venerdì 20 febbraio 2015

LE CULTURE DEL SOSPETTO

Da sempre l’uomo cerca di andare “al fondo delle cose”. Una delle prime domande, forse la prima, che si sono posti i filosofi è stata quella relativa all’essenza, ciò che permane nel divenire. Tutto muta: il seme diventa pianta, la pianta cresce, germoglia ed alla fine muore. Ma, cosa cresce germoglia e muore? Cosa sta dietro ai fenomeni? Qual'è l’essenza, il vero essere, di cui questi sono la manifestazione sensibile? L’affermazione di Talete secondo cui il mondo è fatto d’acqua è un primo, ingenuo, tentativo di scoprire l’essenza del mondo. Molte delle raffinate e complicatissime costruzioni teoriche della filosofia e della scienza successive possono essere interpretate come tentativi sempre più complessi di rispondere a questo interrogativo.
Il termine “essenza” è stato in verità accantonato da molti filosofi e da tutti o quasi gli scienziati. Questi ultimi usano spesso il termine “realtà”, ma questa realtà ha più di un aspetto in comune con l’essenza dei filosofi antichi. Atomi, molecole e quanti d’energia sono la realtà (ultima?) del mondo, il mondo reale ben diverso da quello che appare nell’esperienza sensibile. Questo tentativo di andare al fondo delle cose è del tutto apprezzabile ed ha contribuito ad un enorme ampliamento della umana conoscenza. La ricerca di ciò che sta “dietro” e “sotto” ai fenomeni può avere, ovviamente, esiti dogmatici, può spingere qualcuno a presentare ciò che ha scoperto come la realtà ultima, l’essenza definitiva del mondo, ma, almeno per ciò che concerne la scienza autentica, questi pericoli sono limitati. Per lo scienziato atomi e quanti non sono la realtà ultima del mondo, sono solo le particelle più piccole che sia stato finora possibile scoprire, o forse neppure questo, sono solo un “quid” che permette di spiegare ed organizzare in formule matematiche certi fenomeni. Allo stesso modo la scoperta del DNA non risolve il mistero di “cosa” sia la vita, permette “solo” di ampliare enormemente le conoscenze sulla vita.
Per una scienza ed una filosofia sane l’andare oltre i fenomeni non significa né può significare recidere ogni legame con i fenomeni. Anche le più astratte entità che la scienza scopre devono avere una qualche manifestazione fenomenica. Noi non vediamo onde e corpuscoli, atomi ed elettroni ma vediamo certe loro manifestazioni sensibili. L’orecchio non sente le vibrazioni dell’aria, sente però i suoni che queste causano, le radiazioni non si sentono, ma si sente il ticchettio di una macchina rilevatrice. Il fenomeno è diverso dalla realtà, qualunque essa sia, ma non è scisso da questa, l’andare oltre e sotto i fenomeni non significa dividere il mondo in settori incomunicabili. Anche quando, come succede nella fisica dei quanti, le leggi della realtà subatomica sono del tutto anti-intuitive queste conservano un legame con la superficie fenomenica. Nessun studio di ciò che sta sotto il fenomeno sarebbe possibile se ogni legame fra profondo e superficiale, apparente e reale fosse scisso. Il profondo deve in qualche modo apparire alla superficie per essere riconosciuto come profondo.

