venerdì 30 settembre 2016

SUL MONDIALISMO - 3) MONDIALISMO E MERCATO

Il rapporto fra capitalismo e stato nazionale è assai più complesso e meno lineare di quanto comunemente si pensi. Innanzitutto una premessa, fondamentale. Il capitalismo contemporaneo (in realtà il capitalismo, inteso nel senso lato di economia di mercato, è vecchio di millenni) è nato, grosso modo, insieme agli  stati nazionali. Il primo e più importante capitalismo del mondo è sorto in Inghilterra, uno dei più antichi e gloriosi stati nazionali europei. Gli uomini protagonisti del capitalismo agivano, ed agiscono, quali individui inseriti nella loro classe sociale ma anche nella loro realtà nazionale. Le due appartenenze, non coincidenti, si sono sempre intrecciate e condizionate a vicenda. Non a caso il capolavoro di Adam Smith si intitola: “La ricchezza delle nazioni”, o, per esteso: “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Il fondatore dell'economia politica indaga su quale sia il sistema economico in grado di accrescere al massimo la ricchezza delle nazioni. Il capitalismo nasce non in contrapposizione allo stato nazionale ed alla dimensione nazionale in cui si muovono gli esseri umani ma in accordo con questa.
Ma, anche a prescindere da queste considerazioni generali e fermando l'analisi ai fattori più direttamente economici, il rapporto capitalismo – stato nazione, appare tutto meno che lineare.
Il capitalismo mira, da sempre, alla internazionalizzazione degli scambi, la cosa è innegabile, e, per inciso, non è affatto negativa: rompe barriere, localismi, chiusure tribali. Ma, nel momento stesso in cui preme su confini e barriere il capitalismo ne cerca la protezione. Per potersi sviluppare l'economia di mercato ha bisogno di leggi, protezioni giuridiche, regole e queste oggi possono essere messe in atto solo dagli stati nazione. Solo simili stati sono sostenuti da un consenso diffuso, si basano su autentici sentimenti di appartenenza che ne impediscono sia la disgregazione che l'involuzione tirannica contraria, in ultima analisi, alle esigenze dell'economia. L'economia di mercato accompagna più o meno tutta la storia umana, ma si rafforza e diventa egemone solo in paesi in cui sia garantita ai cittadini almeno un minimo di tutela giuridica ed in cui gli stati non siano enormi mostri burocratici, accentrati e prevaricatori, né opprimenti teocrazie.

E' quasi un luogo comune che il capitalismo prema per la libertà degli scambi. C'è molto di vero in una simile affermazione, ma è completamente errato pensare che la spinta verso gli scambi internazionali si trasformi necessariamente in mondialismo, sia destinata cioè a distruggere la dimensione nazionale degli stati.
Nelle fasi iniziali del loro sviluppo le economie capitalistiche hanno fatto ricorso, spesso e volentieri, a pesanti dazi protettivi. Ed anche economie capitalistiche mature devono far ricorso, specie nei momenti di difficoltà o di crisi, a protezioni doganali. Ben lungi dall'essere una tendenza generalizzata ed invincibile di tutte le economie capitalistiche il libero scambio ne caratterizza, parzialmente, quelle più dinamiche nelle fasi di espansione del ciclo economico.
La moneta ed il suo tasso cambio rispecchiano i rapporti di forza fra le varie economie. Se in un paese la produttività del lavoro è doppia rispetto ad un altro il rapporto fra le loro monete deve adeguarsi: il paese più produttivo deve rivalutare e questo influenza l'andamento degli scambi. Senza diverse monete che rispecchino ed in parte correggano le relazioni strutturali fra le economie gli scambi sarebbero più difficili. Una moneta unica mondiale, logica conseguenza del superamento degli stati nazionali, sarebbe un formidabile ostacolo al commercio ed allo sviluppo economico. Ne sono prova le numerose disavventure dell'euro.
Come si sa gli stimoli alla domanda e le immissioni o i drenaggi di liquidità nel sistema servono a contrastare le impennate eccessive del ciclo economico. Indipendentemente dalla valutazione sull'efficacia di tali politiche, uno stato “mondiale” di certo non potrebbe metterle in atto. Le esigenze di liquidità, le variazioni della domanda sono estremamente variabili da luogo a luogo e nessuna politica economica super accentrata sarebbe in grado di farvi fronte.
Questi sono solo tre esempi, che riportano tutti ad un'unica considerazione. Il rapporto tra economia capitalistica e stati nazionali è tutto meno che unilineare. La tendenza all'internazionalismo, al superamento degli stati nazionali si intreccia continuamente con l'esigenza di conservarli, questi stati; gli stessi meccanismi che portano alla concentrazione ed alla unificazione mondiale dei mercati tendono di continuo a ricrearne l'esigenza.

