lunedì 24 settembre 2018

ALIENAZIONE. SECONDA PARTE. MARX


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Fatti e valori


Sia Hegel che Marx rifiutano la classica divisione fra fatti e valori. Hume ammonisce, con logica sottile, che da un giudizio sui fatti non si può derivare un giudizio di valore. Dal fatto
"che X" non si può derivare “è bene, o male, che x”. Dal fatto che se sparo ad un essere umano non si può derivare il giudizio che sia male sparare ad un essere umano. Sulle orme di Hume Kant effettua una distinzione rigorosissima fra essere e dover essere. Una cosa è stabilire che le cose stanno così e così, cosa del tutto diversa decidere come mi devo comportare in rapporto ad una situazione in cui le cose stanno così e così. E' un fatto che se rubo a Tizio il suo denaro diventerò più ricco, ma la legge morale mi obbliga a non rubare. Il fatto che rubando divento ricco non fa diventare moralmente accettabile il furto. Hume e Kant sono molto distanti fra loro nel valutare quale sia il fondamento dell'agire etico. Per lo scozzese si tratta di un blando sentimento diffuso in quasi tutti gli esseri umani. Una forma di simpatia moderata e generalizzata verso i nostri simili che ci spinge a considerare sbagliate le azioni predatorie anche quando a subirle sono persone a noi del tutto sconosciute. Per il prussiano si tratta invece dell'imperativo categorico, un ordine che la nostra ragion pratica impartisce a noi stessi e ci obbliga al rispetto generalizzato. Entrambi tuttavia pongono uno iato, una tensione fra valore e fatto, negano qualsiasi legame logico fra giudizi di fatto e di valore.
Marx ed Hegel rifiutano una simile concezione. Mantenere uno iato fra fatto e valore vuol dire restare prigionieri di una angusta visione dualistica del mondo (chissà perché il dualismo deve sempre essere “angusto”). La concezione kantiana della non coincidenza fra essere e dover essere dà vita, secondo Hegel, ad un irrazionale processo all'infinito. Il dover essere cerca costantemente di adeguare a se il mondo senza mai riuscirci. Il valore tenta di moralizzare i fatti bruti ma questi mettono costantemente in atto una sordida resistenza a fronte di questo tentativo. La realizzazione del valore, la piena attuazione della “società dei giusti”, è un processo all'infinito, sempre rinnovato ma mai interamente concluso.
C'è del vero nella critica di Hegel e Marx, solo, non si vede cosa ci sia di “irrazionale” in una concezione che riconosce francamente i limiti della ragione umana, sia essa teoretica o pratica e, di conseguenza, ammette che la perfezione è un obiettivo fuori dalla portata dell'uomo. La totalità è fuori dalla nostra portata come lo è la perfetta adeguazione del mondo a valori umani. Ciò non esclude gli sforzi atti e migliorare costantemente le nostre conoscenze e ad adeguare, per quanto possibile, il mondo alle nostre esigenze etiche. Solo una visione assolutistica della ragione può far definire “angusti” ed “irrazionali” simili sforzi.

Sulle orme di Hegel Marx è convinto che la storia realizzi nel suo corso un valore ad essa immanente. L'alienazione è una tappa necessaria di questo corso. Nella e grazie alla alienazione si realizzano i presupposti che rendono possibile la futura liberazione. Una simile concezione si avvolge però, da subito, in inestricabili difficoltà. La alienazione è necessaria alla realizzare della libertà. Detto in altri termini questo significa che il male è indispensabile alla affermazione del bene. Ma se si accetta questo si deve ragionevolmente concludere che il male in realtà non esiste. Sfruttamento, schiavismo, eccidi di massa sono necessari alla realizzazione della libertà, non sono quindi un male, ma un bene. Ma è davvero “bene” qualcosa che si realizza tramite il male? Se uccido un innocente per impossessarmi del suo denaro e poter fare delle elemosine l'omicidio non rende immorale l'atto benefico che lo ha seguito? Un chirurgo che si procurasse un cuore da trapiantare uccidendo un essere umano potrebbe continuare ad essere definito un “benefattore”?
Si potrebbe obiettare che la liberazione, il bene, non era possibile in certe fasi storiche, ma qui non si tratta di valutare la realizzabilità del bene, ma la possibilità di considerarlo o non considerarlo tale. Ammettiamo pure, anche se lo si potrebbe discutere, che lo schiavismo fosse necessario allo sviluppo delle forze produttive, questo lo rende anche moralmente accettabile? Gli schiavi non avevano la possibilità di liberarsi, diamolo anche per scontato, avevano almeno la possibilità di considerarsi vittime di una ingiustizia? Se fossero vere le concezioni di Marx ed Hegel non avevano neppure questo diritto. Gli schiavi, e con loro le innumerevoli vittime delle innumerevoli mattanze della storia, non subivano nessuna “ingiustizia”. Non la subivano perché non esiste un valore che si contrappone ai fatti, qualcosa che l'uomo cerca, faticosamente e spesso inutilmente, di affermare nel mondo. Esistono valori che sono dentro i fatti e che da questi emergono. E tutte le nefandezze della storia altro non sono che “momenti” di questo emergere. “Momenti”, non ingiustizie, a meno che non si vogliano considerare “ingiustizia”, ad esempio, le doglie di un parto.

