martedì 27 settembre 2016

SUL MONDIALISMO - 2) MONDIALISMO E LOCALISMO

Molti pensano che il mercato sia il regno delle omologazione, della scomparsa delle differenze. Nel mercato ognuno di noi è solo venditore o compratore, si dice, e questa riduzione di ognuno alla pura dimensione commerciale distrugge le caratteristiche individuali, le particolarità culturali e sociali di tutti noi. Sul mercato le varie merci perdono le loro peculiarità, diventano mero valore di scambio. Un paio di scarpe ha lo stesso prezzo di un libro e questo lo stesso prezzo di due bistecche. Tutto è uguagliato, reso indistinto. La stessa sorte tocca agli esseri umani che la relazione mercantile riduce a puri venditori ed acquirenti, cose fra cose, che hanno fra loro relazioni “cosali” o “reificate”, per dirla con Marx. Ed ancora, stessa sorte tocca ai vari tipi di relazione comunitaria che gli uomini instaurano fra loro. Il mercato irrompe nei rapporti familiari e, più in generale, in ogni tipo di rapporto comunitario e lo distrugge, inesorabilmente. Le persone non contano in quanto padre o figlio, marito o moglie, membro di questa o quella associazione. Contano solo, di nuovo, in quanto produttori o consumatori, venditori o compratori, pure astrazioni slegate da ogni particolarità individuale o sociale.

Ma, stanno davvero così le cose? Ad una semplice disamina storica la realtà appare piuttosto diversa. L'affermarsi della economia di mercato ha portato alla moltiplicazione delle aggregazioni spontanee e volontarie, e non mercantili, fra gli esseri umani. Nelle economie precapitalistiche il matrimonio era  deciso dalle famiglie, dal padre il più delle volte, indipendentemente dai sentimenti di chi si sposava. L'affermazione delle economie di mercato ha coinciso, sia pure in maniera lenta e faticosa, con l'emancipazione della donna e questa con l'affermazione di un tipo di matrimonio basato per lo più sulla libera scelta degli interessati.
Considerazioni analoghe si possono fare per altri tipi di aggregazione spontanea fra le persone. Nelle società liberal democratiche ad economia di mercato sono sorte e si sono rapidamente diffuse associazioni di ogni tipo, prima in larga misura sconosciute. Partiti politici, associazioni ricreative, culturali, sportive, religiose, caritative. Aggregazioni fra gli esseri umani inseriti nel mercato ma estranee, al loro interno, all'ottica mercantile. E' quella che Hegel ha definito “società civile” la cui autonomia nei confronti del potere politico o religioso è una caratteristica della modernità.
Al contrario in società in cui i rapporti mercantili sono stati aboliti, o sottoposti a fortissime restrizioni da parte del potere politico, la autonomia della società civile è stata, letteralmente, fatta a pezzi.
Il potere totalitario si è intrufolato in maniera più o meno profonda, ma sempre invasiva, nella famiglia. Nella Germania di Hitler come nella Russia di Stalin l'educazione dei figli è stata sottratta ai genitori, più in generale il potere totalitario ha cercato di allentare al massimo i rapporti d'affetto interni ai nuclei familiari per sostituirli con l'amore forzato che ognuno doveva allo stato ed al leader. Nella Russia staliniana mogli e figli dei “nemici del popolo” denunciavano pubblicamente i “crimini” di padri e mariti. Nella Cina di Mao avvenivano cose analoghe. Nella Cambogia di Pol Pot ci si poteva sposare solo se il partito autorizzava a farlo e la prassi di bambini in tenerissima età che denunciavano al partito i genitori, condannandoli ad una morte orribile, era tanto diffusa che i bambini erano in quello sventurato paese gli esseri umani più temuti.
Si possono fare considerazioni simili per la società civile intesa in senso più generale. Sia nella Germania nazional socialista che in URSS, nella Cina di Mao e più o meno in tutti i paesi comunisti le associazioni scoutistiche, religiose, caritative, sportive, ricreative o culturali sono state sciolte o snaturate. Il partito doveva avere il monopolio assoluto su ogni forma di umana aggregazione. Mentre nei paesi ad economia di mercato si è consolidata la autonomia della società civile, in quelli ad economia pianificata, o comunque caratterizzati da un controllo pesantissimo dello stato sulle attività economiche, questa è stata distrutta.

