domenica 23 settembre 2018

ALIENAZIONE. PRIMA PARTE. HEGEL


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La dialettica nel finito


Per comprendere a fondo il concetto di alienazione in Hegel è bene partire dalla sua dialettica finito - infinito.
Hegel parte dal concetto di limite. Ogni ente finito è limitato da qualcosa e nel contempo limita qualcosa che è altro da lui.
“Qualcosa, dunque, è un immediato esserci riferentesi a se stesso, ed ha il suo limite anzitutto come contro l'altro. Cotesto limite è il non essere dell'altro, non del qualcosa stesso; il qualcosa limita in esso il suo altro. Ma l'altro è esso stesso in generale qualcosa. Dunque il limite, che il qualcosa ha contro l'altro, è anche limite dell'altro come qualcosa, è il suo limite con cui esso tiene lungi da se il primo qualcosa come suo altro, ossia è un non essere di quel qualcosa. Così il limite non è soltanto non essere dell'altro, ma anche non essere così dell'uno come dell'altro qualcosa, epperò del qualcosa in generale” (1)
Nel linguaggio contorto di questa brano si intravede subito il succo del metodo hegeliano. Hegel parte da concetti molto semplici, addirittura banali. Ogni ente limita ed è limitato da altri enti, il campo A limita il campo B ad esso confinante ed è nel contempo da esso limitato. Sin qui il discorso è comprensibilissimo, non contrasta col senso comune.
Hegel però identifica gli enti reali e gli enti logici e questo lo porta distante anni luce dalla comprensibilità del senso comune, ed anche dalla scienza autentica.
Come non si è mai stancato di ricordare un importante filosofo italiano, Lucio Colletti, nel mondo reale non esistono enti negativi. Il freddo è reale e è positivo come il caldo, i debiti non sono crediti negativi ma qualcosa di reale e positivo come questi. Il negativo esiste nel pensiero, nella logica. Di Tizio il pensiero può affermare e negare qualcosa, dire e contraddire. Tizio è un uomo e non è un cane. Affermazione e negazione contribuiscono, insieme, alla determinazione di un ente. Questo, va da se, non porta in alcun modo alla negazione del principio di non contraddizione. Il pensiero non può infatti, pena la caduta nell'assurdo, affermare e negare la stessa cosa di un ente nel contempo e dallo steso punto di vista. E' corretto dire che Tizio è un uomo e non è un cane, ma sarebbe assurdo, ce lo ricorda Aristotele, dire che Tizio è e non è un uomo, o un cane.
L'affermare ed il negare, il dire ed il contraddire, si riferiscono ad enti extralogici, gli estremi della relazione logica. Ma Hegel, lo si è già detto, rifiuta questa estrinsecità della logica rispetto al mondo, trasforma in positivi e negativi logici gli enti che la logica relaziona con affermazioni e negazioni. In questo modo il fatto che alla determinazione di un ente contribuiscano sia le affermazioni che le negazioni diventa unità di positivo e negativo, loro fusione dialettica.
Tornando all'esempio dei campi confinanti, il fatto che il campo A limiti il campo B trasforma il campo A in unità di essere e non essere. A è se stesso ma nel suo limitare non è B. B a sua volta è se stesso ma non è A. Entrambi quindi sono e non sono contemporaneamente e il loro limite è nel contempo il loro essere (perché il limite determina il qualcosa) ed il loro non essere (perché limitando il qualcosa il limite è il suo non essere).
“Il qualcosa è dunque (…) il limite contro un altro qualcosa. Se non che il qualcosa ha il limite in lui stesso ed è qualcosa per la mediazione di quello, che è insieme anche il suo non essere. Il limite è la mediazione, per cui qualcosa ed altro, tanto è quanto non è” (2)
Il campo A limita il campo B e viceversa. A con la sua forma limita B e B con la sua limita A. Ognuno è se stesso e non è l'altro. Per la normale logica fondata sul principio di non contraddizione e sulla differenza fra relazione logica ed enti relazionati tutto questo non crea particolari problemi. Ma Hegel rifiuta questo tipo di logica. I campi A e B per lui sono diventati, insieme, degli enti determinati e dei positivi e  negativi logici. Così dal fatto che A sia se stesso e non B discende che è insieme un positivo ed un negativo; limitando B diventa essere e non essere, ma NON essere A e non B (questa è normale logica formale, relazionale) diventa unità dialettica di A e B, essere e non essere insieme. Lo stesso avviene di B. A e B si richiamano e si respingono a vicenda, sono nello stesso tempo separati ed uniti, essere e non essere l'uno l'altro e l'altro l'uno. Ognuno si definisce e si determina tramite il rimando al suo altro. A si definisce in B e B in A, ma A è non - B e B non – A. Definendosi in B, A si definisce in non -A, e lo stesso può dirsi di B. Ognuno quindi è se stesso e il suo negativo, sintesi dialettica di se ed altro da se. E il loro limite, quello che concorre a determinarli in quanto enti positivi è nel contempo l'essere ed il non essere di entrambi. Come si vede ad andare in pezzi in questo slalom è il principio di non contraddizione.

