venerdì 6 settembre 2013

LA NEOLINGUA POLITICAMENTE CORRETTA




In nessun campo il politicamente corretto ha avuto tante conseguenze, e raggiunto un così gran numero di risultati, come nel linguaggio. La cosa non deve sorprendere, in fondo. Il politicamente corretto è nemico del principio di realtà, pretende di sostituire al mondo reale un mondo immaginario, zuccheroso e melenso. Il mondo reale però ha la pessima abitudine di non lasciarsi modificare tanto facilmente dai fautori del politicamente corretto, questi così, non riuscendo a cambiare il mondo, cambiano il modo di parlarne. Il male resta, ma lo si chiama “diversamente bene”: cambiano le parole, restano le cose.
Non si deve credere però che gli effetti di questo cambiare le parole sino cosa da poco, un puro abbaglio virtuale. Quando si dice che il politicamente corretto non cambia il mondo si dice in effetti una mezza verità. Non cambia il mondo nel senso che non elimina dal mondo il fanatismo e l'intolleranza, il male, le malattie e la sofferenza. Lo cambia invece, eccome, nel senso che indebolisce, fino ad annullarla, la capacità di ognuno di noi di rapportarsi correttamente al fanatismo ed alla intolleranza, al male, ed alla sofferenza. Il politicamente corretto non trasforma il mondo in una zuccherosa melassa,
ma induce molti a credere che il mondo sia davvero, o possa essere trasformato, in una melassa zuccherosa, e questo ha conseguenze enormi sul mondo. Produce leggi, divieti, regolamentazioni assurde, incide sull'educazione e sui rapporti umani, sul modo di agire e di pensare delle persone. Insomma, trasforma il mondo. In peggio.

Il linguaggio è forse ciò che di più essenzialmente umano si possa concepire. Il nostro linguaggio è simbolico, astratto. Non si riferisce semplicemente al qui e all'ora; ci permette di parlare del passato e del futuro oltre che del presente, dell'universale oltre che dell'individuale e del particolare, del reale ma anche del possibile e dell'immaginario, addirittura dell'impossibile. Questo linguaggio, essenzialmente umano, completamente diverso da qualsiasi tipo di linguaggio animale, è strettamente intrecciato con la totalità del vivere e dell'agire umani. Nelle parole e nei modi di dire si riflettono idee, pregiudizi, valori egemoni, o anche solo diffusi, in un certo momento storico, non potrebbe essere diversamente del resto, visto che idee, valori e pregiudizi si esprimono in forma linguistica.
E, sempre perché fatto umano, il linguaggio si modifica, adeguandosi alle trasformazioni dei modi di vedere il mondo, al tramontare di certi pregiudizi o di certi valori, al sorgerne di nuovi. Si tratta di un processo molecolare, dal basso, non deciso né programmato da nessuno. E si tratta anche di un processo dell'alto, ma sempre non deciso né programmato, né imposto da nessuno a nessuno.
Le modifiche “dal basso” dei modi di dire e di esprimersi, esattamente come le nuove parole che sorgono spontaneamente dalle interazioni fra i parlanti, vengono spesso sistematizzate, “ripulite” da scrittori o esperti di linguistica. La lingua che sorge spontaneamente trova in questo modo nuove regole, le nuove parole acquisiscono significati più chiari o più ampi. Ciò che appariva, e in una certa misura era, caotico ed inelegante acquisisce ordine ed eleganza. Manzoni e Dante sono a questo proposito esempi imperituri.  
Molte modifiche del linguaggio inoltre sono la risultante della evoluzioni di linguaggi specialistici, colti. Neppure in questo caso però il linguaggio è programmato, deciso o imposto dall'alto. Molto semplicemente, uno scienziato fa una scoperta, un filosofo elabora una nuova teoria, un pittore da vita a una nuova tendenza, e da questo nascono nuove parole, nuovi modi di dire e di esprimersi. Se la scoperta, la teoria, la tendenza pittorica sono qualcosa di più di un fuoco di paglia le nuove parole e i nuovi modi di dire entrano a far parte in maniera stabile dei linguaggi specialistici e da questi si trasferiscono a volte nel linguaggio comune. Un termine come “criticismo” non è stato inventato da nessun burocrate del linguaggio: ha alle spalle un'opera come “la critica della ragion pura” e i fiumi di inchiostro e di parole che ad essa sono seguiti. Considerazioni simili possono farsi con termini come “relatività” inteso in senso scientifico, o “cubismo”.
 

