
Arthur Schopenhauer non può, da un certo punto di vista, essere considerato un nemico della modernità, non contrappone un cosmo ordinato ed antropocentrico all’universo senza limiti della rivoluzione scientifica, né sogna, contro l’individualismo atomistico della società liberale borghese, il ripristino di forme organiche di organizzazione sociale. A livello politico il filosofo di Danzica fu un conservatore ostile non solo ad ogni rivoluzionarismo ma anche a qualsiasi proposito di ampie riforme dell’ordine sociale vigente. Convinto sostenitore della proprietà privata restò sempre assai distante dal nascente pensiero socialista. Un moderato sostenitore del moderno, conservatore e forse addirittura un po’ reazionario? Così possiamo definire Arthur Schopenhauer? No, assolutamente. Il pensiero del grande filosofo si contrappone in realtà in maniera radicale alla modernità. Contro l’appassionata difesa che la modernità compie del mondo terreno, dell’intelletto analitico, delle scienze empiriche, in una parola, del finito, la metafisica di Schopenhauer cerca di dimostrare, se di “dimostrazione” si tratta, che tutto questo mondo, oggetto degli studi, delle speculazioni e dei dibattiti di tanti filosofi e scienziati altro non è che un nulla. Con Schopenhauer il nulla diventa l’unica speranza di poter sconfiggere il dolore di cui il mondo è intimamente intriso, qualcosa di molto lontano, è evidente, non solo dall’ingenuo ottimismo di tanti illuministi ma anche dalle mistiche aspirazioni all’assoluto di molti romantici.
Schopenhauer si rifà
esplicitamente a Kant, che spesso definisce “un gigante” e questo
solo fatto basta ad impedirci di assimilare semplicisticamente il suo
pensiero ad una qualche forma di irrazionalismo. Schopenhauer però
valorizza al massimo proprio quell’aspetto del pensiero di Kant che
lascia più perplessi: la contrapposizione fra fenomeni e cosa in sé.
Per Schopenhauer questo è il nocciolo del criticismo kantiano, la
sua scoperta più feconda: “Il merito maggiore di Kant è la
distinzione del fenomeno dalla cosa in sé” (1). Ed Il filosofo di
Danzica interpreta questa scoperta fondamentale di Kant (che per
molti rappresenta invece uno dei punti deboli del suo sistema) in
maniera tale da trasformarla in qualcosa di abbastanza estraneo al
pensiero del filosofo prussiano. Per Schopenhauer la distinzione
kantiana fra fenomeni e noumeni riduce sostanzialmente ad illusione
il mondo fenomenico, fa di esso qualcosa di privo di autentico
essere. Riducendo a fenomeno il mondo empirico Kant, a parere di
Schopenhauer, ha esposto in maniera completamente nuova “la stessa
verità che già Platone ripete instancabilmente, esprimendola nel
suo linguaggio per lo più così: questo mondo che appare ai sensi
non ha vero essere ma solo un incessante divenire, esso è e anche
non è, e la percezione di esso non è tanto una conoscenza quanto
un’illusione” (2). Distinguendo fenomeno e noumeno Kant
riprenderebbe addirittura le antiche dottrine della filosofia indiana
secondo cui “il mondo visibile in cui siamo” sarebbe “un
incantesimo evocato, una mutevole parvenza, in sé priva di
consistenza, paragonabile all’illusione ottica o al sogno (...)
Kant non solo espresse la stessa dottrina in una maniera
completamente nuova ed originale ma ne fece anche (…) una verità
dimostrata e incontestabile” (3) Ora, quali che siano le
incongruenze della separazione kantiana fra fenomeni e noumeni, è
certo che non era affatto intenzione di Kant ridurre ad illusione il
mondo fenomenico. Questo appare invece realissimo in Kant, tanto
reale da essere l’unico mondo davvero conoscibile sì che per il
filosofo prussiano la conoscenza teoretica si ferma al mondo
fenomenico e l’umana ragione cade in insuperabili aporie non appena
si spinga al di la dei suoi limiti. Per Kant fenomeno non è insomma
affatto sinonimo di illusione ed anche se esiste molto di discutibile
nella contrapposizione kantiana fra fenomeni e cosa in sé
l’interpretazione che di essa dà Schopenhauer è quantomeno
forzata.
