particolare nella società capitalistica l’uomo
esce da se stesso, si aliena. L’uomo che vive nella società di
classe non è in senso autentico un uomo. E’ un uomo che ha perso
le sue caratteristiche umane essenziali. Non si tratta, si badi bene,
di un uomo oppresso, sfruttato. Un uomo sfruttato, oppresso, ridotto
in schiavitù continua ad essere un uomo, anzi, si può ridurlo in
schiavitù precisamente perché è, o è in grado di essere, un uomo
libero. L’uomo alienato è altra cosa: si tratta di un essere
scisso in se stesso, un ente che è altro da se, un non-uomo. Solo
nel comunismo sarà possibile la ricomposizione armonica della natura
umana, l’uomo si lascerà alle spalle il suo penoso stato di
alienazione e tornerà ad essere davvero umano. Nei “Manoscritti
economico filosofici” il giovane Marx scrive: “Il comunismo sa
già di essere la reintegrazione o il ritorno dell’uomo a se
stesso, la soppressione dell’autoestraneazione dell’uomo”(4) e
più avanti chiarisce ancor meglio lo stesso concetto: “Il
comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa
come autoestraneazione dell’uomo e quindi come reale appropriazione
dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò
come ritorno dell’uomo per se, dell’uomo come essere sociale,
cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta
la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi” (5).
Molti critici hanno sostenuto che le tesi esposte nei “manoscritti”
del ’44 rappresentano solo una fase nella evoluzione del pensiero
di Marx, una sorta di civetteria hegeliana che il Marx maturo avrebbe
abbandonato. Ora, è certo che il Marx maturo, il Marx del “Capitale”
per intenderci, dà, o cerca di dare, alla sua opera un carattere più
marcatamente scientifico. Il Marx maturo si appassiona allo studio
dell’economia politica, dedica più tempo a Smith e a Ricardo che
non ad Hegel. Tuttavia la dialettica e la tematica della alienazione
sono presenti anche nell’opera matura di Marx, nello stesso
“Capitale”.
A questo proposito è di fondamentale importanza la lettura del
celebre paragrafo del primo libro del “Capitale” intitolata: “il
carattere di feticcio della merce e il suo segreto”. La produzione,
sostiene Marx, è un fatto essenzialmente sociale. Gli esseri umani
producono cooperando, dividendo fra loro compiti e funzioni,
distribuendo ciò che hanno prodotto. In una società non
conflittuale o anche in una società conflittuale di tipo non
capitalistico questo carattere sociale della produzione appare
immediatamente evidente. In una associazione di uomini liberi afferma
Marx, “che lavorino con mezzi di produzione comuni e che impieghino
con coscienza le loro molte forze lavorative individuali come
un’unica forza lavorativa sociale (..) il prodotto
complessivo è un prodotto sociale. Una parte a sua volta
occorre come mezzo di produzione e rimane sociale, un’altra parte è
consumata come mezzo di sussistenza dai componenti dell’associazione,
perciò deve essere distribuita fra essi (..) I rapporti
sociali degli uomini con i loro lavori e con i prodotti del loro
lavoro restano qui semplici e chiari” (6).
Nella società capitalistica le cose sono radicalmente diverse. Qui
ogni produttore opera per proprio conto, produce beni che
scambiandosi sul mercato diventano merci che solo sul mercato
troveranno (o potranno trovare) un acquirente. Il valore di scambio
qui è nettamente scisso dal valore d’uso, la produzione assume
carattere sociale non immediatamente ma tramite la mediazione del
mercato. Sono le leggi astratte del mercato a determinare come verrà
distribuita la produzione sociale, cosa, quanto e come si deve
produrre. Ciò che in altre società è il risultato di scelte
coscienti diventa qui la conseguenza dell’operare cieco di forze
impersonali. Il prodotto del lavoro si distacca e si contrappone qui
all’uomo, acquista una sua autonomia ed opera per proprio conto. Ma
siccome l’uomo realizza nel lavoro la sua essenza umana questa
estraniazione del prodotto del lavoro dall’uomo è estraniazione
dall’uomo dell’essenza umana. La merce da prodotto del lavoro
sociale umana diventa una cosa animata, un ente indipendente. Un
feticcio.