Naturalmente questa evoluzione spontanea del linguaggio non ha come unica conseguenza la nascita di nuove parole e di nuove espressioni. Ha anche la conseguenza che le vecchie parole cambiano senso e significato.
Col termine “uomo” si indicava ieri, e, finora, si indica anche oggi, l'
appartenente al genere umano. Però, il fatto che si usasse e si usi il termine “uomo” non è causale. Dietro l'uso di quel termine stava la convinzione che l'uomo, l'uomo in senso stretto, l'animale uomo di sesso maschile, sia il rappresentante più “puro” e completo del genere umano. Si diceva “uomo” e si intendeva “maschio” perché la mascolinità era considerata un attributo essenziale dell'uomo. Col tempo però questa convinzione si è sempre più indebolita, ed è stata messa radicalmente in crisi negli ultimi decenni. Oggi col termine uomo si indica, in molti universi del discorso, non l'animale uomo di sesso maschile ma l'uomo in generale, la persona umana, maschio o femmina, uomo o donna che sia. E quando si parla di “diritti umani”, di “umanità”, di “scienze umane” o di antropologia” nessuno pensa oggi che ci si riferisca agli uomini e non alle donne, ai maschi e non alle femmine. Se dico: “Giovanni è un uomo” intendo “uomo” nel senso di appartenente maschio al genere umano, esattamente come se dico : “Laura è una donna” intendo “donna” come appartenente femmina al genere umano; se però dico: "studio scienze umane" mi riferisco agli esseri umani indipendentemente dal loro sesso, esattamente come, se parlo di  “violazione dei diritti umani”, posso benissimo pensare alle donne musulmane costrette ad indossare il burka.

