martedì 6 agosto 2013

IL NICHILISMO DI SCHOPENHAUER



Arthur Schopenhauer non può, da un certo punto di vista, essere considerato un nemico della modernità, non contrappone un cosmo ordinato ed antropocentrico all’universo senza limiti della rivoluzione scientifica, né sogna, contro l’individualismo atomistico della società liberale borghese, il ripristino di forme organiche di organizzazione sociale. A livello politico il filosofo di Danzica fu un conservatore ostile non solo ad ogni rivoluzionarismo ma anche a qualsiasi proposito di ampie riforme dell’ordine sociale vigente. Convinto sostenitore della proprietà privata restò sempre assai distante dal nascente pensiero socialista. Un moderato sostenitore del moderno, conservatore e forse addirittura un po’ reazionario? Così possiamo definire Arthur Schopenhauer? No, assolutamente. Il pensiero del grande filosofo si contrappone in realtà in maniera radicale alla modernità. Contro l’appassionata difesa che la modernità compie del mondo terreno, dell’intelletto analitico, delle scienze empiriche, in una parola, del finito, la metafisica di Schopenhauer cerca di dimostrare, se di “dimostrazione” si tratta, che tutto questo mondo, oggetto degli studi, delle speculazioni e dei dibattiti di tanti filosofi e scienziati altro non è che un nulla. Con Schopenhauer il nulla diventa l’unica speranza di poter sconfiggere il dolore di cui il mondo è intimamente intriso, qualcosa di molto lontano, è evidente, non solo dall’ingenuo ottimismo di tanti illuministi ma anche dalle mistiche aspirazioni all’assoluto di molti romantici.

Schopenhauer si rifà esplicitamente a Kant, che spesso definisce “un gigante” e questo solo fatto basta ad impedirci di assimilare semplicisticamente il suo pensiero ad una qualche forma di irrazionalismo. Schopenhauer però valorizza al massimo proprio quell’aspetto del pensiero di Kant che lascia più perplessi: la contrapposizione fra fenomeni e cosa in sé. Per Schopenhauer questo è il nocciolo del criticismo kantiano, la sua scoperta più feconda: “Il merito maggiore di Kant è la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé” (1). Ed Il filosofo di Danzica interpreta questa scoperta fondamentale di Kant (che per molti rappresenta invece uno dei punti deboli del suo sistema) in maniera tale da trasformarla in qualcosa di abbastanza estraneo al pensiero del filosofo prussiano. Per Schopenhauer la distinzione kantiana fra fenomeni e noumeni riduce sostanzialmente ad illusione il mondo fenomenico, fa di esso qualcosa di privo di autentico essere. Riducendo a fenomeno il mondo empirico Kant, a parere di Schopenhauer, ha esposto in maniera completamente nuova “la stessa verità che già Platone ripete instancabilmente, esprimendola nel suo linguaggio per lo più così: questo mondo che appare ai sensi non ha vero essere ma solo un incessante divenire, esso è e anche non è, e la percezione di esso non è tanto una conoscenza quanto un’illusione” (2). Distinguendo fenomeno e noumeno Kant riprenderebbe addirittura le antiche dottrine della filosofia indiana secondo cui “il mondo visibile in cui siamo” sarebbe “un incantesimo evocato, una mutevole parvenza, in sé priva di consistenza, paragonabile all’illusione ottica o al sogno (...) Kant non solo espresse la stessa dottrina in una maniera completamente nuova ed originale ma ne fece anche (…) una verità dimostrata e incontestabile” (3) Ora, quali che siano le incongruenze della separazione kantiana fra fenomeni e noumeni, è certo che non era affatto intenzione di Kant ridurre ad illusione il mondo fenomenico. Questo appare invece realissimo in Kant, tanto reale da essere l’unico mondo davvero conoscibile sì che per il filosofo prussiano la conoscenza teoretica si ferma al mondo fenomenico e l’umana ragione cade in insuperabili aporie non appena si spinga al di la dei suoi limiti. Per Kant fenomeno non è insomma affatto sinonimo di illusione ed anche se esiste molto di discutibile nella contrapposizione kantiana fra fenomeni e cosa in sé l’interpretazione che di essa dà Schopenhauer è quantomeno forzata.
L’interpretazione di Schopenhauer del fenomenismo kantiano è fortemente marcata di soggettivismo. Il nostro filosofo esprime senza mezzi termini questa concezione proprio all’inizio del “Mondo come volontà e rappresentazione”: “Il mondo è la mia rappresentazione: questa è una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e conoscente sebbene l’uomo soltanto possa tradurla nella coscienza riflessa, astratta (…) egli [l’uomo] non conosce né il sole né la terra ma sempre e solo un occhio che vede il sole e una mano che sente una terra; il mondo che lo circonda esiste solo come rappresentazione, cioè sempre solo in rapporto ad un altro, al portatore della rappresentazione che è egli stesso” (4) ed ancora: “tutto quello che in qualche modo appartiene o può appartenere al mondo è inevitabilmente affetto da questo suo essere condizionato dal soggetto ed esiste solo per il soggetto. (…) questa verità non è nuova (..) Berkeley fu il primo che la enunciò decisamente: egli si è in tal modo conquistato un merito immortale verso la filosofia” (5). Il mondo che ci circonda non cessa in questo modo per Schopenhauer di essere oggettivo, ma è oggettivo solo in relazione al soggetto in cui si rappresenta; scomparso il soggetto anche il mondo scompare; è illuminante a questo proposito il riferimento a Berkeley che a suo tempo aveva fatto coincidere l’essere col percepire. Esattamente come per Kant anche per Schopenhauer il mondo fenomenico è “costruito” dal soggetto. Il mondo è esteso nello spazio ed i suoi eventi si dipanano nel tempo ma spazio e tempo non sono nel mondo, sono nel soggetto che ordina il mondo, ed ancora, gli eventi del mondo si succedono secondo rapporti di causa – effetto (Schopenhauer riduce alla sola causalità le categorie kantiane) ma, di nuovo, il principio di causa, da lui chiamato principio di ragione, è solo nel soggetto. Grazie a spazio, tempo e causalità il mondo non è un caos ma qualcosa di ordinato ed intellegibile, grazie ad essi sono possibili le scienze e le teorie scientifiche acquistano il loro valore di verità. Ma questo mondo ordinato ed intellegibile non è il mondo come esso realmente è, è solo il mondo come nostra rappresentazione, l’oggetto in rapporto al soggetto, l’oggetto quale rappresentazione nel soggetto.