“Il segreto della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che
tale forma ridà agli uomini come uno specchio l’immagine delle
caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà
sociali naturali di quelle cose e perciò ridà anche l’immagine
del rapporto sociale fra i produttori e il lavoro complessivo,
facendolo sembrare come un rapporto sociale fra oggetti che esista al
di fuori di loro. I prodotti del lavoro, tramite questo quid pro quo
divengono merci, cose sensibilmente soprasensibili, ossia cose
sociali” (7)
Il prodotto del lavoro diventando merce, diventa una cosa sociale,
autonoma e contrapposta all’uomo, una cosa che vive di vita propria
“Quello che qui prende per gli uomini la forma fantasmagorica di un
rapporto fra cose è solamente il determinato rapporto sociale che
esiste fra gli stessi uomini (..) Questo è quel che io chiamo
feticismo, che si attacca ai prodotti del lavoro quando vengono
prodotti come merci e che perciò è indisgiungibile dalla produzione
di merci” (8). Non si tratta, si badi bene, di una semplice
illusione. Nella società capitalistica questa autonomizzazione del
prodotto del lavoro dal lavoratore è un fatto reale, la società
borghese è realmente il regno della alienazione, dei rapporti
umani fra cose e dei rapporti cosali fra gli uomini: “I
rapporti privati si manifestano in effetti come articolazioni del
lavoro complessivo sociale tramite i rapporti in cui lo scambio pone
i prodotti del lavoro e, per mezzo di questi, i produttori. A questi
ultimi perciò le relazioni dei loro lavori privati si manifestano
come quel che sono, ossia non come rapporti direttamente sociali
tra persone nei loro stessi lavori ma anzi come rapporti di cose tra
persone e rapporti sociali fra cose” (9).
Le conclusioni come si vede sono simili a quelle dei manoscritti del
’44. La società borghese è il regno della alienazione, della
riduzione a cosa dell’uomo e dell’innalzamento a rapporto sociale
dei rapporti fra cose.
E' abbastanza chiaro come le concezioni appena esposte non abbiano nulla a che vedere con la scienza. Per la scienza non esistono realtà rovesciate o enti negativi. La medicina e la psicologia studiano, ad esempio, l'ente “uomo” quale positivo oggetto di analisi. Nulla è tanto estraneo ai loro procedimenti quanto l'affermazione che tale ente avrebbe “fuori di se” la propria “essenza”. E la scienza economica, per fare un altro esempio, studia come si formano i prezzi di quelle strane cose che sono le merci, ma a nessun economista verrebbe in mente di considerare "rapporti umani fra cose" il variare delle ragioni di scambio fra automobili, tavoli e sedie.
E' abbastanza chiaro come le concezioni appena esposte non abbiano nulla a che vedere con la scienza. Per la scienza non esistono realtà rovesciate o enti negativi. La medicina e la psicologia studiano, ad esempio, l'ente “uomo” quale positivo oggetto di analisi. Nulla è tanto estraneo ai loro procedimenti quanto l'affermazione che tale ente avrebbe “fuori di se” la propria “essenza”. E la scienza economica, per fare un altro esempio, studia come si formano i prezzi di quelle strane cose che sono le merci, ma a nessun economista verrebbe in mente di considerare "rapporti umani fra cose" il variare delle ragioni di scambio fra automobili, tavoli e sedie.