L’interpretazione
di Schopenhauer del fenomenismo kantiano è fortemente marcata di
soggettivismo. Il nostro filosofo esprime senza mezzi termini questa
concezione proprio all’inizio del “Mondo come volontà e
rappresentazione”: “Il mondo è la mia rappresentazione:
questa è una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e
conoscente sebbene l’uomo soltanto possa tradurla nella coscienza
riflessa, astratta (…) egli [l’uomo] non conosce né il sole né
la terra ma sempre e solo un occhio che vede il sole e una mano che
sente una terra; il mondo che lo circonda esiste solo come
rappresentazione, cioè sempre solo in rapporto ad un altro, al
portatore della rappresentazione che è egli stesso” (4) ed ancora:
“tutto quello che in qualche modo appartiene o può appartenere al
mondo è inevitabilmente affetto da questo suo essere condizionato
dal soggetto ed esiste solo per il soggetto. (…) questa verità non
è nuova (..) Berkeley fu il primo che la enunciò decisamente: egli
si è in tal modo conquistato un merito immortale verso la filosofia”
(5). Il mondo che ci circonda non cessa in questo modo per
Schopenhauer di essere oggettivo, ma è oggettivo solo in relazione
al soggetto in cui si rappresenta; scomparso il soggetto anche il
mondo scompare; è illuminante a questo proposito il riferimento a
Berkeley che a suo tempo aveva fatto coincidere l’essere col
percepire. Esattamente come per Kant anche per Schopenhauer il mondo
fenomenico è “costruito” dal soggetto. Il mondo è esteso nello
spazio ed i suoi eventi si dipanano nel tempo ma spazio e tempo non
sono nel mondo, sono nel soggetto che ordina il mondo, ed ancora, gli
eventi del mondo si succedono secondo rapporti di causa – effetto
(Schopenhauer riduce alla sola causalità le categorie kantiane) ma,
di nuovo, il principio di causa, da lui chiamato principio di
ragione, è solo nel soggetto. Grazie a spazio, tempo e causalità il
mondo non è un caos ma qualcosa di ordinato ed intellegibile, grazie
ad essi sono possibili le scienze e le teorie scientifiche acquistano
il loro valore di verità. Ma questo mondo ordinato ed intellegibile
non è il mondo come esso realmente è, è solo il mondo come nostra
rappresentazione, l’oggetto in rapporto al soggetto, l’oggetto
quale rappresentazione nel soggetto.
Il concetto di
“rappresentazione” però, specie nella versione che ne dà
Schopenhauer, è profondamente contraddittorio. L’uomo non conosce
il sole né la terra afferma Schopenhauer ma sempre solo un occhio
che vede il sole ed una mano che sente la terra, ma, non sono anche
l’occhio e la mano delle rappresentazioni? Spazio tempo e causalità
non sono nel mondo, sono nel soggetto che sente ed ordina il mondo,
afferma Schopenhauer, ma questo soggetto senziente ed ordinante non è
anche lui nel tempo e nello spazio? Non sono anche le sue azioni (o
moltissime delle sua azioni) causalmente determinate? Il soggetto
ordina categorialmente il mondo, afferma Schopenhauer sulle orme di
Kant, ma per fare questo non deve egli già essere categorialmente
ordinato? Se il soggetto ordina il mondo chi ordina il soggetto? Il
fenomenismo di Schopenhauer, come quello di Kant, non può uscire da
queste contraddizioni senza negare sé stesso. Il filosofo di Danzica
del resto se ne rende perfettamente conto ed infatti afferma che il
vero soggetto conosce tutto senza poter essere oggetto di conoscenza
alcuna e di nuovo si nota qui la vicinanza fra Schopenhauer e Kant,
ma, chi è questo “vero” soggetto? Il soggetto noumenico? Il
soggetto in sé? Ma questi altro non è che una x sconosciuta,
un ente che conosce sé stesso in maniera del tutto diversa da come
realmente egli è e che conosce il mondo in maniera del tutto
diversa da come il mondo è realmente. Definire in questo modo il
soggetto noumenico significa di fatto escluderlo dal mondo, ridurlo
ad un nulla insignificante. Se si riflette sul soggetto noumenico
questi scompare e resta il soggetto fenomenico, l’essere umano che
vive qui ed ora nel mondo e che appunto per questo non può essere
ridotto a rappresentazione.