Il concetto di “rappresentazione” però, specie nella versione che ne dà Schopenhauer, è profondamente contraddittorio. L’uomo non conosce il sole né la terra afferma Schopenhauer ma sempre solo un occhio che vede il sole ed una mano che sente la terra, ma, non sono anche l’occhio e la mano delle rappresentazioni? Spazio tempo e causalità non sono nel mondo, sono nel soggetto che sente ed ordina il mondo, afferma Schopenhauer, ma questo soggetto senziente ed ordinante non è anche lui nel tempo e nello spazio? Non sono anche le sue azioni (o moltissime delle sua azioni) causalmente determinate? Il soggetto ordina categorialmente il mondo, afferma Schopenhauer sulle orme di Kant, ma per fare questo non deve egli già essere categorialmente ordinato? Se il soggetto ordina il mondo chi ordina il soggetto? Il fenomenismo di Schopenhauer, come quello di Kant, non può uscire da queste contraddizioni senza negare sé stesso. Il filosofo di Danzica del resto se ne rende perfettamente conto ed infatti afferma che il vero soggetto conosce tutto senza poter essere oggetto di conoscenza alcuna e di nuovo si nota qui la vicinanza fra Schopenhauer e Kant, ma, chi è questo “vero” soggetto? Il soggetto noumenico? Il soggetto in sé? Ma questi altro non è che una x sconosciuta, un ente che conosce sé stesso in maniera del tutto diversa da come realmente egli è e che conosce il mondo in maniera del tutto diversa da come il mondo è realmente. Definire in questo modo il soggetto noumenico significa di fatto escluderlo dal mondo, ridurlo ad un nulla insignificante. Se si riflette sul soggetto noumenico questi scompare e resta il soggetto fenomenico, l’essere umano che vive qui ed ora nel mondo e che appunto per questo non può essere ridotto a rappresentazione.
Né le cose si fermano qui. Il principio di ragione non solo ordina il mondo, ma conferisce valore di verità alle proposizioni delle scienze empiriche. Il mondo prende la forma che gli dà il nostro intelletto e questo fa si che le conclusioni cui giungono le scienze siano valide, nell’ambito del mondo fenomenico e solo in quello, ovviamente. Sorge però a questo punto un problema di cui Schopenhauer si rende perfettamente conto. Le scienze della natura affermano che il mondo, non il mondo noumenico ma il nostro volgare mondo empirico, esisteva quando non c’era alcun essere senziente né tanto meno pensante, esisteva milioni e milioni di anni prima che comparissero le prime forma di vita. Il principio di ragione garantisce il valore di verità delle teorie scientifiche ma queste negano che il mondo possa esistere solo in rapporto al soggetto in cui opera il principio di ragione. Il tempo è nel soggetto che ordina temporalmente gli eventi ma in questo ordinare il soggetto scopre che sono accaduti eventi ben prima che esistesse un qualsiasi soggetto. E’ lo stesso Schopenhauer ad esporre, con grande onestà intellettuale, i termini del dilemma: “Da una parte l’esistenza di tutto il mondo dipende necessariamente dal primo essere conoscente (..) dall’altra vediamo che questo primo animale conoscente dipende altrettanto necessariamente e in modo assoluto da una lunga catena a lui precedente di cause ed effetti in cui esso medesimo rientra come un piccolo anello. Queste due vedute contraddittorie a ciascuna delle quali in realtà noi siamo condotti con uguale necessità potrebbero veramente essere dette un’antinomia della nostra facoltà conoscitiva” (6) Questa antinomia, e con questa tutte quelle cui si è fatto accenno in precedenza, tuttavia può essere superata a parere di Schopenhauer, può essere superata se si approfondisce l’analisi e si passa dallo studio del mondo come rappresentazione allo studio del mondo in sé, del fondamento intellegibile e soprasensibile del mondo empirico. Perché, a differenza di Kant, Schopenhauer ritiene che la cosa in sé sia conoscibile, che si possa stabilire cosa realmente è l’essenza del mondo.