In molte tendenze della filosofia contemporanea questo legame invece si scinde. Si scinde, cosa assai strana, non in settori di studio e di ricerca che per loro natura rimandano a ciò che sta oltre e sotto il fenomeno. Si scinde in campi di ricerca che riguardano il mondo umano, quel settore del reale cioè che per sua natura “appare”. Che si debba andare oltre i fenomeni in fisica o in genetica è cosa quasi ovvia, che lo si debba fare in economia o in politica lo è assai meno, eppure in certe filosofie contemporanee la tendenza ad andare oltre il fenomenico proprio nelle scienze umane appare irresistibile. Non solo, questo”andare oltre” conduce ad una frattura radicale, ad uno iato incolmabile fra ciò che è e ciò che appare. Ciò che sta sotto il fenomeno cessa di apparire nel fenomeno e cessa quindi di spiegarlo. Ciò che sta sotto il fenomeno semplicemente lo distrugge, lo trasforma in “apparenza illusoria”, “mistificazione”. Andando sotto la superficie non rendiamo questa più comprensibile, semplicemente la trasformiamo in mondo “non autentico”. La scoperta del “reale” rende “irreale” il mondo che ci circonda e con cui abbiamo tutti i giorni a che fare.
Per la scienza e per alcuni sistemi filosofici occorre andare oltre il fenomeno precisamente perché questo non è chiaro, non è del tutto razionalmente inquadrabile. Ci si spinge nel profondo perché la superficie è torbida e spingendoci nel profondo forse possiamo renderla più limpida. L’esigenza è e resta quella di spiegare il mondo, di inquadrare e relazionare in maniera comprensibile i dati dell’esperienza sensibile. Per molte filosofie contemporanee invece la superficie è inganno e mistificazione. Occorre andare sotto ed oltre la superficie per smascherare l’inganno, demistificare la mistificazione. Per la scienza lo studio delle leggi ottiche deve farci scoprire cosa provoca la sensazione del rosso, per certe filosofie ad essere in discussione è precisamente il fatto che la tal macchia di colore sia rossa. Le entità elementari della fisica servono a chiarire meglio i fatti, per certe filosofie andare oltre i fatti serve a “dimostrare” che i fatti non esistono.
La cosa più grave è che fra i fenomeni che vengono ridotti ad “illusione” o mistificazione” trova posto anche (o meglio, soprattutto) il soggetto, il soggetto con la sua razionalità, i suoi sentimenti, la sua libera volontà. Il soggetto crede di essere libero, di poter scegliere ma si sbaglia. Il suo comportamento è determinato da forze occulte che sfuggono completamente alla sua comprensione. I rapporti strutturali fra le classi, l’inconscio, l’educazione ricevuta da bambino determinano, fino in fondo, ciò che egli è e ciò che egli fa. Il soggetto crede che pensando egli esprima se stesso, parlando si relazioni agli altri, ma sbaglia . La razionalità che egli usa pensando e parlando è una razionalità alienata, frutto deformato e deformante di una società oppressiva. Il soggetto ritiene autentici i suoi sentimenti, ingenuamente pensa che se ama una donna (o un uomo) egli la ama davvero. Allo stesso modo ritiene che se si emoziona ascoltando una certa musica o guardando un certo film ciò che prova esprime qualcosa che è davvero, intimamente “suo”. Di nuovo sbaglia: i suoi sentimenti, le sue emozioni ed i suoi gusti sono determinati da qualcosa che agisce alle sue spalle. Amando quella certa donna egli “esteriorizza” la sua volontà di potenza, emozionandosi per quella certa musica o per quel certo film dimostra solo che ha “interiorizzato” la cultura dominante. Il soggetto non è mai se stesso, non esiste come essere autonomo, è un epifenomeno, la manifestazione secondaria di forze potenti e misteriose che operano dietro e sotto di lui.

Purtroppo anche alcuni (cattivi) scienziati, oltre a molti filosofi scientisti, si sono uniti al coro di chi celebra la morte del soggetto. Tutto ciò che l’uomo fa, dice o pensa può essere spiegato in termini genetici: l’uomo è un raffinatissimo robot. Dietro ai nostri pensieri ed al nostro sentirci liberi opera il complicatissimo softwere di cui ognuno di noi è dotato.
Che molto nell’uomo sia determinato dal patrimonio genetico è indubbio, ma è sensato il riduzionismo genetista oggi abbastanza di moda? Se il determinismo genetico fosse vero la prima cosa ad apparire inspiegabile sarebbe proprio il lavoro di studio e di ricerca degli scienziati. L’affermazione (metafisica, non scientifica) secondo cui “tutto è determinato dal patrimonio genetico” sarebbe essa stessa l’effetto di qualche causa genetica che, se scoperta, a sua volta, rimanderebbe a qualche altra causa e cosi, via, all’infinito. Ma, anche a prescindere da questo, che senso avrebbe la stessa parola “scoperta” in un mondo in toto determinista? Che senso avrebbero in un simile mondo i termini “vero” e “falso”? In un mondo in toto deterministico la affermazione “Parigi è la capitale della Francia” sarebbe la risultante di processi fisici e chimici esattamente come l'altra affermazione “Parigi è la capitale dell'Italia”. Avrebbe senso in un mondo simile affermare che la prima proposizione è vera e la seconda è falsa? Un insieme di reazioni chimiche che conduce alla proposizione A in cosa sarebbe “più vero” di un altro insieme di reazioni che conduce alla proposizione B? Il confronto fra queste proposizioni e la realtà forse? Ma questo stesso “confronto” sarebbe a sua volta solo un insieme di reazioni fisico chimiche... Se vuole evitare il non senso o il regresso all’infinito lo scienziato che indaga sulle cause del comportamento umano deve presupporre, almeno una volta, la libertà, deve presentare le conclusioni a cui giunge come il risultato di una libera ricerca.
Ma non solo di questo si tratta. Se il riduzionismo determinista fosse vero allora gran parte del nostro agire, pensare, parlare, sarebbe qualcosa di radicalmente diverso da ciò che ora pensiamo sia, assomiglierebbe ad un misterioso agitarsi a vuoto. Non si potrebbe più parlare di scelte, premi o punizioni, bontà o cattiveria, responsabilità.
La libertà intesa come capacità di autodeterminazione del soggetto è indimostrabile teoricamente: forse siamo davvero dei robot. Tuttavia noi ci sentiamo liberi e la presupposizione della libertà è indispensabile se si vuole che il mondo umano continui ad essere pensabile. La libertà del soggetto è presupposta nel linguaggio, nel modo in cui gli esseri umani si relazionano fra loro, negli ordinamenti giuridici. Indimostrabile teoricamente la libertà può essere considerata una autentica categoria che contribuisce a dar senso ed ordine al mondo. Si riduca l’uomo a robot gran parte del mondo umano diventa un mistero. Una discussione fra marito e moglie per decidere dove andare in vacanza, la sentenza di un tribunale, un dibattito politico: se tutto altro non è che un susseguirsi cieco di cause ed effetti cosa dobbiamo pensare siano questi normalissimi eventi umani? Che senso hanno termini come “pensare”, “parlare”, “scegliere”, che senso hanno le istituzioni umane? Un senso del tutto diverso da quello attuale si potrebbe dire, si... ma quale? Diverso da cosa? Se il termine “libertà” non significa nulla cosa può significare il termine “schiavitù”? Parlare della schiavitù di un robot è altrettanto mistificante quanto il parlare della sua libertà.