Né le cose si
fermano qui. Il principio di ragione non solo ordina il mondo, ma
conferisce valore di verità alle proposizioni delle scienze
empiriche. Il mondo prende la forma che gli dà il nostro intelletto
e questo fa si che le conclusioni cui giungono le scienze siano
valide, nell’ambito del mondo fenomenico e solo in quello,
ovviamente. Sorge però a questo punto un problema di cui
Schopenhauer si rende perfettamente conto. Le scienze della natura
affermano che il mondo, non il mondo noumenico ma il nostro volgare
mondo empirico, esisteva quando non c’era alcun essere senziente né
tanto meno pensante, esisteva milioni e milioni di anni prima che
comparissero le prime forma di vita. Il principio di ragione
garantisce il valore di verità delle teorie scientifiche ma queste
negano che il mondo possa esistere solo in rapporto al soggetto in
cui opera il principio di ragione. Il tempo è nel soggetto che
ordina temporalmente gli eventi ma in questo ordinare il soggetto
scopre che sono accaduti eventi ben prima che esistesse un qualsiasi
soggetto. E’ lo stesso Schopenhauer ad esporre, con grande onestà
intellettuale, i termini del dilemma: “Da una parte l’esistenza
di tutto il mondo dipende necessariamente dal primo essere conoscente
(..) dall’altra vediamo che questo primo animale conoscente dipende
altrettanto necessariamente e in modo assoluto da una lunga catena a
lui precedente di cause ed effetti in cui esso medesimo rientra come
un piccolo anello. Queste due vedute contraddittorie a ciascuna delle
quali in realtà noi siamo condotti con uguale necessità potrebbero
veramente essere dette un’antinomia della nostra facoltà
conoscitiva” (6) Questa antinomia, e con questa tutte quelle cui si
è fatto accenno in precedenza, tuttavia può essere superata a
parere di Schopenhauer, può essere superata se si approfondisce
l’analisi e si passa dallo studio del mondo come rappresentazione
allo studio del mondo in sé, del fondamento intellegibile e
soprasensibile del mondo empirico. Perché, a differenza di Kant,
Schopenhauer ritiene che la cosa in sé sia conoscibile, che si possa
stabilire cosa realmente è l’essenza del mondo.
La cosa in sé altro non
è per Schopenhauer che la volontà. Se il nostro corpo altro
non fosse, afferma Schopenhauer, che un oggetto fra gli altri
oggetti, una rappresentazione accanto alle altre allora ogni
passaggio dal mondo fenomenico al mondo noumenico ci sarebbe
inesorabilmente interdetto. Ma il nostro corpo non è solo
rappresentazione fra altre rappresentazioni, noi sentiamo nel nostro
corpo qualcosa che non è riducibile a rappresentazione alcuna,
sentiamo “scorrere” in esso la volontà. Dentro di noi sentiamo
un aspirare, un volere, un tendere a qualcosa che condiziona
imperiosamente tutta la nostra vita, anzi costituisce la base stessa
del nostro vivere, e costituisce anche la porta strettissima che ci
porta a conoscere l’essenza profonda del nostro essere e con questa
dell’essere del mondo: la volontà: “Se dunque il mondo corporeo
dev’essere qualcosa di più di una mera rappresentazione, dobbiamo
dire che esso, al di fuori della rappresentazione, cioè in se quanto
alla sua intima essenza, è ciò che noi troviamo immediatamente in
noi stessi come volontà” (7). La volontà essenza ultima del mondo
è però per Schopenhauer qualcosa di totalmente diverso dalla
volontà che conosciamo in quanto fenomeni. La volontà che ci è
data immediatamente nella nostra esperienza è qualcosa che si
manifesta temporalmente, che è indirizzata verso enti del mondo
sensibile, che è mossa da motivi. Voglio quel certo oggetto, sposare
quella donna, ottenere un risultato, voglio far carriera, vincere una
gara sportiva, scrivere un libro, voglio, posso volere, tante cose,
questa è la volontà nel mondo come rappresentazione. Ma questa
volontà fenomenica si basa su un altro tipo di volontà, la volontà
noumenica. Questa è assolutamente semplice, aspaziale ed atemporale,
priva di ogni molteplicità, non è un tendere, non è mossa da
motivo alcuno. “La volontà come cosa in sé si trova (..) fuori
dal dominio del principio di ragione in tutte le sue forme ed è per
conseguenza assolutamente priva di fondamento, benché ognuno dei
suoi fenomeni sia in tutto e per tutto sottomesso al principio di
ragione; essa è inoltre libera da qualsiasi molteplicità,
benché i suoi fenomeni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli;
essa stessa è una: non a ogni modo come uno è un oggetto, la cui
unità viene riconosciuta solo in contrapposto ad una possibile
molteplicità; neanche come uno è un concetto, che è sorto dalla
molteplicità solo per astrazione: bensì è una come ciò che si
trova fuori del tempo e dello spazio, del principium
individuationis, ossia della possibilità della molteplicità”
(8). Per Platone il tempo è l’immagine mobile dell’eternità, la
volontà di Schopenhauer è qualcosa di simile alla eternità
platonica. L’eternità è eterno presente che si rende accessibile
alla sensibilità come tempo: attimo presente che continuamente si
perde nel passato e tende al futuro. La volontà di Schopenhauer è
una x fuori dal tempo, dallo spazio e dalla causalità che
diviene un qui che si differenzia da un là, un ora che
collega senza sosta il passato al futuro, un ente che si differenzia
dagli altri enti, un volere che è mosso da cause o da motivi e che
tende verso qualcosa.