La cosa in sé altro non è per Schopenhauer che la volontà. Se il nostro corpo altro non fosse, afferma Schopenhauer, che un oggetto fra gli altri oggetti, una rappresentazione accanto alle altre allora ogni passaggio dal mondo fenomenico al mondo noumenico ci sarebbe inesorabilmente interdetto. Ma il nostro corpo non è solo rappresentazione fra altre rappresentazioni, noi sentiamo nel nostro corpo qualcosa che non è riducibile a rappresentazione alcuna, sentiamo “scorrere” in esso la volontà. Dentro di noi sentiamo un aspirare, un volere, un tendere a qualcosa che condiziona imperiosamente tutta la nostra vita, anzi costituisce la base stessa del nostro vivere, e costituisce anche la porta strettissima che ci porta a conoscere l’essenza profonda del nostro essere e con questa dell’essere del mondo: la volontà: “Se dunque il mondo corporeo dev’essere qualcosa di più di una mera rappresentazione, dobbiamo dire che esso, al di fuori della rappresentazione, cioè in se quanto alla sua intima essenza, è ciò che noi troviamo immediatamente in noi stessi come volontà” (7). La volontà essenza ultima del mondo è però per Schopenhauer qualcosa di totalmente diverso dalla volontà che conosciamo in quanto fenomeni. La volontà che ci è data immediatamente nella nostra esperienza è qualcosa che si manifesta temporalmente, che è indirizzata verso enti del mondo sensibile, che è mossa da motivi. Voglio quel certo oggetto, sposare quella donna, ottenere un risultato, voglio far carriera, vincere una gara sportiva, scrivere un libro, voglio, posso volere, tante cose, questa è la volontà nel mondo come rappresentazione. Ma questa volontà fenomenica si basa su un altro tipo di volontà, la volontà noumenica. Questa è assolutamente semplice, aspaziale ed atemporale, priva di ogni molteplicità, non è un tendere, non è mossa da motivo alcuno. “La volontà come cosa in sé si trova (..) fuori dal dominio del principio di ragione in tutte le sue forme ed è per conseguenza assolutamente priva di fondamento, benché ognuno dei suoi fenomeni sia in tutto e per tutto sottomesso al principio di ragione; essa è inoltre libera da qualsiasi molteplicità, benché i suoi fenomeni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli; essa stessa è una: non a ogni modo come uno è un oggetto, la cui unità viene riconosciuta solo in contrapposto ad una possibile molteplicità; neanche come uno è un concetto, che è sorto dalla molteplicità solo per astrazione: bensì è una come ciò che si trova fuori del tempo e dello spazio, del principium individuationis, ossia della possibilità della molteplicità” (8). Per Platone il tempo è l’immagine mobile dell’eternità, la volontà di Schopenhauer è qualcosa di simile alla eternità platonica. L’eternità è eterno presente che si rende accessibile alla sensibilità come tempo: attimo presente che continuamente si perde nel passato e tende al futuro. La volontà di Schopenhauer è una x fuori dal tempo, dallo spazio e dalla causalità che diviene un qui che si differenzia da un , un ora che collega senza sosta il passato al futuro, un ente che si differenzia dagli altri enti, un volere che è mosso da cause o da motivi e che tende verso qualcosa.
Introducendo la volontà noumenica però non solo non si risolvono le aporie del concetto di “rappresentazione” cui si è fatto cenno in precedenza ma si va incontro ad altre difficoltà. Con quale legittimità possiamo passare dalla volontà fenomenica a quella noumenica? Una volontà che è la volontà di un certo ente, che si manifesta nel tempo e nello spazio, che è spinta da motivi, aspira a qualcosa si determinato può rimandarmi ad una volontà assolutamente semplice, fuori da tempo, spazio e causalità? Ed ancora, come può questa volontà noumenica “cristallizzarsi” nel mondo sensibile, manifestarsi come rappresentazione? Rappresentazione in chi, visto che tutti gli enti fenomenici, uomo compreso, sono rappresentazioni? E se la volontà è fuori dal tempo allora l’atto del suo manifestarsi è presente in essa ab eterno, è anch’esso fuori dal tempo nella volontà; ma se qualcosa è presente nella volontà questa non perde inesorabilmente la propria assoluta semplicità? O la volontà può essere ridotta all’atto del suo manifestarsi fenomenico? Ma questo non eguaglia la volontà noumenica alla sua manifestazione? Si potrebbe continuare nel cercare debolezze e contraddizioni in questa parte del capolavoro di Schopenhauer, pure assolutamente fondamentale nella economia di tutta l’opera. Sarebbe però una esercitazione forse inutile e di certo ingenerosa. Affrontando il problema dei rapporti fra volontà noumenica e volontà fenomenica Schopenhauer sta affrontando il realtà uno dei temi più spinosi della metafisica occidentale. E’ lo stesso problema che si pone Platone quando cerca di passare dal mondo delle idee a quello della molteplicità e del divenire, o Plotino quando cerca di dedurre il molteplice dall’Uno, o Agostino quando cerca di spiegare in termini comprensibili la creazione del mondo e col mondo dello spazio e del tempo, da parte di Dio. Affrontare simili problemi conduce inevitabilmente a difficoltà insolubili quando non ad autentiche aporie e Schopenhauer non fa eccezione. Inoltre ciò che è davvero attuale nella sua opera non è il tentativo di soluzione dei massimi problemi metafisici quanto le indicazioni che da essa vengono intorno ai problemi dell’uomo. E’ a queste comunque che va prestata, a parere di chi scrive, la maggiore attenzione.

