E' importante l'ultima enciclica papale. Lo è non tanto perché costituisca una novità culturale: non si incontra nella “laudato si” letteralmente nulla che non sia già stato detto e ripetuto innumerevoli volte, è importante proprio perché non dice nulla di nuovo. Con la sua enciclica il papa da il suo alto avallo ad un magma ideologico fatto di pauperismo, terzomondismo, mentalità anti industriale, malthusismo, il tutto condito con una goccia di mal digerito marxismo, che è oggi egemone in larghi settori della pubblica opinione occidentale, ed è una delle cause della crisi in cui versa la nostra civiltà. Val la pena quindi di leggerla, questa enciclica, e cercare di commentarla.
LA NATURA
L'enciclica presenta la natura come una sorta di grande ed armonioso sistema. Ogni ente è in relazione con tutti gli altri e contribuisce con gli altri alla vita del tutto. Il punto di riferimento del papa è san Francesco che considerava “qualsiasi creatura sorella, unita a lui con vincoli di affetto”. Questa concezione, secondo il papa, “non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale, perché influisce sulle scelte che determinano il nostro comportamento”. Solo “se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea”, se invece non sentiamo questa unione mistica con la totalità del creato diventeremo dominatori capaci solo di saccheggiare e distruggere l'ambiente che ci circonda.
Il papa invita a guardare la natura con occhi colmi di stupore ed ammirazione per la sua sconfinata bellezza, e basterà questo sguardo a farci sentire il legame d'amore che ci unisce a tutte le creature.
In effetti è vero che la visione della natura è uno spettacolo di sconfinata bellezza. Poche cose riempiono l'animo di tanto stupore ed ammirazione quanto la visione del cielo stellato. Ma, è proprio vero che questa visione ci fa sentire l'intimo legame che ci unisce al tutto? E' quanto meno dubbio. Quando si parla di sentimenti non è possibile fare affermazioni dimostrabili, tuttavia forse non è del tutto errato affermare che la visione del cielo stellato suscita in noi un sentimento di smarrimento: ci fa sentire piccoli ed insignificanti di fronte a qualcosa immensamente più grande di noi ed estraneo ai nostri fini ed ai nostri valori. Il sentimento del sublime, ricorda Kant, sorge in noi ogni volta che la natura ci “sbatte in faccia” la nostra nullità. Il cielo stellato, il mare in tempesta, un ghiacciaio ricco di crepacci, una enorme parete rocciosa non ci fanno sentire misticamente uniti al tutto, semmai ci danno la sensazione, splendida e dolorosa insieme, della nostra solitudine in un mondo che non è fatto a nostra immagine.
Lasciamo perdere i sentimenti. Tutto è armonicamente collegato da fili invisibili, afferma il papa, ma noi, nella nostra superbia, non vogliamo ammetterlo. Ad esempio, “stentiamo a riconoscere che il funzionamento degli ecosistemi naturali è esemplare: le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di rifiuti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione di vegetali.”
C'è da restare esterrefatti. Un sistema in cui ogni ente esiste al solo fine di alimentarne un altro viene presentato come esempio di armonia! L'erba nutre le zebre, le zebre nutrono i leoni ed i rifiuti organici dei leoni diventano nutrimento per le zebre: tutto è equilibrio, armonia, cura. Il peggior prodotto della umana arroganza, invece, “il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie”. Non lo ha fatto, ovviamente, a causa della perversa mentalità “usa e getta” da cui sono affetti gli uomini, come se il “riutilizzo di scorie e rifiuti” fosse impresa facile e quella fondamentale legge di natura che si chiama crescita dell'entropia non ci ricordasse che gran parte dei processi di trasformazione che avvengono in natura sono irreversibili.
Simili dettagli scientifici non interessano molto, probabilmente, l'autore dell'enciclica. Per lui madre natura non spreca nulla, l'uomo invece ha fatto dello spreco inquinante l'alfa e l'omega della sua attività insensata. Però, il capo della cristianità dovrebbe porsi qualche piccolo interrogativo sulla presunta “armonia” degli ecosistemi. Ammettiamo pure, per un attimo, che l'equilibrio degli ecosistemi miri davvero alla sopravvivenza del tutto, resta pur sempre un interrogativo: e, i singoli? Diamolo pure per scontato: la zebra nutre il leone, il leone fa la popò e questo procura nutrimento ad altre zebre, ma, cosa ne pensa di tutto questo armonioso processo la singola zebra che viene divorata viva da un branco di leoni famelici? Il fine è l'armonia del tutto, ma questo fine viene raggiunto tramite l'eliminazione spietata dei singoli. E' davvero “armonico” tutto questo? O non è invece caratterizzato da una disarmonia insanabile, spietata, fra le esigenze della specie e quelle degli individui? Il pensiero cristiano in fondo è caratterizzato dalla esaltazione del singolo, della persona; nessuno fra i grandi pensatori cristiani ha degradato il singolo a mera componente di un tutto che lo sovrasta e lo domina, questo dovrebbe mitigare almeno un po' gli entusiasmi ecologici di papa Francesco.
Ma è poi vero che l'equilibrio degli ecosistemi mira a garantire la sopravvivenza di tutte le specie e di tutti gli enti naturali? NO, ovviamente. La natura vivente non è caratterizzata dall'equilibrio ma da una spietata lotta per la sopravvivenza del più adatto, quella non vivente da continue e spesso catastrofiche trasformazioni. Ogni momento nell'universo muore qualche stella, e quando una stella muore trascina con se i pianeti che le ruotano attorno, e se in qualcuno di questi pianeti esistono forme di vita, tanto peggio per loro. Considerazioni simili possono essere fatte per i corpi celesti che vengono continuamente assorbiti in quelle cose inquietanti al massimo che sono i buchi neri. La natura è tanto poco “amorosa armonia” che innumerevoli specie animali si sono estinte per motivi assolutamente naturali. Dove oggi esiste il mar mediterraneo è esistito un tempo un enorme deserto, le attuali dolomiti un tempo erano scogli sommersi, i giacimenti di petrolio, tanto detestati dagli ecologisti radicali, un tempo erano lussureggianti foreste. L'enciclica considera ingenuamente lo stato attuale del mondo come qualcosa di perfetto e definitivo, ma si tratta appunto, solo di un ingenuo abbaglio ideologico. Tutti gli accorati appelli a “preservare la casa comune” dimenticano che la casa è destinata, come tutto ciò che esiste in natura, a deperire e crollare, per motivi assolutamente naturali.