Il discorso diventa più chiaro se affrontiamo le considerazioni di Hegel sugli elementi base dello spazio euclideo.
Punto, linea e solido appaiono per quello che sono solo fuori dai loro limiti, afferma Hegel.
“La linea appare qual linea soltanto fuori dal suo limite, fuori dal punto; la superficie come superficie fuori dalla linea; il solido come solido soltanto fuori dalla superficie sua, che lo limita” (3)
Per vedere qualcosa di spazialmente esteso devo pormi fuori dal suo limite, questo è ovvio. Se resto confinato nel punto non posso vedere la linea, nella linea non posso vedere il piano e dentro il solido non mi è dato di vedere la sua figura nello spazio esterno. Il punto però non è solo il limite della linea, ma anche il suo “cominciamento”, nel senso che un punto che si muove forma la linea. E la linea non è solo il limite della superficie, né la superficie è solo il limite del solido. La linea muovendosi forma la superficie e questa, muovendosi, forma il solido. Punto, linea e superficie sono quindi limite e fondamento dell'altro da se. Il punto limita la linea ma nel contempo la crea, e lo stesso si può dire della linea nei confronti della superficie e della superficie nei confronti del solido. Fino a questo punto chi usa la logica formale non ha nulla da obiettare. Un punto fermo è il limite della linea mentre un punto in movimento crea la stessa. Ed il medesimo discorso si può fare per linea e superficie. Ma qui iniziano le acrobazie dialettiche di Hegel. Il fatto che il punto sia nel contempo limite ed elemento costitutivo della linea e che si possa vedere il punto solo ponendosi oltre esso, sulla linea, viene interpretato da Hegel come tendenza del punto ad andare oltre se stesso, a mutarsi nel suo negativo.
“Così il punto è questa sua propria dialettica consistente nel farsi linea, la linea la dialettica del farsi superficie, la superficie quella di farsi spazio totale” (4).
Linea e punto possono vedersi solo da fuori di se stessi, dice Hegel, a ragione, ma questo non dimostra altro che l'uomo può conoscere qualcosa solo se si rapporta dal di fuori a questo qualcosa, lo osserva da un certo punto di vista assunto come dato. Hegel rifiuta un simile approccio “estrinseco” alla conoscenza. La linea deve scaturire dal punto, la superficie dalla linea ed il solido dalla superficie e questo “scaturire” fa del punto unità di essere e non essere una linea, della linea unità di essere e non essere di una superficie, e della superficie unità di essere e non essere di un solido. Punto, linea, superficie e solido trapassano continuamente uno nell'altro per il solo fatto che muovendosi ognuno genera l'altro e che ognuno può essere conosciuto da un soggetto solo se questo si pone al loro esterno, in uno spazio tridimensionale dato.
Posso immaginare un punto che si muove e forma una linea, ma questo non mi porta ad eguagliare o ad “unificare dialetticamente” in alcun modo linea e punto né a stabilire che un punto debba necessariamente essere in movimento. A livello teorico posso solo dire che se un punto si muove forma una linea. Così facendo però io pongo, di nuovo, la separazione fra soggetto pensante ed ente pensato: aggiungo al concetto di punto quello di movimento. Per Hegel invece il movimento del punto deve scaturire necessariamente dal suo concetto, non deve essere una “aggiunta estrinseca” dell'intelletto. Il fatto che un punto si muova formando una linea deriva, per Hegel, dal concetto di punto e questo fa si che punto e linea coincidano ed insieme, non coincidano. In questo modo scompare, è vero, ogni “estrinsecità", ma scompare anche ogni possibilità di attribuire un senso alle parole perché i concetti di linea e di punto significano qualcosa solo se uno non trapassa nell'altro, è se stesso e non l'altro.
Meno che mai una simile necessità di passaggio fra punto, linea, superficie e solido è in qualsiasi modo concepibile nello spazio empirico. Io posso dire che Genova ha certe coordinate, che dista tot chilometri da Roma e che ha una certa estensione e nulla fa si che le coordinate “trapassino” nella distanza e questa nella superficie. Posso capire qualcosa sulle coordinate di Genova se la parola “coordinate” ha e non ha nel contempo lo stesso significato di “distanza”? E cosa posso capire della superficie di Genova se questa ha e non ha lo stesso senso di “distanza da Roma”? Non esiste alcuna necessità logica di passare dal punto alla linea e da questa alla superficie e da questa ancora al solido. La necessità logica di Hegel altro non è che un correre dietro all'”estrinseco” far muovere punto linea e superficie. Con questa rincorsa Hegel conferisce, è vero, una apparenza di necessità ai concetti geometrici, ma lo fa a prezzo di far perder loro il proprio significato. Hegel resta comprensibile, a fatica, solo perché usa il principio di non contraddizione nel momento stesso in cui lo distrugge con la sua dialettica.