Il mondo come rappresentazione è l’oggettivazione della volontà, il suo manifestarsi nel tempo, nello spazio e nella causalità.. Al livello più elementare la volontà si oggettiva nella natura inorganica, poi prende la forma di vita. Il mondo organico, vegetale ed animale, è volontà di vivere, volontà cieca, fine a sé stessa, priva di ogni idealità, di alcun fine che non sia la indefinita conservazione di sé stessa. Tutto in natura è lotta afferma Schopenhauer: “Nella natura vediamo dappertutto contesa, lotta e alternarsi della vittoria (…) Ogni grado di oggettivazione della volontà contende all’altro la materia, lo spazio, il tempo (…) Questa lotta universale diventa visibile nel modo più chiaro nel mondo animale che ha per suo stesso nutrimento il mondo vegetale e nel quale stesso ogni animale diventa a sua volta preda e nutrimento di un altro (…) potendo ogni animale conservare la propria esistenza solo con la costante soppressione di una estranea; sicché sempre la volontà di vivere si nutre di sé stessa ed è in forme diverse il suo proprio nutrimento” (9).
Le pagine che Schopenhauer dedica alla natura sono decisamente belle oltre che profonde e rivelano tra l’altro una conoscenza abbastanza approfondita, anche se velata da vitalismo romantico, della scienza del suo tempo. Ciò che affascina nella visione che il grande filosofo ha della natura è il suo pessimismo disincantato, l’accettazione scevra da illusioni di un mondo che in fondo gli fa orrore. Schopenhauer era quello che noi oggi potremmo definire, magari con qualche forzatura, un animalista, era tra l’altro un gran cinofilo ed amava i cani forse più degli esseri umani, verso cui non provava eccessive simpatie. Tuttavia nulla di questa simpatia per gli animali e più in generale per la natura traspare dalle pagine che le dedica. Da queste emerge invece la visione di una natura del tutto estranea ed indifferente a ciò che noi chiamiamo bene o male, giusto o ingiusto; un mondo agitato da una lotta sorda e generalizzata, una volontà cieca di continuare ad esistere e, a livello più alto, di continuare a vivere, volontà che agisce sempre, ovunque, perennemente fine a sé stessa.
E, ovviamente, Schopenhauer non esclude il mondo umano dall’incessante e cieco tendere della volontà. L’uomo costituisce l’oggettivazione più complessa della volontà di vivere, nell’uomo l’individualità prevale sul puro appartenere ad una specie, il singolo è più importante del tutto. Ma anche l’uomo è nella sua essenza volontà. La vita umana è un costante aspirare a qualcosa, un volere insaziabile che si pone sempre nuovi obiettivi e non è mai pago del loro raggiungimento. Desideriamo qualcosa, lottiamo per averla, una volta che riusciamo ad ottenerla ci sembra di essere felici ma si tratta di una illusione che svanisce rapidamente. Ottenuta una cosa ne vogliamo subito un’altra e così via, insensatamente, all’infinito. La nostra vita è un tendere costantemente inappagato, un volere che non trova mai pace perché il suo oggetto si sposta in avanti nel momento stesso in cui ci muoviamo per raggiungerlo. E quando non abbiamo nulla da desiderare, alcun oggetto da volere, alcun fine da realizzare ecco che subentra la noia. L’aspirare a qualcosa ci rende infelici perché si tratta di un aspirare sempre inappagato, il non poter aspirare ci rende se possibile ancora più infelici perché ci lascia vittime della noia. Il dolore è quindi la dimensione essenziale della vita umana, il vero “positivo” in essa. La gioia non esiste in quanto tale, non è qualcosa di positivo, che abbia realtà in sé; la gioia è solo assenza di dolore. E’ importante sottolineare che questa non è, per Schopenhauer una situazione accidentale, la conseguenza di un certo tipo di organizzazione sociale. No, per Schopenhauer questa è la condizione umana, il destino dell’uomo, destino a cui egli può sfuggire, come vedremo, solo con una scelta ben più radicale che non la modifica di questa o quella istituzione sociale. L’uomo non è libero, tutto in lui è causalmente determinato e dietro la determinazione causale del pensare e dell’agire degli uomini opera, instancabile, la volontà: la catena causale che ci lega è la manifestazione visibile dell’agire cieco della volontà di cui tutti siamo manifestazioni fenomeniche. Viviamo come fantasmi, viviamo nell’illusione di essere liberi, convinto ognuno di noi di essere il centro del mondo mentre siamo soltanto piccole marionette prive di importanza, mosse dal cieco tendere della volontà: “E’ davvero incredibile vedere in che modo insignificante e privo di senso, guardata da fuori, e in che modo opaco e insensibile, sentita da dentro, scorra la vita della stragrande maggioranza degli uomini. E’ un fiacco struggersi e torturarsi, un barcollare come in sogno attraverso le quattro età della vita fino alla morte, accompagnati da una serie di pensieri banali. Sono come orologi che vengono caricati e camminano senza sapere perché: e ogni volta che viene generato e nasce un uomo l’orologio della vita umana viene caricato di nuovo per ripetere ancora una volta frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la sua musica, suonata e risuonata già innumerevoli volte. Ogni individuo, ogni faccia ed ogni vita umana sono soltanto un breve sogno in più nell’infinito spirito della natura, dell’eterna volontà di vivere, sono soltanto una fugace formazione che esso disegna per gioco sulla sua pagina infinita, spazio e tempo, e che lascia sussistere per un tempo, rispetto a questi ultimi, infinitamente piccolo, poi cancellandola per far posto ad altre” (10) Per quanto discutibile e criticabile sia la concezione dell’uomo che emerge da queste parole disincantate è difficile sottrarsi al loro fascino ammaliatore.

