mercoledì 24 febbraio 2016

CONTRO LA MORALE UTILITARISTA

Massimo piacere per il massimo numero

Uno dei padri della morale utilitarista è, Com'è noto, il filosofo e giurista inglese Geremy Bentham.

La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta a essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare ciò che è giusto o ingiusto”. Così afferma il filosofo inglese.
In Bentham la morale su stacca, sembra, da ogni considerazione religiosa e metafisica, ma anche da ogni principio razionale. Per Kant a fondamento dell'etica si trova l'imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di legislazione universale”. Una azione è buona se può essere universalizzata, se vale o può valere per me ma anche per tutti gli esseri morali. Bentham si sbarazza di simili considerazioni. L'etica diventa un fatto di calcolo. Una azione è buona quando si traduce in un incremento globale del piacere o in un altrettanto globale decremento del dolore. Il fondamento dell'etica è la
maggior felicità per il maggior numero.
L'etica kantiana si fonda su un principio, quella utilitaristica di Bentham sulle caratteristiche sensibili degli uomini e sul loro comportamento. Gli uomini provano piacere e dolore e cercano di massimizzare il primo e minimizzare il secondo. E' buono ciò che rende massimo, a livello sociale, il piacere e minimo, sempre a livello sociale, il dolore. La morale kantiana è non naturalistica. Divide il mondo in due categorie: da una parte quella di cui fanno parte gli esseri razionali e morali, dall'altra tutto il resto. C'è morale dove c'è libertà, possibilità di scelta, capacità di instaurare rapporti basati sul reciproco rispetto. Per Kant l'uomo è
anche, o prevalentemente, un essere naturale, sensibile, sottoposto alle leggi della natura. Ma non è, meglio, si deve presupporre che non sia, solo questo. L'uomo è un ente capace di elaborare i concetti di bene e di male, di obbligo e di responsabilità morale e di comportarsi, piuttosto raramente, in conformità con questi. In una parola, l'uomo non è, forse, solo natura, si sottrae, forse, in certi casi, alla necessità della causalità naturale, per questo è un ente morale. Per Kant la morale e la libertà iniziano dove finisce la natura.
La morale utilitaristica dista anni luce da queste concezioni. Bentham lega natura e morale, basa l'obbligazione etica sulle caratteristiche sensibili dell'uomo e sulla sua naturalissima ricerca del piacere ed avversione al dolore. Il naturalismo dell'etica utilitarista è tanto spinto che questa, per molti utilitaristi, compreso lo stesso Bentham, non riguarda solo l'uomo. Alla base dell'etica sta la capacità di provare piacere e dolore e questa non è, ovviamente, monopolio degli esseri umani. Anche gli animali provano piacere e dolore e, coerentemente, Bentham include anche questi fra i soggetti morali. “Il problema non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?” afferma Bentham nei suoi
principi di morale e di legislazione, “ma “Possono soffrire?“. Perché dovrebbe la legge negare la sua protezione a un qualsiasi essere sensibile? Verrà il giorno in cui l’umanità accoglierà sotto il suo mantello tutto ciò che respira.» Non a caso Bentham è diventato uno dei filosofi preferiti dai guru dell'animalismo radicale.

Problemi e
Contraddizioni

L'etica utilitaristica appare, nel contempo, più dolce e meno astratta di quella kantiana. Porta la morale dai cieli tersi della metafisica al concreto, naturalissimo, mondo sensibile. Però, a parte le critiche che è possibile muovere alla morale di Kant, la morale utilitaristica si avvolge da subito in insuperabili aporie e porta, se presa sul serio, a conclusioni francamente mostruose. Vediamo di esaminarla più a fondo.