L'approccio di molti all'economia capitalista è invece di tipo unilineare. Si esamina una tendenza del sistema, la si proietta ne futuro e si traggono da questa estrapolazione conseguenze generali di immane portata. Si disegnano in questo modo grandiosi scenari, ottimistici o cupamente pessimistici, che però raramente concordano con la realtà.
La stessa analisi marxiana, di cui qui ci possiamo occupare solo telegraficamente, è di questo tipo. Il modo di produzione capitalistico tende alla concentrazione ed alla socializzazione della produzione. Le grandi aziende sostituiscono inesorabilmente quelle più piccole, i confini statali vengono valicati, il mercato si unifica a livello mondiale. Un numero sempre più ristretto di imprese di enormi dimensioni domina l'economia nella sua interezza. Scrive Marx nell'ultimo capitolo del libro primo del “
Capitale”:
“Allorché il modo di produzione capitalistico ha gettato le proprie fondamenta, l'ulteriore socializzazione del lavoro e l'ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione socialmente sfruttati, vale a dire in
mezzi di produzione collettivi, quindi anche l'espropriazione dei proprietari privati assumono una nuova forma (…). Questa espropriazione si attua mediante il meccanismo delle leggi fondamentali della produzione capitalistica stessa , mediante la concentrazione dei capitali”.
Le leggi immanenti del sistema capitalistico lo spingono verso una crescente concentrazione e socializzazione della produzione. Nel capitalismo esiste una formidabile spinta in senso collettivista che però, ecco il punto decisivo, il capitalismo stesso blocca. I rapporti di produzione capitalistici entrano in contrasto con il modo di produzione capitalistico, bloccano le tendenze alla socializzazione pure attivissime in questo.
“L'accentramento dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro arrivano a un punto in cui entrano in contraddizione col loro rivestimento capitalistico. Ed esso viene infranto.
Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori divengono espropriati. (…) La produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la propria negazione. E' la negazione della negazione”.
E' il “
Capitale” di Marx ma può sembrare la “Scienza della logica” di Hegel. E' comunque impressionante il carattere unilineare, al limite della unilateralità, della analisi marxiana. Il capitalismo concentra e socializza produzione e lavoro. Questo processo di concentrazione e socializzazione abbatte ogni barriera, unifica i mercati e semplifica radicalmente il tessuto sociale. Entra però in contrasto coi rapporti di produzione capitalistici ancora basati sulla appropriazione privata del plusvalore. A questo punto entra in campo la classe rivoluzionaria, il proletariato, che rompe questi rapporti, socializza compiutamente la produzione, riorganizza l'economia in maniera armoniosamente programmata e spalanca per tutti le porte del regno. L'umanità esce dalla preistoria e, finalmente, entra nella storia.

La storia, prima che l'analisi teorica, doveva smentire clamorosamente le previsioni, forse sarebbe meglio dire profezie, marxiane.