Papa Francesco ripete più volte nella sua enciclica, che il cristianesimo non divinizza la natura. Però di certo lui, il papa, la antropoformizza la massimo, la natura, soprattutto la nostra terra. Nella “laudato si” la terra diventa una super persona, una sorta di gigantesco essere umano con sentimenti e sensazioni. L'uomo “offende” e “sfrutta” la terra, e questa si lamenta e soffre, unisce il suo “grido di dolore” a quello dei poveri. Siamo di fronte ad una concezione prescientifica della natura. Malgrado l'enciclica faccia qua e la riferimento agli uomini di scienza è fin troppo evidente che la natura di papa Francesco non ha nulla a che vedere con quella di un Galileo, di un Newton o di un Darwin. Ma siamo anche di fronte ad una concezione prefilosofica della natura. La concezione aristotelica della natura, con le sue sfere cristalline ed il suo primo motore, e quelle dei primi filosofi naturalisti: i presocratici e soprattutto gli atomisti, sono molto più realistiche di quella di papa Francesco. E, a ben vedere le cose, la concezione della “laudato si” retrocede anche rispetto a quello che è l'ispiratore sommo del papa: il poverello di Assisi, san Francesco. E' vero che san Francesco amava tutte le creature, ma le amava unicamente in quanto in esse risplende la gloria del Signore; la natura è amata in quanto creazione di Dio, ed il culmine della creazione, il suo fine e beneficiario, resta, in san Francesco come in tutti i pensatori cristiani, l'uomo, unico ente creato ad “immagine e somiglianza di Dio”. In alcune fra le pagine più contorte della sua enciclica il papa cerca, è vero, di conciliare l'antropocentrismo cristiano con la sua visione organicistica della natura, ma l'unica cosa che si può dire del suo tentativo ermeneutico è che appare, quanto meno, assai “disinvolto”.
Per concludere, la concezione della natura che emerge dall'enciclica papale è prefilosofica e prescientifica, per dirla in una parola, si tratta di una concezione mitologica, una sorta di riproposizione in chiave cristiana del mito pagano di Gaia, il pianeta vivente. Se e come questo sia conciliabile col cristianesimo resta un problema irrisolto.
L'UOMO IRRESPONSABILE INQUINATORE
“La terra, nostra casa”, afferma l'enciclica papale, “sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia. In molti luoghi del pianeta, gli anziani ricordano con nostalgia i paesaggi d’altri tempi, che ora appaiono sommersi da spazzatura”. La causa di questo miserevole stato di cose è da ricercarsi nella “cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura”. Il consumismo sfrenato dei popoli ricchi sta trasformando il mondo in una latrina e questo ha effetti devastanti sullo stesso uomo, in particolare sugli “esclusi”, gli abitanti delle zone periferiche del pianeta.
“i gemiti di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta. Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli” afferma l'enciclica.
Il guaio insomma è cominciato circa due secoli fa, quando l'uomo, accecato dalla sua insana volontà di potenza, ha intrapreso la strada della industrializzazione. Qualcuno potrebbe retrodatare l'inizio della catastrofe e collocarlo, più correttamente, fra il '500 ed il '600, al tempo della rivoluzione scientifica, ma questi sono dettagli.
Però, anche ad un esame superficiale le cose non sembrano quadrare troppo. Si, perché gli ultimi 200 anni sono stati quelli che hanno visto una riduzione della miseria ed uno sviluppo del benessere mai visti prima nella storia. Fino al 1400 un neonato poteva sperare di vivere al massimo 20, 30 anni e solo un bambino su due raggiungeva il quinto compleanno. In Francia nel 1845 l'aspettativa di vita era di circa 45 anni, oggi nei paesi sviluppati sfiora gli 80 anni ed anche in molti paesi economicamente arretrati si avvicina ai 70. Considerazioni simili possono essere fatte per tutti gli indicatori di benessere. Negli ultimi 200 anni si è contratto fin quasi a scomparire l'analfabetismo ed è cresciuta ovunque la scolarizzazione. Un tempo malattie infettive oggi completamente debellate falcidiavano gli esseri umani a milioni. La causa di questo massacro non va ricercata solo nello scarso sviluppo della scienza medica, ma anche nella sporcizia e nell'inquinamento. Sono figlie dell'industrializzazione non solo auto e ferrovie, ma anche le reti idriche e fognarie che hanno radicalmente migliorato la vita di milioni di esseri umani. Anche se in maniera non uniforme questo processo ha interessato tutti i paesi, compresi quelli meno sviluppati, molti dei quali del resto hanno cessato di essere tali precisamente perché hanno imboccato la strada della industrializzazione: si pensi alla Cina o all'India, all'Argentina, al Cile od al Brasile. Restano poveri invece quei paesi, in Africa sopratutto, che quella strada, per tutta una serie di motivi, non sono riusciti ad imboccarla. Forse il mondo di oggi è davvero una invivibile latrina mentre quello dei bei tempi andati era una specie di piccolo paradiso, però chi in quei tempi ci ha vissuto è stato molto felice di abbandonarlo, quel paradiso, e di imboccare la strada infernale dello sviluppo economico.
I miglioramenti di tutti gli indici di benessere negli ultimi due secoli è talmente evidente che stupisce che questi vengano presentati come una sorte di catastrofe per il pianeta ed il genere umano. Ma in realtà non ci si deve stupire più di tanto. Tutta l'enciclica è pervasa da una idea molto precisa: lo sforzo dell'uomo per migliorare la propria condizione è qualcosa di molto pericoloso, addirittura di potenzialmente satanico. L'industrializzazione, l'innovazione, lo sviluppo sono guardati nella migliore delle ipotesi con sospetto, nella peggiore con profonda avversione. L'aumento della ricchezza è bollato come “consumismo” ed è considerato fonte di degrado umano ed ambientale. I problemi innegabili che sorgono dal processo di sviluppo sono considerati non come qualcosa di oggettivo, da affrontare con pragmatismo realistico, si tratta invece di problemi che hanno la loro origine nella natura dell'uomo di oggi, sfigurata dal “consumismo compulsivo”, e a cui sarebbe facile porre rimedio se tutti accettassimo uno stile di vita “più sobrio”. Esemplare è, a questo proposito, il rifiuto di considerare l'eccessivo incremento demografico come una delle cause di problemi che ci attanagliano: “Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi”, afferma il pontefice. Si diventi “sobri” e si avranno, insieme, uscita dalla povertà per due miliardi circa di infelici, incremento demografico indefinito ed assenza di problemi ambientali: non ci sarebbero problemi se i “ricchi” consumassero meno. Però, sorge spontanea una domanda: visto che la causa di tutti i guai è l'eccesso di consumo, anche se “i icchi” consumassero meno i maggiori consumi di quasi due miliardi di poveri non creerebbero a loro volta problemi ecologici? Davvero uno stile di vita “più sobrio” può essere considerato il toccasana? Ed in cosa si tradurrebbe poi questa “sobrietà”? L'enciclica non da mai risposte concrete a questo interrogativo, si limita ad auspicare un mutamento nei modelli di consumo e a metter sotto accusa... i condizionatori d'aria: “Le abitudini nocive di consumo, non sembrano recedere, bensì estendersi e svilupparsi. E’ quello che succede, per fare solo un semplice esempio, con il crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria”. Molto interessante.