Introducendo la
volontà noumenica però non solo non si risolvono le aporie del
concetto di “rappresentazione” cui si è fatto cenno in
precedenza ma si va incontro ad altre difficoltà. Con quale
legittimità possiamo passare dalla volontà fenomenica a quella
noumenica? Una volontà che è la volontà di un certo ente, che si
manifesta nel tempo e nello spazio, che è spinta da motivi, aspira a
qualcosa si determinato può rimandarmi ad una volontà assolutamente
semplice, fuori da tempo, spazio e causalità? Ed ancora, come può
questa volontà noumenica “cristallizzarsi” nel mondo sensibile,
manifestarsi come rappresentazione? Rappresentazione in chi,
visto che tutti gli enti fenomenici, uomo compreso, sono
rappresentazioni? E se la volontà è fuori dal tempo allora l’atto
del suo manifestarsi è presente in essa ab eterno, è anch’esso
fuori dal tempo nella volontà; ma se qualcosa è presente
nella volontà questa non perde inesorabilmente la propria assoluta
semplicità? O la volontà può essere ridotta all’atto del suo
manifestarsi fenomenico? Ma questo non eguaglia la volontà noumenica
alla sua manifestazione? Si potrebbe continuare nel cercare debolezze
e contraddizioni in questa parte del capolavoro di Schopenhauer, pure
assolutamente fondamentale nella economia di tutta l’opera. Sarebbe
però una esercitazione forse inutile e di certo ingenerosa.
Affrontando il problema dei rapporti fra volontà noumenica e volontà
fenomenica Schopenhauer sta affrontando il realtà uno dei temi più
spinosi della metafisica occidentale. E’ lo stesso problema che si
pone Platone quando cerca di passare dal mondo delle idee a quello
della molteplicità e del divenire, o Plotino quando cerca di dedurre
il molteplice dall’Uno, o Agostino quando cerca di spiegare in
termini comprensibili la creazione del mondo e col mondo dello spazio
e del tempo, da parte di Dio. Affrontare simili problemi conduce
inevitabilmente a difficoltà insolubili quando non ad autentiche
aporie e Schopenhauer non fa eccezione. Inoltre ciò che è davvero
attuale nella sua opera non è il tentativo di soluzione dei massimi
problemi metafisici quanto le indicazioni che da essa vengono intorno
ai problemi dell’uomo. E’ a queste comunque che va prestata, a
parere di chi scrive, la maggiore attenzione.
Il mondo come
rappresentazione è l’oggettivazione della volontà, il suo
manifestarsi nel tempo, nello spazio e nella causalità.. Al livello
più elementare la volontà si oggettiva nella natura inorganica,
poi prende la forma di vita. Il mondo organico, vegetale ed animale,
è volontà di vivere, volontà cieca, fine a sé stessa, priva di
ogni idealità, di alcun fine che non sia la indefinita conservazione
di sé stessa. Tutto in natura è lotta afferma Schopenhauer: “Nella
natura vediamo dappertutto contesa, lotta e alternarsi della vittoria
(…) Ogni grado di oggettivazione della volontà contende all’altro
la materia, lo spazio, il tempo (…) Questa lotta universale diventa
visibile nel modo più chiaro nel mondo animale che ha per suo stesso
nutrimento il mondo vegetale e nel quale stesso ogni animale diventa
a sua volta preda e nutrimento di un altro (…) potendo ogni animale
conservare la propria esistenza solo con la costante soppressione di
una estranea; sicché sempre la volontà di vivere si nutre di sé
stessa ed è in forme diverse il suo proprio nutrimento” (9).
Le pagine che
Schopenhauer dedica alla natura sono decisamente belle oltre che
profonde e rivelano tra l’altro una conoscenza abbastanza
approfondita, anche se velata da vitalismo romantico, della scienza
del suo tempo. Ciò che affascina nella visione che il grande
filosofo ha della natura è il suo pessimismo disincantato,
l’accettazione scevra da illusioni di un mondo che in fondo gli fa
orrore. Schopenhauer era quello che noi oggi potremmo definire,
magari con qualche forzatura, un animalista, era tra l’altro un
gran cinofilo ed amava i cani forse più degli esseri umani, verso
cui non provava eccessive simpatie. Tuttavia nulla di questa simpatia
per gli animali e più in generale per la natura traspare dalle
pagine che le dedica. Da queste emerge invece la visione di una
natura del tutto estranea ed indifferente a ciò che noi chiamiamo
bene o male, giusto o ingiusto; un mondo agitato da una lotta sorda e
generalizzata, una volontà cieca di continuare ad esistere e, a
livello più alto, di continuare a vivere, volontà che agisce
sempre, ovunque, perennemente fine a sé stessa.