Il materialismo biologico non è l’unica metafisica che conduce alla morte del soggetto, non è neppure la più importante o la più pericolosa. Pur con tutti i sui difetti questo tipo di materialismo rimane agganciato al sicuro scoglio della ricerca scientifica, estende arbitrariamente la validità delle teorie scientifiche ma non effettua fughe in avanti, non scopre misteriose entità che ci manovrerebbero come burattini. L’entità di cui fa uso il materialismo biologico non è affatto misteriosa, si tratta del nostro patrimonio genetico, né è qualcosa di esterno a noi che ci manovra. Il patrimonio genetico è in noi, è parte essenziale, conosciuta e conoscibile, di noi. La metafisica scientista ci trasforma in robot, non in burattini.
Il discorso cambia per altre metafisiche che hanno influenzato ed influenzano profondamente il modo di pensare dell’uomo d’oggi. Per lo strutturalismo l’uomo non esiste, esistono solo le strutture. L’uomo altro non è che il punto d’incrocio fra strutture diverse, la sua coscienza un effetto secondario di cause strutturali che lo scienziato deve scoprire. Nella psicanalisi, invece, ad essere decisivo è l’inconscio. Dietro l’io cosciente opera l’inconscio che determina, se non tutte, molte delle nostre azioni e molti dei nostri pensieri. In Freud l’io cosciente conserva ancora un essenziale momento di autonomia (che senso avrebbe la terapia psicanalitica in caso contrario?); l’uomo confina nell’inconscio gli istinti libidici che ha rimosso e questo è causa di nevrosi, che possono venire curate cercando di riportare alla luce l’oggetto della rimozione. Nel suo intimo Freud è un illuminista, ritiene che la ragione possa comprendere ed illuminare anche le parti più nascoste del nostro io. Ciò non toglie che gran parte della sua teoria sfugga a serie possibilità di verifica o falsificazione empirica. Come ha fatto notare Popper la teoria della resistenza rende impossibile ogni tentativo di falsificazione delle teorie psicanalitiche. Se la terapia psicanalitica non ha effetti positivi lo si deve alla resistenza che il paziente mette in atto contro le cure dell’analista. In questo modo la psicanalisi si immunizza, argomenta Popper, da ogni tentativo di falsificazione. La teoria secondo cui ciò che è stato rimosso si esprime nei sogni contiene inoltre un evidente elemento di circolarità: posso affermare che il tal sogno significa X solo se accetto che nei sogni si manifesti ciò che abbiamo relegato nell’inconscio, d'altro canto, posso dimostrare che nei sogni si manifesta ciò che è stato relegato nell'inconscio solo se affermo che il tal sogno significa X.
In seguaci più o meno eretici di Freud gli aspetti mitici della psicanalisi vengono via via accentuandosi. Il soggetto cosciente perde sempre più autonomia fino a diventare un burattino integralmente manovrato dall’inconscio. Yung elabora la concezione di un “inconscio collettivo”, misteriosa entità a cui è possibile attribuire tutto e di cui risulta impossibile dire alcunché di positivo e verificabile. Lacan attribuisce un “linguaggio” all’inconscio e svaluta l’io cosciente come io non autentico. Il vero io è la dove non lo si vede, afferma lo psicanalista-strutturalista francese. Fromm, che ha tentato una eclettica conciliazione fra marxismo e psicanalisi, vede nell’io cosciente il risultato di una manipolazione della educazione repressiva funzionale alla sopravvivenza del sistema capitalistico. L’io diventa sempre più un burattino, il soggetto un essere alienato, inautentico. In questo modo però lo stesso inconscio che ne determinerebbe le azioni sprofonda nel mistero: che possibilità ha un io ridotto ad ente illusorio di gettar luce su ciò che lo rende illusorio? La retrocessione a burattino dell’io rende vano ogni tentativo di scoprire il burattinaio.