In realtà, se L'analisi dell'enciclica fosse anche solo minimamente realistica, se davvero fossimo sull'orlo del baratro, nulla potrebbe salvarci. Altro che “sobrietà”! Se la situazione fosse davvero così come la si presenta potremmo anche chiudere tutte le fabbriche e tutte le centrali, interrompere dall'oggi al domani ogni attività produttiva, saremmo comunque spacciati. Perché? Semplice, perché basterebbe l'attività vulcanica a darci il colpo di grazia. Il clima è sempre cambiato nel corso dei millenni, spesso in maniera catastrofica. I ghiacci si sono espansi fino sin quasi all'equatore e si sono poi ritirati sino alle dimensioni attuali; per non andare troppo indietro nel tempo negli ultimi due millenni periodi caldi si sono alternati a periodi freddi, e questo in epoche in cui la rivoluzione industriale era ancora “un mente dei”. Le cause sono state soprattutto l'attività solare, gli spostamenti dell'asse terrestre e l'attività vulcanica. Nel graffiante pamphlet “le bugie degli ecologisti” Riccardo Cascioli ed Antonio Gaspari ricordano che una sola grande eruzione vulcanica “immette nell'atmosfera 17 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, circa due volte e mezzo l'emissione annua causata dalle attività umane a livello mondiale”. Più che sufficiente, direi a farci precipitare nell'abisso.
Le cose non stanno così, per fortuna, per il semplice motivo che l'analisi della “laudato si” è tutto meno che realistica. Sembra che chi la ha scritta provi quasi un sottile piacere nel presentare i problemi ecologici enormemente più gravi di quanto già non siano. Dà spazio alle visioni apocalittiche dei profeti di sventura senza curarsi minimamente di confrontarle con i fatti. Il celebre “club di Roma” profetizzò lo scorso secolo l'esaurimento della gran parte delle risorse del pianeta entro l'anno 2000. Si sa come sono andate le cose. Non sembra che l'enciclica papale tenga in gran conto questo genere di smentite.
IL GRIDO DEI POVERI
Il degrado ambientale è anche degrado umano e sociale. Le folli pratiche consumistiche distruggono l'ambiente e condannano nel contempo gli emarginati della terra ad una vita sempre più miserabile. Per papa Francesco la miseria di tante parti del mondo non è dovuta alla mancanza o alla insufficienza dello sviluppo, è al contrario l'effetto dello sviluppo. La lotta per salvare nostra sorella terra è nel contempo lotta per garantire ai poveri un avvenire migliore. “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.
Non si tratta di una tesi nuova. La hanno sostenuta in moltissimi negli anni 70 del secolo scorso, quelli del “grande rifiuto”; ha avuto fra i suoi massimi teorici, il presidente Mao Tze Tung ed il suo fido luogotenente Lin Piao, prima di fare la brutta fine che ha fatto.
Però, si tratta di una tesi particolarmente difficile da sostenere oggi, dopo che numerosi paesi dell'Asia e dell'America latina sono riusciti ad uscire, o fra mille difficoltà stanno uscendo, da una endemica miseria precisamente imboccando la strada della industrializzazione, dell'innovazione tecnologica, del tanto aborrito mercato, in una parola, dello sviluppo.
Ma al papa questi esempi interessano poco. La sua visione dell'economia è essenzialmente redistributiva. Esiste un grande forziere colmo di risorse, queste sarebbero sufficienti ad assicurare un dignitoso livello di vita a tutti, ma una minoranza di avidi consumisti si appropria della maggior parte dei beni contenuti in questo forziere condannando gli altri alla miseria. Da un lato ci sono le risorse dall'altro i consumi; che si parli dell'acqua, della fame o dei mutamenti climatici, il clichè è sempre lo stesso: i “ricchi” saccheggiano, si appropriano di una quantità spropositata di ricchezza, inquinano e fanno pagare agli altri, i poveri, il prezzo del loro “consumismo compulsivo”.
“Un venti per cento della
popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle
nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno
per sopravvivere (...) C’è
un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud,
connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico,
come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto
storicamente da alcuni Paesi (…) In diversi modi, i popoli in via
di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della
biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi
a prezzo del loro presente e del loro futuro”.
Le citazioni potrebbero continuare ma il discorso dovrebbe essere abbastanza chiaro. Per l'enciclica la ricchezza si identifica per lo più con le risorse naturali. Certi paesi sono ricchi di risorse naturali ma sono oppressi dalla miseria, altri invece, dotati di minori risorse, nuotano nell'abbondanza, questo proverebbe che è in atto un “saccheggio” dei paesi ricchi a danno di quelli poveri. Ma le risorse naturali, se sono un presupposto della ricchezza, non si identificano affatto con essa. La ricchezza occorre produrla, col lavoro, la ricerca e l'innovazione tecnologica. Le risorse sono tali solo in relazione al lavoro ed alla tecnologia. Il petrolio non è stato una risorsa, ma solo un liquido maleodorante per moltissimi secoli. E' diventato risorsa quando la tecnologia ha creato auto e motonavi, aerei e centrali elettriche. Lo stesso discorso vale per quasi tutte le risorse naturali. Il problema dell'acqua, per fare un esempio solo leggermente diverso, non deriva dallo spreco che di acqua fanno i consumisti dei paesi sviluppati. Pensare che in Africa si soffra la sete perché in America si annaffiano troppo i giardini è, molto semplicemente, una idiozia. A differenza del petrolio l'acqua è una risorsa sempre indispensabile, indipendentemente dal livello di sviluppo tecnologico di un paese, e non è una risorsa troppo scarsa. Ma non è quasi mai immediatamente utilizzabile. L'acqua va cercata, estratta, depurata, trasportata il località spesso molto lontane dai luoghi di estrazione. E' la mancanza di tecnologie adeguate, non lo “spreco” consumistico a rendere drammatico il problema dell'acqua. Considerazioni simili possono essere fatte per il cibo, la cui carenza è messa in relazione, tanto per cambiare, con lo spreco consumistico e con lo scandalo degli alimenti che il ricco occidente butta via mentre in Africa la gente muore di fame. Di nuovo, pensare che la denutrizione in certi paesi del mondo sia la risultante della diffusione della obesità in altri è semplicemente ridicolo, ed ancora di più lo è il pensare che chi getta via, o da in pasto al suo cane, un pezzo della bistecca che non è riuscito a mangiar tutta, contribuisce alla fame di tanti sventurati. Il problema del cibo è legato alla produttività agricola, alla possibilità di collegare rapidamente i luoghi in cui i generi alimentari vengono prodotti a quelli in cui vengono consumati, allo sviluppo dell'industria del freddo. Un contadino o un allevatore americano producono in una giornata di lavoro una quantità di cereali o di carne enormemente superiore a quella che sono in grado di produrre un contadino o un allevatore africano. Non solo, il contadino o l'allevatore americano sono in grado di rifornire rapidamente i mercati di sbocco e, grazie all'industria del freddo, di conservare a lungo i loro prodotti, tutte cose che il contadino o l'allevatore africano non sono in grado di fare. Il “consumismo compulsivo” con tutto questo non c'entra assolutamente niente.
Ma l'enciclica non si limita a metter sotto accusa lo sfruttamento che il nord consumistico del mondo metterebbe in atto ai danni del sud sofferente. I paesi industrializzati inquinano oltre che saccheggiare e le conseguenze nefaste del loro inquinamento gravano, di nuovo, sui paesi più poveri. “Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni”.