L'equiparazione del mercato alla distruzione delle differenze non regge ad una neppure sommaria analisi storica, e non regge neppure ad un minimo approfondimento teorico.
Le relazioni commerciali eguagliano tutto, si dice; il prezzo riduce tutto a mero numero, relazione quantitativa. Un libro ed un paio di scarpe, un violino ed una cena in ristorante, tutto diventa quantità, la qualità scompare. Si tratta di tesi che possono affascinare ma che, ad un esame minimamente accurato, rivelano tutta la loro inconsistenza.
Dire che il prezzo riduce tutto a quantità, annullando le peculiarità qualitative dei vari oggetti, è come affermare che, dicendo che il monte Bianco è alto 4810 metri, se ne annullano le caratteristiche peculiari. Quando dico che il monte Bianco è alto 4810 metri fisso in un numero la distanza in verticale fra la sua vetta ghiacciata ed il livello del mare. Questo non fa scomparire il ghiaccio e le guglie di granito nero che caratterizzano il massiccio del monte bianco, esattamente come il fatto che la terra giri su se stessa in 24 ore non riduce a mero tempo quantitativo mari e monti, città e continenti. Se un paio di scarpe vale quanto un libro ciò vuol dire, in ultima istanza, che Tizio è disposto a dare a Caio un libro per avere da lui un paio di scarpe, e viceversa. Questo non annulla le peculiarità di Tizio e Caio, del libro e del paio di scarpe. Fa solo in modo che questi due oggetti vadano a chi, in base alle sua peculiarità specifiche, desidera possederli. Lo scambio ed il valore di scambio non eliminano il valore d'uso, al contrario, fanno in modo che il valore d'uso sia davvero tale. Senza lo scambio scarpe e libro non avrebbero valore d'uso, o ne avrebbero uno minore a quello che acquisiscono dopo lo scambio, perché resterebbero in mano a persone per le quali questo valore non esiste o è ridotto. Lo scambio è sempre scambio di oggetti con le proprie caratteristiche, fra persone anch'esse con le proprie specifiche caratteristiche. Contrapporre lo scambio alla specificità dei singoli è privo di senso perché è su questa specificità che lo scambio si regge.

Lo scambio è rapporto, relazione quantitativa, ma agli estremi dello scambio c'è qualcosa che non è rapporto né relazione quantitativa, e neppure semplice quantità. Agli estremi dello scambio ci sono le persone con i loro gusti, le loro aspettative, i loro progetti di vita. E non solo le singole persone. Ci sono anche gruppi, unioni di persone, comunità, tutta quella miriade di associazioni spontanee fra gli uomini in cui si articola la società civile. Soggetti collettivi che operano sul mercato anche se i loro rapporti interni non sono, o non sono solo, mercantili.
La famiglia è la più importante, anche se non la sola, di queste piccole comunità. I membri di una famiglia non intrattengono fra loro relazioni mercantili, ma sono comunque inseriti nel mercato e le stesse famiglie, collettivamente considerate, sono spesso protagoniste degli scambi commerciali. Pensare che la logica dello scambio conduca alla distruzione dei rapporti comunitari fra gli esseri umani vuol dire non capire che le associazioni che nascono da questi rapporti sono pienamente inserite nelle relazioni di scambio. Opera scambi una impresa che mira al profitto come il padre di famiglia che vuole assicurare un buon futuro ai suoi figli, come una associazione no profit o una società sportiva, ricreativa o culturale. Il discorso è sempre lo stesso, in fondo. Lo scambio serve non a se stesso, ma alla vita, alla vita delle persone e delle varie forme di associazione che le persone creano nei loro reciproci rapporti. Sono queste che stanno agli estremi dei rapporti di scambio. Le si elimini e lo scambio muore con esse.
Val la pena di chiedersi: le nazioni, e di conseguenza gli stati nazionali,  fanno parte di queste comunità inserite sul mercato? In un certo senso no. I rapporti fra i membri di uno stato nazionale sono completamente diversi da quelli esistenti in una famiglia o in una piccola comunità. In un altro senso però è possibile rispondere si a questa domanda. Anche se i cittadini di uno stato nazionale non formano affatto qualcosa di simile ad una grande famiglia esistono fra loro sentimenti e rapporti che non esistono, di solito, con i cittadini di altri stati. Ed ogni stato si comporta, nelle sue relazioni con gli altri, come una grande comunità, sia pure “suis generis”. Uno stato firma accordi commerciali se ritiene che questi possano essere favorevoli ai propri produttori e consumatori, o almeno ad una loro parte. Si mettono in atto politiche protezioniste se queste possono favorire la propria economia, si accetta il libero scambio se questo, oltre a favorire, come si dice con una punta di retorica, il “comune benessere”, favorisce il benessere del proprio popolo, o di sue parti rilevanti. Gli stati insomma cercano di favorire la posizione dei propri operatori nel mercato internazionale ed agiscono spesso in questo mercato in prima persona, come soggetti collettivi, con propri obiettivi e  finalità. Si affiancano, in forme ovviamente del tutto specifiche, ai singoli ed ai gruppi quali protagonisti del mercato, estremi degli scambi che in esso si compiono.