Il marxismo è la filosofia sociale che forse più di ogni altra ha contribuito a svalutare l’attività cosciente del soggetto. Il soggetto pensa, agisce, sceglie. Il soggetto si sente libero, ritiene di costruire autonomamente la sua vita, pensa che la storia sia opera dell’uomo, degli uomini. Il soggetto sbaglia. Dietro l’apparenza della libertà, dietro le scelte e l’autonomia del pensiero operano forze sociali profonde. Ciò che io credo essere una mia libera scelta è in realtà determinato dalla mia posizione di classe. Nei pensieri che io considero “miei” si esprime la mia realtà sociale, in me parla il corso storico giunto ad una determinata fase del suo sviluppo. Per Marx è l’essere sociale che determina la coscienza, non viceversa. Coerentemente a questa idea fondamentale del loro maestro molti seguaci di Marx hanno considerato la sua stessa opera come l’autocoscienza del proletariato, cioè l’autocoscienza della storia giunta al culmine del suo sviluppo. Il marxismo non è l’insieme di ciò che ha scritto o fatto Marx (e magari Engels), nel marxismo la storia parla a sé stessa, rende chiaro a se medesima il suo corso ed il suo fine immanente. Va da se che gli altri esseri umani, il cui pensiero non esprime “l’autocoscienza della storia”, non sono che dei piccoli burattini nelle sue mani. Il pensiero dei grandi diventa il pensiero della “storia” (così come nelle parole di certi profeti si esprime il verbo di Dio), il pensiero dei piccoli decade a nullità, puro materiale di scarto del “corso storico”. In tutti i casi l’autonomia del pensiero individuale scompare. Ciò che opera e parla nell’uomo è la “storia”, “l’interesse di classe”, la “contraddizione oggettiva del capitalismo”, mai la sua coscienza.

L’antisoggettivismo marxiano cade in tutte le contraddizioni che è possibile riscontrare in simili teorie. Che valore scientifico ha l’opera di Marx se il pensiero non è altro che una sovrastruttura della società di classe? Come può una teoria che esprime il punto di vista di una classe sociale pretendere di essere una rappresentazione vera della società nel suo complesso? E come può un essere alienato rovesciare il corso della storia? Se l’ambiente storico-sociale determina la coscienza può esistere una qualsiasi critica di tale ambiente? La riduzione di tutto a storia rende incomprensibile proprio il divenire storico.
Certi marxisti replicano a questo tipo di obiezioni affermando che la concezione marxiana della storia è di tipo dialettico. L’ambiente sociale determina la coscienza ma questa a sua volta influisce sull’ambiente sociale. Già Engels aveva operato una certa rivalutazione della sovrastruttura. Ben oltre è andato il cosiddetto “marxismo occidentale”: nulla nel marxismo è riconducibile al determinismo, la volontà rivoluzionaria gioca un ruolo decisivo nel processo che porta alla società senza classi, in questo la trasformazione delle circostanze è dialetticamente congiunta alla autotrasformazione delle coscienze. Il concetto di interazione o di azione reciproca consentirebbe al marxismo di superare tutte le difficoltà.
Si tratta però di posizioni che non solo forzano il testo di innumerevoli affermazioni di Marx ed Engels, ma non reggono al minimo tentativo di approfondimento.  Se A determina B la reazione di B non è in realtà che il risultato della originaria azione di A e, in ogni caso, nel rapporto causale reciproco fra A e B la libera volontà non ha posto e rilievo alcuno. Se le circostanze storico sociali determinano le coscienze determinano anche la capacità delle coscienze di operare in certe circostanze. Nessun sofisma sulla misteriosa "unità dialettica" di trasformazione delle circostanze ed autotrasformazione delle coscienze permette al determinismo storico sociale di andare oltre se stesso. In realtà il concetto stesso di interazione rimanda al concetto di autonomia. Quando parlo con una persona interagisco con lei, ma non sono determinato da lei né formo con lei alcuna inscindibile unità dialettica. Si può interagire con qualcuno e con qualcosa solo se si è autonomamente qualcosa o qualcuno. Si faccia del soggetto una "determinazione" dell'essere sociale o lo si unisca "dialetticamente" a questo e a scomparire sarà precisamente la capacità del soggetto di interagire.