I fautori del politicamente corretto contestano precisamente questa evoluzione dei significati che lascia intatte le parole e le espressioni linguistiche. Come i grandi utopisti che vogliono rinnovare radicalmente il mondo partendo da zero, i teorici del politicamente corretto vogliono un linguaggio che rompa radicalmente col passato, che non contenga nulla che possa anche solo ricordare idee, valori, pregiudizi che sono ormai stati
abbandonati. A loro importa poco che col termine “uomo” si intenda oggi, in molti giochi linguistici, la totalità delle persone umane: per loro è inammissibile che sia “uomo” la parola usata per intendere questa totalità. La lingua deve essere depurata, deve adattarsi alla ideologia, interamente, senza residui. E se questa “purificazione” radicale non p  essere la risultante di alcun tipo di evoluzione spontanea del linguaggio, tanto peggio per l'evoluzione spontanea; se gli esseri umani, maschi o femmine, uomini e donne che siano, sono troppo pigri, o troppo conservatori, e non amano perdere tempo per riformare le parole, altri lo faranno per loro.
I sostenitori del politicamente corretto assumono nei confronti del linguaggio un atteggiamento che rifiuta radicalmente qualsiasi riconoscimento della sua autonomia. Il linguaggio non si evolve più spontaneamente, dall'alto o dal basso, no, si emenda per comandi, nuovi usi linguistici vengono decisi da una ristretta cerchia di burocrati e da questi imposto al popolo bue.
Il procedimento è più o meno questo. Piccoli gruppi di “esperti” esaminano la lingua e controllano che i suoi termini non siano in contraddizione con una certa visione del mondo che è a priori dichiarata vera, bella e giusta. Tutte le parole, le espressioni verbali, i modi di esprimersi che sono o sono ritenuti in contrasto con la visione del mondo politicamente corretta vengono cancellati dal linguaggio e sostituiti da altre parole, altri modi di dire e di esprimersi.
 Si parte dai media. All'improvviso, letteralmente dall'oggi al domani, i signori giornalisti della TV iniziano ad usare un nuovo termine,
femminicidio per fare un esempio. Fino a ieri si usava il termine “omicidio”, tutti lo sentivano e lo usavano, nessuno pensava che fosse un termine “insultante” per nessuno. Invece, una bella mattina Tizio accende il televisore, ascolta le notizie mentre fa colazione e sente parlare di “femminicidio”. Da dove viene una simile parola? Tizio non la ha mai sentita, nessuno la ha mai usata, eppure, da quel preciso istante... è fatta. Tutti parlano di “femminicidio”, ne parlano con noncuranza, come se fosse la cosa più naturale ed ovvia di questo mondo. E chi non parla di “femminicidio” è subito additato alla pubblica opinione come un maschilista abietto, un nemico delle donne, uno che sotto sotto giustifica o addirittura approva la violenza nei loro confronti.
Così, quasi senza accorgercene ci troviamo a vivere in un mondo di
collaboratrici domestiche e di operatori ecologici, di normodotati e diversamente abili, di “verticalmente svantaggiati” (i bassi di un tempo) e di “genitori 1 e 2” che hanno preso il posto del padre e della madre. Sorge un nuovo linguaggio che non ha nulla a che vedere con la società e la sua naturale evoluzione. Non ha nulla a che vedere col mondo della cultura vera, con le scoperte scientifiche, gli sviluppi della tecnica, l'evolversi delle correnti artistiche, non ha, soprattutto, nulla a che vedere con la vita degli esseri umani in carne ed ossa, il loro autentico modo di esprimersi, di rapportarsi fra loro.
“Ciao cara, mi parli del tuo fidanzato, della sua famiglia?” chiede ansiosa una madre alla figlia.
“E' un bel ragazzo normodotato ma un po' verticalmente svantaggiato” risponde questa. “Lavora come collaboratore scolastico ed è molto contento della sua attività. Suo padre era un migrante, e ora è cittadino italiano. E' diversamente deambulante e percepisce una pensione dall'INPS. Sua madre è collaboratrice domestica. Ha un fratello poliziotto. Ora è impegnato in una indagine molto delicata su un caso di femminicidio”. Esiste qualcuno che parla in questo modo nella vita di tutti i giorni? Non credo. Però è questo il tipo di linguaggio che i media vogliono imporci, giorno dopo giorno, con una perseveranza
ed una ripetitività degne di Joseph Goebbels.