Tutte le concezioni secondo cui il bene (un valore) emerge “necessariamente” dal corso storico (una serie di eventi, di fatti) si basano in realtà su un tacito, e molto rassicurante, presupposto. Noi viviamo in un'epoca che vedrà, in tempi abbastanza brevi, la vittoria del valore. I valori emergono dall'andamento dei fatti e, guarda caso, l'epoca di questa “emersione” è... la nostra. Marx cerca di dare una spiegazione razionale di questa strana coincidenza quando afferma che “l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione” (1).
Se si pone,
oggi, il problema del superamento della alienazione vuol dire, afferma Marx, che oggi tale problema può essere risolto. Il fatto che Marx abbia scritto il “Manifesto del partito comunista” o “Il Capitale” dimostra che lo sbocco comunista della avventura umana è diventato, insieme, necessario e possibile (i profeti amano gli ossimori). Ma... ma altri, ben prima di Marx, avevano posto, e non solo teoricamente, il problema del “superamento della alienazione”, anche se lo definivano in termini diversi. Roma dovette spesso far fronte a rivolte di schiavi, l'utopia (o la distopia) di una società senza proprietà privata, gerarchica o egualitaria, ma in ogni caso rigidamente integrata, percorre un po' tutta la storia del pensiero: dalla Repubblica platonica alle profezie di Gioacchino Fiore, dalla “Utopia” di Thomas More, alla opprimente “Città del sole” di Tommaso Campanella, per finire con quelli che Marx ed Engels definiscono con una punto di disprezzo “socialisti utopisti”. Certo, Marx ritiene che la sua profezia non sia tale, si basi su una rigorosa indagine scientifica, ma c'è da chiedersi se sia davvero la scienza a fondare l'idea della conclusione comunista della storia o non sia piuttosto questa ad indirizzare quella.
Non si tratta di un dubbio illegittimo. In fondo a nessuno piace essere la vittima il cui sacrificio è “necessario” alla futura liberazione dell'uomo. Se il trionfo male è la condizione necessaria per la affermazione del bene è molto meglio che il male riguardi il passato. Noi siamo destinati al bene che “finalmente” è all'ordine del giorno della storia. Però... se ci sbagliassimo? Se la conclusione della storia, la società perfetta, riguardasse non noi ma chi verrà secoli, o millenni, dopo di noi? Se il
nostro male servisse alla felicità di chi avrà la fortuna di nascere nell'anno 4.000 sapremmo accettare senza reagire il sacrificio cui l'astuzia della ragione ci condanna? Rinunceremmo a cercare di cambiare le cose? Accetteremmo anche di fare a meno di definirci vittime della ingiustizia? Diremmo a cuor leggero che non stiamo subendo nessuna ingiustizia perché il male che ci colpisce altro non è che la condizione per la affermazione del bene, quindi è, esso stesso, bene? Mi permetto di dubitarne.

La concezione della storia che realizza nel suo corso valori ad essa immanenti è, in primo luogo, del tutto infondata dal punto di vista scientifico. La storia non è, non può essere, oggetto di previsione scientifica. Non può esserlo perché, per quanto possiamo saperne, non è predeterminata, e non è predeterminata perché la volontà umana gioca in essa il suo ruolo. Certo, le situazioni storiche oggettive sono importanti: a volte rendono relativamente facile, altre molto difficile, altre ancora impossibile la realizzazione di certi obiettivi, ma questo non trasforma il corso storico in una sorta di legge naturale. Nella storia sono possibili le previsioni, che solo raramente risultano pienamente azzeccate, ma non sono possibili le profezie. Meno che mai quelle profezie collegate a visioni globali dell'andamento storico: dal passato più remoto al più lontano futuro. Simili concezioni non hanno nulla di scientifico, e non sono, in fondo, neppure delle metafisiche della storia. Si tratta di
miti, a volte neppure di buoni miti.
In secondo luogo, e si tratta della obiezione più importante, non è eticamente ammissibile che una generazione abbia più diritti di un'altra. Una cosa è constatare che il corso della storia ha favorito certe generazioni a danno di altre, cosa del tutto diversa considerare “giusta” e “morale” una cosa simile. Anche ammettendo, e la cosa è semplicemente falsa, che i massacri di contadini messi in atto da Stalin “servissero” alla felicità di chi venne dopo di loro, non c'è alcun modo per considerare “giusti” tali massacri. Perché chi è nato nel 1960 avrebbe diritto ad una felicità pagata col sangue di chi è nato nel 1910? Come ricorda spesso Popper, nessuna generazione ha diritti particolari, nessuna può venire sacrificata al benessere dei posteri. Oltre ad essere scientificamente risibile la concezione di una storia a soggetto è moralmente repellente.
 


