venerdì 5 febbraio 2016

FATTI O INTERPRETAZIONI?


Non esistono fatti, solo interpretazioni”, ebbe a dire il vecchio Nietzsche. Da allora la lista di coloro che negano l'esistenza dei fatti è diventata ogni giorno più lunga. E naturalmente si sono moltiplicati a dismisura gli equivoci. “Non esistono i fatti puri, l'assoluta oggettività” si è ripetuto fino alla noia. “I fatti sono sempre selezionati, ordinati a priori, dipendono dalle nostre aspettative e dalla struttura delle nostre facoltà conoscitive” è stato ripetuto. Anche un pensatore razionalista e liberale come Popper si è unito al coro di chi nega l'oggettività dei fatti. La sensibilità che ci mette in contatto coi fatti è sempre imbevuta di teoria, ha scritto più volte il padre del razionalismo critico. Non esiste una oggettività del dato di fatto perché questo è sempre esaminato a partire da premesse teoriche. Per chi è inseguito da un criminale un sentiero fra i boschi è una via di fuga, per chi vuole fare due passi un piacevole strumento di relax. L'empirismo, che vuole partire dai dati di fatto dell'esperienza sensibile dimostra così, da subito, la sua illusorietà.
Tutte questa posizioni si basano però su equivoci che val la pena di esaminare.

I teorici della riduzione dei fatti alle interpretazioni accusano spesso i loro rivali di sostenere la tesi dei “puri fatti”, privi di qualsiasi relazione con il soggetto e le sue facoltà conoscitive. Si è già visto come simili accuse si basino, nella migliore delle ipotesi, su equivoci. E' ovvio che possiamo conoscere solo ciò che entra in relazione con le nostre facoltà conoscitive. Se per “puro fatto” si intende ciò che accade senza avere alcun possibile rapporto con noi allora i puri fatti non esistono. In questo caso però non esistiamo neppure noi e le nostre facoltà conoscitive. Anche noi e le nostre facoltà siamo qualcosa di oggettivo. Che noi si esista è un fatto e sono fatti oggettivi le nostre relazioni col mondo. Chi nega i fatti afferma, in fondo, che noi e le nostre facoltà esistiamo solo... in rapporto alle nostre facoltà conoscitive: un cane che si morde la coda.
Facili polemiche a parte, è ovvio che possiamo conoscere solo ciò che può relazionarsi con noi, ma questo non elimina l'oggettività delle nostre conoscenze. Io posso vedere solo ciò che il mio occhio è in grado di vedere, questo non implica che l'albero che vedo nel mio giardino sia l'“interpretazione visiva” che dell'albero fa il mio occhio. Ciò che il realismo nega non è il rapporto fra il mondo e le facoltà conoscitive ma l'esse percepii, quel principio cioè secondo il quale le cose esistono solo se, e quando, e finché le percepiamo. Io vedo solo ciò che posso vedere ma ciò che vedo è qualcosa che esiste anche quando io non la guardo. Se così non fosse il primo a non esistere sarebbe il mio occhio, che non guardo né vedo mai.
Allo stesso modo il realismo non nega che il soggetto e le sue facoltà contribuiscano alla conoscenza del mondo, nega che esista una barriera insuperabile fra la cosa non percepita e quella oggetto di esperienza, che le cose in se stesse siano assolutamente misteriose, confinate in un universo privo di contatti col nostro, salvo trasformarsi, una volta che “noi” le percepiamo, (ma come possiamo percepirle?) nell'usuale oggetto di esperienza.
Io non posso vedere tutti i colori dello spettro, i daltonici non vedono certi colori che io vedo, i cani vedono il mondo in bianco e nero, pare. Con tutto ciò io, un daltonico ed un cane vediamo qualcosa che esiste oggettivamente nel mondo. E se io, il daltonico ed un cane vediamo una rosa è possibile stabilire in cosa i nostri occhi differiscano, quali colori i nostri occhi percepiscono e quali no e fin dove questi occhi contribuiscono alla formazione dell'immagine visiva della rosa. Una simile analisi è possibile perché gli occhi miei, del daltonico e del cane sono oggettivi come la rosa.