Tutto il discorso di Hegel su punto linea, superficie e solido si concretizza in un punto fondamentale: il concetto di limite mira ad auto trapassarsi. Il limite spinge all'altro da se, è irrequieto, tende a superarsi. C'è qualcosa di vero in una simile affermazione: se esiste un limite c'è qualcosa oltre quel limite, gli enti limitati hanno a che fare con altri enti posti fuori ed oltre di loro.
Il discorso di Hegel ha una sua parziale validità. La ragione è includente, relazionante. Un concetto si definisce anche tramite altri concetti, questo tuttavia, lo si è già visto, non viola il principio di non contraddizione, non trasforma gli enti reali in positivi e negativi logici e non conferisce a questi la determinatezza degli enti reali. L'isola non è il mare che la circonda, anche se questo la lambisce. L'uomo non è il cane, la morte non è la vita. Solo partendo dalla positività di ogni ente la ragione può stabilire le sue relazioni con gli altri, siano queste di limitazione reciproca, di armonizzazione o di scontro.  Nessun ente empirico è il negativo dell'altro né costituisce con l'altro alcuna unità dei contrari né si definisce tramite l'altro. Due enti che si limitano a vicenda lo fanno in quanto enti positivi. l'Italia confina con la Francia ma Italia e Francia non si definiscono l'una con l'altra solo perché sono confinanti. E' vero il contrario: i loro confini hanno una certa configurazione perché Italia e Francia sono due realtà in se positive. E' stata la storia di entrambe, la loro forza e debolezza, la natura del loro territorio a determinare il tipo di confine che esiste fra loro.
Hegel invece trasforma, il relazionamento in movimento dialettico, unità dei contrari, quindi rimando continuo da un concetto all'altro, con una alternanza di significati che finisce per rendere incomprensibile il discorso, o lo renderebbe incomprensibile se Hegel non continuasse ad usare, malgrado tutto, il principio di non contraddizione. Da un lato trasforma gli enti logici in enti reali, “l'è questo” e il “non è quello” logici in ESSERE e NON ESSERE reali. Dall'altro fa diventare enti logici gli enti reali. L'isola reale, empirica, diventa momento del relazionamento logico fra i concetti di isola e mare, mentre le relazioni logiche fra i concetti di isola e mare diventano essere e non essere reali. E' evidente come, partendo da un simile procedimento, Hegel possa passare dalla tendenza ad andare oltre il limite alla unità di un ente con l'altro da se, di essere e non essere.

Ma quale è la base, il fondamento di tanti slalom dialettici? Hegel, lo ha ricordato più volte Colletti riferendosi anche a Trendelemburg, effettua un continuo un passaggio dagli enti reali agli enti logici,  e viceversa, perché profondamente convinto che il finito non sia vero essere. L'empirico, il finito deve essere assimilato all'idea perché non è vero, autentico essere. Da qui la trasformazione degli enti reali in enti logici. L'ente logico dal canto suo deve avere la determinatezza degli enti reali, non può restare una astrazione indeterminata. Da qui il passaggio contrario. Alla base di tutto resta quella che sempre il Colletti definisce la concezione negativa del finito.
“L’idealismo nella filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere al finito un vero essere” (5) Afferma Hegel e in queste poche parole è forse compreso il sunto di tutto il suo poderoso sistema. Tutto il suo discorso sul limite che si trascende lo porta precisamente a questo: il limitato è finito, ma il finito è irrequieto, tende a trascendersi, è la contraddizione in se stesso, che deve risolversi.
“Il qualcosa posto col suo limite immanente come la contraddizione di se stesso, dalla quale è indirizzato e cacciato oltre a sé è il finito” (6))

La dialettica finito – infinito.