E, ovviamente,
Schopenhauer non esclude il mondo umano dall’incessante e cieco
tendere della volontà. L’uomo costituisce l’oggettivazione più
complessa della volontà di vivere, nell’uomo l’individualità
prevale sul puro appartenere ad una specie, il singolo è più
importante del tutto. Ma anche l’uomo è nella sua essenza volontà.
La vita umana è un costante aspirare a qualcosa, un volere
insaziabile che si pone sempre nuovi obiettivi e non è mai pago del
loro raggiungimento. Desideriamo qualcosa, lottiamo per averla, una
volta che riusciamo ad ottenerla ci sembra di essere felici ma si
tratta di una illusione che svanisce rapidamente. Ottenuta una cosa
ne vogliamo subito un’altra e così via, insensatamente,
all’infinito. La nostra vita è un tendere costantemente
inappagato, un volere che non trova mai pace perché il suo oggetto
si sposta in avanti nel momento stesso in cui ci muoviamo per
raggiungerlo. E quando non abbiamo nulla da desiderare, alcun oggetto
da volere, alcun fine da realizzare ecco che subentra la noia.
L’aspirare a qualcosa ci rende infelici perché si tratta di un
aspirare sempre inappagato, il non poter aspirare ci rende se
possibile ancora più infelici perché ci lascia vittime della noia.
Il dolore è quindi la dimensione essenziale della vita umana, il
vero “positivo” in essa. La gioia non esiste in quanto tale, non
è qualcosa di positivo, che abbia realtà in sé; la gioia è solo
assenza di dolore. E’ importante sottolineare che questa non è,
per Schopenhauer una situazione accidentale, la conseguenza di un
certo tipo di organizzazione sociale. No, per Schopenhauer questa è
la condizione umana, il destino dell’uomo, destino a
cui egli può sfuggire, come vedremo, solo con una scelta ben più
radicale che non la modifica di questa o quella istituzione sociale.
L’uomo non è libero, tutto in lui è causalmente determinato e
dietro la determinazione causale del pensare e dell’agire degli
uomini opera, instancabile, la volontà: la catena causale che ci
lega è la manifestazione visibile dell’agire cieco della volontà
di cui tutti siamo manifestazioni fenomeniche. Viviamo come fantasmi,
viviamo nell’illusione di essere liberi, convinto ognuno di noi di
essere il centro del mondo mentre siamo soltanto piccole marionette
prive di importanza, mosse dal cieco tendere della volontà: “E’
davvero incredibile vedere in che modo insignificante e privo di
senso, guardata da fuori, e in che modo opaco e insensibile, sentita
da dentro, scorra la vita della stragrande maggioranza degli uomini.
E’ un fiacco struggersi e torturarsi, un barcollare come in sogno
attraverso le quattro età della vita fino alla morte, accompagnati
da una serie di pensieri banali. Sono come orologi che vengono
caricati e camminano senza sapere perché: e ogni volta che viene
generato e nasce un uomo l’orologio della vita umana viene caricato
di nuovo per ripetere ancora una volta frase per frase, battuta per
battuta, con variazioni insignificanti, la sua musica, suonata e
risuonata già innumerevoli volte. Ogni individuo, ogni faccia ed
ogni vita umana sono soltanto un breve sogno in più nell’infinito
spirito della natura, dell’eterna volontà di vivere, sono soltanto
una fugace formazione che esso disegna per gioco sulla sua pagina
infinita, spazio e tempo, e che lascia sussistere per un tempo,
rispetto a questi ultimi, infinitamente piccolo, poi cancellandola
per far posto ad altre” (10) Per quanto discutibile e criticabile
sia la concezione dell’uomo che emerge da queste parole
disincantate è difficile sottrarsi al loro fascino ammaliatore.
Ma questo destino anonimo
e miserabile riguarda la stragrande maggioranza, non tutti
gli esseri umani. Nel suo più alto ed elaborato prodotto, l’uomo,
la volontà si fa cosciente, vede sé stessa come un insensato e
doloroso tendere e può rivoltarsi contro sé stessa, auto negarsi.
Questa parte del “Mondo come volontà e rappresentazione”
è giustamente la più criticata per le sue evidenti contraddizioni.