L'utilitarismo afferma di partire dai fatti, dalla struttura della natura umana (e non solo) e dai comportamenti ad essa collegati. Però, è stato un grande filosofo vicino, in etica, all'utilitarismo, David Hume, ad affermare che non si possono derivare i valori dai fatti. Dal fatto, diamolo pure per assodato, che l'uomo mira al massimizzare il piacere ed a minimizzare il dolore non deriva che massimizzare piacere e minimizzare dolore sia un bene, nè che si debba massimizzare il piacere globale della società. Tizio potrebbe dire: “a me non interessa affatto che la somma dei piaceri sia globalmente superiore a quella dei dolori, mi interessa solo massimizzare il mio personale piacere”. In base a cosa, partendo dalle premesse di Bentham potremmo dire che costui sbaglia? Il richiamo alla natura umana, giusto o sbagliato che sia, qui non serve a nulla. Per stabilirlo abbiamo bisogno di un principio, di una norma che possa in qualche modo essere razionalmente giustificata.
Si potrebbe obiettare che l'utilitarismo non mira a stabilire cosa sia eticamente bene o male, si limita ad indicare cosa nei fatti gli uomini fanno per ottenere ciò che considerano un bene ed evitare ciò che considerano un male. La morale diventerebbe in questo caso una questione interamente di fatto, staccata da ogni considerazione su ciò che è valore. Sarebbe “morale”, le virgolette sono d'obbligo, ciò che in generale fa la maggioranza degli esseri umani. Una concezione abbastanza aberrante se si pensa a quanti eccidi e massacri sono stati appoggiati o quanto meno avallati da maggioranze.
Anche ammettendo una cosa simile inoltre la concezione utilitaristica resterebbe sospesa nel vuoto. E' quanto meno assai dubbio che il comportamento degli uomini miri, nei fatti, a realizzare il massimo piacere o il minimo dolore per il massimo numero. Anche tralasciando ogni perplessità riguardo ad un'etica induttivamente fondata, resta il fatto che i dati che dovrebbero avvalorare l'inferenza induttiva non sembrano in grado di sostenerla.
L'utilitarismo vorrebbe fare a meno di principi razionali, ma farne a meno è impossibile. La affermazione secondo cui occorre massimizzare l'utilità aggregata resta in questo modo una affermazione diretta, non ulteriormente analizzabile e giustificabile. La cosa può non essere troppo grave, in fondo. Qualsiasi discorso, ogni ricerca, arriva sempre a qualcosa di non ulteriormente giustificabile ne analizzabile. Lo stesso imperativo categorico è un dato, un fatto della ragione lo chiama Kant, qualcosa che si può solo constatare o accettare, non spiegare o dedurre.
Ma,il fatto che ci si imbatta sempre, prima o poi, in qualcosa di non ulteriormente analizzabile, ci esime dal criticare ogni cosa di cui si dica che è un “dato ultimo”? Con tutta evidenza,
no. Solo esaminando attentamente qualcosa e facendo ragionevoli obiezioni alle sue unterpretazioni è possibile stabilire se si tratti o meno davvero di un dato ultimo da constatare o accettare.
Il principio di non contraddizione è un dato ultimo, non ulteriormente analizzabile né dimostrabile. Il perché è sin troppo evidente: la dimostrazione, o la critica, del principio ne presuppone l'uso. Il principio di non contraddizione deve essere accettato se ci si vuole mantenere nei confini del discorso significante; se si intende uscire da tali confini si deve tacere, e non si può neppure cercare di criticarlo. E' almeno dubbio che un simile status spetti all'imperativo categorico di Kant, di certo non spetta al principio utilitaristico secondo cui il fondamento dell'etica starebbe nella massimizzazione del piacere e nella minimizzazione del dolore aggregati.

Il principio della massimizzazione del piacere aggregato (o della somma algebrica positiva o il meno negativa possibile fra piaceri e dolori) può in effetti essere sottoposto a molte, e ragionevoli, obiezioni.
Accenniamo solo telegraficamente alle più ovvie: è praticamente impossibile misurare con matematica precisione piaceri e dolori, e non tutti i piaceri e dolori sono dello stesso tipo. Il piacere che si prova ubriacandosi può seriamente essere paragonato a quello che ci da l'ascolto di un fuga di Bach? E, ammesso, che il paragone sia possibile, e che risulti superiore il piacere procuratoci dalle bevande alcooliche, è
giusto privilegiare un piacere di questo tipo?
Tralasciamo simili obiezioni, cui hanno cercato di rispondere anche eminenti filosofi utilitaristi, come John Stuart Mill, e veniamo a questioni più essenziali, a parere di chi scrive.
Il principio della massimizzazione del piacere aggregato parte da e si basa su una certa descrizione della natura umana, e non solo. Il punto di riferimento degli utilitaristi è la
sensibilità, la capacità di provare piacere e dolore. Ma, perché deve essere questo il punto di partenza?
La morale di Kant si basa su un principio razionale. Sulla base di quel principio discrimina nella natura fra coloro che sono in grado di instaurare fra loro rapporti etici e gli altri che non sono in grado neppure di concepire qualcosa come l'obbligazione morale. L'utilitarismo parte invece dalla natura. Ma, se si parte dalla natura, perché mai privilegiare, nella natura, gli esseri sensibili? Perché la
sensibilità deve avere tanta importanza? Perché non può averne ad esempio, la vita o addirittura la semplice esistenza?
Perché il fatto di provar piacere e dolore rende degno di tutela etica un topo mentre quello di
vivere, e di vivere per interi secoli, e raggiungere una altezza di svariate decine di metri, non fa di una sequoia un ente morale? E perché il fatto di esistere, e di esistere da millenni, a quasi novemila metri di altezza, non trasforma in un ente morale la vetta ghiacciata dell'Everest? O si stacca la morale dall'immediatezza della natura, la si basa sul fatto che ci sono enti capaci, almeno potenzialmente, di rispettarsi, o si immerge la morale nella natura. In questo modo però ogni distinzione nella natura non può che essere arbitraria. Dipende, a ben vedere le cose, dai gusti e dalla sensibilità di ognuno. Tizio ha in orrore il sangue ed il dolore, per lui la morte di un topo è uno spettacolo insopportabile, quindi attribuisce valore alla sensibilità. Caio ammira i grandi alberi, il solo fatto di vederne abbattere qualcuno lo riempie di dolore, quindi privilegia la vita. Sempronio adora le grandi montagne, per lui costruire un sentiero o una galleria significa “ferire”questi splendidi giganti, quindi privilegia l'esistenza. Hanno tutti e tre ragione, e tutti e tre torto. Forse la soluzione giusta, se si accetta un'etica naturalista, consiste nel non toccare nulla della natura, neppure un filo d'erba. Peccato che in natura ogni ente “tocchi”, e pesantemente, tutti gli altri. Lasciare assolutamente intatta la natura porta solo alla morte l'ente che vorrebbe che tutto restasse intatto. E la sua morte modifica della natura...