Marx,
da buon hegeliano, dimostra anche nella sua opera scientificamente
più significativa di essere letteralmente ossessionato dal desiderio
di riportare tutto ad unità. Certo, in una società di mercato la
produzione non è immediatamente finalizzata al consumo, si produce
per vendere e molto spesso (anzi, quasi sempre) non si sa a chi si
venderanno i prodotti del proprio lavoro. Questo vuol dire che le
merci diventano “persone” o che vivono di vita propria? No,
ovviamente. Significa solo che in una società di mercato il
passaggio dalla produzione al consumo è molto più mediato e
complicato che non in società arcaiche in cui il carattere della
produzione è immediatamente sociale, società per le quali tra
l’altro Marx non ha troppe simpatie. Nelle società di mercato si
producono valori di scambio ma il valore di scambio può davvero
realizzarsi solo se diventa valore d’uso. E’ tramite lo scambio
che le merci come valori d’uso possono raggiungere una massa enorme
di consumatori e contribuire all’innalzamento del tenore di vita
complessivo. Le società di mercato sono società aperte, basate
sulla autonomia dei singoli. Certe società possono non piacere ma si
tratta di società in cui l’uomo realizza alcune sue fondamentali
aspirazioni. Farle passare per società in cui il rapporto fra le
cose sostituisce il rapporto fra gli uomini è solo un gioco di
prestigio dialettico.
Considerazioni
simili possono farsi sulla avversione di Marx verso le leggi
impersonali che regolano i rapporti sociali in una società di
mercato. Queste leggi impersonali sono la conseguenza diretta del
fatto che le fondamentali scelte inerenti la produzione ed il consumo
in una società di mercato sono lasciate alla discrezione dei
singoli. Sono io che scelgo cosa comprare, che lavoro fare, quanto
consumare e quanto risparmiare, quanto ed in cosa investire. Se tutti
i consumatori comprano il bene X il suo prezzo aumenterà, se tutti
vogliono fare un certo lavoro e non un altro si avrà eccedenza di
forza lavoro in un ramo dell’economia e deficienza in una altro,
con conseguenze sul livello dei salari. Marx detesta questo stato di
cose, per lui deve essere la comunità a decidere cosa si deve
consumare e cosa si deve produrre, se questo non avviene si diventa
schiavi delle cose e delle loro relazioni impersonali. Ma in una
società in cui le scelte produttive siano sottratte ai singoli ed
affidate ad una autorità pianificatoria, eventualmente anche
democratica, il livello delle libertà individuali è destinato a
contrarsi spaventosamente e questo porta prima o poi alla distruzione
della stessa democrazia politica. Se io desidero sciare e la
maggioranza dei “lavoratori associati” decide che sciare è una
attività da “piccolo borghesi” e che quindi non si devono
produrre sci potrò mai soddisfare il mio desiderio? E se desidero
fare il poeta e la maggioranza dei “lavoratori associati”
stabilisce che alla società servono ingegneri cosa farò? L’uomo
può soddisfare la grande maggioranza dei propri desideri e delle
proprie aspirazioni solo tramite il possesso di certi beni materiali.
Chi ha il potere di decidere cosa e quanto produrre ha il potere di
decidere quali devono essere i bisogni e le aspirazioni che gli
esseri umani possono soddisfare e quali no. Non è affatto un caso
che le teorizzazioni marxiane sulla società armonica ed integrata si
siano tradotte nella pratica in forme spaventose di totalitarismo.
Le leggi impersonali del mercato pongono vincoli e condizioni
all’operare degli esseri umani e richiedono che la politica
intervenga per porre freno a situazioni critiche che spesso possono
sorgere in conseguenza del loro funzionamento spontaneo. Esse però
sono compatibili con la libertà dei singoli e la democrazia politica
e si sono rivelate storicamente un poderoso strumento atto ad
incrementare lo sviluppo delle forze produttive ed il benessere
sociale, cosa che Marx stesso riconosce. Le leggi “personali”
invece, cioè la pretesa di stabilire d’imperio natura, fini ed
obiettivi della produzione e del consumo sono, sia in linea teorica
che pratica, in contrasto con la libertà dei singoli, la democrazia
politica e lo sviluppo economico. La storia è stata su questo
estremamente chiara.