“Le cose finite sono, ma la lor relazione a se stesse è che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a se si mandano al di là di se stesse, al di la del loro essere. Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine” (7)
Qui Hegel riprende il discorso sugli enti limitati. La loro verità sta nell'unione con l'ente che li limita, il loro negativo. L'ente limitato è ed insieme non è. Tuttavia il discorso di Hegel subisce qui una modifica interessante. Non si parla ora di enti finiti limitati da altri enti finiti, ma del finito in quanto tale, del limite che il finito incontra perché finito, indipendentemente dagli enti che lo limitano o possono limitarlo.
“Il finito non solo si muta”, afferma Hegel, “come il qualcosa in generale, ma perisce; e non già è soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l'essere delle cose finite, come tale, sta nell'avere per loro essere dentro di se il germe del perire: l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte” (8)
Il finito è caduco, perituro, temporale, suo destino è la morte. Ma può, si chiede Hegel, questo perituro esser considerato tutta la realtà?
In un primo momento il finito sembra escludere da se il suo altro, l'infinito. Si contrappone all'infinito quale finito, lo esclude.
“La caducità delle cose non potrebbe perire che nel loro altro, nell'affermativo. Così si staccherebbe dalle cose la loro finità. Ma questa finità è per lor qualità immutabile, non trapassante cioè nel suo altro, non trapassante nel suo affermativo. E così è eterna” (9)
Il finito in quanto finito non può trapassare nell'altro da se, nell'infinito, afferma la sua positività escludente. In questo modo però il finito diventa eterno, trascende se stesso. Nel suo contrapporsi all'infinito il finito si rifiuta di perire, cessa in qualche modo di essere finito. “Tutto sta a vedere”, prosegue Hegel “se la caducità persiste oppure se la caducità e il perire perisce” (10)
Un finito che si mantenga in quanto finito si eternizza, rifiuta di finire, contraddice se stesso. Ma non si tratta di una contraddizione dialettica, capace di risolversi in una più ampia unità, si tratta della pretesa di contrapporre in maniera permanente il finito all'infinito. Da un lato sta il finito e dall'altro, ad esso contrapposto, l'infinito. Dio e mondo, tempo ed eternità, finito ed infinito si spartiscono lo spazio dell'essere e stanno in eterno contrasto l'uno con l'altro. Questa contrapposizione però porta a risultati paradossali. Da un lato, lo si è visto, il finito diventa eterno, dall'altro l'infinito in qualche modo “finisce”, diventa limitato perché esclude da se il finito.
Il finito che si contrapponga in maniera esclusiva all'infinito è un finito che rifiuta di finire. L'infinito che escluda da se il finito è un infinito limitato, quindi finito. Il tendere continuo del finito all'infinito ed il continuo sfuggire di questo a quello dà vita a quello che Hegel chiama il cattivo infinito, il progresso all'infinito, di cui è espressione l'infinito matematico. Un infinito succedersi di numeri che non si conclude mai. Ma il finito, per esser davvero tale, deve finire, e trapassare nell'infinito; e l'infinito per esser davvero infinito deve comprendere in se il finito.
Il superamento della contraddizione si ha nel vero infinito, unità dialettica di finito ed infinito; l'infinito che comprende in se quale suo momento il finito.
“L'infinito”, afferma Hegel, “ha un doppio senso, di esser uno di quei due momenti (e a questo modo è cattivo infinito) e di esser l'infinito in cui quei due, l'infinito stesso ed il suo altro, non sono che momenti. La maniera dunque, come l'infinito è nel fatto è di esser il processo dov'esso si abbassa ad essere soltanto una delle sue determinazioni, di contro al finito (e con ciò ad essere, esso stesso, nient'altro che l'un dei finiti) e di togliere questa differenza di se da se stesso nell'affermazione di se e d'essere per questa mediazione come veramente infinito” (11)
Il vero infinito comprende in se il finito, è un infinito con dentro di se tutte le determinazioni, le particolarità del finito. E' il superamento del finito che si pretende eterno e dell'infinito limitato dal finito. E del loro inseguirsi che si realizza ne cattivo infinito del progresso all'infinito. “L'immagine del progresso all'infinito”, prosegue Hegel, “è la linea retta”, il vero infinito invece “Come vera infinità ripiegata in se la sua immagine diventa il circolo, la linea che ha raggiunto se stessa, che è chiusa ed interamente presente, senza punto iniziale né fine” (12).
L'infinito come totalità chiusa in se stessa, non però una totalità astratta, priva di determinazioni, totalità interamente determinata, meglio, determinata nella sua astrazione ed astratta nelle sue determinazioni. Unità dei contrari, di nuovo.