Insomma, se una fabbrica inquina in Germania aumenta la temperatura... in Nigeria. Come questo sia possibile resta alquanto misterioso; fino a ieri pensavamo che le località più vicine alle fonti inquinanti fossero quelle maggiormente danneggiate dalle emissioni. Le prime vittime del disastro di Chernobyl sono stati gli Ucraini, fino a prova contraria. Papa Francesco ci dice che non è vero. Non ci resta che credergli sulla parola.
E' difficile trovare in tutta l'enciclica una parola di elogio nei confronti della attività produttiva, che costituisce la vera fonte della ricchezza individuale e sociale. Per il papa la produzione è sempre o quasi causa di inquinamento, degrado, arricchimento di alcuni a danno di altri. Il santo padre è un assertore di quella che il filosofo britannico Roger Scruton chiama “la fallacia della somma zero”. Non esistono attività che siano vantaggiose per tutti, la ricerca e lo sviluppo tecnologico non sono in grado di alimentare uno sviluppo che sia cumulativo ed abbia costi sociali ed ambientali limitati. No, per papa Francesco se qualcuno guadagna qualcun altro deve, inevitabilmente, perdere. Non stupisce quindi più di tanto questa affermazione contenuta nell'enciclica:
”è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti”. Se l'Africa vuole crescere Europa ed America devono decrescere. Si tratta di una affermazione che contraddice tutte le leggi economiche che parlano invece del carattere propulsivo sia dello sviluppo che del non sviluppo. Se un paese cresce la sua crescita è uno stimolo per l'economia di altri paesi, se un paese invece attraversa una fase recessiva altri rischiano di essere trascinati nella recessione. Non a caso le attuali difficoltà della Cina preoccupano moltissimo i mercati. Ma il santo padre non è affatto interessato alla scienza economica: questa rappresenta per lui qualcosa di troppo legato all'egoismo individualista per essere considerata positivamente. E così pensa che la decrescita in occidente potrebbe favorire lo sviluppo dei paesi poveri. Gli operatori economici di questi paesi, specie quelli legati alle esportazioni, di certo non gradirebbero una simile eventualità, ma, che importa? Si tratta, probabilmente, di gente attratta dalle sirene del “consumismo compulsivo”.
Le citazioni potrebbero continuare ma il discorso dovrebbe essere abbastanza chiaro. Per l'enciclica la ricchezza si identifica per lo più con le risorse naturali. Certi paesi sono ricchi di risorse naturali ma sono oppressi dalla miseria, altri invece, dotati di minori risorse, nuotano nell'abbondanza, questo proverebbe che è in atto un “saccheggio” dei paesi ricchi a danno di quelli poveri. Ma le risorse naturali, se sono un presupposto della ricchezza, non si identificano affatto con essa. La ricchezza occorre produrla, col lavoro, la ricerca e l'innovazione tecnologica. Le risorse sono tali solo in relazione al lavoro ed alla tecnologia. Il petrolio non è stato una risorsa, ma solo un liquido maleodorante per moltissimi secoli. E' diventato risorsa quando la tecnologia ha creato auto e motonavi, aerei e centrali elettriche. Lo stesso discorso vale per quasi tutte le risorse naturali. Il problema dell'acqua, per fare un esempio solo leggermente diverso, non deriva dallo spreco che di acqua fanno i consumisti dei paesi sviluppati. Pensare che in Africa si soffra la sete perché in America si annaffiano troppo i giardini è, molto semplicemente, una idiozia. A differenza del petrolio l'acqua è una risorsa sempre indispensabile, indipendentemente dal livello di sviluppo tecnologico di un paese, e non è una risorsa troppo scarsa. Ma non è quasi mai immediatamente utilizzabile. L'acqua va cercata, estratta, depurata, trasportata il località spesso molto lontane dai luoghi di estrazione. E' la mancanza di tecnologie adeguate, non lo “spreco” consumistico a rendere drammatico il problema dell'acqua. Considerazioni simili possono essere fatte per il cibo, la cui carenza è messa in relazione, tanto per cambiare, con lo spreco consumistico e con lo scandalo degli alimenti che il ricco occidente butta via mentre in Africa la gente muore di fame. Di nuovo, pensare che la denutrizione in certi paesi del mondo sia la risultante della diffusione della obesità in altri è semplicemente ridicolo, ed ancora di più lo è il pensare che chi getta via, o da in pasto al suo cane, un pezzo della bistecca che non è riuscito a mangiar tutta, contribuisce alla fame di tanti sventurati. Il problema del cibo è legato alla produttività agricola, alla possibilità di collegare rapidamente i luoghi in cui i generi alimentari vengono prodotti a quelli in cui vengono consumati, allo sviluppo dell'industria del freddo. Un contadino o un allevatore americano producono in una giornata di lavoro una quantità di cereali o di carne enormemente superiore a quella che sono in grado di produrre un contadino o un allevatore africano. Non solo, il contadino o l'allevatore americano sono in grado di rifornire rapidamente i mercati di sbocco e, grazie all'industria del freddo, di conservare a lungo i loro prodotti, tutte cose che il contadino o l'allevatore africano non sono in grado di fare. Il “consumismo compulsivo” con tutto questo non c'entra assolutamente niente.
Ma l'enciclica non si limita a metter sotto accusa lo sfruttamento che il nord consumistico del mondo metterebbe in atto ai danni del sud sofferente. I paesi industrializzati inquinano oltre che saccheggiare e le conseguenze nefaste del loro inquinamento gravano, di nuovo, sui paesi più poveri. “Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni”.
Insomma, se una fabbrica inquina in Germania aumenta la temperatura... in Nigeria. Come questo sia possibile resta alquanto misterioso; fino a ieri pensavamo che le località più vicine alle fonti inquinanti fossero quelle maggiormente danneggiate dalle emissioni. Le prime vittime del disastro di Chernobyl sono stati gli Ucraini, fino a prova contraria. Papa Francesco ci dice che non è vero. Non ci resta che credergli sulla parola.
E' difficile trovare in tutta l'enciclica una parola di elogio nei confronti della attività produttiva, che costituisce la vera fonte della ricchezza individuale e sociale. Per il papa la produzione è sempre o quasi causa di inquinamento, degrado, arricchimento di alcuni a danno di altri. Il santo padre è un assertore di quella che il filosofo britannico Roger Scruton chiama “la fallacia della somma zero”. Non esistono attività che siano vantaggiose per tutti, la ricerca e lo sviluppo tecnologico non sono in grado di alimentare uno sviluppo che sia cumulativo ed abbia costi sociali ed ambientali limitati. No, per papa Francesco se qualcuno guadagna qualcun altro deve, inevitabilmente, perdere. Non stupisce quindi più di tanto questa affermazione contenuta nell'enciclica:
”è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti”. Se l'Africa vuole crescere Europa ed America devono decrescere. Si tratta di una affermazione che contraddice tutte le leggi economiche che parlano invece del carattere propulsivo sia dello sviluppo che del non sviluppo. Se un paese cresce la sua crescita è uno stimolo per l'economia di altri paesi, se un paese invece attraversa una fase recessiva altri rischiano di essere trascinati nella recessione. Non a caso le attuali difficoltà della Cina preoccupano moltissimo i mercati. Ma il santo padre non è affatto interessato alla scienza economica: questa rappresenta per lui qualcosa di troppo legato all'egoismo individualista per essere considerata positivamente. E così pensa che la decrescita in occidente potrebbe favorire lo sviluppo dei paesi poveri. Gli operatori economici di questi paesi, specie quelli legati alle esportazioni, di certo non gradirebbero una simile eventualità, ma, che importa? Si tratta, probabilmente, di gente attratta dalle sirene del “consumismo compulsivo”.