L'uomo fuori da se stesso.

L'alienazione è il momento della negatività, dell'essere di un ente fuori da se stesso. Nella dialettica hegeliana la natura è idea nella forma dell'altro da se. Nella storia il momento della alienazione segna la separazione fra uomo ed essenza umana. L'uomo alienato è un uomo che ha perso la sua umanità, privo di essenza umana è un
non uomo. Per capire questi concetti alquanto esoterici è bene non cadere in un errore. L'uomo alienato non è un uomo oppresso, imprigionato, reso schiavo. Un uomo a cui sia impedito sviluppare le sue migliori doti. Uno schiavo non è un non uomo, lo schiavismo non trasforma chi è costretto a subirlo in un ente negativo. Lo schiavo è un uomo in catene, un ente positivo il cui sviluppo viene impedito da chi lo tiene in schiavitù. Hegel e Marx non studiano le relazioni fra enti positivi, ma pretendono di esporre uno sviluppo in cui il momento della limitazione corrisponde all'uscita di un ente da se stesso.
Alienandosi l'uomo
cessa di essere tale, perde la sua essenza, diventa cosa. E la sua essenza alienata vive di vita propria, estranea e contrapposta a lui.
Per Marx i prodotti del lavoro umano non sono, appunto, prodotti, cose che servono all'uomo per soddisfare determinati bisogni. No, sono essenza umana nella forma di prodotto. Fino a che l'uomo in forma associata può decidere quanto e cosa produrre e a beneficio di chi, e per soddisfare quali bisogni, esiste legame fra l'uomo e la sua essenza in forma di cosa, non si ha alienazione. Ma quando, nella società di mercato, a decidere quanto, cosa, e a beneficio di chi si deve produrre è il gioco della domanda e dell'offerta l'uomo si separa dalla sua essenza, questa assume la forma di merce e vive di vita propria. L'uomo è fuori di se stesso, la sua esistenza si contrappone alla sua essenza che gli si è resa estranea.
"Gli economisti", afferma Marx nei
Manoscritti economico filosofici “riducono la proprietà privata nella sua forma attiva al soggetto, e quindi riducono l'uomo all'essenza (della proprietà privata) e insieme riducono a questa essenza l'uomo privato della sua essenza, la contraddizione della realtà corrisponde pienamente all'essenza contraddittoria che essi hanno conosciuto come principio” (2)
Gli economisti parlano dei fattori della produzione, delle loro relazioni e remunerazioni: salari, rendite e profitti e studiano come dalla combinazione di questi fattori possa scaturire la ricchezza sociale. Marx non cerca di mostrare quelli che a suo parere possono essere gli errori e le manchevolezze scientifiche di simili concezioni. Le considera semplicemente espressione della contraddittorietà della realtà sociale. Gli economisti danno forma teorica alla alienazione in atto nelle società di mercato ed in questo modo le stesse loro idee sono espressione di tale alienazione. L'uomo è ridotto ad “essenza della proprietà” ed in questo modo diventa un essere privo della
sua essenza, un mero negativo.