Ma questo destino anonimo e miserabile riguarda la stragrande maggioranza, non tutti gli esseri umani. Nel suo più alto ed elaborato prodotto, l’uomo, la volontà si fa cosciente, vede sé stessa come un insensato e doloroso tendere e può rivoltarsi contro sé stessa, auto negarsi. Questa parte del “Mondo come volontà e rappresentazione” è giustamente la più criticata per le sue evidenti contraddizioni. Perché mai la volontà, giunta all’apice del suo manifestarsi fenomenico debba auto negarsi resta un mistero che neppure la potenza del pensiero di Schopenhauer riesce a penetrare, così come resta un mistero come possa l’uomo, del tutto sottoposto per Schopenhauer al più ferreo determinismo, compiere la scelta di negare ciò che costituisce la sua essenza più profonda: la volontà di vivere. Ma non precorriamo i tempi. Prodotto più alto ed elaborato della volontà l’uomo sente il dolore della sua condizione e può cercare di affrancarsi, o meglio, alcuni, pochissimi individui possono cercare di affrancarsi da quel correre insensato e doloroso che è la vita. Un primo momento di affrancamento lo si ha nell’arte. Nella creazione e nella contemplazione estetica l’uomo assume un atteggiamento del tutto privo di volontà, si rifugia in un fare ed in un contemplare privi di volere e sfugge per un attimo allo scorrere impetuoso della volontà. Si tratta però di una breve parentesi da cui ben presto lo strappano le ferree esigenze della vita. La volontà lo avvolge di nuovo nelle sue spire e lo rende di nuovo schiavo del suo tendere insensato. Ci si può liberare dalla volontà solo negando radicalmente la volontà di vivere.
Ognuno di noi è un certo ente distinto dagli altri: è un io contrapposto ad un tu e ad un lui. Ognuno di noi è qualcosa di determinato, sottoposto al principio di individuazione, quel principio cioè per cui ogni ente è quello che è, uguale a sé stesso e diverso da tutti gli altri. Rifiutare la volontà di vivere significa innanzitutto comprendere che questa differenza fra gli individui è qualcosa che vale solo nel mondo come rappresentazione ma che è del tutto priva di senso se riferita al mondo come cosa in sé, al mondo come volontà. Io, tu, lui siamo solo manifestazioni esteriori di quell’essenza unitaria che è la volontà. Se tu commetti ingiustizia nei miei confronti torto e ragione, tu che commetti ed io che subisco ingiustizia esistiamo solo nel mondo come fenomeno; nel mondo come volontà non esiste ingiustizia alcuna perché io e te siamo la stessa cosa in quel mondo. Nel mondo come rappresentazione la volontà divora sé stessa, è in lotta con se stessa ma tutto questo non altera minimamente la volontà in sé, il fondamento noumenico di tutte le lotte, le ingiustizie, i mali di questo nostro povero mondo. Chi comprende questo può assumere su di se tutti i mali del mondo, può farlo perché sa che questi mali, in quanto originati dalla volontà nel suo manifestarsi fenomenico, sono anche i suoi mali. I dolori e le angosce degli altri sono anche i miei dolori e le mie angosce perché io come gli altri siamo solo un fenomeno della volontà. E, assumendo su di me i mali del mondo, inizio già in un certo senso a negare il mondo, accettare come miei i dolori degli altri significa infatti negare il principio stesso su cui si regge il nostro mondo: il principio di individuazione. Accettare il dolore apre la via che porta alla negazione del mondo e col mondo del suo fondamento, origine sua e di tutti i suoi