Già il punto di partenza dell'etica utilitarista appare del tutto arbitrario, incapace di fondare una morale universale, o quanto meno generalizzabile. Si leghi la morale alla sensibilità e la si deve agganciare ai sentimenti. Una volta agganciata ai sentimenti la morale perde però ogni valenza generale, anche solo
potenzialmente generale. Si spezzetta in una miriade potenzialmente infinità di morali private. E' quanto sta avvenendo nell'occidente in crisi di oggi.
Andiamo oltre. Diamo pure per assodato il principio della massimizzazione del piacere aggregato e poniamoci la seguente domanda: un simile principio è in grado di giustificare quelli che per noi sono intuitivamente comportamenti morali?
La stragrande maggioranza degli esseri umani considera cosa buona, ad esempio, aiutare una persona in procinto di annegare e cosa cattiva stuprare ed uccidere una bambina. Bene, il principio della massimizzazione del piacere aggregato è in grado di giustificare simili convinzioni? Ogni principio che pretenda di fondare o spiegare la morale deve essere in grado di fornire una giustificazione alle opinioni correnti su ciò che appare immediatamente buono o cattivo. Se in base ad un certo principio fossimo costretti ad ammettere che è bene uccidere un bambino o che è male salvargli la vita dovremmo abbandonare un simile principio, come abbandoneremmo un principio logico matematico che ci portasse a dire che due più due fa sei. Stabilito questo esaminiamo il principio utilitaristico.
Il principio base dell'utilitarismo è la massimizzazione del piacere globale o sociale. L'utilitarismo non parte da valutazioni sul valore intrinseco delle persone, sulla loro libertà o dignità. Rifiuta qualsiasi teoria, comunque formulata, sui diritti naturali degli individui. Tutto questo porterebbe a fumose forme di metafisica. L'utilitarismo parte dalle caratteristiche sensibili degli enti, dal piacere o dolore che questi possono provare. Le conseguenze sono ovvie: se un certo comportamento provoca nella società un piacere pari a 100 ed un dolore pari ad 80 quel comportamento è da considerarsi etico, se invece il piacere globale che questo comportamento causa è pari ad 80 ed il dolore pari a 100 si tratta di un comportamento non etico.
Però una simile concezione porta a conseguenza altamente anti intuitive. Poniamo che una gran folla di persone linci un ragazzo dalla pelle nera sospettato di stupro. Il linciaggio provoca un forte piacere in moltissime persone ed un altissimo dolore ad una sola persona. Il saldo fra piacere dolore globalmente considerati è sicuramente positivo, ma, possiamo da questo concludere che è giusto linciare una persona? Gli abitanti dell'antica Roma provavano certamente un forte piacere quando assistevano ai giochi gladiatori. Il dolore globale che questi provocavano a chi era costretto a battersi nell'arena era, in confronto, poca cosa. Questo non può farci concludere che la pratica dei giochi gladiatori fosse moralmente corretta. Possiamo anche esaminare il caso di un serial killer che uccide la sua vittima. Se il piacere del serial killer dovesse superare il dolore della sua vittima potremmo seriamente sostenere che il suo sia un comportamento morale?

