martedì 23 giugno 2015

LO SCIMMIONE TECNOLOGICO E I LIMITI DELLO SVILUPPO


E’ assai nota una critica che Karl Marx muoveva al modo di produzione capitalistico. Par Marx il capitalismo era incapace di assicurare lo sviluppo delle forze produttive. La contraddizione fondamentale del capitalismo era per Marx quella fra sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione borghesi. I rapporti di produzione borghesi impedivano il pieno dispiegamento della capacità produttiva dell’uomo, costituivano un limite allo sviluppo economico, scientifico e tecnologico. Questo, per Marx, rendeva il capitalismo un sistema socio economico storicamente provvisorio. La classe operaia nella sua lotta contro il capitalismo era portatrice di interessi universali perché, distruggendo i rapporti di produzione borghesi, avrebbe eliminato il limite fondamentale che impediva la crescita economica.

Se paragoniamo la concezione di Marx a quelle che vanno oggi per la maggiore in vaste aree politiche e sociali (non solo di estrema sinistra) assistiamo ad un autentico capovolgimento di paradigma. L’economia di mercato ora non è più accusata di essere un, anzi, il limite dello sviluppo ma di non rispettare limite alcuno. L’economia capitalistica, affamata di profitto, persegue uno sviluppo insensato e distruttore. Il mercato impone agli esseri umani "modelli di consumo alienanti", distrugge senza ritegno le risorse naturali e l’ambiente, elimina la biodiversità. Insomma, è lo sviluppo, non la sua assenza ad essere imputato con sempre maggiore insistenza all’economia di mercato. Certo, le cose non sono sempre tanto semplici. Gli stessi che accusano il capitalismo di non rispettare limite alcuno sono poi i primi a protestare quando l’economia entra in recessione e l’occupazione ristagna o decresce. Al di la di tutti i contorcimenti dialettici, i sofismi e le contraddizioni, il mutamento di paradigma è però abbastanza evidente. Era stato inaugurato nel  secolo scorso dalla scuola di Francoforte ed ora si è solo banalizzato, guadagnando in estensione ciò che ha perso in rigore.

L’economia di mercato dunque non conosce né rispetta limite alcuno. Sempre a caccia di profitti è pronta a distruggere il pianeta pur di far crescere dello 0,01% gli utili delle imprese. E’ corretta questa concezione? L’ideologia ambientalista si è sviluppata, è cresciuta ed ha ottenuto dei risultati (sulla cui bontà non mi pronuncio) nelle aree capitalistiche classiche, è stata invece del tutto assente nei paesi ex comunisti o in quelli in via di sviluppo. Inoltre è sorto e si è sviluppato nei paesi capitalistici un autentico business ecologico. Fior di imprese capitalistiche producono pannelli solari, impianti eolici o depuratori o alimenti biologici. Il richiamo alla natura domina la pubblicità, vette incontaminate e mari cristallini sono le offerte più gettonate di innumerevoli agenzie turistiche. Forse il capitale distrugge l’ambiente, ma l’ambiente si sta dimostrando un ottimo affare per molti capitalisti. Questi semplici fatti dovrebbero indurre quanto meno alcuni dubbi in certe menti troppo dogmatiche.
Il capitale ha per fine il profitto ma possono ottenere profitti sia le grandi imprese industriali che quelle che,  nel settore dei servizi, producono beni immateriali. Fa profitti l’impresa che costruisce impianti colossali come quella che si specializza nella miniaturizzazione, fanno profitti sia l’agenzia turistica che si rivolge ad un pubblico di massa sia quella che organizza gite in parchi ecologici in cui non si può neppure cogliere un fiore. Equiparare la crescita economica ad inquinamento e distruzione dell’ambiente significa avere, nella migliore delle ipotesi, una visione unilaterale della realtà.
Grazie allo sviluppo tecnologico oggi è possibile produrre quantità enormi di beni utilizzando una quantità di materie prime molto minore che in passato. Per la costruzione della HMS Victory , un vascello a tre ponti della regia marina britannica, furono necessari, nel 1760, oltre 6000 alberi, querce per il 90% e per il resto olmi, pini e abeti. Oggi è possibile costruire navi più grandi, enormemente più sicure e veloci utilizzando quantità molto inferiori di materie prime. Non solo si risparmia il legno ma molti materiali con cui sono costruite navi, auto ed aerei sono fabbricati in laboratorio (si pensi alle plastiche o alle resine in fibrovetro) con impatto ambientale nettamente inferiore che in passato. I paesi più inquinati del mondo sono quelli meno sviluppati: il Gange è molto più inquinato del Tamigi. Quando le vetture a trazione animale non erano ancora state sostituite dalle auto le strade della grandi città erano letteralmente intasate dai rifiuti organici animali, Londra era simile ad una fogna a cielo aperto. E’ stato il sistema fognario, figlio dello sviluppo industriale, a rendere meno inquinate e più salubri le città. Gli esempi potrebbero continuare. Il tempo andato ci appare bello solo perché non ci viviamo.
Equiparare sviluppo e distruzione ambientale significa avere una concezione puramente quantitativa dello sviluppo, concezione che ignora del tutto la tecnologia. Sviluppo economico non vuol dire solo produrre più beni, vuol dire produrre più beni in maniera più efficiente, con minor consumo di risorse, quindi con minore impatto ambientale. Questo significa che tutto va bene, che non esiste un problema di gestione razionale di risorse scarse ed esauribili? No, ovviamente. Vuol dire solo che occorre evitare di affrontare in maniera superficiale e propagandistica certi temi.