Il politicamente corretto sostituisce al mondo la sua immagine ideologica del mondo. Il mondo del politicamente corretto è privo di differenze sessuali, come di gerarchie
; di malattie, dolore e sofferenza come di meriti e demeriti; un mondo in cui siamo tutti diversi ma non disuguali, senza differenze di valore, senza superiori ed inferiori. Nella zuccherosa melassa che i fautori del politicamente corretto hanno sostituito al mondo, un uomo privo di gambe non è atleticamente inferiore a chi corre i cento metri in dieci secondi netti, è solo “atleticamente diverso” da lui. Ed ancora, la cultura di un semi analfabeta non è inferiore ma, di nuovo, solo “diversa” da quella di un nobel per la fisica, e gestire una portineria non solo è una rispettabilissima occupazione, cosa sicuramente vera, ma ha la stessa rilevanza sociale della gestione di una azienda che da lavoro a decine di migliaia di esseri umani. Tutto è eguagliato, tutto è dolce, zuccheroso, buono.
E il linguaggio deve sancire tutto questo. Il linguaggio politicamente corretto si basa, come ricorda Sergio Travaglia nell'opera “politicaly correct”, su un ossimoro: il
ragionamento emotivo. Il discorso e le parole non servono più per farci capire le cose, permetterci giudizi ponderati sugli eventi, no, discorso e parole devono indurre in noi reazioni istintive, suscitare immediatamente nei parlanti atteggiamenti positivi o negativi, far nascere amori ed odi, al di la e prima di ogni analisi, di ogni valutazione razionale.
Si dice “diversamente abile” e scatta l'idea di una persona che ha abilità diverse dalle nostre, che conosce e sa fare più cose di quelle che noi conosciamo e sappiamo fare, si dice “normodotato” e si ha una fredda immagine burocratica. Chi è, cosa fa un
"normodotato"? Di certo nulla di interessante. Si dice: “emigranti” e si ha l'immagine di persone che abbandonano il loro paese per venire nel nostro, e che noi abbiamo anche il diritto di non accogliere, o di accogliere a certe condizioni; si dice “migranti” e scatta l'idea di persone la cui patria è il mondo intero, e che per questo hanno il diritto di stabilirsi dove possono. Cercare di capire, esaminare come stanno realmente le cose, diventa a questo punto qualcosa che è non solo inutile ma anche cattiva. Chi nega o ridimensiona le “diverse abilità” di un disabile è una persona che non vuole prestare aiuto a chi soffre, chi parla di limiti alla immigrazione una sorta di criminale insensibile al dramma dei “migranti”.
La neolingua che i burocrati del politicamente corretto vorrebbero imporci tende a convincere gli esseri umani che il mondo reale, è, o può diventare, simile alla loro melassa linguistica, e che solo la malvagità di pochi egoisti pervicaci impedisce a questo sogno meraviglioso di avverarsi. Ma non o mira solo a questo.

“Chiunque fosse cresciuto conoscendo soltanto la neolingua non avrebbe saputo più che la parola
uguale significava anche “uguale da un punto di vista politico”; o che prima libero significava “intellettualmente libero”; allo stesso modo in cui una persona che non conoscesse il gioco degli scacchi non avrebbe saputo dei significati secondari annessi alle parole regina o torre. Ci sarebbe stata tutta una serie di crimini che non avrebbe potuto commettere, per il fatto stesso che mancavano i termini atti a definirli e che quindi erano inimmaginabili. (…)
Soppiantata una volta per sempre l'archeolingua, anche l'ultimo legame col passato sarebbe stato reciso. La storia era già stata riscritta ma qua e là ancora sopravvivevano, purgati alla meglio, frammenti della letteratura trascorsa e finché si riusciva a conservare la propria conoscenza dell'archeolingua, era possibile leggerli. In futuro tali frammenti, ammesso che fossero riusciti a sopravvivere, sarebbero stati incomprensibili e intraducibili”. (1)
Come il partito ultra totalitario di cui parla Orwell nel suo capolavoro, il fanatico del politicamente corretto vuole trasfigurare il mondo e col mondo vuole trasfigurare il linguaggio, perché la trasfigurazione radicale del linguaggio è un mezzo per rovesciare il mondo e nel contempo per garantire che questo rovesciamento sia sufficientemente solido, inattaccabile.
Nella opprimente società descritta da Orwell in "1984
" il “crimine” di reclamare la libertà sarebbe stato impossibile perché qualcosa come la libertà non poteva neppure essere concepita: mancavano le parole capaci di definirla, in qualsiasi modo. I fautori del politicamente corretto mirano a qualcosa di simile con la loro dittatura linguistica. Se tutto il linguaggio fosse riformato in senso politicamente corretto un termine come “omicidio” non significherebbe nulla. Non esisterebbero “omicidi” perché non esisterebbero uccisioni di persone genericamente umane. Esisterebbero i femminicidi, i maschicidi, i mussulmaninicidi, gli anzianicidi o i giovanicidi, non gli omicidi. Allo stesso modo se in una società dominata dal politicamente corretto qualcuno che, leggendo un vecchio libro, si imbattesse nel termine “superiore” non riuscirebbe a tradurlo perché nella neolingua politicamente corretta questo termine non esisterebbe più, se non nell'accezione di “piano superiore”, “scala superiore” e simili. E sarebbe impossibile, in questa società, concepire comportamenti, rapporti umani, o giudizi, valutazioni del tipo di quelle che noi oggi accostiamo all'uso dei termini “superiore” o “inferiore”. Un professore entra in aula e dice agli studenti: “ho corretto i vostri temi, quello di Tizio mi sembra nettamente superiore agli altri”. Un simile evento non potrebbe accadere in un mondo dominato dal politicamente corretto, non ci sarebbero neppure le parole adatte a renderlo possibile. Chi controlla il linguaggio controlla il pensiero, e chi controlla il pensiero controlla la vita degli esseri umani.