dolori: la volontà. La negazione della volontà di vivere non è un tentativo di opporsi al dolore, se così fosse sarebbe comunque una manifestazione della volontà, è la scelta di negare radicalmente il mondo che è esso stesso, in quanto tale dolore. Il fine non è una vita senza dolore, magari senza dolore per me: è la negazione della vita, una negazione che nel mondo fenomenico potrà riguardare solo me, potrà essere solo mia, ma che è rivolta alla radice stessa del mondo, è negazione della volontà in quanto tale e quindi del suo manifestarsi. Nella negazione della volontà di vivere il fenomeno della volontà entra in contrapposizione con sé stesso e quindi con la volontà. Quando un uomo comprende pienamente cos’è il mondo e cosa lo regge afferma Schopenhauer, “nasce in lui un orrore dell’essenza, di cui il suo stesso fenomeno è espressione, della volontà di vivere, nocciolo ed essenza di questo mondo riconosciuto come pieno di strazio. Rinnega dunque quest’essenza manifestantesi in lui e già espressa dal suo corpo, e il suo agire smentisce ora il suo fenomeno, entra in aperto contrasto con esso. Essenzialmente null’altro che fenomeno della volontà, egli cessa di volere alcunché, si guarda dal congiungere la sua volontà ad alcunché, cerca di rafforzare in sé la massima indifferenza verso tutte le cose. (…) La natura, sempre vera e ingenua dice che se questa massima diventasse universale, il genere umano si estinguerebbe (…) credo di poter assumere che col fenomeno della volontà più alto anche il più debole riflesso di esso, il mondo animale, verrebbe meno, come con la piena luce anche le penombre svaniscono. Con la totale eliminazione della coscienza svanirebbe allora anche da sé nel nulla il resto del mondo, dato che senza soggetto non si ha oggetto.” (11)
C’è in queste posizioni di Schopenhauer un richiamo ad alcune concezioni proprie del cristianesimo: il farsi carico dei dolori del mondo, l’espiazione per rendersi degni della redenzione, l’anelito ad andare oltre il mondo terreno, ma manca del tutto quello che è davvero caratteristico della dottrina cristiana: il fine positivo di tutto questo soffrire ed espiare, la vita eterna come salvezza e riscatto, l’unione mistica con Dio nel regno dei cieli. No, in Schopenhauer ci sono la volontà di vivere e il dolore e il rifiuto della volontà di vivere ma questo itinerario non ha alcun sbocco positivo. L’eterna felicità è inesorabilmente esclusa dal sistema schopenhaueriano, questo non culmina con la salvezza ed il riscatto ma col nulla. La negazione della volontà non conduce ad alcun positivo, quanto meno, ad alcun positivo che possa essere comunicato, espresso in un linguaggio di qualsiasi tipo. “La redenzione da un mondo la cui intera essenza ci si è rivelata come dolore, tutto ciò ci appare poi come un passaggio nel vuoto nulla” (12). Negare la volontà significa annichilire il mondo, suo specchio; in quale realtà ci portano questa negazione e questo annichilimento? Non lo si può dire, non lo si può neppure esprimere. “Non più volontà” afferma Schopenhauer “non più rappresentazione, non più mondo” (13). Non a caso Schopenhauer termina il suo capolavoro con queste parole: “ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è invero, per tutti coloro che sono ancora pieni di volontà, il nulla. Ma anche, viceversa, per coloro la cui volontà si è rovesciata e negata, questo nostro mondo tanto reale con tutti i suoi soli e le sue vie latee, è nulla” (14).