Una delle concezioni più marcatamente nichiliste delle culture del sospetto è quella secondo cui “i fatti non esistono”.
Da quando Nietsche ha affermato che non esistono fatti ma solo interpretazioni l’attacco alla oggettività di ciò che ci è dato dall’esperienza sensibile non ha più conosciuto soste o limiti. Nessuna filosofia in verità ha mai assunto l’esperienza come qualcosa di definitivo, non ulteriormente analizzabile. Lo scetticismo è vecchio quanto il pensiero ed ha anche una fondamentale funzione positiva: impedisce al pensiero di cadere in uno sterile “dormiveglia dogmatico” per usare le parole di Kant. Estremizzandosi però lo scetticismo diventa nichilista, distrugge il mondo e si autodistrugge in quanto parte del mondo.
Per le culture del sospetto i fatti non esistono. Ciò che si presenta come “fatto” è in realtà una “interpretazione”, addirittura una “manipolazione” indotta dal sistema. L’oggettività dei cosiddetti fatti non è che una della facce di un sistema che reifica tutto, tutto riduce a cosa e merce.
Queste concezioni hanno influenzato profondamente la stessa epistemologia. Non esistono fatti “oggettivi”, dati dell’esperienza a cui sia possibile far ricorso per decidere della verità o falsità di determinate teorie o proposizioni. I fatti non possono smentire o confermare alcuna teoria perché sono “costruiti” a partire da questa. I fatti sono intrisi di teoria: se la tal teoria dice X i fatti che la dovrebbero confermare o smentire sono costruiti a partire da X. Galileo vedeva i fatti a partire dalla sua teoria eliocentrica così come i tolemaici li vedevano a partire dalla loro teoria geocentrica. I fatti che vedevano non erano gli stessi. Purtroppo anche un filosofo serio ed un convinto liberale come Popper ha strizzato l’occhio a posizioni di questo tipo. Nella sua polemica spesso ingenerosa contro il neopositivismo Popper ha sostenuto più volte che i fatti sono qualcosa di teorico, non di oggettivo. Come questo possa conciliarsi con il falsificazionismo, la concezione cioè secondo cui ogni teoria, se vuole essere considerata scientifica, deve essere costruita in modo tale da poter essere confutata dai dati dell’esperienza sensibile, resta un mistero.

Che i dati dell’esperienza non siano qualcosa di ultimo, non ulteriormente analizzabile, è sicuramente vero, tanto vero che nessuno sostiene il contrario. I dati dell’esperienza sono sempre inquadrati categorialmente, se così non fosse non ci sarebbe esperienza ma solo caos. Il libro che leggo non esisterebbe come “libro” se io non collegassi l’oggetto che ora ho fra le mani con quello che poco fa era nello scaffale, se non considerassi qualcosa di unitario le pagine, le parole, le lettere che le compongono. Ogni dato è tale se può entrare in una possibile esperienza ma per entrare in questa deve poter essere strutturato secondo categorie. In questo senso è vero che i dati sono sempre in qualche modo “concettualizzati”.
Le categorie però non sono a loro volta realtà ultime, sono “intrise” di dati sensibili, sono “vuote”, per usare le parole di Kant, in assenza di questi. Se il sensibile è in qualche modo “concettuale” il concettuale è in qualche modo “sensibile”. Se non unificassi parole, pagine e copertina nell’oggetto unitario “libro” questo non esisterebbe come dato d’esperienza, ma affinché la mia azione unificatrice possa aver luogo copertina, pagine e parole devono avere un loro oggettivo ordine spazio temporale. L'esperienza unitaria non esisterebbe senza capacità unificante del soggetto, ma questa sarebbe impossibile senza una realtà empirica in qualche modo ordinata. Kant lo ha messo bene in evidenza nella “confutazione dell’idealismo” da lui inserita nella seconda edizione della “Critica della ragion pura”: il soggetto stesso può riconoscersi come tale solo se inserito in un mondo non caotico. Io ho la consapevolezza di me come qualcosa di permanente nel tempo perché sono inserito in un mondo che ha la sua permanenza temporale ed il suo ordine spaziale. Certo, c'è molto  soggettivismo in Kant ed suo criticismo si presta a molteplici interpretazioni, tuttavia chi cerca di usarlo per distruggere l’oggettività del mondo è completamente fuori strada.
Le categorie sono inoltre qualcosa di completamente diverso dalle “teorie”. L’azione con cui il soggetto unifica i dati dell’esperienza è uno dei presupposti logici, meglio, delle strutture portanti dell’esperienza stessa. Le teorie e le concezioni del mondo operano invece su una esperienza già unificata. Confondere, come sembra fare lo stesso Popper, l’azione unificante delle categorie con l’elaborazione teorica di una esperienza già unificata è un errore. Un bambino di sei anni vede un albero e lo considera un oggetto unitario esattamente come un botanico. L’opera teorica del secondo parte dall’esperienza che egli condivide col bambino. Una esperienza unificata è il presupposto di ogni elaborazione teorica, un presupposto oggettivo esattamente come le categorie sono uno dei presupposti trascendentali dell’esperienza unificata. Molti errori sul rapporto fatti-teorie partono, come ha acutamente osservato Marcello Pera in “Popper e la scienza sulle palafitte”, da una confusione fra cose del tutto diverse.