Ma le conseguenze anti intuitive dell'utilitarismo non si fermano qui. Concentrato sul piacere e sul dolore l'utilitarismo dimentica la elementare verità che molte cose, quasi unanimemente considerate moralmente repellenti, non sono necessariamente legate al dolore ed alla sofferenza, comunque, non sono considerate repellenti solo o principalmente
perché causano dolore e sofferenza. Procurare la morte di un proprio simile è una di queste.
Può esistere una morte indolore, addirittura “dolce”, questo rende moralmente non riprovevole chi la causa? Se voglio impossessarmi della eredità di Tizio e lo uccido somministrandogli del veleno che lo fa passare,
in maniera del tutto indolore, dal sonno alla morte, non sono comunque un assassino? Una bomba atomica può uccidere istantaneamente un numero mostruoso di esseri umani. Comunque la si rigiri, quale che sia il punto di vista da cui si parte, la pretesa utilitaristica di basare la morale sul calcolo del piacere e del dolore non regge ad un minimo di analisi critica.
La confutazione forse più nota dell'etica utilitaristica, quella che dobbiamo alla penna di Fedor Dostoevskij, riassume un po' tutte le principali obiezioni che a questa è possibile muovere.
Nel bellissimo dialogo fra Ivan ed Alesa dei “
fratelli Karamazov” Ivan chiede al fratello:
"Supponi che fossi tu stesso ad innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno solo una minuscola creatura (..) e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni?”
Se la massima felicità di tutto il genere umano si basasse sulle sofferenze di un solo bambino innocente noi potremmo accettarla? La risposta di Alesa alla domanda del fratello è un
no chiaro, definitivo. Nessuno ha diritto di far soffrire Tizio per rendere felici Caio e Sempronio. Ogni essere umano è un fine in se, ha la sua libertà e la sua dignità che devono essere rispettate. Nessun calcolo dei costi e dei benefici comparati può essere anteposto a questo fondamentale imperativo etico. Farlo vuol dire, molto semplicemente, uscire dai confini dell'etica.

Utilitarismo ed etica della responsabilità


A questo punto sorgono spontanei un sospetto ed alcune domande. Chi rifiuta l'utilitarismo non rischia di cadere in una etica dei principi pericolosamente astratta? E' possibile fare scelte etiche slegate da ogni valutazione delle loro conseguenze? Il principio “si faccia giustizia e perisca pure il mondo” può sembrare nobile, a prima vista, ma non sembra accettabile da parte di persone di buon senso. Accanto all'etica dei principi, ed in contrasto a volte con questa, c'è l'etica della responsabilità, quella che ci impone di considerare le conseguenze delle nostre azioni. Solo dei fanatici possono non farlo. Ed un fanatico è sempre un essere pericoloso, anche se l'oggetto del suo fanatismo è la morale.
Equiparare l'etica della responsabilità a quella utilitaristica è però scorretto. L'etica della responsabilità
non equipara la moralità alla ricerca del piacere, si basa comunque sul rispetto per gli enti morali, quegli enti cioè capaci di rapportarsi eticamente l'uno all'altro. Una simile etica però, a differenza dell'etica dei principi, prende in esame non solo l'atto conforme alla morale, ma anche le sue conseguenze.
Un paio di esempi possono meglio chiarire il concetto.
In un ospedale giacciono gravemente ammalati cinque ventenni. Due avrebbero bisogno di un trapianto di rene, altri due di polmone l'ultimo di cuore. Nello stesso ospedale viene a fare una visita di controllo un cinquantenne in buona salute. Se lo si uccidesse si potrebbero salvare cinque persone giovani sacrificando la vita di una persona di mezza età. Dal punto di vista dell'etica utilitaristica non ci dovrebbero essere dubbi: il cinquantenne va sacrificato per salvare cinque vite. Sia il sostenitore dell'etica dei principi che quello dell'etica della responsabilità non accetterebbero però un simile scambio. Il motivo è semplice. Ogni essere umano è un fine in se, a nessuno si può imporre di sacrificarsi per salvare altri. E' tristissimo che cinque ventenni debbano morire, ma se qualcuno fosse obbligato a morire al loro posto si cadrebbe nella barbarie.
Vediamo ora un altro caso. Sono alla guida della mia auto, in discesa. Ad un tratto mi accorgo che i freni non funzionano; l'auto è fuori controllo e sta per travolgere un gruppo di cinque bambini. Posso evitarli solo sterzando sulla destra, ma in questo caso ucciderei un bambino. E' giusto che sterzi? L'etica dei principi in questo caso non mi aiuta. E'
sempre e comunque un male uccidere un bambino, ma la situazione in cui mi trovo, e che non ho creato, mi impone di valutare le conseguenze del mio gesto. Con la morte nel cuore sterzo.
E' evidente la differenza fra i due casi. Nel primo si sacrifica volontariamente un essere umano per salvarne cinque, si nega il principio secondo cui ogni essere umano è un fine in se. Nel secondo la prospettiva cambia. Non non pretendo di decidere chi debba subire le conseguenze di una malattia, non cerco di sostituirmi alla natura ed alla sua casualità. Semplicemete scelgo fra le conseguenze di una azione che mi è imposta dalle circostanze, e che provocherà comunque dei lutti,  quelle che rappresentano il male minore.
Non nego il principio secondo cui ogni persona umana è un fine in se, scelgo di salvare da un pericolo mortale il maggior numero possibile di persone.