Nella filosofia di Schopenhauer cercano di conciliarsi due esigenze contrapposte. Da un lato il filosofo di Danzica, sulle orme di Kant, ricolloca in qualche modo l’uomo al centro dell’universo, quel centro da cui la rivoluzione scientifica lo aveva inesorabilmente scalzato. L’universo è in Schopenhauer una rappresentazione nell’uomo, meglio è una rappresentazione in tutti gli esseri senzienti che solo nell’uomo raggiunge il grado più alto di articolazione ed universalità. Se non è più il centro del creato l’uomo resta tuttavia in Schopenhauer come in Kant il legislatore della natura, colui che col suo intelletto conferisce ordine e regolarità ad un mondo altrimenti caotico ed inintellegibile. Schopenhauer però non si accontenta delle conclusioni di Kant, vuole andare oltre il mondo fenomenico, raggiungere la misteriosa “cosa in sé” base e fondamento del mondo come rappresentazione e ritiene di aver identificato nella volontà questo fondamento. Ed è qui, nello studio del mondo come volontà che emerge in Schopenhauer quel pessimismo profondo, quel senso di smarrimento che gli esiti della rivoluzione scientifica avevano indotto nell’uomo. L’aver scoperto il senso profondo del mondo, il suo fondamento ultimo ci rende se possibile ancora più deboli ed indifesi di prima. Il mondo è si una nostra rappresentazione ma questa rappresentazione, e noi stessi in quanto rappresentazioni, altro non siamo che oggettivazioni di una volontà fredda ed estranea a tutto ciò che per noi è importante ed ha valore. Dalla rivoluzione scientifica emerge il quadro di un uomo solo nel cosmo, piccolo ente schiacciato fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo; però si tratta di un ente che pensa, conosce, valuta, è libero. In Schopenhauer anche questo scompare: l’uomo diventa una sorta di burattino guidato da una forza fredda e irresistibile, un fantasma che fa una breve ed insignificante apparizione nel mondo solo per essere rimpiazzato da altri fantasmi. Pur assurgendo al ruolo di legislatore della natura l’uomo in Schopenhauer non si limita ad essere solo e sperduto nel mondo, è disperato.
E’ facile tutto sommato confutare molte delle cose che Schopenhauer afferma sulla riduzione drastica della vita a dolore. Chi ha detto che il tendere a qualcosa sia in quanto tale doloroso? E che ottenere qualcosa sia sempre e solo il pretesto per iniziare a desiderare dolorosamente altre cose? Ed è davvero giusto identificare l’appagamento con la noia? Non esistono milioni di esseri umani che sanno godere di ciò che hanno ottenuto? Ed altri esseri umani non provano piacere nel cercare di raggiungere qualcosa? L’arte, e con l’arte la scienza, la filosofia, lo studio in generale, lo stesso sport non sono in fondo un tendere? Un porsi obiettivi sempre più alti e cercare di raggiungerli? E se questo “cercare di raggiungerli” è spesso tormentoso non dona a volte momenti di autentica gioia? Schopenhauer ha il grosso merito di aver sottolineato con la massima forza che il momento del dolore è essenziale nella vita, che l’obiettivo di una vita senza dolore è semplicemente assurdo, assurdo perché il dolore è ineliminabile in un essere finito ed accidentale quale l’uomo è. Ma il grande filosofo fa di questa verità un assoluto, trasforma il dolore da ineliminabile dimensione della vita in dimensione unica, onnipresente, onnicomprensiva, assoluta. E non può essere seguito su questo terreno. E’ possibile dire che il piacere è solo mancanza di dolore, ma è anche possibile dire che è il dolore ad essere solo mancanza di piacere (o di gioia, o di serenità). Gioia e dolore non sono mere negazioni, hanno ognuno una loro grande o piccola realtà positiva, per fortuna, o per sventura.