Una economia capitalistica senza incremento della produzione del resto è perfettamente ipotizzabile, lo stesso Marx ne ha parlato affrontando il problema della riproduzione semplice. Una economia di mercato in cui tutti i profitti siano consumati e quindi non reinvestiti, o in cui le imprese non conseguano alcun profitto, ed il capitalista debba “accontentarsi” della remunerazione che gli spetta per il suo lavoro di coordinamento e direzione, è perfettamente concepibile, così com’è concepibile una economia capitalista in cui la produzione globale invece di crescere si contragga. Si tratta di modelli puramente teorici? No, purtroppo. Si tratta della realtà delle economie capitalistiche nelle fasi di stagnazione o di recessione. Non è la sete di profitto a determinare lo sviluppo economico, per lo meno non è solo quella. L’economia si sviluppa se gli imprenditori fanno gli investimenti giusti, se i beni che immettono sul mercato trovano acquirenti in grado di comprarli, se esiste una domanda solvibile.
E come può esistere un capitalismo senza incremento dello sviluppo può esistere, anzi, esiste ed è esistita una economia centralmente pianificata letteralmente pervasa dalla frenesia di uno sviluppo senza limiti. I piani quinquennali di Stalin, il gran balzo in avanti di Mao sono esempi clamorosi di economie pianificate impegnate in progetti di crescita economica incuranti di ogni limite. Il volontarismo sfrenato di uno Stalin o di un Mao, il loro ripudio di ogni vincolo, il disprezzo per l’oggettività delle leggi economiche hanno portato a drammi storici di immane portata al cui confronto impallidiscono i costi umani e sociali della accumulazione originaria capitalistica.

Per molti critici dell’economia di mercato la razionalità capitalistica sarebbe concentrata solo sul processo produttivo. Attenta a calcolare i costi ed i ricavi dell’attività produttiva la razionalità “borghese” non darebbe la minima importanza a tutto ciò che sta a monte o a valle di questa attività. A monte della produzione stanno le risorse naturali alla cui conservazione il capitalismo non sarebbe minimamente interessato, a valle stanno i bisogni degli esseri umani che non interesserebbero minimamente la produzione capitalista.
Si tratta però di uno schema profondamente errato. In realtà non è possibile organizzare razionalmente il processo produttivo se non si presta la massima attenzione a tutto ciò che sta a monte ed a valle dello stesso. Davvero si può pensare che all’imprenditore non interessino i bisogni degli esseri umani? Ma è da questi bisogni che dipendono i suoi profitti! Ciò che distingue il buon imprenditore è precisamente la capacità di capire “come spira il vento”, di intuire che certi beni possono avere una buona accoglienza sul mercato, che certi altri si avviano invece verso una rapida, o meno rapida, obsolescenza. Caso mai è il burocrate pianificatore che può disinteressarsi dei bisogni della gente. Se una burocrazia politica controlla la totalità delle forze produttive può fare le scelte che vuole senza alcun timore. Dove lo stato decide, lui solo, cosa, quanto e come produrre i consumatori non hanno scelta: o consumano ciò che lo stato offre loro o non consumano.  La loro scelta, quale che sia, non guasta i sonni del burocrate.
E, allo stesso modo, è davvero possibile ipotizzare che una classe  imprenditoriale degna di questo nome non si interessi della scarsità o dell’abbondanza di certe risorse, o sia del tutto indifferente all'impatto ambientale della sua attività? Sarebbe razionale investire fior di miliardi in una attività legata a materie prime in via di esaurimento? Sarebbe un buon l’imprenditore chi  si disinteressasse del problema del reperimento di fonti di energia abbondanti e a buon mercato? Se le città fossero sommerse dai rifiuti a qualche imprenditore del settore verrebbe mai in mente di aprire in queste città una catena di ristoranti?
Certo, esistono imprenditori che hanno una visione molto ristretta del loro ruolo, mirano solo all’utile immediato, nella smania di arraffare più che possono vendono prodotti scadenti o pericolosi e non si preoccupano affatto dell’impatto della loro attività sull’ambiente e la salute. L’imprenditore è un uomo, un uomo certamente assai sensibile al profumo del denaro. Ma è proprio per questo che esistono le leggi, le regole del gioco, la politica.