Non è scomparsa la piccola impresa, al contrario, la concentrazione dei capitali aumentando la produttività del lavoro e lo sviluppo economico complessivo ben lungi dal far sparire le piccole imprese, ha aperto loro nuove possibilità.
Non sono scomparsi gli stati nazionali, al contrario, stati che erano rimasti per secoli in una posizione subordinata sono emersi prepotentemente e sono oggi fra i protagonisti sia a livello politico che economico.
Non c'è stata la semplificazione del tessuto sociale, e la sua la proletarizzazione. L'economia capitalistica da tempo si basa sul consumismo, non sulla contrazione dei consumi e sulla riduzione del monte salari al “minimo vitale”. Invece che alla proletarizzazione dei ceti medi abbiamo assistito all'imborghesimento della classe operaia. La conseguenza di questo processo storico innegabile è stata non la semplificazione ma una rinnovata articolazione della società.
Da qualsiasi punto di vista si guardino le cose la conclusione è sempre la stessa. Non esiste nel capitalismo una unica, inarrestabile tendenza alla concentrazione ed alla omegeneizzazione di tutto, un impulso irresistibile alla semplificazione sociale, che si scontrerebbe con i rapporti di produzione borghesi. Del resto molti esponenti del movimento operaio cominciarono assai presto ad accorgersi che il movimento reale della storia contraddiceva le previsioni marxiane. Lo stesso Engels ebbe dubbi di questo tipo. Dopo di lui le correnti revisioniste della socialdemocrazia tedesca presero lentamente atto di come si stavano mettendo le cose. E, sul versante opposto, anche le correnti rivoluzionarie dovettero misurarsi con il fenomeno inquietante di un processo storico che non quadrava con schemi dialettici prestabiliti. Lenin era tormentato dall'imborghesimento della classe operaia dell'Europa occidentale, soprattutto di quella inglese, da lui sprezzantemente definita “aristocrazia operaia”. Non a caso pensò di sostituire agli operai il loro partito internazionale come soggetto della rivoluzione.
A parte ogni considerazione storica, resta da porsi la domanda: la mondializzazione costituisce davvero l'essenza del mercato o non è piuttosto espressione di una tendenza presente nell'economia capitalistica, quella che spinge nel senso della
pianificazione?
In ogni economia, in ogni società, esistono innumerevoli “piani”. Ogni individuo, ogni famiglia, ogni impresa od associazione ordinano le proprie scelte, si pongono degli obiettivi, in una parola, pianificano la propria esistenza. L'economia di mercato non abolisce i “piani”, ne riconosce invece la molteplicità. Rifiuta un'altra cosa: che tutta l'economia, tutta la vita sociale, le esistenze di tutti gli individui e di tutte le associazioni debbano essere sottoposte ad
un'unica pianificazione centralizzata. E' naturale che le imprese di dimensioni enormi, legate agli apparati statali, addirittura ad apparati di più stati, abbiano interessi pianificatori più accentuali, e tendano ad imporli al resto dei soggetti economici. Ed hanno interessi simili i grandi apparti burocratici statali, nazionali e sovranazionali. E tendenze pianificatrici esistono, oltre che a livello di imprese e stati, anche a livello di massa. Spingono nel senso della pianificazione quei non secondari settori della pubblica opinione che vedono nelle sovvenzioni statali e nella economia assistita un possibile mezzo di sussistenza, e spingono nello stesso senso quanti, e sono molti, restano influenzati dalla cultura della pianificazione e ritengono che il mercato sia il regno di una irrazionale anarchia. Si tratta di tendenze potenti, anche se non invincibili, ma, ecco il punto, possono davvero esser scambiate per “mercatismo”, “liberismo selvaggio”, “religione della concorrenza”? E, cosa ancora più importante, si tratta di tendenze positive o negative? Da favorire o da contrastare?

Che le tendenze pianificatrici insite nel capitalismo poco o nulla abbiano a che vedere col mercato ed il liberismo dovrebbe essere ovvio. Se davvero queste tendenze dovessero risultare inarrestabili vorrebbe dire che il capitalismo decreta da se stesso la propria fine o “superamento”, e non per mano della classe rivoluzionaria, come riteneva Marx, ma ad opera dei ceti burocratico manageriali che esso stesso ha prodotto. Qualcosa che può ricordare lo Shumpeter, di “
capitalismo, socialismo , democrazia”, di certo non “capitalismo e libertà” di Milton Friedman.
A parte ogni dissertazione pseudo erudita, basta esaminare l'esperienza forse più compiuta di superamento degli stati nazione per constatare quanto poco questa abbia a che fare col liberismo ed il liberalismo. L'Unione Europea viene spesso polemicamente definita unione
sovietica europea, e non a torto. Cosa c'è di liberale nella UE? Ha qualcosa di “liberale” la pretesa di stabilire da Bruxelles la temperatura del caffè espresso, la lunghezza dei gambi di carciofo, il diametro delle pizze o la portata degli sciacquoni nei bagni? Con l'introduzione dell'euro si è imposta un'unica moneta ad economia diversissime, con esigenze del tutto diverse. E per cercare di conferire un qualche grado di omogeneità alle economie sottoposte ad un'unica moneta si è imposto loro il rispetto di determinati parametri. Si è sostituito il cambio della moneta quale indice dei rapporti di forza fra le economia con l'imposizione dei rapporti deficit/PIL o debito/PIL. Difficile immaginare qualcosa di più centralistico, burocraticamente, sterilmente programmatorio. E non passa giorno senza che la commissione europea, una accolita di burocrati non eletti da nessuno e non responsabili di fronte a nessuno, non si inventi qualche nuova regola. Oggi delibera sul linguaggio, in linea ovviamente con la religione politicamente corretta.  Domani impone a tutti i paesi europei norme sulla qualità dei prodotti, sulla loro “tracciabilità”, o sulle transazioni di denaro. Dopodomani decide quanto latte si possa produrre in Italia o quanto vino in Spagna. C'entra qualcosa tutto questo col mercato e la concorrenza? Difficile poterci credere.