LAVORO E TECNOLOGIA
Le attività a più elevato contenuto tecnologico sono anche quelle a minor impatto ambientale. Per secoli gli uomini sono stati cacciatori e raccoglitori. Se ci procurassimo ancora da vivere in questo modo distruggeremmo il pianeta nel giro di pochi mesi, se i nostri antichissimi progenitori non lo hanno fatto ciò è dovuto solo al loro numero estremamente esiguo. La agricoltura intensiva ha un impatto ambientale molto minore di quella estensiva e l'applicazione della scienza all'agricoltura riduce ulteriormente tale impatto. Molti sono convinti che le famose fonti rinnovabili abbiano un impatto ambientale molto ridotto, ma si tratta di un errore grossolano. Se dovessimo procurarci non dico la totalità, ma anche solo una quota rilevante dell'energia di cui abbiamo bisogno col solare o l'eolico trasformeremmo aree enormi dei nostri territori in distese di panelli solari o pale eoliche, con effetti devastanti sulla flora e sulla fauna selvatiche. Il tanto detestato nucleare non presenta simili problemi. Ne può presentare altri, ovviamente, ma, se si applicano con rigore le normative di sicurezza, resta una fonte di energia insieme redditizia ed ecologicamente sostenibile. Se un giorno si dovesse realizzare il nucleare per fusione molti dei problemi ecologici che ci opprimono diverrebbero molto meno pressanti.
Chi, come il papa, è giustamente attento ai problemi ecologici dovrebbe quindi guardare con simpatia alla tecnologia. Tutta l'enciclica “laudato si” invece è pervasa da un forte spirito anti tecnologico. A parte alcune frasi di circostanza sulle buone cose che ci può offrire, la tecnica è sempre guardata con sospetto se non con forte ostilità, ed è continua la polemica contro chi pensa che i problemi ambientali possano essere risolti, o comunque resi meno gravi, dalla tecnologia.
Il paradigma su cui si basa la tecnica moderna, afferma l'enciclica, risponde ad una logica di dominio sfrenato dell'uomo sul mondo. “ Da tale paradigma risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede l’oggetto che si trova all’esterno. Tale soggetto si esplica nello stabilire il metodo scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione (…). L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse (…) Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti.”
La tecnologia e sua madre, la scienza moderna, rispondono ad un'ottica di dominio che rompe il rapporto armonioso dell'uomo con la natura. E' illusorio cercare di usare a fini buoni la tecnica perché questa non è qualcosa di neutro, il rapporto fra tecnica e dominio non è accidentale, ma strutturalmente connesso all'essenza stessa della tecnica moderna. "Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere".
Ancora una volta, nulla di nuovo sotto il sole. Che scienza e tecnica non siano neutrali i più anziani lo hanno sentito ripetere mille volte negli anni della contestazione globale, da Herbert Marcuse sino all'ultimo liceale. Ma si tratta di idee tanto suggestive quanto infondate.
La tecnica non dice nulla sui fini che gli esseri umani possono darsi, si limita ad indicare i mezzi necessari al raggiungimento di determinati fini, risponde a quello che Kant ha chiamato imperativo ipotetico: se vuoi X devi fare Y. Se un uomo gravemente ammalato deve subire un ad intervento chirurgico bisogna usare una determinata tecnica per salvargli la vita, se invece si deve eseguire una sentenza di morte occorrerà usare una tecnica diversa per togliergli la vita. Posso decidere che volare non mi interessa, ma se voglio volare devo servirmi di determinate macchine costruite secondo certe modalità tecniche. Nuotare è una tecnica ma lo sono anche lo scrivere o il suonare il pianoforte. E sono frutto della tecnica un'auto come un violino, una nave spaziale come un revolver, una trivella petrolifera come un pannello solare o un depuratore. Pensare che, in quanto tale, la tecnica ci imponga determinati fini significa, molto semplicemente confondere i fini coi mezzi, un po' come ritenere che, visto che esistono tecniche in grado di rendere particolarmente potenti i nostri pugni, noi tutti siamo obbligati a diventare pugili. Una evidente sciocchezza.
Da sempre l'uomo usa la tecnica per rendere il mondo che lo circonda compatibile coi suoi fini. Lo fa perché è l'unico animale a non adattarsi istintivamente all'ecosistema in cui è inserito, l'unico, per quanto possiamo saperne, a porsi coscientemente dei fini; in questo senso poche cose sono tanto intimamente umane come la tecnica. Secondo l'enciclica nel bel tempo andato la tecnica non “violentava” la natura, di modo che uomo e natura potevano darsi amichevolmente la mano. Le cose stanno in realtà in maniera leggermente diversa. Un tempo le tecniche non erano “dolci”, erano solo più primitive e, in certi casi, inefficaci. Cercare di curare un tumore con un salasso è una tecnica esattamente come lo è sottoporre il paziente a chemioterapia, solo, non è una buona tecnica. Altro che uomo e natura che si davano amichevolmente la mano! Quando le tecniche non rispondevano ad una “logica di dominio” un bambino su due non raggiungeva i cinque anni d'età, epidemie di vario tipo dimezzavano la popolazione di interi continenti e una donna su dieci era destinata a morire di parto nel corso della sua vita. Un modo molto bizzarro di “darsi la mano”.
L'avversione del papa bei confronti della tecnica è tanto marcata che la sua enciclica giunge a riproporre, in maniera neppure troppo velata, autentiche tematiche luddiste.
“Non si deve cercare” afferma il papa, “di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale (…) l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro sé stesso”.