Tutte le considerazioni fatte finora si prestano ad una obiezione che può essere formulata più o meno in questi termini: “Il capitalismo, il capitalismo sano, non quello che attraversa fasi di recessione o stagnazione, mira allo sviluppo, alla crescita economica. Ma lo sviluppo, anche se efficiente e razionale, anche se attento all’uso ottimale delle risorse, consuma risorse, le consuma sempre e comunque. Le risorse però sono limitate. Una crescita economica che prosegua indefinitamente è quindi inevitabilmente destinata a scontrarsi con i limiti che madre natura pone all’agire dell’uomo. Se vogliamo salvarci dall’auto distruzione dobbiamo rallentare prima e bloccare poi lo sviluppo economico, quindi superare il capitalismo”.
Anche se sono in pochi a parlare tanto chiaro, una simile posizione è sottintesa praticamente in tutte le analisi dell’ecologismo radicale: ad essere messo sotto accusa è lo sviluppo in quanto tale. Il capitalismo deve essere condannato perché mira allo sviluppo, ma allo stesso modo vanno condannate più o meno tutte le ideologie “sviluppiste”, comprese quelle socialiste. Andando ancora più a fondo ci si rende conto che la critica riguarda la stessa natura umana, almeno così come essa si è storicamente manifestata. La tendenza dell’uomo ad andare costantemente oltre la propria situazione data, a non adattarsi all’ambiente, il rifiuto, tipicamente umano, di essere una semplice componente di qualche eco-sistema sono alla base di un’azione insensata che porta alla distruzione e all’auto distruzione. A parte ogni considerazione su quelli che sarebbero i risultati di una coerente messa in pratica di simili concezioni, occorre vedere se esse sono davvero fondate e per far questo occorre analizzare il concetto stesso di limite.

A prima vista può sembrare che un limite costituisca una sorta di barriera contro cui inevitabilmente deve scontrarsi chi va in una certa direzione non curandosi del fatto che il limite esiste. Il limite impedisce che qualcosa possa espandersi indefinitamente, la presenza di un limite ha come sua inevitabile conseguenza che qualcosa debba essere bloccato se non vuol cozzare contro quel limite. Il limite è compatibile con uno stato stazionario ed è incompatibile con uno stato indefinitamente dinamico.
Questa concezione del limite però, assai rozza e primitiva, vale solo in un numero limitato di casi. Se io corro in auto incurante del fatto che di fronte a me c'è un muro faccio di certo una brutta fine. Però la presenza di un muro  in una certa direzione non mi impedisce di continuare a correre in altre direzioni. Teoricamente potrei correre in auto tutta la vita senza mai scontrare contro il muro, il limite che esso costituisce non mi impedisce di proseguire indefinitamente la mia attività di guidatore. Ed ancora, la terra è limitata eppure ci si può muovere all’infinito sulla terra senza incontrare limite alcuno. Se parto dal punto X diretto verso oriente e continuo a muovermi dopo un po’ di tempo mi ritrovo nel punto X. Lo spazio che ho percorso è limitato, ma io posso continuare illimitatamente a muovermi nella stessa direzione. La concezione matematica di limite dal canto suo ci dice che i valori di una funzione con X che tende ad infinito si avvicinano indefinitamente ad un certo valore (il limite, appunto) senza mai raggiungerlo. Insomma, l’idea secondo cui esisterebbe una incompatibilità assoluta fra presenza del limite e crescita dinamica si basa su una concezione del tutto inadeguata di ciò che è un limite. Non è vero che il limite è compatibile solo con stati stazionari, esso è del tutto compatibile anche con stati dinamici.