A parte ogni discorso sulla “essenza" del fenomeno di cui stiamo parlando, restano le domande: si tratta di un fenomeno inarrestabile? Ed è positivo o negativo? Di inarrestabile ci sono poche cose a questo mondo. Certo, tutti prima o poi moriamo, ma questo non determina affatto il tipo di vita che facciamo, che invece dipende molto dalle nostre scelte. Le tendenze al mondialismo ed alla concentrazione sono potenti, ma niente affatto incontrollabili. In fondo nel mondo ci sono oggi più stati nazionali che non un secolo fa, e se la UE dimostra ogni giorno di più di essere in crisi non si capisce quali potrebbero essere, in un futuro prevedibile, le possibilità di affermazione di uno stato mondiale. Quanto alla sua positività o negatività, mi sembra che la risposta emerga abbastanza chiaramente da quanto si è scritto sinora. C'è solo da aggiungere che qualsiasi economia centralmente programmata si trova a dover fare i conti con due formidabili difficoltà. La prima, sottolineata da Von Mises, riguarda la mancanza, nelle economie pianificate di un efficiente strumento di selezione e valutazione degli investimenti. Le variazioni dei prezzi, collegate all'andamento della domanda e dell'offerta, indicano se si è investito troppo o troppo poco in un determinato prodotto o settore. Ci si privi del mercato e questo formidabile strumento di valutazione razionale delle scelte scompare. La seconda difficoltà riguarda l'utilizzo di quella che Hayek chiamava la conoscenza diffusa. Una mole enorme di conoscenze particolari in possesso di una altrettanto enorme quantità di persone, ognuna competente nella realtà limitata in cui opera. Queste conoscenze possono essere socializzate e utilizzate a beneficio di tutti solo grazie all'azione impersonale del mercato, nessun programmatore centrale è in grado di acquisirle. La programmazione centralizzata priva la società tutta di una gran mole di conoscenze, una programmazione mondiale farebbe diventare enorme una simile perdita. Anche fermandoci a valutazioni strettamente economiche del problema la negatività del mondialismo programmatorio salta agli occhi.

Del resto, per concludere, ha senso interrogarsi sulla inevitabilità o meno, e sulla positività o negatività, del mondialismo affrontando il problema dal solo punto d vista economico? L'attività economica, lo si è detto e ripetuto, non si sviluppa in vitro. Gli esseri umani che producono, comprano e vendono sono sempre inseriti in determinate realtà non produttive od economiche: culture, civiltà, nazioni. Le relazioni commerciali ed economiche fra gli uomini si intrecciano di continuo con relazioni culturali, con solidarietà e contrasti nazionali o religiosi, appartenenze di civiltà. Pensare al mondialismo come ad un fenomeno che riguarda solo o prevalentemente i mercati e la loro internazionalizzazione è fuorviante. Quel grande fenomeno storico che sono le migrazioni delle popolazioni prevalentemente africane, medio orientali e più in generale di religione islamica ha ben poco a che vedere con la globalizzazione dei mercati: riguarda infatti, fra l'altro, molti paesi del tutto emarginati dai processi di globalizzazione. Le migrazioni di popoli africani verso l'Europa, un fenomeno che sta assumendo i caratteri e le dimensioni di una autentica
sostituzione di popolazioni, ha origine anche nella miseria di certi paesi, ma questa da sola non lo spiega, anche perché la miseria non è un fatto nuovo, mentre sono nuovi i processi migratori a cui stiamo assistendo. Si elimini dalla scena l'Islam, la sua aggressività, le continue guerre civili da cui è dilaniato, la sua volontà di imporsi in quanto religione mondiale, e si capisce ben poco delle “migrazioni”. Si elimini dalla scena la crisi culturale dell'occidente, il diffondersi nella nostra civiltà di quel cancro che è l'ideologia del politicamente corretto, la ristrettezza di vedute delle elites occidentali, pronte a vendere la propria civiltà per un barile di petrolio, e dei fenomeni migratori in corso si capirà ancora meno.
Le frontiere della mondializzazione oggi coincidono solo in parte con quelle del mercato globalizzato. Accanto alla globalizzazione dei mercati è in opera un diverso tipo di globalizzazione: quella culturale e religiosa i cui confini coincidono con quelli del radicalismo islamico in espansione. In espansione anche, forse soprattutto, grazie ai processi migratori che l'occidente subisce passivamente. La vera, paurosa distopia con cui abbiamo, ed avremo sempre più a che fare non è solo, né tanto, quella di un mondo grigio, burocraticamente programmato ed invaso di soli prodotti standardizzati. La distopia davvero spaventosa è quella rappresentata dal califfato islamico ed impersonata da Abu Bakr Al Baghdadi. Ma questo è un altro discorso.

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