C'è da restare sbalorditi, ed anche da chiedersi se il santo padre abbia un consigliere economico. Per il papa il lavoro è uno strumento di realizzazione personale, ma qui il papa fa una confusione che Smith e, in parte, lo stesso Marx si sono invece ben guardati dal fare. Il lavoro può essere, è vero, un fine in se. Scrivere, dipingere, tagliare l'erba del proprio giardino, giocare al pallone, educare i propri figli sono fini prima che essere mezzi. Nessuno scrittore vorrebbe che fosse una macchina a scrivere il romanzo a cui lui sta lavorando e nessuna madre accetterebbe di delegare ad una macchina l'educazione dei propri figli. Ma né lo scrittore né la madre corrono simili rischi. Il lavoro che si cerca di sostituire con macchine non è il lavoro inteso come autorealizzazione, il lavoro – fine, è il lavoro – mezzo, il lavoro - fatica che serve per ottenere beni e servizi, quello che si fa per un salario o uno stipendio, il lavoro propriamente detto. Ebbene, questo lavoro ha senso solo se è produttivo. Se fatico dieci ore per produrre un bene che sarebbe possibile produrre in cinque fatico a vuoto per cinque ore, se al termine di una giornata lavorativa ho prodotto beni che non interessano a nessuno ho sprecato il mio lavoro; la mia giornata lavorativa, dal punto di vista sociale è una perdita secca. L'enciclica sembra condividere l'opinione ingenua secondo cui lavorare sia sempre e comunque qualcosa di positivo, indipendentemente dai risultati del lavoro che si svolge. Per secoli gli esseri umani hanno lavorato moltissimo restando molto poveri, semplicemente perché il loro lavoro era scarsamente produttivo. L'applicazione della scienza all'industria e lo sviluppo tecnologico hanno reso il lavoro enormemente più produttivo e questo, nel lungo periodo, ha permesso sia un incremento generalizzato del benessere che una riduzione a volte molto marcata dell'orario di lavoro. Nella “Ricchezza delle nazioni” Smith osserva che un operaio dei suoi tempi era, da certi punti di vista, più ricco che un principe del passato. L'apparente paradosso di Smith è ancora più accentuato ai nostri giorni: un comune cittadino italiano di oggi vive più a lungo, è più sano, mangia meglio, viaggia più, in molti casi è più colto di un re di tre secoli fa. Cosa ha reso possibile un fatto tanto strano? L'incremento della produttività del lavoro, conseguenza dello sviluppo tecnologico. E' quasi imbarazzante dover scrivere cose tanto banalmente vere, ma sono le “bizzarrie” dell'enciclica a costringere a farlo.
PER CONCLUDERE
Non è il caso di commentare l'enciclica in tutti i suoi molteplici aspetti. Farlo renderebbe il presente scritto intollerabilmente lungo, e non sarebbe neppure troppo utile. Al di la di questa o quella affermazione lo spirito generale che informa l'enciclica papale è infatti sin troppo chiaro. Qua e là nel suo lavoro il papa assume posizioni più “moderate”. Riconosce l'utilità di molte realizzazioni della tecnologia, ammette che il diritto di proprietà, ovviamente sottoposto a numerosissimi limiti e controlli, va tutelato, giunge addirittura a parlare di “nobiltà” della funzione imprenditoriale. Ma si tratta di posizioni che stridono con l'impostazione generale della “laudato si”. Tutta l'enciclica è infatti caratterizzata da una avversione fortissima nei confronti di quanto è sviluppo economico e tecnologico, mercato, scambio, denaro. Soprattutto è caratterizzata da una fortissima, quasi violenta, avversione nei confronti del “consumismo”. Il consumismo appare, nell'enciclica papale un fenomeno dai contorni quasi satanici. Trasforma alcuni uomini in una sorta di macchine per consumare, egoisti senz'anima capaci solo di circondarsi di beni “inutili”, e condanna altri esseri umani alla più degradante miseria. Il consumismo è il responsabile dei principali drammi dell'umanità: povertà, guerre ed inquinamento sono causati, più o meno direttamente dalla follia consumistica delle popolazioni “ricche” del pianeta.
Il consumismo è parte di un processo storico che inizia con la rivoluzione industriale. Prima di quell'evento la gran maggioranza dei beni era destinata alle classi ricche. Si produceva per le classi elevate della società, al popolo restavano le briciole. Con la rivoluzione industriale questo quadro cambia radicalmente. Le imprese iniziano a produrre beni destinati al consumo di massa. I referenti principali della produzione cessano di essere le classi alte, al loro posto si fanno avanti gli uomini e le donne “normali”. Contrariamente a quanto avveniva un paio di secoli fa i beni destinati alle elites costituiscono oggi una minoranza, spesso una piccola minoranza, del monte prodotti complessivo.
L'espansione del consumo di massa costituisce l'aspetto economico di quel processo di entrata delle masse nella storia che ha sul piano politico il suo corrispettivo nell'affermazione della democrazia. Si è trattato e si tratta di un processo ricco di luci e di ombre, caratterizzato da pericoli che fior di pensatori liberali hanno denunciato; un processo però di cui è impossibile disconoscere il carattere storicamente progressivo. Grazie a quel processo milioni e milioni di esseri umani hanno abbandonato una posizione di degradante marginalità sociale, sono diventati a tutti gli effetti cittadini ed hanno conquistato un livello di vita finalmente dignitoso. Solo con una buona dose di snobismo intellettuale è possibile sottovalutare cose simili.
Eppure è letteralmente impossibile trovare nella enciclica papale una analisi equilibrata di un processo storico tanto importante e complesso. Nel corso di tutta l'enciclica il papa non fa che lanciare anatemi contro il “consumismo”, contrapponendo spesso alla sua “follia” la presunta serena felicità delle età preindustriali.
L'avversione del pontefice nei confronti della “opulenza consumistica” è tanto forte da far nascere sospetti sul senso vero della sua simpatia nei confronti dei poveri. Bisogna ascoltare il grido dei poveri, ripete costantemente il papa, ma, ascoltarlo per fare cosa? Per aiutare i poveri a cessare di essere tali? C'è da dubitarne.
Nel corso degli ultimi decenni importanti paesi, ieri caratterizzati da estrema, degradante povertà, hanno imboccato, fra mille difficoltà, la strada dello sviluppo. Lo hanno fatto seguendo, nella sostanza, la via già percorsa dalle grandi potenze economiche dell'occidente: investimenti in ricerca e sviluppo, tecnologia, mercato, espansione dei consumi. Il papa auspica un simile percorso per quei paesi che nel sottosviluppo ci sono ancora immersi fino al collo? Non mi sembra si possa dare una risposta positiva ad una simile domanda, al contrario. Certo, per Francesco il modello occidentale è improponibile perché “il pianeta non lo reggerebbe”. E molto dubbio che questa previsione si basi su una analisi scientifica seria della realtà, ma, a prescindere da simili considerazioni, val la pena di porsi la domanda: se fosse possibile l'attuazione di un simile modello questa sarebbe, per papa Francesco, desiderabile? Non si può che rispondere NO. Indipendentemente dalla sua realizzabilità, per il papa il modello di sviluppo occidentale è intrinsecamente negativo, perverso, forse addirittura satanico. Se paragonata al degrado morale di cui il consumismo è portatore la povertà appare al il pontefice, come qualcosa di positivo. I poveri sarebbero portatori di valori umani fondamentali che gli abitanti dei paesi ricchi hanno ormai da tempo obliato. L'ideologia che traspare dalla enciclica papale è, fin troppo chiaramente, il pauperismo. Per questo la povertà non è tanto un problema ed un nemico quanto un valore. Si devono aiutare i poveri, ma non certo per farli diventare i mostri egoisti e dissipatori che sono i “ricchi” del nord del mondo.