Abbandoniamo le considerazioni di carattere generale per affrontare più da vicino il problema di cui stiamo discutendo.
Di che tipo può essere un limite all’attività umana, più precisamente il limite che la scarsità delle risorse pone all’attività umana? Si possono a mio parere individuare tre tipi di limiti di questo genere,  per brevità li chiameremo limite A, limite B e limite C.
Limite A. Poniamo che un uomo di 40 anni, impossibilitato a lavorare, abbia a disposizione, per far fronte alle sue necessità da oggi alla fine dei suoi giorni, la cifra di duecentomila euro, che non può in alcun modo investire e far fruttare.  Si tratta di un limite stringente che lo obbliga, se non vuole morire di fame, ad uno stile di vita estremamente "sobrio", diciamo pure assai  povero. Se davvero il soddisfacimento dei suoi desideri fosse condizionato da un simile limite qualsiasi miglioramento del suo stile di vita sarebbe impossibile. Un simile limite lo obbligherebbe ad un livello di consumo stazionario o decrescente.
Limite B. Poniamo che la somma a disposizione di quest'uomo non sia non di duecentomila ma di  duececento miliardi di euro. Anche in questo caso il limite esisterebbe, ma a tutti gli effetti pratici sarebbe come se non esistesse. La somma a sua disposizione sarebbe tanto elevata che la sua attività di consumatore, anche se voracissima, non incontrerebbe limite alcuno.
Limite C. Il nostro amico dispone dei suoi duecento di miliardi di euro, fa una vita piuttosto bella e gradevole, anzi, diciamo pure che se la spassa. Il fatto che la somma a sua disposizione sia limitata non gli da alcun pensiero. Però... però deve morire, prima o poi. Tutti i suoi divertimenti finiranno un giorno, non si scappa. Siamo di fronte ad un terzo tipo di limite che non ha relazione col livello dei consumi e con le risorse a disposizione di ognuno di noi. Si tratta di un limite esterno alla vita terrena, un limite che delinea l’area al cui interno ha senso parlare di consumi e risorse, ricchezza e povertà, limiti.
L’uomo ha sempre a che fare con tutti e tre questi limiti. Certe risorse sono molto limitate e ci impongono un loro uso estremamente oculato e parsimonioso. Certe altre sono talmente abbondanti da potersi considerare praticamente illimitate. Infine, quale che sia il nostro rapporto col mondo e le sue risorse, siamo comunque limitati, oberati da una limitatezza che nessuna tecnologia, nessuna razionalità scientifica potranno riuscire ad eliminare. Il limite fa parte della nostra essenza di esseri razionali finiti. Ci piaccia o non ci piaccia siamo mortali, sia come individui che come specie, e nessuno sviluppo, nessun progresso potrà renderci uguali o simili a Dio. Ma non potrà renderci uguali o simili a Dio neppure alcun “ritorno alle origini”, alcuna regressione a mera componente di qualche ecosistema, parte di un tutto armonioso che ci sovrasta. L’assoluto è al di fuori della nostra portata, sempre, in tutti i casi.