L'importanza dell'etica della responsabilità appare con particolare chiarezza nella questione dei “migranti”. I sostenitori dell'etica dei principi sono per l'illimitata accoglienza. “E' giusto accogliere” dicono, “quindi dobbiamo accogliere i migranti, tutti, sempre, comunque”. Chi sostiene l'etica della responsabilità invece richiama l'attenzione sulle conseguenze di una accoglienza illimitata. Ci troviamo in una situazione che ci è imposta da eventi in larga misura estranei alla nostra volontà e che miete comunque un gran numero di vittime. Come rapportarsi ad una simile situazione? Aprendo le porte a tutti col rischio di distruggere la nostra civiltà? O differenziando gli interventi? Accogliere chi davvero fugge da persecuzioni e guerre, respingere gli altri, operare, anche militarmente, per far cessare le guerre, lavorare per favorire una prospettiva di sviluppo in paesi che ne hanno disperato bisogno? Non si tratta, con tutta evidenza, di massimizzare il piacere aggregato ma di affrontare, tenendo conto delle conseguenze, una situazione negativa che siamo costretti a subire. A queste considerazioni val la pena di aggiungere che aiutare il prossimo è un dovere
ma non un dovere assoluto. La regola aurea è che ognuno deve costruirsi da se le condizioni per una vita decente. L'aiuto è una eccezione, un qualcosa di aggiuntivo che serve a far fronte a situazioni eccezionali per periodi di tempo non indefiniti. Io sono moralmente obbligato a soccorrere un ferito che giace in mezzo alla strada, non a prendermi cura di tutti i poveri di questo mondo. E' giusto sostenere chi ha perso il lavoro e ne cerca uno nuovo, non mantenerlo a vita. E' doveroso accogliere un dissidente politico che nel suo paese rischia la morte a causa delle proprie idee, non aprire le porte a tutti senza neppure chiedere i documenti. Trasformare l'aiuto e l'accoglienza in principi e doveri assoluti non ha solo conseguenze nefaste, ma distrugge altri principi, altri diritti ed altri doveri.
Naturalmente l'etica dei principi e quella della responsabilità possono entrare in conflitto. I dilemmi morali sono possibili. Possono realmente che crearsi situazioni in cui si debba prendere in seria considerazione la possibilità di violare essenziali diritti umani al fine di evitare il peggio. Se il sacrificio del bambino innocente di cui parla Dostoevskij fosse il prezzo da pagare non per la
felicità del genere umano ma per la sua salvezza davvero potremmo rispondere con un no? Le due diverse etiche possono quindi confliggere, ma si tratta di eccezioni, non della regola. Eccezioni perché entrambe le etiche pongono al centro di tutto la capacità dell'uomo di agire eticamente, capacità, meglio, possibilità, che lo rende “buono” o “cattivo”, “colpevole” o “innocente”. L'etica utilitaristica non pone questo al suo centro. Al centro dell'etica utilitarista troviamo non la dignità di un ente particolare, ma la natura sensibile, la possibilità di provare piacere o dolore. Questo trasforma il contrasto da eccezione in regola perché in natura il piacere dell'uno è, molto, molto spesso, il dolore dell'altro. Inesorabilmente.

Utilitarismo ed animalismo.