E' possibile prevedere un superamento di questa situazione? Ed è auspicabile un simile superamento? E cosa spinge in questa direzione? Si tratta di domande importanti, cui val la pena di cercare di dare risposte.
A questo proposito occorre prioritariamente esaminare due errori speculari ed altrettanto gravi.
Il primo è quello dei teorici del localismo. Sottolineare l'importanza delle comunità negli scambi non significa affatto fare concessioni al localismo. Le comunità agiscono negli scambi come suoi estremi, non sono isole di auto consumo sottratte alle relazioni commerciali. Uno stato che mette in atto sue politiche di mercato non è uno stato autarchico. Anche quando fa scelte protezioniste persegue l'obiettivo di rendere, in prospettiva, la propria economia più forte sul mercato internazionale. Il localismo, la retorica del “chilometro zero”, la teorizzazione della economia di autoconsumo sono semplicemente delle idiozie, da tutti i punti di vista. Si prenda un qualsiasi oggetto, si esamini come viene prodotto e si scoprirà quanto sia legato alla divisione internazionale del lavoro. Se davvero il “chilometro zero” fosse qualcosa di più che uno slogan l'economia subirebbe un crollo spaventoso. Del resto, i teorici del chilometro zero e dell'auto consumo propagandano le loro sciocchezze... in rete! Provino ad esaminare la tastiera ed il monitor del loro PC e scopriranno che NULLA in questi oggetti è a chilometro zero, e non a caso.
Ma il localismo non è solo reazionario, anti economico e, nel mondo di oggi, impossibile. Contraddice, ed è questa la cosa più grave, un carattere di fondo della natura umana: la sua apertura universalistica. L'uomo non vive in habitat rigidamente definiti, non è parte subordinata di qualche ecosistema. L'uomo è aperto al dialogo, alla relazione col diverso, allo scambio. La chiusura nel proprio orticello, il chilometro zero, l'auto produzione e l'autoconsumo sono una terrificante distopia perché impediscono quell'arricchimento umano che solo gli scambi garantiscono. Arricchimento non solo materiale, e scambi non solo materiali. Scambi di idee, esperienze, punti di vista oltre e prima che di beni e servizi. Poter leggere una storia della filosofia cinese arricchisce culturalmente un occidentale esattamente come la lettura di Platone ed Aristotele un cinese. Ed è bello, poter mangiare del sushi a Milano o degli spaghetti al ragù a Tokyo. Il commercio internazionale universalizza gusti e consumi, e questo può spaventare solo delle mentalità meschine.