I dati dell’esperienza che le teorie cercano di spiegare sono a loro volta, si sostiene, “intrisi” di teoria. Cosa significa questa affermazione? Sicuramente nessuno, scienziato o uomo comune che sia, osserva “a caso” i dati dell’esperienza. I dati osservati sono selezionati a partire dalle teorie, questo è spesso vero, ed  abbastanza  ovvio. Si osserva sempre il mondo a partire da un punto di vista, un problema, qualche situazione o teoria. Galileo osservava luna e sole per cercare conferme o smentite alla teoria eliocentrica, Engels ha scritto un saggio sulla “situazione della classe operaia in Inghilterra” e non ha certamente scelto a caso il suo oggetto di indagine. Per chi è inseguito strade e sentieri sono strumenti di fuga, per chi vuole rilassarsi passeggiando, mezzi che rendono piacevole il suo camminare. Se con questo si vuole sostenere che le osservazioni, e quindi i fatti, sono “intrisi” di teoria si può concordare. Però, di nuovo, le teorie sono a loro volta intrise, addirittura inzuppate, di fatti e osservazioni e questi hanno, piaccia o non piaccia la cosa, la priorità sulle teorie stesse. I problemi a cui le teorie cercano di dare risposta si manifestano in primo luogo nel mondo sensibile. Galileo e con lui tanti altri elaborano la teoria eliocentrica perché il vecchio geocentrismo era sempre più contraddetto dalle osservazioni; un uomo vede nelle strade strumenti di fuga perché deve far fronte al fatto estremamente concreto che altri uomini lo stanno inseguendo. Non si osserva il mondo a caso, questo è vero, ma non si elaborano neppure teorie a caso. La situazione in cui ci troviamo ci spinge a selezionare certi fatti fra gli altri, ma questa stessa situazione è un fatto, un osservabile fatto della nostra esperienza.
Malgrado siano selezionati a partire da teorie i fatti conservano, e questo è il punto essenziale, una sostanziale autonomia da queste. Engels esamina la situazione della classe operaia in Inghilterra a partire dalle sue teorie comuniste ma la sua analisi è (o dovrebbe essere) autonoma da queste. Quando il compagno di Marx parla della miseria dei proletari londinesi e snocciola dati sui loro salari, sul livello della mortalità infantile o sulle ore di lavoro a cui i fanciulli sono costretti fa affermazioni che possono essere confermate o smentite indipendentemente dalla teoria da cui egli parte. E’ vero che i seguaci delle teorie eliocentriche o geocentriche selezionavano diversamente i dati osservativi ma non è vero che quando esaminavano il sole e gli astri essi vedessero cose diverse. Era loro possibile mettersi d’accordo per osservare insieme certi dati e verificare in base a questi le rispettive teorie. E’ quello che è storicamente avvenuto. I seguaci del geocentrismo si sono scontrati sempre più con dati che non quadravano con le loro teorie, hanno cercato di immunizzare questi dati elaborando “ipotesi ad hoc” sempre più complicate ed implausibili e hanno infine abbracciato la teoria eliocentrica.
Se io elaboro la teoria X e in base a questa predico che si verificherà il fatto Y seleziono certamente i dati osservativi. Resta il fatto che l’accadere o meno di Y potrà confermare o meno la mia teoria. Io potrò naturalmente non darmi per vinto se Y smentisce la mia teoria, potrò elaborare ipotesi di salvataggio della stessa. Resta il fatto che è stato Y, il fatto di Y, ad avermi costretto ad elaborare queste ipotesi. I fatti esistono, sono osservabili e controllabili, danno vita ad una esperienza comune. Certo, nessuna conferma dei fatti potrà mai garantirci il possesso di una verità incontrovertibile ma questo precisamente perché una teoria confermata dai fatti può sempre essere smentita da nuovi fatti. I dati dell’esperienza sensibile non ci portano al possesso di alcun assoluto, come potrebbero? Ciò non vuol dire che non esistano o siano mistificazioni del potere, illusioni, prodotti reificati di una società alienata.