Alla luce di queste considerazioni risulta più chiaro perché i fautori del politicamente corretto siano contrari alla naturale, spontanea evoluzione del linguaggio. Se un linguaggio si trasforma in maniera autonoma, dal basso e dall'alto, non si spezza il filo della tradizione, la continuità della storia. Nuove parole sorgono, ma le vecchie restano comprensibili, alcune parole acquisiscono nuovi significati, ma resta possibile comprendere i vecchi. Se oggi leggiamo un
romanzo del settecento, o un dialogo di Platone, ci imbattiamo di certo in parole che oggi non si usano più, ed in altre a cui attribuiamo oggi un significato diverso da quello di ieri. Però possiamo capire sia il dialogo di Platone che il romanzo del settecento, possiamo comprendere i vecchi modi di pensare, i pregiudizi, o quelli che a noi appaiono tali, i valori che stavano dietro a quei modi di pensare, e di parlare, e di scrivere. La lingua si trasforma ma rimane in qualche modo se stessa, il passato resta comprensibile anche se è, irrimediabilmente, passato, tramontato. I “politicamente corretti” detestano proprio questa continuità del corso storico. Vogliono una società del tutto nuova, incontaminata, ed un linguaggio completamente nuovo, privo di ogni impurità, di ogni sporcizia che un mondo “impuro” abbia potuto trasmettergli. Molti corretti politicamente sono, o credono di essere, o sono stati, marxisti e può apparire strana in loro questa avversione per la storia; si tratta però di una stranezza solo apparente. Perché, se il marxismo è una filosofia storicista, si tratta di uno storicismo che assegna una meta finale al dramma terreno dell'uomo, una meta che corrisponde con il rovesciamento radicale della storia stessa
E se la naturale evoluzione della storia non conduce alla trasfigurazione altri, che sono loro stessi prodotto della storia, prenderanno su di loro l'immane compito di realizzare la perfezione. La vicenda concreta del comunismo reale ha fatto toccare con mano ad interi popoli le conseguenze di questa contraddizione insita nel sistema.
Gli esperti del linguaggio politicamente corretto non hanno, per ora, in mente nulla di altrettanto grandioso, e tragico. Si limitano a sedersi a tavolino e stabiliscono quali parole cancellare dal vocabolario, e quali mettere al loro posto; a volte lanciano qualche campagna, scoprono qualche “emergenza”
, una “emergenza omofobia”, ad esempio, nulla che ricordi, per ora, drammi come, ad esempio, la grande rivoluzione culturale proletaria in Cina.  Ma spezzano, o cercano di spezzare, la continuità del corso storico, e questo apre la strada ad ogni eccesso, ogni orrore. Perché ogni passo avanti che possiamo fare presuppone il legame con ciò che è passato, ogni modifica del presente non può che basarsi sul solido fondamento del legame con la tradizione. Il futuro non è mai assolutamente futuro, esattamente come il passato non è, mai, passato assolutamente. Per essere davvero positivo il nuovo non può che innestarsi sul vecchio, essere in grado di prendere dal vecchio ciò che di perennemente valido questo può darci. La civiltà greca era caratterizzata dallo schiavismo e dall'oppressione della donna, ma non era solo schiavismo ed oppressione della donna; in quella lontana civiltà affondano le radici di ciò che noi siamo ora. Se adottiamo un linguaggio che ci impedisce di capire quelle radici diventiamo, tutti, enormemente più poveri, spiritualmente poveri.