Se ne è già accennato: l'utilitarismo è una filosofia assai di moda negli ambienti dell'animalismo radicale, e non a caso. Chi trasforma gli animali in soggetti etici (perché
questa è la caratteristica distintiva dell'animalismo radicale) non può, con tutti gli sforzi, riuscire a dimostrare che un topo o una gallina possono concepire qualcosa come il bene ed il male e comportarsi di conseguenza. Molto spesso anzi la impossibilità degli animali di comportarsi in maniera etica è adottata come “difesa” degli stessi contro accuse che nessuna persona ragionevole dovrebbe muover loro.
“E' vero”, dice qualcuno, “il leone mangia la zebra, ma lo fa perché ha fame, perché è
costretto a farlo”. Ridicola difesa dello splendido predatore che solo qualche cretino può “accusare” di qualcosa per il fatto che divora, viva a volte, la zebra. Il leone non è “costretto” a divorare la zebra più di quanto la zebra non metta in atto una “legittima difesa” fuggendo, e condannando il grande felino a morire di fame, o cercando di colpirlo con qualche calcio, e i calci di una zebra non sono carezze. Zebra e leone si comportano secondo la loro natura, seguono in maniera immediata ed irriflessa stimoli ed istinti che col bene e con il male non hanno niente a che vedere. “Difenderli” è stupido tanto quanto “accusarli” di qualcosa. La natura è il regno dell'essere, estraneo al dover essere. Valutarla usando categorie etiche è quanto di più sciocco si possa immaginare.
I mistici dell'animalismo radicale, o almeno i più intelligenti fra loro, non cercano perciò di dimostrare che il comportamento animale segua o possa seguire direttive morali. Semplicemente fanno proprie le concezioni utilitaristiche che fondano la morale sulla sensibilità. In effetti, se il principio morale supremo è il massimo piacere per il massimo numero, gli animali fanno parte a pieno tutolo del mondo etico. E' vero che non sono in grado, a differenza dell'uomo, di calcolare piaceri e dolori ma si tratta di un inconveniente cui si può cercare di porre rimedio. Ed è vero che l'animale non può porsi la domanda del “perché mai” si dovrebbe cercare di massimizzare il piacere aggregato invece che soddisfare di volta in volta il proprio personale piacere. Ma, come già si è visto, questa è una domanda a cui gli stessi teorici della morale utilitarista non sono in grado di dare risposte soddisfacenti.
L'etica deve far si che si realizzi il massimo piacere per il massimo numero e in quel numero devono essere compresi gli animali, che, esattamente come l'uomo, sono in grado di provare dolore e piacere. L'utilitarismo, dichiarato o meno, è la filosofia dell'animalismo mistico e questo è coinvolto a pieno titolo in tutte le critiche, già esaminate, che è possibile rivolgere alla quella filosofia.

Non è quindi il caso di ripetere, con riferimento al radicalismo animalista, le varie critiche che si sono già mosse all'utilitarismo. Qui ci limiteremo ad esaminare alcuni degli argomenti “classici” del radicalismo animalista, e a rivelarne l'intima inconsistenza.
Proprio perché siamo uomini, dicono alcuni animalisti, abbiamo il dovere di trattare eticamente gli animali. L'argomento è interessante. Tutto dipende da come si intende quel “trattare eticamente”. Se vuole essere un invito a “trattar bene” gli animali non umani si può largamente concordare. Ma “trattar bene” non significa “trattare eticamente”, che richiama semmai al concetto di “
considerare esseri morali” gli animali. Se è questo il significato di “trattare eticamente” si cade in insuperabili aporie. Proprio perché collocato su un piano diverso dagli animali l'uomo dovrebbe “trattare eticamente” questi ultimi, ma “trattandoli eticamente” annullerebbe proprio la differenza di piano che è alla base del trattamento etico. L'aporia nasce dalla impossibilità di moralizzare ciò che è esterno all'area della morale, di eguagliare l'essere al dover essere. Se si eguaglia l'essere al dover essere si rende morale precisamente tutto ciò che nell'essere dovremmo giudicare non morale, se guardassimo all'essere usando categorie morali. Torturare un gattino solo per il piacere di ascoltare i suoi lamenti diventerebbe cosa morale, visto che gli istinti sadici esistono in natura, fanno parte dell'essere.
In realtà non si può, per motivi logici oltre che empirici, eguagliare l'essere al dover essere. L'uomo può ammirare ed amare la natura, non moralizzarla, per questo la può usare strumentalmente. Posso ammirare un ghiacciaio o una parete di roccia, ma guidare tranquillamente in autostrada, posso voler bene al mio cane, un animale, e dargli da rosicchiare l'osso di un altro animale, fotografare un camoscio e mangiare polenta e camoscio. Posso fare tutte queste cose perché
amo ma non moralizzo la natura. Si annulli la differenza fra amare e moralizzare e la gran maggioranza dei nostri comportamenti diventa inspiegabile. Tutti diventiamo dei mostri e degli assassini. Si, proprio tutti, a partire dai fanatici delle diete vegane che neppure si chiedono da dove vengano le verdure che loro preferiscono “eticamente” alla carne. Non sanno, o fingono di non sapere, che ogni metro di terreno coltivato è habitat sottratto agli animali.