E' lecito allora sospettare che la prospettiva di un mondo in cui non risuonasse più “il grido dei poveri”, un mondo in cui la povertà fosse ridotta a dimensioni marginali e tutti avessero raggiunto un decente livello di consumo, non rappresenti per il papa un sogno, al contrario. Una simile prospettiva è molto probabilmente per lui un incubo, forse il peggiore dei suoi incubi.
Tutta l'enciclica papale conferma un simile sospetto, purtroppo.
Le attività a più elevato contenuto tecnologico sono anche quelle a minor impatto ambientale. Per secoli gli uomini sono stati cacciatori e raccoglitori. Se ci procurassimo ancora da vivere in questo modo distruggeremmo il pianeta nel giro di pochi mesi, se i nostri antichissimi progenitori non lo hanno fatto ciò è dovuto solo al loro numero estremamente esiguo. La agricoltura intensiva ha un impatto ambientale molto minore di quella estensiva e l'applicazione della scienza all'agricoltura riduce ulteriormente tale impatto. Molti sono convinti che le famose fonti rinnovabili abbiano un impatto ambientale molto ridotto, ma si tratta di un errore grossolano. Se dovessimo procurarci non dico la totalità, ma anche solo una quota rilevante dell'energia di cui abbiamo bisogno col solare o l'eolico trasformeremmo aree enormi dei nostri territori in distese di panelli solari o pale eoliche, con effetti devastanti sulla flora e sulla fauna selvatiche. Il tanto detestato nucleare non presenta simili problemi. Ne può presentare altri, ovviamente, ma, se si applicano con rigore le normative di sicurezza, resta una fonte di energia insieme redditizia ed ecologicamente sostenibile. Se un giorno si dovesse realizzare il nucleare per fusione molti dei problemi ecologici che ci opprimono diverrebbero molto meno pressanti.
Chi, come il papa, è giustamente attento ai problemi ecologici dovrebbe quindi guardare con simpatia alla tecnologia. Tutta l'enciclica “laudato si” invece è pervasa da un forte spirito anti tecnologico. A parte alcune frasi di circostanza sulle buone cose che ci può offrire, la tecnica è sempre guardata con sospetto se non con forte ostilità, ed è continua la polemica contro chi pensa che i problemi ambientali possano essere risolti, o comunque resi meno gravi, dalla tecnologia.
Il paradigma su cui si basa la tecnica moderna, afferma l'enciclica, risponde ad una logica di dominio sfrenato dell'uomo sul mondo. “ Da tale paradigma risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede l’oggetto che si trova all’esterno. Tale soggetto si esplica nello stabilire il metodo scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione (…). L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse (…) Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti.”
La tecnologia e sua madre, la scienza moderna, rispondono ad un'ottica di dominio che rompe il rapporto armonioso dell'uomo con la natura. E' illusorio cercare di usare a fini buoni la tecnica perché questa non è qualcosa di neutro, il rapporto fra tecnica e dominio non è accidentale, ma strutturalmente connesso all'essenza stessa della tecnica moderna. "Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere".
Ancora una volta, nulla di nuovo sotto il sole. Che scienza e tecnica non siano neutrali i più anziani lo hanno sentito ripetere mille volte negli anni della contestazione globale, da Herbert Marcuse sino all'ultimo liceale. Ma si tratta di idee tanto suggestive quanto infondate.
La tecnica non dice nulla sui fini che gli esseri umani possono darsi, si limita ad indicare i mezzi necessari al raggiungimento di determinati fini, risponde a quello che Kant ha chiamato imperativo ipotetico: se vuoi X devi fare Y. Se un uomo gravemente ammalato deve subire un ad intervento chirurgico bisogna usare una determinata tecnica per salvargli la vita, se invece si deve eseguire una sentenza di morte occorrerà usare una tecnica diversa per togliergli la vita. Posso decidere che volare non mi interessa, ma se voglio volare devo servirmi di determinate macchine costruite secondo certe modalità tecniche. Nuotare è una tecnica ma lo sono anche lo scrivere o il suonare il pianoforte. E sono frutto della tecnica un'auto come un violino, una nave spaziale come un revolver, una trivella petrolifera come un pannello solare o un depuratore. Pensare che, in quanto tale, la tecnica ci imponga determinati fini significa, molto semplicemente confondere i fini coi mezzi, un po' come ritenere che, visto che esistono tecniche in grado di rendere particolarmente potenti i nostri pugni, noi tutti siamo obbligati a diventare pugili. Una evidente sciocchezza.
Da sempre l'uomo usa la tecnica per rendere il mondo che lo circonda compatibile coi suoi fini. Lo fa perché è l'unico animale a non adattarsi istintivamente all'ecosistema in cui è inserito, l'unico, per quanto possiamo saperne, a porsi coscientemente dei fini; in questo senso poche cose sono tanto intimamente umane come la tecnica. Secondo l'enciclica nel bel tempo andato la tecnica non “violentava” la natura, di modo che uomo e natura potevano darsi amichevolmente la mano. Le cose stanno in realtà in maniera leggermente diversa. Un tempo le tecniche non erano “dolci”, erano solo più primitive e, in certi casi, inefficaci. Cercare di curare un tumore con un salasso è una tecnica esattamente come lo è sottoporre il paziente a chemioterapia, solo, non è una buona tecnica. Altro che uomo e natura che si davano amichevolmente la mano! Quando le tecniche non rispondevano ad una “logica di dominio” un bambino su due non raggiungeva i cinque anni d'età, epidemie di vario tipo dimezzavano la popolazione di interi continenti e una donna su dieci era destinata a morire di parto nel corso della sua vita. Un modo molto bizzarro di “darsi la mano”.
L'avversione del papa bei confronti della tecnica è tanto marcata che la sua enciclica giunge a riproporre, in maniera neppure troppo velata, autentiche tematiche luddiste.
“Non si deve cercare” afferma il papa, “di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale (…) l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro sé stesso”.