Coloro che negano i fatti cadono da subito in un errore basilare. Confondono le interpretazioni, o le aspettative, o le teorie di cui i fatti sarebbero intrisi, con le categorie, kantianamente intese.
Secondo Kant la nostra esperienza sensibile è organizzata categorialmente. La formula è leggermente esoterica ma descrive qualcosa che non è per niente misterioso. Se io non fossi in grado di organizzare l'insieme delle mie percezioni la mia esperienza si frantumerebbe. Se non considerassi sempre lo stesso ente il libro che sto leggendo, o non collegassi con nessi causali il fuoco al calore, o addirittura se in ogni momento scordassi ciò che è avvenuto nel momento precedente avrei una esperienza unitaria? No, ovviamente. Tutto questo non contrasta col realismo perché nessuna unificazione dei dati dell'esperienza sensibile sarebbe possibile se il mondo fosse un fluttuare evanescente privo di qualsiasi ordine e regolarità. Tuttavia è vero anche il contrario: l'ordine e la regolarità del mondo non darebbero vita ad una esperienza ordinata senza l'azione unificante che il soggetto mette in atto tramite le categorie. Le categorie contribuiscono a creare una esperienza oggettiva e universalmente comunicabile. E' dentro a questa esperienza che si formano le aspettative, si elaborano le teorie, si costruiscono le interpretazioni. Confondere le categorie grazie alle quali, meglio, grazie anche alle quali, l'esperienza diventa qualcosa di oggettivo e comunicabile, con le teorie, le aspettative o le interpretazioni è quindi un errore grossolano. Io posso dire: “il sole sorgerà domani”, oppure: “l'acqua bolle a 100°”, oppure ancora: “Kant ha scritto X, ma intendeva Y” solo operando in un mondo che ha la sua regolarità, in una esperienza già unificata. Lo scolaretto che legge una poesia senza capirci nulla e il sottile ermeneuta che sottopone i versi al vaglio della sua critica operano entrambi dentro una esperienza unitaria. Il libro di poesie che leggono è lo stesso per entrambi, esattamente come l'albero nel giardino di casa mia è lo stesso per un analfabeta come per il più esperto dei botanici. Chi sottolinea il contributo del soggetto alla regolarità del mondo non afferma nulla di decisivo contro il realismo. Se cerca di dimostrare che tutto è interpretazione a partire dalla regolarità dell'esperienza costui cade però in un banale equivoco. Confonde l'unità dell'esperienza con alcune fra le varie forme che questa unità può assumere: anticipazioni, teorie, interpretazioni.