E' difficile non riconoscere la straordinaria abilità di cui Hegel fa mostra in questo stretto slalom dialettico. Ma basta una riflessione un po' approfondita per cogliere la natura sofistica delle sue argomentazioni.
Il finito che si perpetua come tale è un finito che rifiuta di finire, afferma Hegel. Questo però è un altro esempio di quella sostanzializzazione dell'astratto di cui Hegel fa continuamente mostra. Non esiste un ente che sia “il finito”. Esistono enti finiti: uomini o gatti, mari o montagne, quadri o filosofi. Sono questi che finiscono, non “il finito”. Se affermo che l'uomo è un ente finito il fatto che da millenni gli uomini continuino a nascere e morire non trasforma nessun essere umano in un “finito che si eternizza”. Se l'universo nel suo complesso durasse in eterno vorrebbe dire che l'universo in quanto totalità di enti finiti non sarebbe temporalmente finito; nella sua illimitata durata, darebbe vita e quello che Hegel chiama il cattivo infinito: l'illimitato succedersi dei giorni e dei movimenti di stelle e pianeti. Una successione di enti finiti potrebbe non avere mai fine temporale. L'infinito della serie starebbe accanto alla finitezza dei suoi membri. Il finito resterebbe finito e l'infinito infinito, senza alcun passaggio dall'uno all'altro. Esattamente il contrario del risultato delle dialettica hegeliana.

Ancora meno soddisfacente appare l'altra parte del discorso di Hegel, quella in cui si afferma che un infinito che non comprenda in se il finito sarebbe a sua volta finito, limitato dalla semplice esistenza del finito.
Esiste un infinito matematico, anzi esistono numerosi, infiniti, infiniti matematici che restano tali malgrado la presenza accanto a loro del finito e di altri infiniti. L'insieme dei numeri naturali è infinito anche se si trova a dover convivere con l'insieme dei numeri primi, o con quello dei numeri pari o dispari, pure infiniti ed anche se i matematici in carne ed ossa che studiano questi insieme nascono e periscono, come tutti gli enti finiti. Certo, ad Hegel questi infiniti non piacciono, sono esempi di “cattivo infinito”, ma non basta definire “cattiva” qualcosa per mostrarne l'inconsistenza o addirittura la impossibilità logica. Per Hegel l'infinito deve comprendere tutto per essere tale, ma questo non è affatto compreso nel concetto di infinito. Se Dio esiste fuori dal tempo e dello spazio la sua infinità non viene neppure scalfita dal fatto che esistono esseri spaziali e temporali, esattamente come l'infinità della serie dei numeri pari non è per nulla compromessa dal fatto che esista la serie infinita dei numeri dispari. D'altro canto la totalità che tutto comprende potrebbe benissimo non essere infinita. E' molto significativo a questo proposito l'esempio hegeliano del circolo come immagine della vera infinità. Il circolo, o la sfera, sono illimitati ma non infiniti. Camminando su una superficie sferica non mi imbatto mai in ostacoli che interrompano il mio cammino, ma prima o poi mi trovo nel punto da cui sono partito. L'illimitatezza di sfera e circolo convive con la loro finitezza. E, a ben vedere le cose, né il circolo né la sfera sono davvero illimitati. Il circolo è illimitato in uno spazio ad una dimensione, la sfera in uno spazio a due. La dimensione verticale pone limiti alla sfera come quella bidimensionale ne pone al cerchio. Qualsiasi ente illimitato in uno spazio ad N dimensioni diventa limitato in uno spazio a dimensioni N+1.