Il limite C delimita il campo della nostra azione ma non impedisce che questa sia dinamica. La crescita economica non ci farà mai superare la nostra finitezza, ma la finitezza non costituisce un vincolo contro cui la crescita economica possa o debba scontrarsi. Io posso passare tutta la vita seduto a guardare il nulla o occupato in una miriade di attività diverse. Morirò comunque e il fatto che debba morire non ha nulla a che fare col modo in cui ho speso la mia vita.
Il discorso è del tutto diverso nel caso dei limiti A e B. Qui il limite non è limite alla vita e al mondo, ma nella vita e nel mondo, non delimita l’area del nostro agire ma sorge in quest’area.
I limiti A e B ci obbligano alla stagnazione? Rendono irrazionale la ricerca di una costante crescita economica? Le considerazioni fatte in precedenza non possono che spingerci ad una risposta negativa. E’ chiaro che il limite di tipo B nei fatti non è un limite per noi. "E per i nostri figli ed i figli dei nostri figli, e così via, all'infinito?" potrebbe chiedere qualcuno. L'infinito non ci riguarda, si può solo rispondere, e ha poco senso interrogarsi su come sarà il mondo fra un miliardo di anni. Viaggi spaziali a parte, la durata pianeta terra è naturalmente limitata ed, esattamente come accade per gli individui, madre natura un bel giorno metterà la parola fine alla specie umana. Questo è tutto, ci piaccia o no.
Torniamo a considerazioni più realistiche. Anche il limite di tipo A non impone alcun blocco assoluto allo sviluppo. L’inventiva umana. La scoperta e l’innovazione, la tecnologia consentono di utilizzare meglio,  in maniera sempre più efficiente e razionale le risorse, consentono anche di passare dall’utilizzo di una risorsa a quello di un’altra. Grazie alla sua attività l’uomo può trasformare molti limiti di tipo A in limiti di tipo B. La risorsa A è molto scarsa se ce ne occorre moltissima per produrre certi beni, ma se grazie all’innovazione tecnologica, riusciamo a produrre questi beni con quantità decrescenti di A tale risorsa diventa abbondante. Inoltre si può passare dall’utilizzo di A all’utilizzo di B, dall’utilizzo di B a quello di C e questo molto tempo prima che A o B siano esauriti. L’età della pietra non è finita quando non ci sono state più pietre a disposizione degli esseri umani, ma quando è stato possibile costruire con altre materie prime una serie di utensili. Se alcune risorse sono limitate nel senso A, tutte insieme possono considerarsi limitate in senso B, a condizione naturalmente che ci si rapporti alle risorse disponibili in maniera intelligente e responsabile, che si faccia ricorso alla ricerca ed alla innovazione tecnologica. Tornando per un attimo all’esempio di limite in senso A che si è fatto in precedenza, è chiaro che chi dovesse vivere il resto dei suoi giorni con duecentomila euro a disposizione sarebbe condannato alla povertà, dato l’attuale livello dei prezzi, l’attuale volume della produzione e della ricchezza disponibile. Un altro livello di ricchezza sociale, un altro livello dei prezzi trasformerebbero invece quei duecentomila euro in due milioni di euro e forse più. Il limite, che esiste sempre, non è mai totale ed assoluto, è sempre variabile, relativo.
Il senso di quello che si è detto è molto semplice in fondo. Occorre tenere conto dei limiti e questa è la condizione indispensabile affinché questi limiti non ci impediscano di svilupparci, non si trasformino in freni assoluti al nostro operare. E’ possibile migliorare costantemente il nostro tenore di vita anche in presenza di risorse limitate. Non è un paradosso, è la storia del genere umano.

Un grosso scimmione osserva un mucchio di ossa. Le sfiora con la mano pelosa, poi afferra un osso, un osso grosso, robusto. Lo agita, lo guarda. Colpisce con il grosso osso che tiene in mano un altro osso, lì, per terra. Lo colpisce di nuovo e poi ancora di nuovo. I colpi sempre più forti frantumano le ossa che giacciono  ai piedi dello scimmione. Lo scimmione è felice, salta in preda all’euforia, emette suoni gutturali…
E’ una delle scene centrali del capolavoro di Stanley Kubrick “2001 odissea nello spazio”. Tutti la ricordano, penso, e ricordano anche come prosegue il film. Lo scimmione usa l’osso per cacciare, affronta con la sua arma un altro scimmione e lo uccide. Esaltato dalla vittoria getta in aria l’osso. L’osso vola in alto, sempre più in alto e.. si trasforma in una astronave.
La scena è splendida non solo per la assoluta maestria con cui è girata, o per il magnifico accompagnamento musicale. Ciò che colpisce nella scena è il pensiero che molto probabilmente qualcosa di simile è davvero accaduto, da qualche parte nel mondo, tantissimo tempo fa.
Un niente separa l’osso dall’astronave, lo scimmione dall’uomo super tecnologico che è il protagonista del resto del film. Il vero salto di qualità nella storia del genere umano lo fa lui, lo scimmione, quando afferra l’osso e “capisce” che quello non è solo un osso da spolpare o da triturate coi denti. Quell’osso può essere qualcosa di diverso, può essere un’arma, può dare allo scimmione semi intelligente un vantaggio decisivo nella lotta per la sopravvivenza. Usando l’osso come un’arma lo scimmione compie una operazione tecnologica fondamentale: smette di consumare semplicemente gli oggetti che lo circondano, inizia ad usarli per soddisfare le proprie esigenze; smette in qualche modo di essere uno scimmione, inizia a diventare uomo.
L’uomo non è solo un animale razionale, e simbolico, e politico, è anche un animale tecnologico. Tutti quelli cha accusano la tecnologia di “alienare “ l’uomo dimenticano la banalissima verità che l’impulso a modificare il mondo, a compiere operazioni tecnologiche, è parte essenziale della natura umana. A qualcuno non  piace tutto questo? Preferirebbe che tutti noi fossimo mere componenti di un ecosistema? Considera vuota arroganza la pretesa di modificare a nostri fini l’ambiente in cui viviamo? Liberissimo di pensarla in questo modo. Solo, non se la prenda col capitalismo, con la scienza o con la società dei consumi. Se la prenda con la natura, metta sul banco degli imputati una selezione naturale durata milioni di anni.