Qualcuno ha sostenuto che gli svolazzi hegeliani dei “
manoscritti” sono solo una civetteria filosofica del giovane Marx, superata nelle opere del Marx maturo. In effetti il Marx maturo mette in secondo piano la dialettica, si dedica allo studio rigoroso dell'economia politica. Smith e Ricardo sostituiscono Hegel nel ruolo di suoi interlocutori privilegiati e questo lo spinge a misurarsi seriamente con quella cosa molto volgare che sono i dati dell'esperienza sensibile. Tuttavia sarebbe scorretto ritenere che l'opera del Marx maturo “superi” la dialettica hegeliana, e con questa la teoria della alienazione. La dialettica è al contrario ben presente nientemeno che nel “Capitale”. La dialettica, e con questa il concetto di alienazione, stanno alla base della teoria marxiana del valore (il valore come lavoro cristallizzato, essenza umana in forma di cosa); affiora continuamente nella analisi marxiana delle forme fenomeniche della merce: merce come valor d'uso e valore di scambio, merce in forma di relativo e di equivalente, denaro come “equivalente universale”. Soprattutto, la tematica della dialettica e della alienazione appare con evidenza cristallina nel celeberrimo paragrafo del primo libro del “Capitale” dedicato al “feticismo della merce”.
Gli esseri umani lavorano all'interno di determinate relazioni sociali: il sarto scambia il prodotto del suo lavoro con quello del calzolaio perché esiste una certa divisione sociale del lavoro al cui interno operano sia il sarto che il calzolaio. Ma cosa sono in realtà i prodotti del lavoro di sarto e calzolaio? Ricordiamoci che le merci sono per Marx lavoro umano oggettivato e che il lavoro altro non è che essenza umana: abiti e scarpe sono oggettivazione di essenza umana, essenza umana in forma di cosa. Una volta immessa sul mercato questa essenza inizia però a vivere di vita propria. Si contrappone all'uomo di cui è essenza.
“l'uguaglianza dei lavori umani prende la forma reale dell'uguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza lavorativa umana prende tramite la sua durata nel tempo la forma della grandezza di valore di prodotti del lavoro, infine i rapporti fra i produttori, nei quali si affermano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, prendono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro” (3).
Il lavoro si cristallizza, diventa pura quantità. Le merci, oggettivazione di questo lavoro, si relazionano sul mercato le une alle altre come se fossero soggetti autonomi. Non è più l'uomo a decidere socialmente della produzione, questa è “decisa” sul mercato dalle merci resesi autonome dai loro produttori.
“Il segreto della forma di una merce” afferma Marx,”sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l'immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose e perciò ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale fra oggetti che esista al di fuori di loro. I prodotti del lavoro tramite questo quid pro quo, diventano merci, cose sensibilmente soprasensibili, ossia cose sociali” (4).
Le merci sono
cose sociali. Il rapporto fra le persone sarto e calzolaio diventa un rapporto fra abiti e scarpe. E non si tratta, si badi bene, di una semplice apparenza. Nella società di mercato le merci vivono realmente di vita propria e realmente gli esseri umani sono ridotti a cose: “Le relazioni sociali si manifestano per quello che sono: ossia non come rapporti direttamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti di cose tra persone e come rapporti sociali fra cose” (5)
Val la pena di sottolinearlo: gli uomini sono ridotti a cose non perché incatenati, ridotti in condizioni di abbruttente miseria, sottoposti a violenze e vessazioni. Tutto questo accade nella società capitalistica, ne costituisce anzi, per Marx, il carattere distintivo. Ma non è questa la radice essenziale della alienazione. Nella società di mercato l'uomo è alienato perché la società di mercato è una
realtà rovesciata, una realtà in cui i prodotti del lavoro sociale vivono di vita propria, separati dalle aspirazioni e dalle decisioni dei produttori. In questa realtà rovesciata l'uomo diventa mera appendice della cosa, anzi, diventa cosa egli stesso. E, attenzione, questa alienazione non riguarda solo la classe operaia, riguarda tutti gli attori della società capitalistica. Il borghese è alienato esattamente come alienato è l'operaio. L'operaio è solo lavoro, lavoro vivo che si oggettiva nella merce valorizzandola ma il capitalista, dal canto suo, “è soltanto capitale personificato. La sua anima è soltanto l'anima del capitale. Ma il capitale ha soltanto un unico istinto vitale, l'istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e che vive quanto più ne succhia” (6). L'operaio è solo personificazione del lavoro vivo che si materializza nelle merci, il capitalista del lavoro morto, del capitale inteso come valore che si autovalorizza indefinitamente. Entrambi non sono esseri umani autentici, sono non uomini che hanno fuori di se la loro umanità. Differenza essenziale fra loro è che l'operaio sente sulla sua pelle la drammatica sofferenza di questa situazione, il capitalista invece ne gode e vorrebbe eternizzarla. Entrambi alienati hanno reazioni del tutto opposte di fronte alla alienazione. Per questo è alla classe operaia che spetta il compito storico di rovesciare la realtà rovesciata, superare la alienazione.