Ciò che Hegel chiama “infinito” andrebbe piuttosto chiamato “assoluto”. L'assoluto non solo comprende tutto ma comprende tutto da tutti i punti di vista. Nell'assoluto non esistono il “qui” ed il “la”, “l'ora” ed il “dopo”. Né esiste lo spazio monodimensionale accanto allo spazio ad N dimensioni. Esistono tutti questi spazi compenetrati l'uno nell'altro, identici e nel contempo diversi fra loro.
L'assoluto è il tutto in tutto, diceva Aristotele, ma precisamente per questo è inesprimibile, impensabile, indicibile. Hegel invece vuole l'assoluto senza l'inesprimibilità, il superamento del principio di non contraddizione ed insieme il suo mantenimento come premessa di ogni discorso sensato, ma è proprio questa coesistenza fra non contraddizione e contraddizione ad essere vietata dal principio di non contraddizione.
Soprattutto Hegel vuole che il finito sia compreso nell'infinito, e vuole che sia compreso in questo precisamente in quanto finito, con tutte le caratteristiche del finito. Io sono mortale e con la mia mortalità sono compreso nell'infinito, sono suo “momento”. Ma è questo ad essere logicamente impossibile. Perché quando io, come mortale, sarò morto all'infinito mancherà un suo “momento”: quello del me stesso vivo. O il finito, trapassando nell'infinito, perde le sue caratteristiche, ed allora resta di fatto fuori dall'infinito, o le mantiene, ed allora è proprio questo mantenimento ad inquinare l'infinitezza dell'infinito.

Il discorso hegeliano sul finito come “momento” dell'infinito appare, ad una visione superficiale, plausibile solo perché lo si interpreta in maniera... non hegeliana.
Qualcuno può essere spinto ad interpretare l'hegeliana presenza del finito nell'infinito come una sorta di sottoinsieme compreso in un insieme più ampio. L'insieme “infinito” contiene al suo interno il sottoinsieme “finito”, un po' come l'insieme “italiani” comprende in se il sottoinsieme “genovesi”. Ma basta pensarci un attimo per capire quanto un simile paragone sia fallace. L'insieme “italiani” comprende in se il sottoinsieme “genovesi” precisamente perché si tratta di un insieme limitato. “Italiani” comprende “genovesi” perché da “italiani” sono scomparse le caratteristiche peculiari che distinguono i genovesi dai napoletani e questi dai sardi. L'insieme maggiore può comprendere in se sottoinsiemi di dimensioni minori perché è un insieme più generico. Per far parte dell'insieme “italiani” basta avere la cittadinanza italiana, non è necessario essere nati a Genova, o a Milano. Proprio per questa indeterminatezza un simile insieme può comprendere in se numerosi sottoinsiemi.
Detto diversamente, per far parte dell'insieme “italiani” occorre esser nati a Genova, O a Milano, O a Napoli eccetera. L'insieme maggiore può risolversi in una serie di disgiunzioni. Ma questo è un altro modo per dire che questo insieme è limitato dalla sua genericità: se per farne parte posso essere nato a Genova O a Milano, vuol dire che posso farne parte quali che siano le particolarità legate al mio luogo di nascita. Ci vuol poco per capire che un simile insieme non ha nulla a che vedere con l'infinito, meglio, con l'assoluto hegeliano che rifiuta in linea di principio ogni esclusione ed ogni limitazione.

Non val la pena di continuare a lungo nel cercare le incongruenze logiche del discorso hegeliano. Queste del resto sono connaturali alla sua filosofia. Hegel vuole collegare finito ed infinito, pretende che la sua filosofia sia il momento culminante della autoesposizione della idea assoluta. Per far questo deve “superare” il principio di non contraddizione. E' facile alla fin dei conti per chi usa questo principio far notare le contraddizioni in cui cade il suo discorso. Hegel potrebbe facilmente rispondere accusando i suoi critici di restar legati ad una concezione angusta e superata della logica. Il gran vantaggio di chi pensa di aver “superato” il principio di non contraddizione è proprio questo: tale “superamento“ gli consente di continuare ad usarlo quando gli fa comodo, e di abbandonarlo quando non gli fa più comodo. E' scorretto un simile procedimento? Penso proprio di si. Ma è anche alla base del concetto stesso di alienazione che anche molti critici di Hegel hanno fatto proprio.

Alienazione.