Perché mai la volontà, giunta all’apice del suo manifestarsi
fenomenico debba auto negarsi resta un mistero che neppure la potenza
del pensiero di Schopenhauer riesce a penetrare, così come resta un
mistero come possa l’uomo, del tutto sottoposto per Schopenhauer al
più ferreo determinismo, compiere la scelta di negare ciò che
costituisce la sua essenza più profonda: la volontà di vivere. Ma
non precorriamo i tempi. Prodotto più alto ed elaborato della
volontà l’uomo sente il dolore della sua condizione e può cercare
di affrancarsi, o meglio, alcuni, pochissimi individui possono
cercare di affrancarsi da quel correre insensato e doloroso che è la
vita. Un primo momento di affrancamento lo si ha nell’arte. Nella
creazione e nella contemplazione estetica l’uomo assume un
atteggiamento del tutto privo di volontà, si rifugia in un fare ed
in un contemplare privi di volere e sfugge per un attimo allo
scorrere impetuoso della volontà. Si tratta però di una breve
parentesi da cui ben presto lo strappano le ferree esigenze della
vita. La volontà lo avvolge di nuovo nelle sue spire e lo rende di
nuovo schiavo del suo tendere insensato. Ci si può liberare dalla
volontà solo negando radicalmente la volontà di vivere.
Ognuno di noi è un
certo ente distinto dagli altri: è un io contrapposto ad un
tu e ad un lui. Ognuno di noi è qualcosa di
determinato, sottoposto al principio di individuazione, quel
principio cioè per cui ogni ente è quello che è, uguale a sé
stesso e diverso da tutti gli altri. Rifiutare la volontà di vivere
significa innanzitutto comprendere che questa differenza fra gli
individui è qualcosa che vale solo nel mondo come rappresentazione
ma che è del tutto priva di senso se riferita al mondo come cosa in
sé, al mondo come volontà. Io, tu, lui siamo solo manifestazioni
esteriori di quell’essenza unitaria che è la volontà. Se tu
commetti ingiustizia nei miei confronti torto e ragione, tu che
commetti ed io che subisco ingiustizia esistiamo solo nel mondo come
fenomeno; nel mondo come volontà non esiste ingiustizia alcuna
perché io e te siamo la stessa cosa in quel mondo. Nel mondo come
rappresentazione la volontà divora sé stessa, è in lotta con se
stessa ma tutto questo non altera minimamente la volontà in sé, il
fondamento noumenico di tutte le lotte, le ingiustizie, i mali di
questo nostro povero mondo. Chi comprende questo può assumere su di
se tutti i mali del mondo, può farlo perché sa che questi mali, in
quanto originati dalla volontà nel suo manifestarsi fenomenico, sono
anche i suoi mali. I dolori e le angosce degli altri sono anche i
miei dolori e le mie angosce perché io come gli altri siamo solo un
fenomeno della volontà. E, assumendo su di me i mali del mondo,
inizio già in un certo senso a negare il mondo, accettare come miei
i dolori degli altri significa infatti negare il principio stesso su
cui si regge il nostro mondo: il principio di individuazione.
Accettare il dolore apre la via che porta alla negazione del mondo e
col mondo del suo fondamento, origine sua e di tutti i suoi dolori:
la volontà. La negazione della volontà di vivere non è un
tentativo di opporsi al dolore, se così fosse sarebbe comunque una
manifestazione della volontà, è la scelta di negare radicalmente il
mondo che è esso stesso, in quanto tale dolore. Il fine non è una
vita senza dolore, magari senza dolore per me: è la negazione della
vita, una negazione che nel mondo fenomenico potrà riguardare solo
me, potrà essere solo mia, ma che è rivolta alla radice stessa del
mondo, è negazione della volontà in quanto tale e quindi del suo
manifestarsi. Nella negazione della volontà di vivere il fenomeno
della volontà entra in contrapposizione con sé stesso e quindi con
la volontà. Quando un uomo comprende pienamente cos’è il mondo e
cosa lo regge afferma Schopenhauer, “nasce in lui un orrore
dell’essenza, di cui il suo stesso fenomeno è espressione, della
volontà di vivere, nocciolo ed essenza di questo mondo riconosciuto
come pieno di strazio. Rinnega dunque quest’essenza manifestantesi
in lui e già espressa dal suo corpo, e il suo agire smentisce ora il
suo fenomeno, entra in aperto contrasto con esso. Essenzialmente
null’altro che fenomeno della volontà, egli cessa di volere
alcunché, si guarda dal congiungere la sua volontà ad alcunché,
cerca di rafforzare in sé la massima indifferenza verso tutte le
cose. (…) La natura, sempre vera e ingenua dice che se questa
massima diventasse universale, il genere umano si estinguerebbe (…)
credo di poter assumere che col fenomeno della volontà più alto
anche il più debole riflesso di esso, il mondo animale, verrebbe
meno, come con la piena luce anche le penombre svaniscono. Con la
totale eliminazione della coscienza svanirebbe allora anche da sé
nel nulla il resto del mondo, dato che senza soggetto non si ha
oggetto.” (11)
C’è in queste
posizioni di Schopenhauer un richiamo ad alcune concezioni proprie
del cristianesimo: il farsi carico dei dolori del mondo, l’espiazione
per rendersi degni della redenzione, l’anelito ad andare oltre il
mondo terreno, ma manca del tutto quello che è davvero
caratteristico della dottrina cristiana: il fine positivo di tutto
questo soffrire ed espiare, la vita eterna come salvezza e riscatto,
l’unione mistica con Dio nel regno dei cieli. No, in Schopenhauer
ci sono la volontà di vivere e il dolore e il rifiuto della volontà
di vivere ma questo itinerario non ha alcun sbocco positivo. L’eterna
felicità è inesorabilmente esclusa dal sistema schopenhaueriano,
questo non culmina con la salvezza ed il riscatto ma col nulla.