Simili concezioni hanno avuto, ed ancora hanno per qualcuno, un certo valore emotivo, ma hanno anche un reale valore conoscitivo? Per Marx le merci si rendono autonome dai produttori e vivono sul mercato di vita propria, diventano
cose sociali. Cosa significa questo con precisione? Vediamo.
Io sono calzolaio, le scarpe che ho prodotto vengono vendute sul mercato a persone che non ho mai conosciuto. Nel contempo acquisto, sempre sul mercato, un abito prodotto da un sarto a me del tutto ignoto. Il rapporto di scambio fra scarpe ed abito sarà determinato dalla domanda e dall'offerta degli stessi. Se molte persone vogliono abiti e questi sono relativamente scarsi e se, nel contempo, poche persone vogliono scarpe e queste sono relativamente abbondanti il valore degli abiti rispetto a quello delle scarpe salirà. Prima per avere un abito bastavano tre paia di scarpe, ora ne occorreranno quattro ( per non allungare il discorso tralascio il fondamentale momento monetario). Tutto questo significa che scarpe ed abiti si sono resi autonomi dagli esseri umani? Che si relazionano fra loro come cose sociali mentre sarti e calzolai sono ridotti al rango di non – uomini, mere cose?
NO, non significa questo. Il valore degli abiti sale rispetto a quello delle scarpe per il semplicissimo motivo che un certo numero di esseri umani desidera gli abiti più delle scarpe, ritiene che il bisogno di indossare abiti abbia maggiore importanza, o urgenza, rispetto a quello di indossare scarpe. Le merci si scambiano in base a determinati rapporti quantitativi, ma dietro a quei rapporti ci sono i gusti, le esigenze, le aspirazioni degli esseri umani. Il rapporto di scambio fra le merci altro non è che relazione fra i loro valori d'uso. Scambio scarpe con abiti perché ho scarpe a sufficienza ed ho invece bisogno di abiti. Accetto di pagare un certo prezzo per le scarpe perché considero accettabile privarmi di una certa quantità di beni (o di denaro, il che in ultima analisi è lo stesso) pur di godere della utilità che le scarpe sono in grado di assicurarmi. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la “essenza umana cristallizzata”, le “cose sociali” o i “rapporti cosali fra uomini e sociali fra cose”. Scarpe ed abiti, libri e bistecche, sedie e tavoli, strumenti musicali e farmaci non sono “essenza umana cristallizzata”, sono prodotti del lavoro umano, oggetti, cose che l'uomo costruisce per soddisfare sue determinate esigenze e che si scambiano in base al valore relativo che produttori e consumatori attribuiscono ad ognuno di questi prodotti. Si potrà discutere sulla efficienza o inefficienza di una società fondata sullo scambio, sulla sua capacità di soddisfare davvero il maggior numero possibile di umane esigenze, o sulla sua maggiore o minore adeguatezza agli imperativi dell'etica, ma tutto questo non ha nulla a che vedere con la alienazione. Davvero si può pensare che una economia di mercato segni la “alienazione dell'uomo da se stesso” mentre una economia pianificata rappresenti il “ritorno a se” degli esseri umani? L'uomo che sceglie carne e pesce, frutta e verdura ai banchi del mercato sarebbe un non - uomo mentre il poveretto che riceve, dopo ore di coda, la tessera annonaria da un oscuro burocrate e grazie a quella può avere certe quantità di viveri sarebbe l'uomo conciliato con se stesso. Tutto questo è semplicemente mitologia, pessima mitologia, mitologia ideologica. 


Contraddizioni e pericoli

La teoria della alienazione, almeno in Hegel, cerca di rispondere ad una domanda vecchia come il mondo, comune alle speculazioni dei filosofi ed alla fede dei credenti. Come, quando, perché è sorto il mondo? Quella che nella rivelazione cristiana è la creazione diventa nella filosofia di Hegel la alienazione. La creazione intesa come atto volontario di un Dio persona diventa in Hegel l'uscita dell'idea da se stessa, la sua mutazione dialettica nell'essere altro da se. In Marx questo aspetto della teoria della alienazione si eclissa fino a scomparire. La alienazione rientra per intero nella storia, nasce e viene superata dentro il divenire storico degli esseri umani. Resta in Marx la visione escatologica della storia che lega la teoria della alienazione alla profezia di una radicale trasfigurazione degli esseri umani. L'uomo esce da se ma rientra in se al termine del corso storico. Rientra in se quale essere completamente rigenerato, privo di ogni egoismo, di qualsiasi tipo di spirito prevaricatore. Al termine di un dramma che vede l'uomo vagare privo della sua essenza l'uomo riacquista la propria essenza umana, ma, riacquistandola, va, di nuovo, oltre se stesso, si trasforma in un angelo, o in un semidio.

Come tutte le concezioni ideologiche, o mitico ideologiche, anche la teoria della alienazione è un autentico groviglio di contraddizioni. Ed è, soprattutto, densa di pericoli.
La alienazione rappresenta, lo si è già visto, una fase del processo storico. Fase necessaria, destinata però ad essere superata dalla successiva riunificazione dell'uomo con se stesso. Uscito da se l'uomo torna a se, recupera la sua essenza umana dopo averla perduta. Ma come può un ente che è fuori di se, un ente alienato, desiderare il superamento della sua condizione alienata? L'uomo alienato
non è, val la pena di ripeterlo, un uomo oppresso, tenuto in catene, impossibilitato a sviluppare quanto di meglio c'è in lui. Un uomo tenuto prigioniero può desiderare e desidera liberarsi dalle sue catene appunto perché queste lo opprimono in quanto uomo. Ci si può ribellare contro qualcosa quando questo qualcosa opprime e limita ciò che siamo. Un uomo che vive in un abbruttente miseria desidera un certo livello di benessere, lo schiavo vuole essere libero, ognuno pretende il rispetto dei sui simili. Ma si può desiderare il benessere, la libertà, il rispetto, proprio in quanto si è uomini. La propria umanità è il presupposto della lotta per la propria emancipazione. Ma l'uomo alienato non è propriamente un uomo, un ente positivo che desidera realizzare appieno la sua positività. E' un non uomo, un ente negativo che, appunto perché tale, ha desideri, aspirazioni, bisogni che appartengono per intero al suo essere negativo. I desideri, i bisogni, le aspirazioni di un ente negativo, alienato, non possono essere che il riflesso della sua alienazione, non possono contenere alcun anelito alla liberazione. Se desidero recuperare la mia essenza vuol dire che in realtà non la ho davvero persa, che almeno qualcosa, qualcosa di importante, di questa è rimasto in me. Vuol dire che sono oppresso, non alienato. Se invece ho perduto ciò che fa di me un uomo non potrò mai aspirare a tornare ad esser tale. Pensare che un uomo alienato, un ente che è fuori di se, possa aspirare alla sua umanità è un po' come pretendere che un cane abbia l'aspirazione a frequentare l'università.