La particolarità di Hegel, e di tutti i filosofi della totalità, è questa: lui non parla del mondo, o dell'idea, sono l'idea ed il mondo che parlano attraverso di lui. Molti filosofi e tutti gli scienziati si rapportano al mondo. Lo esaminano da un certo punto di vista cercando di comprenderlo e interpretarlo. Il loro è un pensiero sul mondo, ma pensare sul mondo come se questo fosse un che di esterno al pensiero, un dato della sensibilità, vuol dire per Hegel restare invischiati nelle trappole dell'intelletto riflettente, quello che divide e separa: soggetto e oggetto, essere e pensiero, razionale e sensibile. A chi accetta un simile procedimento la totalità resta preclusa per sempre. Ma per Hegel solo nella totalità sta il “vero”. Una totalità che non sia, val la pena di ripeterlo, qualcosa di astrattamente “generale”, una idea che escluda da se le determinatezze del finito. Al contrario, la totalità hegeliana comprende tutto, ma proprio tutto, è la totalità assoluta, e per questo il solo “vero”.
“La scienza pura perciò (…) contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppure la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro pensiero (…) Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. Lungi quindi dall’essere formale, lungi dall’essere priva di quella materia che occorre ad una conoscenza effettiva e vera cotesta scienza ha anche un contenuto che, solo, è l’assoluto vero, o, se si voglia ancora adoperare la parola materia, che, solo, è la vera materia, una materia, però, la cui forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero e quindi l’assoluta forma stessa. La logica perciò è da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in se e per se senza velo (13).
L'idea assoluta è la totalità che si autodetermina. Si parte da concetti generalissimi, essere, nulla, divenire e da questi si passa ad altri, sempre più determinati. Un concetto richiama l'altro e si risolve nell'altro. Questo a sua volta richiama il primo e torna ad esso. Il passaggio costante dall'uno all'altro si risolve in un nuovo concetto che a sua volta si scinde e si ricompone. Ciò che poteva apparire come un vuoto “generale” si arricchisce di una multicolore molteplicità di determinazioni. Tale molteplicità però coincide a sua volta con la quiete vuota della generalità astratta. Il vero è l'intero che rivela se a se stesso. E dove lo rivela? Dove il processo di autoesposizione dell'idea raggiunge la sua assoluta, cristallina consapevolezza? E' ovvio: nella filosofia di Hegel. Hegel è il portavoce, meglio, la voce dell'assoluto, ne esprime la piena autocoscienza. Esattamente come Marx esprime nella sua filosofia la autocoscienza della storia, meglio, l'autocoscienza della storia che si manifesta come autocoscienza della classe operaia.

Questo sistema deve però affrontare uno scoglio assai arduo: quello del passaggio dall'idea alla natura. Alla natura materiale, al mondo sensibile la cui accidentalità va inclusa nel movimento della idea assoluta. Come può ciò che idea non è essere nel contempo idea? Come può esserlo, questo è il punto, conservando tutto il peso della sua accidentalità? Il mondo sensibile va conservato con tutte le sue caratteristiche. Hegel rifiuta di considerare “illusione” il mondo sensibile, vuoto “non essere” contrapposto al pieno essere del mondo ideale. Il sensibile è reale, ma la sua realtà “vera” è, appunto, quella di esser parte dell'idea, momento del suo svolgimento dialettico.
Per chi si mantenga fedele al principio di non contraddizione tutto questo è semplicemente assurdo, ma Hegel ritiene che il suo sistema possa contenere, insieme, la contraddizione e la non contraddizione, come se unificare non contraddizione e contraddizione non fosse già, in se, qualcosa di intimamente contraddittorio, che esclude da subito il principio di non contraddizione. Comunque, una volta che contraddizione e non contraddizione siano anch'esse diventate “momenti” dello svolgimento dell'idea diventa relativamente facile per Hegel passare dall'idea alla natura sensibile. Il passaggio dall'idea alla natura segna il momento della
alienazione dell'idea da se stessa. L'idea diventa altro da se e si autodetermina come natura sensibile. La natura sensibile è l'idea nella forma del suo essere altro.
La natura si è dimostrata come l'idea nella forma dell'essere altro. Poiché l'idea è per tal modo la negazione di se stessa, ossia è esterna a se, la natura non è esterna solo relativamente, rispetto a quest'idea (…) ma l'esteriorità costituisce la determinazione nella quale essa è come natura” (14)
La natura è caratterizzata dalla esteriorità spazio temporale. Un ente non è l'altro, è fuori dall'altro, è sottoposto ad un divenire i cui momenti sono uno prima o dopo l'altro, ed in questa esteriorità la natura non è idea, meglio,
è e non è idea: è idea nella forma di non idea.
“La natura considerata in sé, nell'idea, è divina; ma nel modo in cui
essa è, l'esser suo non risponde al suo concetto, essa è, anzi, la contraddizione insoluta. Il suo carattere proprio è questo, di esser posta, di esser negazione” (15)
La natura è la contraddizione irrisolta, la mera negazione, l'essere che non corrisponde al concetto. In una parola, il momento della
alienazione. Momento che verrà superato nella filosofia dello spirito che si articolerà a sua volta nella storia.
Nella teologia cristiana la natura è creazione divina. Nella teologia filosofica di Hegel la natura è dentro l'idea divina, suo momento negativo destinato ad essere superato. L'accidentale ridiventa in questo modo necessario, il sensibile viene, insieme, conservato e superato. Il panlogismo hegeliano conserva tutto. Ma “deforma”, se così si può dire, tutto ciò che conserva. Lo deforma perché la caratteristica ineliminabile dell'accidentale è di essere irriducibile al necessario; ciò che fa del sensibile ciò che è consiste precisamente nel suo
essere dato, qualcosa di cui si può dir solo: “è così e così”. Se il sensibile è altro dall'idea la sua alterità consiste precisamente nel non poter in alcun modo esser ricondotto all'idea. Si può analizzare il sensibile, cercare di razionalizzarlo, instaurare relazioni fra gli enti sensibili, ma questi oppongono sempre ai tentativi di razionalizzazione la propria alterità. I dati della esperienza sensibile possono in qualsiasi momento smentire la più accreditata teoria scientifica. Questa che per qualsiasi scienziato è quasi una banalità costituisce la smentita senza appello della pretesa hegeliana di ricondurre il dato, l'accidentale nel movimento della idea assoluta.