E questo carattere unilaterale della filosofia di Schopenhauer raggiunge il culmine quando il filosofo di Danzica vede nel rifiuto della volontà di vivere non solo l’unica possibile libertà concessa all’uomo ma anche la soluzione del problema della vita e del dolore. La presenza inquietante del nulla, di quell’indicibile buco nero da cui siamo letteralmente pressati rende comunque (anche) dolorosa la vita, ci ricorda che nella vita è sempre presente il mistero, il non spiegabile, l’insensato. Il nulla ci ricorda i nostri limiti e la nostra insuperabile finitezza, ma proprio per questo non può risolvere alcun problema, svelare alcun mistero, conferire alcun senso. Il nulla è al di là dei problemi, del senso e del mistero, è al di là della vita, riguarda la morte. E, come dice Wittgenstein, “la morte non è un evento della vita, la morte non si vive” (15), ci piaccia o meno la cosa, la vita è il nostro confine insuperabile, l’area in cui ogni domanda ed ogni possibile risposta sono possibili ed hanno un senso. Anche il semplice teorizzare il rifiuto della volontà di vivere è un atto di tale volontà, appartiene alla vita; nel momento stesso in cui il si concretizza, il rifiuto cessa di essere tale. Il buco nero del nulla annulla tutto, può essere consolatorio, forse, per certe persone, in certi momenti lasciarsi andare verso quel buco nero, ma di certo un simile lasciarsi andare non è la soluzione di niente.
Il mondo come volontà e rappresentazione inizia definendo “rappresentazione” il mondo in cui tutti noi viviamo e termina definendo un nulla questo mondo. Si parte dal fenomeno, si raggiunge la cosa in sé, si segue l’oggettivarsi della cosa in sé nel fenomeno, il suo manifestarsi come volontà di vivere e si giunge infine alla scelta del nulla. La nostra conoscenza sembra ampliarsi in questo itinerario ma, afferma Ernest Cassirer, nel momento stesso in cui, seguendolo si innalza alla vetta suprema del sapere l’individuo “si trova ormai oltre tutte le forme immanenti dell’essere. Non l’intuizione del tutto e l’agire del tutto è ciò in cui egli trova la sua meta; ma al di là di questo egli viene spinto in una trascendenza metafisica che dal punto di vista del sapere e della vita si può definire soltanto più con predicati puramente negativi. Come ultimo, più profondo e unico vero dato della conoscenza, ci si rivela alla fine non l’essenza, ma il nulla; cogliamo l’universale supremo solo là dove ogni essere determinato e particolare si spegne e si risolve nel Nirvana” (16). L’ascesa di Schopenhauer verso la totalità, la cosa in sé, il fondamento ultimo del mondo si risolve nel nulla. Questo è l’esito finale e disperante di una grande filosofia.














Note

1) A. Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione. Appendice. RCS Bompiani 2009. pag. 565.

2) Ibidem pag. 566.

3) Ibidem pag. 567

4) A. Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione RCS Bompiani 2009 pag. 110

5) A. Schopenhauer. Op. cit. pag. 111

6) Ibidem pag. 141. Sottolineatura di S.

7) Ibidem pag. 225

8) Ibidem pag. 233. Sottolineature di S.

9) Ibidem pag. 271.

10) Ibidem pag. 461
11) Ibidem pag. 426

12) Ibidem pag. 557. sottolineatura di S.

13) Ibidem pag. 559

14) Ibidem pag. 460

15) L. Wittgenstein: Tractatus logicus-philosophicus. Einaudi 1984. pag. 80

16) Ernest Cassirer: Storia della filosofia moderna. Parte terza, tomo secondo: i sistemi post kantiani. Einaudi 1978 pag. 557.
















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