La teoria secondo cui i fatti non esistono è profondamente nichilista e auto-contraddittoria. Tutto ciò che avviene è un fatto. Anche le teorie che sostengono che i fatti esistono (o non esistono) sono un fatto, un fatto che, se hanno ragione i teorici delle culture del sospetto, vale come fatto solo all’interno di certe teorie. Che senso ha allora la polemica contro teorie che non ci convincono? Semplicemente polemizzando contro le concezioni dei loro rivali gli esponenti delle culture del sospetto si contraddicono clamorosamente. La negazione nichilista dei fatti cade nelle stesse aporie di fondo in cui incorrono le dottrine relativiste. Partiti col proposito di ribellarsi alla “dittatura” dei fatti i teorici del sospetto cadono nel paradosso del mentitore o, per sfuggire a questo, creano un sinistro universo totalitario: solo la mia teoria esiste, tutto il resto, comprese le idee di chi non condivide la mia teoria, le è interno, è valido solo in e per essa, ad essa finalizzato. I teorici del sospetto quando non sono incoerenti riescono solo a rivelare la loro mentalità totalitaria.

Quasi tutte le culture del sospetto hanno una sconfinata ammirazione per il pensiero negativo e fanno di questo un larghissimo uso.
Cosa sia il pensiero negativo è presto detto. Si tratta di quell’insieme di concezioni per le quali il momento della critica ha la priorità assoluta su quello della proposta, la distruzione è più importante della costruzione, la lotta in quanto tale conta più dei suoi esiti.
La società capitalistica è mostruosa si diceva ed ancora si dice, diamolo pure per scontato, ma.. che tipo di società dovrebbe sostituirla? L’uomo è un essere alienato, ammettiamolo pure, ma.. che caratteristiche dovrebbe avere l’uomo non alienato? La società consumistica distorce gli autentici bisogni umani, e sia, ma… quali sarebbero i bisogni non distorti? Per molti anni ed in parte anche oggi domande come queste, domande semplici e conformi al sano buon senso, sono state accolte con sorrisini di superiorità da molti “intellettuali” politicamente impegnati.
Il pensiero negativo è presente già nella poderosa opera di Karl Marx. Il padre del socialismo scientifico dice solo poche e generiche parole sulle caratteristiche concrete dell’ordine nuovo comunista che dovrebbe rimpiazzare la decadente società borghese. Il socialismo non è una utopia da realizzare ma “il movimento reale che abbatte lo stato di cose esistente” afferma Marx e queste sue parole sono state prese per oro calato non solo da tutti i suoi seguaci ma anche da molti dei suoi critici. Tutti costoro non sono per nulla allarmati dal fatto che si esalti un movimento per il solo fatto che “abbatte lo stato di cose esistente” senza che nulla si sappia su ciò che deve rimpiazzarlo.
Molti emuli e seguaci, più o meno fedeli, di Marx hanno spinto all’eccesso la componente negativa presente nel pensiero del loro maestro. La critica alla società borghese si è via via ampliata fino a comprendere praticamente ogni aspetto del mondo e della vita umana. Scienza ed arte, ragione e sentimenti, gusti, desideri, sessualità, tutto praticamente è stato denunciato come qualcosa di alienato, non umano e, va da sé, neppure una parola è stata spesa per cercare di fare capire ai comuni mortali cosa possano essere, ad esempio, una scienza ed un’arte “comuniste” o cosa si debba intendere per rapporti sessuali "non alienati”.
Il pensiero negativo ha prodotto danni enormi ed ha lacerato nel profondo il tessuto sociale dei paesi occidentali. Negli anni 70 dello scorso secolo (ed anche in seguito sia pur con minore virulenza) praticamente tutte le istituzioni sono state investite da una critica distruttiva senza che nulla si dicesse o si facesse per sostituire ad esse qualcosa. L’unico risultato di questa smania distruttiva è stato il blocco di istituzioni il cui buon funzionamento è essenziale alla vita sociale. La scuola e l’università sono state fatte letteralmente a pezzi con conseguenze disastrose in tutti i campi. Le fabbriche sono state scosse da una “guerriglia rivendicativa” che ha fatto crollare produttività e competitività, la famiglia ha subito accelerati processi di disgregazione. Rotto ogni legame col positivo il pensiero negativo è degradato, né poteva essere altrimenti, nel nichilismo. Non a caso uno degli esiti della contestazione globale è stata la follia omicida del terrorismo.