I fatti non sono mai “puri”, dicono in molti, sono sempre intrisi di teoria, o di interpretazioni, vengono selezionati in base ad aspettative. Cosa vogliono dire di preciso certe affermazioni? Se con queste si intende che qualcosa per essere un fatto deve poter entrare in un possibile rapporto con noi e le nostre facoltà, o avvenire in una esperienza ordinata, simili asserti, lo si è visto, sono veri ma, in fondo, banali.
Cos'altro possono allora voler dire? Forse che tutto nel mondo è costituito da teorie, aspettative, interpretazioni? Difficile sostenerlo. In realtà ci imbattiamo praticamente tutti i giorni in fatti che non hanno legame alcuno con le nostre aspettative, né sono intrisi di alcuna teoria. Esco in macchina, mi fermo ad un semaforo e ad un tratto sento una gran botta: un'auto dietro la mia mi ha tamponato. Mi “aspettavo” forse un simile evento? O questo ha una qualche relazione con mie teorie sugli incidenti automobilistici? Qualcuno potrebbe dire che io collego causalmente il botto all'urto, ma questo ha a che fare con la struttura categoriale della nostra esperienza, cosa ben diversa da aspettative e teorie, e comunque il botto e l'urto ci sarebbero anche se io non li collegassi: ci sono stati anche per il mio cane che viaggia in auto con me, e non è molto esperto in categorie kantiane. Qualcun altro potrebbe dire che io interpreto in un certo modo urto e botto, ad esempio, li qualifico incidente stradale, stabilisco che chi mi ha tamponato ha torto e gli chiedo con quale compagnia è assicurato. Tutto vero, ma non ha nulla a che vedere col fatto che io aspettavo tranquillamente che il semaforo mi desse via libera e ad un tratto ho sentito un gran botto, e che la parte posteriore della mia auto è tutta ammaccata.
Per chi è inseguito da un criminale una strada nel bosco è una via di fuga, per chi vuole rilassarsi un bel sentiero in cui passeggiare, si è detto. Verissimo, e allora? Anche essere inseguiti o aver voglia di rilassarsi sono fatti, ed è un fatto che ci siano la via di fuga o il piacevole sentiero, e che attraversino un bosco. Forse chi fugge avrebbe preferito essere su un'auto in autostrada, questo non cambia le cose. O forse il fuggitivo interpreta il bosco come un luogo fatato che indurrà il criminale a smettere di inseguirlo. Può essere, ma questa interpretazione gli salverà la vita solo se il bosco è davvero un luogo fatato in grado di rabbonire il criminale inseguitore.
O forse simili enunciati vogliono dire che i fatti che vediamo sono diversi a seconda delle nostre anticipazioni, teorie o interpretazioni? Intesa in senso debole una simile affermazione contiene indubbi elementi di verità. Noi osserviamo sempre il mondo, e ne ordiniamo gli aventi, a partire da un certo punto di vista, non c'è nulla di strano in questo. Ma gli eventi osservati e classificati non diventano per questo una nostra “costruzione”. C'è invece chi sostiene qualcosa di simile. Ad esempio, che i fatti osservativi non potevano a suo tempo decidere delle divergenze fra tolemaici e copernicani perché i sostenitori della vecchia e della nuova astronomia, guardando gli stessi pianeti e la stessa volta celeste, non osservavano in realtà le stesse cose. I fatti erano diversi per loro e ognuno trovava in questi le conferme che cercava. Questo però è molto bizzarro ed è smentito dalla storia delle scienza. In realtà l'astronomia tolemaica iniziò ad entrare in crisi perché un numero sempre maggiore di osservazioni la smentiva, il che basta a dimostrare che non è vero che i fatti sono tali solo a partire da certe teorie o anticipazioni. I tolemaici cercarono di salvare la loro teoria introducendo in questa sempre nuove correzioni (attenzione, erano i fatti ad imporre le correzioni) fino a quando qualcuno cambiò radicalmente il quadro teorico di riferimento e tutto andò, provvisoriamente, a posto. Del resto, se davvero i fatti non potessero confutare alcuna teoria tutte le teorie potrebbero essere considerate vere, con conseguenze piuttosto disastrose dal punto di vista pratico. Bere superalcoolici fa bene a chi soffre di pancreatite, posso buttarmi dal sesto piano e volare, la luna è una forma di formaggio. Tutto questo avrebbe lo stesso valore di verità delle più elaborate teorie scientifiche e a nulla varrebbero le evidenze empiriche che smentiscono simili fantasie. Una situazione piuttosto strana, ammettiamolo.