A ben vedere le cose la contraddizione che stiamo esaminando è la stessa che attraversa un po' tutta la concezione marxiana del corso storico e della sua “inevitabile” conclusione liberatoria.
Marx nega l'esistenza di una natura umana extra storica. L'uomo è il prodotto ella storia e, nella storia, del suo momento socio economico. Certo, Marx afferma nella “
Ideologia tedesca” che “le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”, ma subito dopo aggiunge: “Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo ed ogni generazione trova come qualcosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come “sostanza” ed “essenza dell'uomo”, di ciò che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto che questi filosofi (…) si ribellano ad essa”. (7)
Gli uomini contribuiscono a fare le circostanze, ma il loro contributo si fonda su una base reale, su una somma di forze produttive e relazioni sociali, che ne determina in ultima analisi la natura e la portata. Non esiste una natura umana che si relaziona in determinate circostanze al quadro socio economico che gli uomini stessi hanno costruito. La base sociale non è minimamente disturbata, ricorda ironicamente Marx dalle idee dei filosofi (ma anche Marx è un filosofo...). Il rapporto uomo struttura socio economica è in realtà il rapporto di questa struttura con se stessa perché l'uomo ne è, in ultima istanza, il prodotto.
Meno che mai è possibile ipotizzare un contrasto reale, una interazione effettiva fra quadro socio economico e quel particolare prodotto della natura umana che sono le
idee. Lo abbiamo visto: per Marx le idee dei filosofi non disturbano la base socio economica, anzi:
“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca storica le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza
materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti presi come idee...” (8).
Le idee altro non sono che l'espressione dei rapporti sociali dominati presi come idee
. Ogni rapporto fra idee e mondo, idee e valore di verità, coerenza logica, capacità esplicativa scompare. Le idee sono espressione della società classista e strumento di chi in questa società occupa la posizione dominate. C'è da chiedersi: quale sarà allora lo status delle idee di Karl Marx? Quale il loro valore di verità, la loro coerenza, la loro capacità esplicativa? La riduzione delle idee a mero riflesso del quadro socio economico o, peggio, strumento delle classi dominati, cade inevitabilmente in inesorabili aporie.
Ma, al di la e prima di tutte le aporie, resta irrisolto in questa concezione il problema che abbiamo già visto: come è possibile la liberazione dell'uomo se questo altro non è che il prodotto di un certo sviluppo storico? Perché il proletario dovrebbe volere il comunismo se la sua stessa natura è forgiata dal capitale? Quale idea di liberazione dal dominio di classe è mai possibile se le idee sono l'espressione teorica degli interessi delle classi dominanti? Delle due l'una: o la rivoluzione proletaria è mero esplodere di istinti puramente animali, belluini, non illuminati da alcuna teoria, e non si vede come in questa ipotesi, esplicitamente negata da Marx, dalla rivoluzione possa sorgere un mondo migliore, oppure le idee sono condizione indispensabile della rivoluzione, e in questo caso non si capisce come sia possibile una teoria rivoluzionaria, e meno ancora come questa possa conquistare esseri umani ridotti a mero “momento” del divenire storico, anzi, meri momenti “
alienati” dello stesso. La riduzione dell'uomo alla storia rende inesplicabile proprio la storia. Si neghi la autonomia, parziale ovviamente, limitata, ma tutto nel mondo è limitato e parziale, si neghi, dicevo, questa autonomia della natura umana ed in questa del suo prodotto peculiare: il pensiero e le idee, e proprio la storia, proprio lo sviluppo, l'evoluzione o la involuzione socio economia degli uomini diventano un mistero insolubile.