Le concezioni contro cui si è polemizzato in questo scritto hanno almeno tre aspetti molto negativi e pericolosi.
In primo luogo è sottesa ad esse una visione profondamente totalitaria della vita e dell’uomo. In nome di un preteso ritorno all’armonia con la natura si vorrebbero imporre agli esseri umani determinati stili di vita. Il sacrosanto diritto di ognuno a scegliere come condurre la propria esistenza viene oggi sempre più messo in discussione. Non si tratta dei limiti che ogni convivenza civile pone alla libertà di ognuno, si tratta del tentativo di limitare in maniera drastica la nostra libertà per imporre a tutti un modo di vivere indicato surrettiziamente come l’unico compatibile con la sopravvivenza del pianeta. Guardando i telegiornali a volte si ha la sensazione di ascoltare le raccomandazione della figlia di Homer Simpson: “Se nessuno usasse l’auto”..”se nessuno prendesse l’aereo”.. “se ci lavassimo di meno”.. “se non usassimo lo sciacquone nel bagno” .. “se non dimenticassimo accese le luci di casa”.. “se non mangiassimo carne”. Molti guru dell’ecologismo radicale, che dal canto loro consumano quantità enormi di energia, viaggiano in aerei privati, hanno ville con megapiscine riscaldate ecc. (ogni accenno ad Al Gore è voluto), molti di questi guru dicevo, considerano ottimale un determinato rapporto fra uomo e natura e vorrebbero che tutti si comportassero in un certo modo affinché questo rapporto potesse affermarsi. Il loro astratto modello di armonia ecologica conta per questi signori molto di più della libertà per ognuno di noi.
In secondo luogo certe concezioni ignorano del tutto, malgrado le belle parole, il dramma della fame e del sottosviluppo. Certo, ci si sciacqua molto la bocca, oggi, con formule magiche tipo “sviluppo sostenibile”, ma cosa significano in concreto queste formule? Davvero si può pensare di dare da mangiare a centinaia di milioni di affamati con l’agricoltura biologica? A parte il fatto che fior di scienziati (ad esempio Veronesi) hanno denunciato i rischi per la salute del biologico, qualcuno ha mai notato quanto costano frutta e verdura biologiche? Ed ancora, lo sviluppo dell’Africa, naturalmente sostenibile, prevede la costruzione di navi, auto, aerei, treni? Contempla le centrali elettriche, la costruzione di case e strade? Insomma sarà uno sviluppo che consuma risorse e modifica l’ambiente o, in nome del rispetto della diversità culturale e dell’equilibrio fra uomo e natura, gli africani saranno condannati a vivere ancora per chissà quanto delle nostre elemosine?
Infine, tutte queste concezioni hanno una visione ridicola della natura. La natura è bella e terribile, affascinante e spietata. Ormai invece questa enorme forza primordiale è stata banalizzata, ridicolizzata, trasformata in un cartone animato, con gli animali ridotti a ridicoli pupazzi di peluche. Da teatro di una spietata, e per molti versi affascinante, lotta per l’esistenza la natura è diventata un noioso film di amore e di armonia, uno zuccheroso fotoromanzo o un fumetto per bambini poco intelligenti.
La natura va amata e rispettata per quello che è, banalizzarla, umanizzarla, farle perdere la dimensione tragica e spietata significa non comprenderla, non conoscerla, non amarla.
L'estremismo ecologico vorrebbe "conciliare uomo e natura". In realtà non giova nè all'uno nè all'altra. E' solo pericolosamente nichilista. Come tutti gli estremismi.

Nessun commento:

Posta un commento