Chi sostiene che i fatti non esistono è spesso interessato alla storia. La storia, dice, è il regno delle interpretazioni e chi la narra non parte da zero, ma da interpretazioni precedenti dei suoi eventi. Si può concordare, ma, ancora una volta, si tratta di considerazioni abbastanza banali. In effetti, come potremmo cercare di interpretare un determinato evento storico partendo da zero? Si studia la storia partendo da determinati interessi, la stessa scelta del tema di studio presuppone un interesse teorico e questo a sua volta rimanda a certe concezioni generali, quindi a precedenti interpretazioni. Il punto però è un altro. Dato per scontato che si introducono sempre, in ogni ricerca storica, determinate anticipazioni, certe ipotesi di partenza, resta la domanda: gli eventi, i documenti possono confermare o smentire le nostre ipotesi e le nostre anticipazioni? Introdurre delle anticipazioni vuol dire esaminare i fatti in maniera tale che questi non possano che confermarle? Gli eventi che lo storico cerca di ricostruire sono intrisi di di interpretazioni, si dice, ma, di quali interpretazioni? Di quelle di cui intendiamo dimostrare la validità o di altre, che altri prima di noi o indipendentemente da noi hanno elaborato? La distinzione non è da poco. Se i fatti che dovrebbero confermare una certa interpretazione sono “plasmati” a partire dalla interpretazione stessa, questa sarà sempre giusta, ma il suo valore euristico sarà pari a zero.
Poniamo che un certo storico sia convinto che il ruolo delle singole personalità nella storia sia praticamente nullo e che tutto dipenda dalla struttura socio economica di un certo paese in una certa epoca. Poniamo che, partendo da questa concezione generale, il nostro storico inizi a scrivere una storia del nazismo. Visto che i fatti sono “plasmati” dalle interpretazioni, compresa quella la cui validità andrebbe confermata, il nostro storico scriverà una storia del nazismo ignorando del tutto o quasi le vicende personali di Hitler. Riempirà decine o centinaia di pagine con statistiche sui livelli di disoccupazione e di inflazione nella repubblica di Weimar, descriverà gli scioperi ed i vari scontri fra imprenditori ed operai, ci darà un quadro interessante della situazione dei quartieri popolari nelle più grandi città tedesche, ma non dirà una parola su Hitler, o lo farà apparire una sorta di fantoccio nelle mani del grande capitale tedesco. Qualcuno può seriamente pensare che la sua sarà una buona storia del nazismo?
Quello che vale per la ricerca storica vale anche, mutatis mutandis, per le teorie scientifiche. I dati osservativi sono sempre intrisi di teoria, afferma spesso Popper, ma, questo “essere intrisi” cancella la datità, la oggettività del fatto? Se, partendo da una certa teoria affermo che il sole sorge ad oriente, il legame fra la mia affermazione e certe teorie annulla l'oggettività del sorgere ad oriente del sole? Inoltre, come ricorda Marcello Pera in “Popper e la scienza sulle palafitte”, anche dando per scontato che i fatti siano intrisi di teoria, resta la domanda essenziale: di quale teoria si tratta? Di quella che i fatti dovrebbero confermare o smentire o di altre teorie, teorie di sfondo che tutti almeno provvisoriamente accettano e che diventano, in un certo senso, dei fatti? Se i fatti che dovrebbero corroborare o falsificare una teoria sono selezionati, o addirittura “costruiti” a partire dalla teoria stessa questa diventa inconfutabile. Ma la inconfutabilità non è affatto un pregio delle teorie scientifiche, è anzi il loro peggior difetto. Ce lo ricorda proprio Popper, che pure ha fatto eccessive concessioni a coloro che negano i fatti o tolgono loro qualsiasi autonomia.

Esaminiamo queste due proposizioni:
A: Non esistono fatti puri. I fatti sono sempre costruiti a partire da teorie, anticipazioni o interpretazioni.
B: Esistono fatti puri. Teorie, anticipazioni o interpretazioni non contano quando si esaminano i fatti.
Come faranno i sostenitori di A e di B a cercare di provare la veridicità delle proprie rispettive tesi? Semplice, esamineranno, ad esempio, il lavoro degli scienziati e degli storici per vedere se il loro modo di operare può essere portato a sostegno di A o di B. Ma questo prova almeno una cosa: che A e B sono fatti la cui validità o non validità è oggetto di indagine. Tutti i discorsi sui fatti che non esisterebbero perché costruiti a partire da teorie o interpretazioni dimenticano che anche le teorie e le interpretazioni sono dei fatti. E' un fatto che qualcuno dica che i fatti non esistono e qualcun altro replichi che questi invece esistono. E' un fatto che Nietzsche abbia detto che “non esistono fatti, solo interpretazioni”, ed è un fatto che i primi positivisti logici avessero una fiducia sconfinata nei dati elementari d'esperienza. Una teoria scientifica costruita a partire da certe anticipazioni è un fatto come lo è un'altra che si pretende elaborata senza alcun presupposto teorico. Se i fatti non esistono la stessa polemica con chi teorizza la assoluta neutralità del fatto diventa insensata: almeno questa teorizzazione deve infatti esser considerata un dato di fatto per essere sottoposta a critica. Chi nega l'esistenza dei fatti si trova nella stessa scomoda posizione di chi afferma che non esiste la verità e cerca poi di dimostrare che la sua affermazione... è vera. Si taglino i ponti col realismo e col mondo, quindi con fatti ed eventi, e ci si trova immersi fino al collo nella aporie più distruttive.