Questa contraddizione del pensiero marxista è rimasta a lungo nascosta, e non ha avuto evidenti conseguenze pratiche per due motivi. Il primo è di natura teorica e consiste nella confusione fra alienazione, o, il che è quasi lo stesso, riduzione dell'uomo a “momento” dello sviluppo socio economico da una parte ed oppressione dall'altra. Il concetto di oppressione rimanda alla concezione di una natura umana oppressa: di un ente positivo colpito ed umiliato nella sua positività. La riduzione dell'uomo a momento “alienato” del movimento socio economico della storia nega invece, o nella migliore delle ipotesi riduce drasticamente, l'importanza di tale autonomia. La confusione fra questi due concetti ha celato a lungo la contraddizione insita nel secondo.
Il secondo è di natura pratica. Fino a quando il soggetto rivoluzionario (o presunto tale) doveva vivere in condizioni di estrema miseria ed oppressione, fino a quando era privo di alcuni elementari diritti, a partire da quello di voto, costretto ad un lavoro opprimente, sottopagato, la distinzione fra alienazione ed oppressione poteva interessare al massimo i filosofi. La classe operaia era alienata perché oppressa: l'operaio era ridotto a non uomo nel senso che non erano umane le sue condizioni di vita e di lavoro. E proprio per questo l'operaio si ribellava. Scioperava, chiedeva più salario, meno orario, migliori condizioni di lavoro, diritti civili e politici, riforme sociali. Marx non dubitava che tutto questo avrebbe portato ad una rivoluzione sociale comunista. A questo punto le contraddizioni della sua dottrina sarebbero state risolte dalla storia e sarebbero diventate una mera curiosità filosofica.
Le cose però sono andate diversamente da come Marx ed i suoi seguaci avevano previsto. La classe operaia, grazie anche alle sue lotte, è riuscita gradualmente ad ottenere buone condizioni di vita e lavoro senza che questo scardinasse i meccanismi del “sistema”. I ceti intermedi non sono scomparsi, al contrario, invece della loro prevista proletarizzazione si è avuto l'imborghesimento di una parte consistente della classe operaia. Riforme soprattutto nel campo della sanità e della previdenza hanno difeso gli strati meno abbienti dalle inevitabili turbolenze del mercato. E, come risultato di tutto questo, qualcosa che fuoriusciva del tutto dagli schemi marxiani:  la classe rivoluzionaria, considerata la negazione vivente del sistema capitalistico, ha dimostrato di non essere affatto intenzionata a fuoriuscire dallo stesso. Certo, nel corso della storia dell'ultimo secolo ci sono stati momenti di forte tensione sociale. Nei paesi ad alto sviluppo industriale questi non sono però mai sfociati in movimenti rivoluzionari di massa. Gli operai, quelli veri, hanno dimostrato di volere riforme, buone condizioni di lavoro, salari adeguati; il superamento della alienazione e la società perfettamente armonica li hanno lasciati ai filosofi.

Proprio a questo punto si è evidenziata tutta la pericolosità della teoria della alienazione. I presunti “soggetti rivoluzionari” rifiutavano di esser tali. La classe operaia affermava di voler difendere i propri interessi nell'ambito del sistema democratico parlamentare, era e dichiarava di essere una forza sociale fra le altre, non la negazione dialettica del capitalismo. Che atteggiamento assumere di fronte ad un fatto tanto sconvolgente?
Si sa come sono andate le cose. La parte maggioritaria della socialdemocrazia è giunta, al termine di un faticoso percorso, a mettere in soffitta Marx. Le componenti rivoluzionarie del marxismo invece non si sono rassegnate. E la teoria della alienazione ha fornito loro ottime armi teoriche per non rassegnarsi.
E' vero, gli operai non sono rivoluzionari, ma gli operai sono, come i borghesi, esseri umani alienati, enti negativi. Nella sua
essenza l'operaio è rivoluzionario, ma in quanto uomo alienato l'operaio vive al di fuori della sua essenza. In lui essenza ed esistenza sono divise e contrapposte: cosa privilegiare, l'essenza rivoluzionaria o l'esistenza riformista, subordinata al capitale?
L'interesse
vero dell'operaio è la rivoluzione, ma in quanto uomo alienato l'operaio accetta e fa propria l'ideologia borghese. Questa gli è instillata dai leader riformisti del movimento socialista, dai media in mano al nemico di classe, dalle idee dominanti che sono sempre le idee della classe dominante. Possono i rivoluzionari accettare il punto di vista medio della classe di cui difendono gli interessi? Farlo vorrebbe dire accettare puramente e semplicemente le idee della classe dominante, cessare di essere rivoluzionari.
Lenin contrappone il partito portatore della coscienza proletaria autentica alla coscienza alienata maggioritaria nel movimento operaio. E contrappone la “scienza sociale” di cui il partito è custode all'andamento reale della società. La società non si semplifica, i ceti intermedi non scompaiono, i contadini si dimostrano attaccati alla piccola proprietà; tutto questo rende inattuale la rivoluzione... non fa niente il partito saprà sfruttare l'occasione buona ed
imporre alla società il suo programma rivoluzionario. Invece di essere lo sbocco finale del movimento sociale la rivoluzione sarà imposta alla società, ma in questo non c'è nulla di male, nulla di sbagliato: si tratta di una società alienata che deve essere superata.
Il movimento del '68 doveva estremizzare in maniera parossistica queste concezioni. La classe operaia è integrata, l'evoluzione sociale rispecchia molto poco le previsioni marxiane, “quindi” occorre contrapporsi globalmente alla società. Viviamo in un mondo alienato, popolato da fantasmi esangui con bisogni, desideri, gusti, pulsioni, aspirazioni non umane. Crolli allora globalmente questo mondo. I teorici della contestazione globale, unici non alienati fra gli esseri umani, si contrappongono frontalmente al mondo rovesciato. Gli uomini del mondo reale non meritano alcun rispetto, tutta la loro vita è segnata dalla alienazione, nulla in loro si salva. Sono non umani quando lavorano come quando vanno a fare la spesa, quando leggono come quando hanno rapporti sessuali, quando votano come quando mangiano. Alla alienazione globale si contrappone l'ideologia della contestazione globale, la pretesa totalitaria di giudicare e condannare gli stili di vita di tutti, e cercare di imporre a tutti un nuovo, “liberatorio” stile di vita. Non a caso l'idolo dei contestatori sessantottini sarà il Mao della rivoluzione culturale.