L'alienazione è centrale nel sistema di Hegel. Rappresenta il momento della scissione, della separazione. Quindi il momento della determinazione sensibile dell'idea. Momento che verrà ovviamente superato, anzi, che è già, sin dall'inizio, superato. Perché, a differenza che in Marx, in Hegel lo svolgimento dialettico non è temporale ma logico, meglio, è insieme logico e temporale. La temporalità è momento della autoesposizione dell'assoluto, ma questa è sempre conchiusa in se stessa. La calma totalità con cui si conclude la logica di Hegel non viene
dopo il puro essere privo di determinazioni con cui questa inizia. Tutto ciò che è divisione, determinazione, questo e non quello, viene ridotto a momento di un processo circolare in cui ogni punto è insieme, l'inizio e la fine del tutto.
Marx andrà “oltre” questa concezione di Hegel. La filosofia che in Hegel rischiara a cose fatte il cammino dell'assoluto in Marx diventa impegno per il futuro. Il superamento dell'alienazione caratterizzerà, profetizza Marx, la prossima fase del processo storico. In Marx la alienazione nasce, si realizza e sarà superata
nel tempo, storicamente. Anche in Hegel la alienazione si realizza, e viene superata, nella storia, essa ha però nella natura un suo momento fondamentale. Marx invece presta poca e superficiale attenzione alla natura; in lui la alienazione è un prodotto storico. E' collegata alla divisione in classi della società umana e, soprattutto, alla affermazione della economia di mercato. E sarà superata quando l'umanità raggiungerà il comunismo, meta finale del suo peregrinare terreno.
In ogni caso la categoria della alienazione conferisce alla speculazione filosofica un pesantissimo carattere di necessità. Che la si consideri logicamente o temporalmente, tale categoria rimanda alla necessità sia del corso storico, sia, prima ancora, della e nella natura. Necessità nella natura, si badi, che non è riconducibile alla ricerca empirica, alla formulazione di leggi che in ogni momento l'esperienza può contraddire. Necessità che pretende slegare la scienza della natura dal suo fondamentale momento empirico - sperimentale sostituendola con artificiosi, quando non francamente ridicoli, schemi a priori. E necessità del corso storico che si traduce, non può non tradursi, nella pretesa di conoscerne a priori l'andamento.
Malgrado sia Hegel che Marx definiscano “scientifici” i loro sistemi tutto questo non ha, con tutta evidenza, nulla a che vedere con la scienza.


NOTE


1) Hegel: scienza della logica. Laterza 1981 pag 125.
2) Ibidem pag 126. Sot. Di Hegel.
3) Ibidem pag. 126.
4) Ibidem pag. 127.
5) Ibidem pag. 159
6) Ibidem pag. 128
7) Ibidem pag 128. Sot. di Hegel.
8) Ibidem.
9) Ibidem pag 129 Sot. Di Hegel
10) Ibudem sott. Di Hegel
11) Ibidem pag 152, Sot. Di Hegel
12) Ibidem pag 153 Sot. di Hegel.
13) Ibidem pag 31. Sott. di Hegel
14) Hegel: enciclopedia delle scienze filosofiche, in “I grandi filosofi: Hegel. Ed “il sole 24 ore” 2006. pag. 480. Sottolineature di Hegel.
15) Ibidem pag. 481. Sottolineature di Hegel.


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