La non esistenza dei fatti rende completamente privi di significato termini come “fatti” e “interpretazioni”. L'interpretazione è sempre interpretazione di qualche fatto. Se dico: “X significa Y” mi riferisco da subito, e direttamente, al fatto che X. Se dico che un fulmine rappresenta l'ira di Dio assumo come dato l'evento del fulmine. Il fulmine è qualcosa che sia il credente che lo scettico vedono più o meno allo stesso modo, il manifestarsi dell'ira di Dio è invece una attribuzione di significato che soddisfa solo il credente. Fatti ed interpretazioni si esprimono anche linguisticamente in maniera del tutto diversa. Se dico: “il sole sorge tutte le mattine ad oriente” descrivo un fatto, dicendo invece che “il sorgere del sole rappresenta il risveglio quotidiano della vita” effettuo una interpretazione. Se volessi trasformare in fatto tale interpretazione dovrei dire: “il sorgere del sole è il quotidiano risveglio della vita”. Ovviamente qualsiasi fatto può diventare oggetto di innumerevoli interpretazioni, ma lo può diventare solo conservando il suo status di fatto e le diverse interpretazioni possono confrontarsi fra loro solo richiamandosi a fatti di vario tipo.
Lo stesso moltiplicarsi delle interpretazioni del resto non può essere illimitato. Se lo fosse le stesse interpretazioni cadrebbero nel non senso. Si può dire che A significa B, che a sua volta significa C e così via, ma, fino a dove può continuare questo rimando di significati? Interpretare vuol dire attribuire un certo significato ma questo è possibile solo se e fino a quando i termini conservano un loro significato. Se il significato di ogni termine rimanda ad altro in un processo indefinito i termini perdono ogni significato e l'interpretazione diventa impossibile. Se tutto è interpretazione sono interpretazione anche le interpretazioni e le interpretazioni delle interpretazioni e così via, all'infinito. In questo modo diventa impossibile stabilire il senso di ogni interpretazione, il discorso si avvita su se stesso e si cade nel più radicale nichilismo. Se si eliminano i fatti scompaiono senso e riferimento delle parole, e con questi le interpretazioni.
Ma, checchè ne dicano i nichilisti più o meno mascherati, i fatti esistono. Esistono perché esiste il dato. Il dato: qualcosa che non dipende da noi, in cui ci imbattiamo, che non costruiamo, di cui possiamo solo constatare l'esistenza. Negare i fatti equivale a negare il dato, ma il dato primario, essenziale è quello della esistenza. L'esistenza, la  mia come quella degli altri e del mondo, è un fatto. Un fatto che precede logicamente, oltre che empiricamente, ogni costruzione, ogni schema ed ogni interpretazione. Qualcosa deve esistere per costruire od essere costruito, interpretare od essere interpretato. E deve esistere avendo già, in partenza, come iniziale dato di fatto, una certa unità, una qualche organizzazione. Anche se il mondo fosse tutto una costruzione del soggetto dovrebbe esistere un soggetto sufficientemente unitario per poter operare una simile costruzione e questo è già un fatto.
Ma siamo molto restii ad accettare tutto questo, specie oggi, nel post moderno occidente in crisi. Tendiamo a credere, o vogliamo credere, che tutto nel mondo, sia nel bene, sia, soprattutto, nel male, dipenda da noi. L'enfasi con cui i fatti vengono negati dipende probabilmente da una certa, megalomania piuttosto diffusa negli ambienti accademici e “colti” dell'occidente. Gli stessi che strillano contro la “umana arroganza” sembrano davvero convinti che l'uomo sia l'artefice, o il distruttore, la morale non cambia, del mondo
Stranezze di un occidente sempre più schizofrenico...



Nessun commento:

Posta un commento