Apparentemente la teoria della alienazione è molto liberatoria: l'uomo fuori da se deve recuperare la sua umanità, tornare ad essere davvero uomo. Ma si tratta di un abbaglio legato alla confusione, di cui si è già parlato, fra alienazione ed oppressione. Si può provar simpatia, sentirsi solidali, partecipare alle lotte di un uomo oppresso. Lo si può fare perché lo si considera, e lo si sente, uno di noi, un nostro simile. In nome di questa vicinanza si detestano le catene che lo opprimono.
Nulla di simile però può succedere con un uomo alienato. L'uomo alienato non è, propriamente, un uomo, è un non - uomo, un ente negativo con cui chi alienato non è non condivide nulla. La simpatia verso l'uomo alienato non si basa sulla condivisione di una comune natura umana. No, si basa sul giudizio intorno al
destino di chi subisce la alienazione. L'uomo alienato supererà la alienazione e, superandola, aprirà all'umanità le chiavi del regno, darà vita alla società perfetta. In quanto tale l'uomo alienato non merita alcun rispetto e considerazione. A meritare considerazione e rispetto è il fine verso cui la sua esistenza alienata si pensa lo spinga. La alienazione è un momento necessario dello sviluppo storico che sarà superato nella società perfetta che attende il genere umano. Per questo coloro che credono nella società perfetta, gli intellettuali rivoluzionari, condividono le lotte, sostengono gli obiettivi dell'uomo alienato. Non appena però quest'uomo negativo si comporta in modo diverso da quanto previsto dagli intellettuali rivoluzionari questi dimostrano nei suoi confronti un incredibile disprezzo. Quando gli operai russi cominceranno ad agire diversamente da quanto stabilivano i loro “liberatori” bolscevichi questi non esiteranno ad imporre loro una spietata disciplina sul lavoro. I contestatori sessantottini riempivano di insulti i lavoratori “integrati”, quindi (QUINDI!) “alienati” che desideravano solo l'utilitaria, ferie pagate e salari decenti. Gli pseudo intellettuali di sinistra dei nostri giorni definiscono sprezzantemente “analfabeti funzionali” i tanti lavoratori convinti che esista un nesso ben preciso fra immigrazione clandestina ed aumento di criminalità ed insicurezza.
Gli intellettuali raffinati non amano gli esseri umani (a loro parere) alienati, amano ciò che questi dovrebbero, sempre a loro parere, diventare. E se le cose non seguono le loro previsioni il loro disprezzo nei confronti degli “alienati” emerge in tutta la sua ampiezza.
Non c'è, non può esserci
nulla, ma proprio nulla, di liberatorio nella teoria della alienazione perché un uomo fuori di se, un ente negativo, non può essere oggetto di amore, rispetto e, meno che mai, di liberazione. Io lotto per liberare me stesso quando contrappongo l'esigenza di libertà per il mio essere positivo alle catene che lo opprimono. Ma l'alienato non può contrapporre il suo essere positivo alle catene che lo opprimono perché non è un essere positivo, è un uomo privo di essenza umana. L'alienato si “libera” diventando qualcosa di essenzialmente diverso da ciò che è: era non uomo diventa uomo, non libera la sua natura, la trasfigura. I teorici della alienazione vogliono trasfigurare, non liberare l'uomo. L'unica “liberazione” a cui mirano davvero è quella della loro immensa boria intellettuale.





NOTE

1) K. Marx: prefazione a “per la critica dell'economia politica”. Editori Riuniti 1969 pag. 5 – 6.
2) K. Marx. Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 103.
3) K. Marx: Il capitale. Avanzini e Torraca 1965 pag. 69.
4) Ibidem pag. 69
5) Ibidem pag 70. Sottolineatura di Marx.
6) Marx “Il capitale”, citato in Leszek Kolakowski: Nascita sviluppo e dissoluzione del marxismo. Sugar 1976 pag.304 - 305 Sottolineature. Mie.
7) K Marx: L'ideologia tedesca. Editori Riuniti 1972 pag. 30.
8) Ibidem pag. 35 36 sottolineature di Marx.

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