C'è da restare sbalorditi, ed anche da chiedersi se il santo padre abbia un consigliere economico. Per il papa il lavoro è uno strumento di realizzazione personale, ma qui il papa fa una confusione che Smith e, in parte, lo stesso Marx si sono invece ben guardati dal fare. Il lavoro può essere, è vero, un fine in se. Scrivere, dipingere, tagliare l'erba del proprio giardino, giocare al pallone, educare i propri figli sono fini prima che essere mezzi. Nessuno scrittore vorrebbe che fosse una macchina a scrivere il romanzo a cui lui sta lavorando e nessuna madre accetterebbe di delegare ad una macchina l'educazione dei propri figli. Ma né lo scrittore né la madre corrono simili rischi. Il lavoro che si cerca di sostituire con macchine non è il lavoro inteso come autorealizzazione, il lavoro – fine, è il lavoro – mezzo, il lavoro - fatica che serve per ottenere beni e servizi, quello che si fa per un salario o uno stipendio, il lavoro propriamente detto. Ebbene, questo lavoro ha senso solo se è produttivo. Se fatico dieci ore per produrre un bene che sarebbe possibile produrre in cinque fatico a vuoto per cinque ore, se al termine di una giornata lavorativa ho prodotto beni che non interessano a nessuno ho sprecato il mio lavoro; la mia giornata lavorativa, dal punto di vista sociale è una perdita secca. L'enciclica sembra condividere l'opinione ingenua secondo cui lavorare sia sempre e comunque qualcosa di positivo, indipendentemente dai risultati del lavoro che si svolge. Per secoli gli esseri umani hanno lavorato moltissimo restando molto poveri, semplicemente perché il loro lavoro era scarsamente produttivo. L'applicazione della scienza all'industria e lo sviluppo tecnologico hanno reso il lavoro enormemente più produttivo e questo, nel lungo periodo, ha permesso sia un incremento generalizzato del benessere che una riduzione a volte molto marcata dell'orario di lavoro. Nella “Ricchezza delle nazioni” Smith osserva che un operaio dei suoi tempi era, da certi punti di vista, più ricco che un principe del passato. L'apparente paradosso di Smith è ancora più accentuato ai nostri giorni: un comune cittadino italiano di oggi vive più a lungo, è più sano, mangia meglio, viaggia più, in molti casi è più colto di un re di tre secoli fa. Cosa ha reso possibile un fatto tanto strano? L'incremento della produttività del lavoro, conseguenza dello sviluppo tecnologico. E' quasi imbarazzante dover scrivere cose tanto banalmente vere, ma sono le “bizzarrie” dell'enciclica a costringere a farlo.
PER CONCLUDERE
Non è il caso di commentare l'enciclica in tutti i suoi molteplici aspetti. Farlo renderebbe il presente scritto intollerabilmente lungo, e non sarebbe neppure troppo utile. Al di la di questa o quella affermazione lo spirito generale che informa l'enciclica papale è infatti sin troppo chiaro. Qua e là nel suo lavoro il papa assume posizioni più “moderate”. Riconosce l'utilità di molte realizzazioni della tecnologia, ammette che il diritto di proprietà, ovviamente sottoposto a numerosissimi limiti e controlli, va tutelato, giunge addirittura a parlare di “nobiltà” della funzione imprenditoriale. Ma si tratta di posizioni che stridono con l'impostazione generale della “laudato si”. Tutta l'enciclica è infatti caratterizzata da una avversione fortissima nei confronti di quanto è sviluppo economico e tecnologico, mercato, scambio, denaro. Soprattutto è caratterizzata da una fortissima, quasi violenta, avversione nei confronti del “consumismo”. Il consumismo appare, nell'enciclica papale un fenomeno dai contorni quasi satanici. Trasforma alcuni uomini in una sorta di macchine per consumare, egoisti senz'anima capaci solo di circondarsi di beni “inutili”, e condanna altri esseri umani alla più degradante miseria. Il consumismo è il responsabile dei principali drammi dell'umanità: povertà, guerre ed inquinamento sono causati, più o meno direttamente dalla follia consumistica delle popolazioni “ricche” del pianeta.
Il consumismo è parte di un processo storico che inizia con la rivoluzione industriale. Prima di quell'evento la gran maggioranza dei beni era destinata alle classi ricche. Si produceva per le classi elevate della società, al popolo restavano le briciole. Con la rivoluzione industriale questo quadro cambia radicalmente. Le imprese iniziano a produrre beni destinati al consumo di massa. I referenti principali della produzione cessano di essere le classi alte, al loro posto si fanno avanti gli uomini e le donne “normali”. Contrariamente a quanto avveniva un paio di secoli fa i beni destinati alle elites costituiscono oggi una minoranza, spesso una piccola minoranza, del monte prodotti complessivo.
L'espansione del consumo di massa costituisce l'aspetto economico di quel processo di entrata delle masse nella storia che ha sul piano politico il suo corrispettivo nell'affermazione della democrazia. Si è trattato e si tratta di un processo ricco di luci e di ombre, caratterizzato da pericoli che fior di pensatori liberali hanno denunciato; un processo però di cui è impossibile disconoscere il carattere storicamente progressivo. Grazie a quel processo milioni e milioni di esseri umani hanno abbandonato una posizione di degradante marginalità sociale, sono diventati a tutti gli effetti cittadini ed hanno conquistato un livello di vita finalmente dignitoso. Solo con una buona dose di snobismo intellettuale è possibile sottovalutare cose simili.
Eppure è letteralmente impossibile trovare nella enciclica papale una analisi equilibrata di un processo storico tanto importante e complesso. Nel corso di tutta l'enciclica il papa non fa che lanciare anatemi contro il “consumismo”, contrapponendo spesso alla sua “follia” la presunta serena felicità delle età preindustriali.
L'avversione del pontefice nei confronti della “opulenza consumistica” è tanto forte da far nascere sospetti sul senso vero della sua simpatia nei confronti dei poveri. Bisogna ascoltare il grido dei poveri, ripete costantemente il papa, ma, ascoltarlo per fare cosa? Per aiutare i poveri a cessare di essere tali? C'è da dubitarne.
Nel corso degli ultimi decenni importanti paesi, ieri caratterizzati da estrema, degradante povertà, hanno imboccato, fra mille difficoltà, la strada dello sviluppo. Lo hanno fatto seguendo, nella sostanza, la via già percorsa dalle grandi potenze economiche dell'occidente: investimenti in ricerca e sviluppo, tecnologia, mercato, espansione dei consumi. Il papa auspica un simile percorso per quei paesi che nel sottosviluppo ci sono ancora immersi fino al collo? Non mi sembra si possa dare una risposta positiva ad una simile domanda, al contrario. Certo, per Francesco il modello occidentale è improponibile perché “il pianeta non lo reggerebbe”. E molto dubbio che questa previsione si basi su una analisi scientifica seria della realtà, ma, a prescindere da simili considerazioni, val la pena di porsi la domanda: se fosse possibile l'attuazione di un simile modello questa sarebbe, per papa Francesco, desiderabile? Non si può che rispondere NO. Indipendentemente dalla sua realizzabilità, per il papa il modello di sviluppo occidentale è intrinsecamente negativo, perverso, forse addirittura satanico. Se paragonata al degrado morale di cui il consumismo è portatore la povertà appare al il pontefice, come qualcosa di positivo. I poveri sarebbero portatori di valori umani fondamentali che gli abitanti dei paesi ricchi hanno ormai da tempo obliato. L'ideologia che traspare dalla enciclica papale è, fin troppo chiaramente, il pauperismo. Per questo la povertà non è tanto un problema ed un nemico quanto un valore. Si devono aiutare i poveri, ma non certo per farli diventare i mostri egoisti e dissipatori che sono i “ricchi” del nord del mondo.
E' lecito allora sospettare che la prospettiva di un mondo in cui non risuonasse più “il grido dei poveri”, un mondo in cui la povertà fosse ridotta a dimensioni marginali e tutti avessero raggiunto un decente livello di consumo, non rappresenti per il papa un sogno, al contrario. Una simile prospettiva è molto probabilmente per lui un incubo, forse il peggiore dei suoi incubi.
Tutta l'enciclica papale conferma un simile sospetto, purtroppo.
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