La negazione della volontà non conduce ad alcun positivo, quanto
meno, ad alcun positivo che possa essere comunicato, espresso in un
linguaggio di qualsiasi tipo. “La redenzione da un mondo la cui
intera essenza ci si è rivelata come dolore, tutto ciò ci appare
poi come un passaggio nel vuoto nulla” (12). Negare la
volontà significa annichilire il mondo, suo specchio; in quale
realtà ci portano questa negazione e questo annichilimento? Non lo
si può dire, non lo si può neppure esprimere. “Non più volontà”
afferma Schopenhauer “non più rappresentazione, non più mondo”
(13). Non a caso Schopenhauer termina il suo capolavoro con queste
parole: “ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà
è invero, per tutti coloro che sono ancora pieni di volontà, il
nulla. Ma anche, viceversa, per coloro la cui volontà si è
rovesciata e negata, questo nostro mondo tanto reale con tutti i suoi
soli e le sue vie latee, è nulla” (14).
Nella filosofia di
Schopenhauer cercano di conciliarsi due esigenze contrapposte. Da un
lato il filosofo di Danzica, sulle orme di Kant, ricolloca in qualche
modo l’uomo al centro dell’universo, quel centro da cui la
rivoluzione scientifica lo aveva inesorabilmente scalzato. L’universo
è in Schopenhauer una rappresentazione nell’uomo, meglio è una
rappresentazione in tutti gli esseri senzienti che solo nell’uomo
raggiunge il grado più alto di articolazione ed universalità. Se
non è più il centro del creato l’uomo resta tuttavia in
Schopenhauer come in Kant il legislatore della natura, colui che col
suo intelletto conferisce ordine e regolarità ad un mondo altrimenti
caotico ed inintellegibile. Schopenhauer però non si accontenta
delle conclusioni di Kant, vuole andare oltre il mondo fenomenico,
raggiungere la misteriosa “cosa in sé” base e fondamento del
mondo come rappresentazione e ritiene di aver identificato nella
volontà questo fondamento. Ed è qui, nello studio del mondo come
volontà che emerge in Schopenhauer quel pessimismo profondo, quel
senso di smarrimento che gli esiti della rivoluzione scientifica
avevano indotto nell’uomo. L’aver scoperto il senso profondo del
mondo, il suo fondamento ultimo ci rende se possibile ancora più
deboli ed indifesi di prima. Il mondo è si una nostra
rappresentazione ma questa rappresentazione, e noi stessi in quanto
rappresentazioni, altro non siamo che oggettivazioni di una volontà
fredda ed estranea a tutto ciò che per noi è importante ed ha
valore. Dalla rivoluzione scientifica emerge il quadro di un uomo
solo nel cosmo, piccolo ente schiacciato fra l’infinitamente grande
e l’infinitamente piccolo; però si tratta di un ente che pensa,
conosce, valuta, è libero. In Schopenhauer anche questo scompare:
l’uomo diventa una sorta di burattino guidato da una forza fredda e
irresistibile, un fantasma che fa una breve ed insignificante
apparizione nel mondo solo per essere rimpiazzato da altri fantasmi.
Pur assurgendo al ruolo di legislatore della natura l’uomo in
Schopenhauer non si limita ad essere solo e sperduto nel mondo, è
disperato.
E’ facile tutto
sommato confutare molte delle cose che Schopenhauer afferma sulla
riduzione drastica della vita a dolore. Chi ha detto che il tendere a
qualcosa sia in quanto tale doloroso? E che ottenere qualcosa sia
sempre e solo il pretesto per iniziare a desiderare dolorosamente
altre cose? Ed è davvero giusto identificare l’appagamento con la
noia? Non esistono milioni di esseri umani che sanno godere di ciò
che hanno ottenuto? Ed altri esseri umani non provano piacere nel
cercare di raggiungere qualcosa? L’arte, e con l’arte la scienza,
la filosofia, lo studio in generale, lo stesso sport non sono in
fondo un tendere? Un porsi obiettivi sempre più alti e cercare di
raggiungerli? E se questo “cercare di raggiungerli” è spesso
tormentoso non dona a volte momenti di autentica gioia? Schopenhauer
ha il grosso merito di aver sottolineato con la massima forza che il
momento del dolore è essenziale nella vita, che l’obiettivo di una
vita senza dolore è semplicemente assurdo, assurdo perché il dolore
è ineliminabile in un essere finito ed accidentale quale l’uomo è.