Anche la gran parte delle altre assurdità cui approdano gli estremismi del radicalismo animalista hanno origine nella pretesa  di negare la differenza raddicale fra l'essere ed il dover essere. Così, quando i mistici dell'animalismo pretendono che l'uomo non invada le terre cui gli animali "hanno diritto" ci si può solo chiedere se davvero qualcuno possa seriamente pensare alla natura selvaggia come a qualcosa in cui sia presente una qualsiasi forma di diritto. Certo, l'uomo fa bene a lasciare intatti vasti spazi di natura selvaggia, ma lo fa, lo dovrebbe fare, in base ad esigenze umane che col “diritto” non hanno nulla a che vedere. Le terre selvagge sono caratterizzate da una spietata lotta per l'esistenza. Lotta per il cibo, gli accoppiamenti sessuali, il territorio, la supremazia nel branco. Il diritto non c'entra, per nulla.
E considerazioni simili possono essere opposte a coloro che invece invitano l'uomo a convivere in maniera sempre più ampia coi suoi amici a quattro zampe. Si tratta di un invito che può, almeno in parte, essere accolto, ma, di nuovo, si basa su esigenze umane, non sul diritto dei nostri amici e meno che mai su presunti diritti generalizzati di tutti gli animali, compresi quelli che troppo "amici" non sono. Ogni volta che accogliamo in casa nostra un cane o un gatto, e gli assicuriamo una vita piuttosto comoda, usiamo a questo fine, strumentalmente, altri animali. Chi ha dubbi in proposito può entrare in un negozio in cui si vendono prodotti per animali ed osservare ciò che è esposto sui loro scaffali. Anche a prescindere da queste considerazioni, la convivenza con gli animali da parte dell'uomo, per quanto amichevole, si basa sempre su una qualche forma di violenza che facciamo alla loro natura.
Alcuni giorni fa il mio cane si è ferito ad una zampa. Lo ho portato dal veterinario per curargliela. Ma lui, il mio cagnone, proprio non voleva saperne di farsi medicare. Abbiamo dovuto fare una faticaccia per disinfettargli la ferita e fasciargli la zampa. Lui mugolava, si agitava, non era aggressivo, ma resisteva alla nostra intollerabile violenza. E tale era, non poteva che essere, il nostro comportamento,
per lui. Se si sottopone un uomo adulto ad una cura contro la sua volontà si viola un suo diritto, non lo si rispetta come persona. Io ed il veterinario stavamo violando un diritto del mio cane? NO, ovviamente. Perchè Spyke, così si chiama, è un simpatico cagnone un po' rompiscatole, ma non è un soggetto etico. Non può esserlo, non perché abbia perso o debba ancora acquisire alcune caratteristiche essenziali della sua natura, ma per queste caratteristiche.

L'etica, lo si è visto, divide il mondo in due parti. Una limitata porzione in cui ha senso parlare di bene e di male, diritti e doveri, innocenza e colpevolezza, e un'altra amplissima zona in cui tutto questo è semplicemente insensato. Le obbligazioni etiche valgono solo all'interno di quella parte del mondo in cui l'etica ha senso. I rapporti fra chi è dentro e chi è fuori la sfera dell'etica possono essere di diversi tipi: strumentali, estetici, affettivi, competitivi,
ma non morali. L'utilitarsmo fonda la morale sul piacere ed il dolore e deve, partendo da un simile fondamento, ampliare indebitamente la "zona del mondo" in cui la morale ha senso. Soprattutto non può fare a meno di trasformare in soggetti morali gli animali non umani. Ma questa trasformazione porta ad insolubili contraddizioni e, se davvero fosse presa sul serio a livello pratico, avrebbe conseguenze devastanti, e lontanissime da tutto ciò che si possa itendere per etica. In effetti gli animali mirano, in maniera istintiva ed irriflessa, quasi esclusivamente a massimizzare il piacere ed a minimizzare il dolore. Proprio per questo il loro comportamento è al di fuori della morale. Non sopra o sotto, semplicemente fuori. Quella che si pretendeva essere una estensione della morale si rivela come una sua radicale negazione.