La neolingua politicamente corretta è una costruzione burocratica, un linguaggio costruito a tavolino, privo di ogni legame col linguaggio vero, privo di agganci con la reale dinamica della società, con la vita, gli interessi, i sentimenti degli esseri umani in carne ed ossa. Un linguaggio per fantasmi malati di ideologia, incomprensibile ed illeggibile da chi fantasma non è. Un annuncio come questo: “Si comunica che i professori incontreranno i padri e le madri degli studenti giovedì alle ore 10” diventa, in linguaggio politicamente corretto: “Si comunica che i/le professori/e incontreranno i genitori
uno e due degli/delle studenti/studentesse giovedì alle ore 10”. Una mostruosità, e non delle peggiori; un parto, no, un aborto, ideologico burocratico che rende impossibile ogni comunicazione genuina fra gli esseri umani. Un aborto mostruoso che, proprio perché estraneo alla lingua autentica rompe la continuità della evoluzione linguistica, ci impedisce di comprendere il nostro passato, di rapportarci correttamente al nostro presente, di proiettarci un futuro non opprimente. E non si tratta sola di una neolingua mostruosa, ideologica e burocratica. Si tratta di una neolingua criminogena, nel senso che tende a criminalizzare tutti coloro che si rifiutano di usarla. Questa è una delle caratteristiche peggiori del linguaggio politicamente corretto. Visto che una simile “lingua” non potrebbe mai affermarsi in forza della sua capacità di attrazione si cerca di imporla agli esseri umani. Non solo chi non usa certi termini viene subito additato al pubblico ludibrio come un egoista, un bieco reazionario, un maschilista razzista. Si cerca anche di trasformare in insulti le parole non politicamente corrette. Dire: “Antonio è un bel ragazzo nero” viene considerato un insulto per Antonio, e gli insulti non vanno solo stigmatizzati, vanno puniti, col carcere, magari. Quindi, per evitare guai, bisogna dire: “Antonio è un bel ragazzo afroamericano”.
E se Antonio non è nato a New York ma a Casalpusterlengo? Beh... pazienza.

Occorre ricominciare ad usare il vecchio linguaggio, rifiutare di parlare di “femminicidi” e “verticalmente svantaggiati”, “genitori uno e due” e “operatori ecologici”.
Occorre ricominciare a definire coi loro vecchi nomi la vecchiaia e la malattia, la sofferenza e la morte. Perché nulla è davvero tanto insultante per un vecchio quanto il sentirsi definire “anziano”, come se la sua vecchiaia fosse una colpa cui neppure si può accennare; e l'abbellimento zuccheroso della sofferenza e della malattia non fa che accentuare il dolore di chi è malato e soffre. E nulla, forse, rende tanto insopportabile l'idea della morte quanto la sua rimozione, il far finta che la "nera signora" non esista.
Occorre ridare al linguaggio la sua dignità, farlo ridiventare ciò che è sempre stato: espressione del pensiero, strumento di comunicazione fra gli esseri umani, comunicazione di idee, sentimenti, stati d'animo. Occorre insomma ristabilire il legame fra linguaggio e vita, quel legame che giorno dopo giorno viene sempre più fatto a pezzi dai novelli Goebbels, i burocrati della neolingua politicamente corretta. Ripristinare questo legame non è, oggi, solo un atto di igiene linguistica. E' una rivendicazione di libertà.








1) George orwell: 1984. Mondadori 2007 pag. 318 319.
















































































































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