La universalizzazione di gusti e consumi è cosa molto positiva, ma potrebbe esistere in un mondo, si scusi l'espressione, “mondializzato”? Un mondo in cui le differenze siano scomparse e sia stato trasformato, in un'unica, indistinta comunità?
Ci troviamo qui di fronte all'errore opposto e speculare rispetto al localismo, il cosiddetto mondialismo.
Si possono confrontare Platone ed Aristotele con Confucio e Lao Tzu perchè sono esistite  le filosofie cinese e greca. Sushi e spaghetti sono il prodotto di certe culture, le si elimini e non è possibile gustare nè l'uno nè gli altri. Senza particolarità, culture, tradizioni scompare l'universalizzazione. Si sostituiscano i prodotti figli di determinate colture con una valanga di prodotti standardizzati e l'universalizzazione scompare.
Per non essere fraintesi: non ho nulla contro la standardizzazione. In alcuni settori questa è necessaria (si pensi ai grandi trasporti, o alle comunicazioni), in altri utile, in altri ancora del tutto accettabile. Ma ridurre ogni realtà produttiva alla standardizzazione è semplicemente orribile. Equivarrebbe a ridurre la enorme varietà dei linguaggi ad un solo inglese elementare, o peggio, a quella pseudo lingua artificiale che è l'esperanto. Potrebbe esistere una grande letteratura in esperanto? O in quell'inglese elementare imposto a tutti dalle grandi organizzazioni internazionali? Difficile pensarlo.
Si dice che la mondializzazione sia il prodotto inevitabile della economia di mercato, ne costituisca per così dire l'essenza. Si tratta di una eccessiva semplificazione. Chi effettua scambi guarda con ostilità alle barriere, è vero, ma guarda con ancora maggiore ostilità alla uniformità. Non varrebbe la pena di effettuare scambi commerciali col Giappone se i prodotti giapponesi fossero uguali a quelli italiani in tutto. La mondializzazione elimina le barriere, ma, riducendo tutto alla più piatta uniformità, elimina una delle radici profonde, forse la più profonda ed importante di tutte, dello scambio.
Un sostenitore del mondialismo potrebbe ribattere che questo non elimina le differenze, elimina solo i gli stati nazionali ed i loro confini. Ma se le differenze hanno davvero rilevanza sono inevitabilmente destinate a cristallizzarsi in formazioni statali, quindi in confini, sia pure superabili. Le relazioni mercantili fra gli esseri umani si intrecciano inevitabilmente con le divisioni che le differenze nazionali, linguistiche e culturali creano fra loro. Si elimini la realtà degli stati nazionali e scompare la maggioranza delle differenze socialmente rilevanti fra gli esseri umani, sia quelle che meritano che quelle che non meritano di scomparire. In questo modo, piaccia o non piaccia la cosa, il mondo diventa inesorabilmente uniforme, grigio. E in un Mondo grigio si scambiano solo cose grigie. Forse non val neppure la pena di scambiarle.
Localismo e mondialismo sono due facce della stessa medaglia, due orribili distopie. Il localismo frammenta il mondo in tante piccole comunità che si presumono auto sufficienti. Elimina gli scambi, le relazioni, è nemico mortale del commercio. Apparentemente il localismo esalta la molteplicità, in realtà nulla è più lontano dalla molteplicità quanto la frammentazione del mondo in tante mini realtà prive di contatti fra loro; che contatti occorrono infatti fra comunità autosufficienti, innamorate ognuna solo della propria insuperabile particolarità? Il localismo elimina la molteplicità nello stesso momento in cui trasforma le diverse realtà in atomi sociali, monadi senza finestre sul mondo.
Il mondialismo invece sembra identificarsi con la massima apertura al mondo ed allo scambio, ma si tratta di una apertura fasulla, perché sostituisce la estrema differenziazione in cui il mondo si articola con una onnicomprensiva, grigia, uniformità. Non esistono più confini, ma solo perché non c'è più nulla che valga la pena di tutelare con dei confini. La frammentazione è superata non dal contatto, dal confronto, dalle relazioni, ma da una generalizzata reductio ad unum. Il mondialismo vorrebbe ridurre tutto a mercato e scambi, ma non c'è molto da scambiare in un mondo tristemente uniforme.

Il commercio esiste ed ha una enorme importanza nella vita degli uomini. Ma a commerciare sono, appunto, gli uomini, con le loro identità. Ed alla costruzione di queste identità contribuiscono non poco le culture. Va detto con molta chiarezza: non tutto ciò che esiste nelle varie culture è positivo
. Nelle culture, ed in alcune più che in altre, ci sono molte cose che contrastano con la dignità e la libertà della persona, e non meritano di essere conservate. Se la globalizzazione mondializzante contribuisce a far sparire la poligamia o la lapidazione delle adultere, ben venga questa globalizzazione!
Ciò che invece non può scomparire, ed è bene non scompaia, sono, in generale, le appartenenze culturali, linguistiche, nazionali, con le loro positive specificità. Le relazioni commerciali fra gli uomini non solo si intrecciano con le innumerevoli differenze che queste appartenenze creano fra loro, ma da queste ricevono, molto spesso, una spinta propulsiva. La riduzione di tutto allo scambio non solo elimina differenze che sono essenziali nella costruzione della umana identità, ma distrugge una delle molle dello scambio stesso. Per questo val la pena di chiedersi: l'essenza del mondialismo va davvero ricercata, tutta, nel mercato e l'economia di mercato?
Ce ne occuperemo nella seconda parte di questo scritto.

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