In
Marx convivono tre esigenze che solo faticosamente possono evitare di
entrare in contraddizione. In primo luogo Marx è un politico
comunista, fermamente convinto che il comunismo rappresenti la più
alta forma di sviluppo dell’uomo e della sua libertà. In secondo
luogo Marx è un filosofo fortemente influenzato dall’opera di
Hegel. Come filosofo hegeliano Marx fa propria la concezione della
storia tesa alla realizzazione di un fine ad essa immanente, fine che
coincide col comunismo. Per Marx però l’essere sociale determina
la coscienza degli uomini, e gli uomini vivono oggi nella società
borghese. La coscienza degli esseri umani non può andare oltre
l’orizzonte borghese. Gli operai in carne ed ossa non sognano il
comunismo, vogliono solo vendere a caro prezzo la loro forza lavoro.
Contrariamente ai suoi tardi epigoni Marx non disprezza l’uomo di
oggi, l’uomo alienato, non comunista; sa che la rivoluzione può
scoppiare solo se i bisogni di questo ente, di questo uomo alienato e
deforme, non potranno essere soddisfatti nella società borghese. Il
comunismo è la fine del lavoro salariato, non si identifica certo
con più salario e meno orario, ma la rivoluzione può scoppiare solo
se la società borghese si rivela incapace di garantire ai lavoratori
più salario e meno orario. Per questo Marx è, o cerca di essere,
anche scienziato. Studia con passione l’economia politica, esamina
le possibili cause di crisi del sistema, profetizza lo scontro fra
sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione
capitalistici. Il Marx scienziato esamina uno specifico modo di
produzione, cerca di scoprire le leggi del suo sviluppo e del suo
declino, lo fa perché è convinto che solo questo declino può
innescare l’esplosione rivoluzionaria. Purtroppo però il Marx
politico ed il Marx filosofo hanno assai spesso la meglio sul Marx
scienziato. La visione globale del corso storico e del suo fine
comunista prevale su e condiziona la analisi scientifica del modo di
produzione capitalistico, né potrebbe essere diversamente visto che
in Marx l’analisi scientifica ha precisamente questo compito:
scoprire ed analizzare le condizioni del crollo del capitalismo e
quindi della affermazione del comunismo
Marx
è stato un grande pensatore. Con lui il momento economico e
produttivo della natura e della attività umane acquistano quella
dignità che la gran parte della tradizione filosofica gli aveva
negato. L’uomo di Marx non è puro pensiero, non disprezza i beni
materiali, vive nella, ed è influenzato dalla, società, e la
società è anche scambio, divisione del lavoro, produzione e consumo
di beni economici. Partendo da queste posizioni del tutto
condivisibili Marx, condizionato fortemente dalla sua impostazione
hegeliana, tende però ad unificare tutto. L’indubbia importanza
del momento economico-produttivo nella vita dell’uomo lo spinge a
sottovalutare il pensiero e la sua autonomia rispetto all’essere
sociale. L’attesa escatologica del comunismo viene incorporata
nella storia come realizzazione di un fine immanente ad essa,
l’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico diventa
il mezzo per risolvere il problema della possibilità di fuoriuscita
dallo stesso. Partito come sistema critico il marxismo si trasforma
così in un sistema totalizzante ed onnicomprensivo, una sorta di
religione mondana. Una religione con i suoi santi ed i suoi eretici,
i suoi eroismi ed i suoi crimini, i suoi tribunali dell’inquisizione
ed i suoi roghi; una religione con le sue guerre di religione e le
sue vittime. Innumerevoli vittime che nessuna delle religioni
intolleranti del passato ha mai prodotto. Marx merita ancora di
venire letto e studiato, ma anche severamente criticato. Non certo di
venire santificato.
Note
1)
Karl Marx prefazione a “Per la critica dell’economia politica”.
Editori Riuniti 1969. pag. 5
2)
Ibidem pag. 6
3)
K: Marx: Il Capitale. Libro primo, parte seconda. Avanzino e Torraca.
1965. pag. 546
4)
Karl Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag.
110-111
5)
Ibidem pag. 111
6)
Karl Marx: Il Capitale. Avanzino e Torraca 1965, pag 77
sottolineature di Marx
7)
K Marx. op. citata pag. 69
8)
Ibidem pag. 69
9)
Ibidem pag. 70. Sottolineature mie
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