Il vero dell'utilitarismo


L'etica utilitarista non regge ad una disamina accurata. Da qualsiasi punto di vista la si esamini porta, a livello teorico, a contraddizioni insolubili e può avere a livello pratico, se presa seriamente, conseguenze a dir poco aberranti. Eppure c'è in questa etica un importante fondo di verità che contribuisce a spiegare come ad essa possano aver aderito fior di pensatori. Si tratta del fatto innegabile che nessuna etica può essere staccata dalla struttura sensibile dell'uomo. Una cosa è rifiutare il principio della massimizzazione aggregata del piacere e della aggregata minimizzazione del dolore, cosa del tutto diversa pensare di costruire una morale che non faccia riferimento all'uomo per quello che è: un essere empirico,
sensibile.
La morale di Kant, è noto, si basa sulla universalità. E' etica una norma che può essere universalizzata, diventare una legge avente portata generale. Ciò che vale per me deve valere anche per gli altri. L'etica kantiana proibisce l'auto esenzione. I principi morali danno vita a diritti che garantiscono tutti e a doveri che obbligano tutti, indipendentemente dal calcolo del piacere e del dolore globali. L'universalità: qui sta il valore perenne della morale di Kant, qui la sua enorme superiorità nei confronti di qualsiasi morale utilitaristica.
L'universalità della norma deve essere il requisito essenziale di qualsiasi etica, questo però non ci impedisce di porci la domanda:
cosa deve essere generalizzato? Kant ritiene che una domanda simile porti necessariamente l'etica verso l'utilitarismo; la morale deve riguardare solo la forma, mai il contenuto delle azioni umane. Si tratta però di una concezione che può avere, anch'essa, conseguenze aberranti.
La massima “rispettatevi gli uni con gli altri” può essere generalizzata, è vero. Ma, non può essere generalizzata anche la massima: “odiatevi gli uni con gli altri”? E' difficile che un imperativo come: “Massacratevi a vicenda” possa essere generalizzato, ma, se lo fosse, massacrarsi a vicenda diverrebbe qualcosa di etico? E, la impossibilità di generalizzare l'imperativo “massacratevi a vicenda” non è, a ben vedere le cose, una impossibilità
empirica, che con l'etica ha poco da spartire? Non è questa la sede per approfondire simili argomenti. Mi permetto, scusandomi, di rinviare chi fosse interessato al mio scritto “la morale di Kant” sul blog “secondo Giovanni”. Per venire al punto, si può cercare di rispondere alla domanda su cosa sia morale generalizzare: è morale generalizzare principi che riguardino l'uomo empirico, la sua vita, il suo benessere, la sua libertà.
Ogni essere umano ha diritto di non essere ucciso, né percosso o offeso. Ha diritto alla sua proprietà e a godere dei frutti del suo lavoro; nessuno lo può imprigionare senza un giusto motivo e, se accusato di qualcosa, deve essere giudicato da un tribunale competente ed imparziale. In una parola, ogni essere umano ha
diritto al generalizzato rispetto di tutti. Per questo motivo ha il dovere di rispettare in maniera generalizzata tutti i suoi simili.
Qui la generalizzazione non è scissa dai contenuti, si tutelano
in maniera generalizzata cose che interessano agli esseri umani empiricamente dati: la vita, l'integrità fisica, la proprietà.
Se si comportano secondo i precetti della morale (
SE...) gli uomini possono fondare una comunità di esseri liberi, capaci di rispetto ed obbligo reciproci. Sono tutelati da diritti ed obbligati da doveri che regolano in maniera generalizzata i loro rapporti. Una comunità simile costituisce, lo si è visto, una eccezione nel mondo. Non esiste, per quanto possiamo saperne, nella natura non umana ed esiste nel mondo umano solo in maniera minoritaria e parziale, più come potenzialità che come realtà di fatto.
Si tratta di qualcosa che va oltre la mera empiria
ma che non la trascende né la ignora. Solo l'uomo può obbedire al comandamento: “non uccidere”, e sappiamo che spesso e volentieri non gli obbedisce affatto. Quel comandamento non è qualcosa di “naturale” o, se lo è, riguarda quella piccolissima parte della natura che è l'uomo, e lo riguarda in tutti i sensi: lui solo ha il dovere, di non uccidere e lui solo ha il diritto di non essere ucciso. Ma il fatto che l'imperativo “non uccidere” non sia, in quanto tale, “naturale”, non implica che non riguardi l'uomo in quanto essere naturale, sensibile. Il soggetto dell'etica, di qualsiasi etica degna di questo nome, è e resta l'uomo, e l'uomo non è un angelo o un semidio, è un ente sensibile che abita nel mondo. L'utilitarismo valorizza questo aspetto della morale, e, in questo, non ha torto.
Fondare l'etica sulla sensibilità, elimina ogni differenza fra uomo e natura, quindi, in prospettiva, distrugge l'etica che è qualcosa di profondamente non naturale. Questo rende inaccettabile l'utilitarismo. D'altro canto, recidere ogni legame fra l'etica e uomo empiricamente dato trasforma l'etica in una idea fredda e lontana, incapace di regolare davvero le relazioni fra gli esseri umani. In un simile difetto cadono, spesso, le varie etiche dei principi, a partire dal quella kantiana.

Universalizzazione e legame con l'uomo empirico. La morale si muove, deve muoversi, fra questi due capisaldi. L'utilitarismo, con tutti i suoi difetti che è inutile ripetere, ci richiama alle esigenze dell'uomo empirico, qualsiasi etica dei principi che voglia prescinderne cade, anch'essa, in insolubili aporie ed ha, anch'essa, conseguenze aberranti.
La morale è difficile, in tutti i sensi. Lo è perché è molto difficile seguire i suoi dettami, e lo è anche perché è difficile darle una soddisfacente sistemazione teorica. In fondo, come potrebbe non essere difficile? E' una invenzione umana, anche se è una delle loro invenzioni che gli esseri umani hanno usato di meno.

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