Ma il grande filosofo fa di questa verità un assoluto, trasforma il
dolore da ineliminabile dimensione della vita in dimensione unica,
onnipresente, onnicomprensiva, assoluta. E non può essere seguito su
questo terreno. E’ possibile dire che il piacere è solo mancanza
di dolore, ma è anche possibile dire che è il dolore ad essere solo
mancanza di piacere (o di gioia, o di serenità). Gioia e dolore non
sono mere negazioni, hanno ognuno una loro grande o piccola realtà
positiva, per fortuna, o per sventura.
E questo carattere
unilaterale della filosofia di Schopenhauer raggiunge il culmine
quando il filosofo di Danzica vede nel rifiuto della volontà di
vivere non solo l’unica possibile libertà concessa all’uomo ma
anche la soluzione del problema della vita e del dolore. La presenza
inquietante del nulla, di quell’indicibile buco nero da cui siamo
letteralmente pressati rende comunque (anche) dolorosa la vita, ci
ricorda che nella vita è sempre presente il mistero, il non
spiegabile, l’insensato. Il nulla ci ricorda i nostri limiti e la
nostra insuperabile finitezza, ma proprio per questo non può
risolvere alcun problema, svelare alcun mistero, conferire alcun
senso. Il nulla è al di là dei problemi, del senso e del mistero, è
al di là della vita, riguarda la morte. E, come dice Wittgenstein,
“la morte non è un evento della vita, la morte non si vive”
(15), ci piaccia o meno la cosa, la vita è il nostro confine
insuperabile, l’area in cui ogni domanda ed ogni possibile risposta
sono possibili ed hanno un senso. Anche il semplice teorizzare il
rifiuto della volontà di vivere è un atto di tale volontà,
appartiene alla vita; nel momento stesso in cui il si concretizza,
il rifiuto cessa di essere tale. Il buco nero del nulla annulla
tutto, può essere consolatorio, forse, per certe persone, in certi
momenti lasciarsi andare verso quel buco nero, ma di certo un simile
lasciarsi andare non è la soluzione di niente.
Il mondo come
volontà e rappresentazione inizia definendo “rappresentazione”
il mondo in cui tutti noi viviamo e termina definendo un nulla questo
mondo. Si parte dal fenomeno, si raggiunge la cosa in sé, si segue
l’oggettivarsi della cosa in sé nel fenomeno, il suo manifestarsi
come volontà di vivere e si giunge infine alla scelta del nulla. La
nostra conoscenza sembra ampliarsi in questo itinerario ma, afferma
Ernest Cassirer, nel momento stesso in cui, seguendolo si innalza
alla vetta suprema del sapere l’individuo “si trova ormai oltre
tutte le forme immanenti dell’essere. Non l’intuizione del tutto
e l’agire del tutto è ciò in cui egli trova la sua meta; ma al di
là di questo egli viene spinto in una trascendenza metafisica che
dal punto di vista del sapere e della vita si può definire soltanto
più con predicati puramente negativi. Come ultimo, più profondo e
unico vero dato della conoscenza, ci si rivela alla fine non
l’essenza, ma il nulla; cogliamo l’universale supremo solo là
dove ogni essere determinato e particolare si spegne e si risolve nel
Nirvana” (16). L’ascesa di Schopenhauer verso la totalità, la
cosa in sé, il fondamento ultimo del mondo si risolve nel nulla.
Questo è l’esito finale e disperante di una grande filosofia.
Note
1) A. Schopenhauer: Il mondo come
volontà e rappresentazione. Appendice. RCS Bompiani 2009. pag. 565.
2) Ibidem pag. 566.
3) Ibidem pag. 567
4) A. Schopenhauer: Il mondo come
volontà e rappresentazione RCS Bompiani 2009 pag. 110
5) A. Schopenhauer. Op.
cit. pag. 111
6) Ibidem pag. 141. Sottolineatura di
S.
7) Ibidem pag. 225
8) Ibidem pag. 233. Sottolineature di
S.
9) Ibidem pag. 271.
10) Ibidem pag. 461
11) Ibidem pag. 426
12) Ibidem pag. 557. sottolineatura di
S.
13) Ibidem pag. 559
14) Ibidem pag. 460
15) L. Wittgenstein:
Tractatus logicus-philosophicus. Einaudi 1984. pag. 80
16) Ernest Cassirer: Storia della
filosofia moderna. Parte terza, tomo secondo: i sistemi post
kantiani. Einaudi 1978 pag. 557.
Interesante publicación.
RispondiEliminaGracias Nanny.
Grazie Max!
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