La critica e la protesta hanno ovviamente una grande importanza, anche a prescindere dalla proposta. La distruzione è anch’essa, in determinati momenti, necessaria per cambiare in meglio le cose. Se si criticano leggi liberticide, se si protesta contro arresti arbitrari e condanne ingiustificate si compie un’opera meritoria, né è detto che ogni volta che si protesta la critica debba essere accompagnata da proposte positive. Tutto questo però non ha nulla a che vedere col pensiero negativo. Criticare una legge che consente al governo di vietare l’uscita di certi giornali implica già un evidente momento di proposta positiva. Si è contro la proibizione della libera stampa perché si è a favore della libertà di stampa. Allo stesso modo, protestare contro il modo in cui viene trattata la donna nei paesi islamici implica una concezione positiva di ciò che si vorrebbe fossero i rapporti fra i sessi. E’ del tutto legittimo protestare anche se la proposta non accompagna sempre la protesta: in molti casi la protesta implica la proposta.
Il pensiero negativo però è qualcosa di ben diverso. Qui la protesta non implica affatto la proposta, al contrario, la protesta si può esprimere solo a condizione di mettere a tacere qualsiasi proposta. Si può strillare contro l’uomo “ridotto a burattino”, contro la “falsa oggettività” della scienza “borghese”, contro i rapporti sessuali “alienati” cui ci costringerebbe la “società industriale avanzata” solo se si tace sulle caratteristiche concrete di una scienza, una sessualità, un uomo “diversi”. Considerazioni simili possono farsi a proposito di quei patetici (ma assai pericolosi) personaggi che, incuranti delle lezioni della storia, propongono oggi un comunismo “rifondato”. Si può proporre un “nuovo” modello di comunismo agli esseri umani solo se si tace accuratamente sulle sue concrete caratteristiche. Se si uscisse dal silenzio o si andasse oltre dichiarazioni ultra generiche non si potrebbero in effetti che riproporre i modelli che hanno dato gli esiti disastrosi che conosciamo. Anche in questo caso la protesta radicale contro il capitalismo deve accompagnarsi al vuoto totale di proposta.

Abbiamo chiamato più volte le varie teorie di cui si è discusso “culture del sospetto” e non a caso. Il filosofo deve, secondo queste teorie, sospettare di tutto. La realtà è così ma… sarà proprio vero? Il tale dice la tal cosa, ma.. la starà davvero pensando? Chi e cosa c’è dietro il suo pensiero? Quella donna manifesta certi sentimenti, ma.. di cosa davvero si tratta? Come un poliziotto il filosofo del sospetto esamina la scena del crimine e come un poliziotto non è affatto convinto di ciò che i fatti sembrano dire. “Tutto sembra far pensare ad un suicidio, ma.. sarà vero?”. Il poliziotto non si accontenta delle apparenze, scava, indaga, cerca di scoprire chi ha predisposto le cose in modo da fare apparire realistica l’ipotesi del suicidio. Il filosofo del sospetto si comporta nello stesso modo. Lui non è un credulone, non si ferma alle apparenze, come il poliziotto deve scoprire il vero colpevole, il responsabile di tutto. A differenza del filosofo del sospetto però il poliziotto è sospettoso solo entro certi limiti, sospetta di alcuni, non di tutti, non riduce tutto a montatura ed illusione, crede nella oggettività dei dati di esperienza, nella attendibilità di almeno alcuni testi. Solo a queste condizioni può indagare, sperare di smascherare il colpevole. Il filosofo del sospetto invece non crede a nulla ed a nessuno, ritiene che tutto sia inganno e mistificazione. Il poliziotto analizza la scena del crimine, per il filosofo del sospetto la scena del crimine è il mondo intero, il poliziotto cerca di smascherare le menzogne, per il filosofo del sospetto tutto è menzogna, per il poliziotto è essenziale distinguere fra verità ed errore, per il filosofo del sospetto l’errore è generalizzato, la verità non esiste. Il poliziotto può ammettere che stava sbagliando, che chi sospettava era innocente, il filosofo del sospetto non sbaglia mai, i suoi sospetti diventano ipso facto sentenze, i sospettati sono per definizione criminali. Il filosofo del sospetto è insomma un poliziotto paranoico, un pessimo poliziotto che non verifica i dati, non tiene conto delle testimonianze che smentiscono i suoi sospetti, un poliziotto che confonde le sue fantasie con la realtà. Fortunati gli esseri umani che non hanno la sventura di imbattersi in poliziotti simili! E fortunate le società immuni dal pensiero del sospetto!













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