mercoledì 18 marzo 2020

VECCHIAIA ED IDEOLOGIA


La categoria più sotto attacco in questi tempi orribili è quella dei vecchi. Vecchi, uso volutamente questa parola al posto del consolatorio “anziani” perché detesto il vezzo politicamente corretto dell'eufemismo. Esistono i “vecchi”, coloro che sono avanti negli anni. Non c'è nessuna vergogna nell'essere vecchi, quindi non si capisce perché si debba evitare di usare la parola che definisce correttamente chi ha superato una certa età.
Rispettati nelle parole i vecchi non lo sono altrettanto nei fatti. Da tempo vecchi sono oggetto di roventi accuse: mettono in pericolo le pubbliche finanze, gravano sul sistema sanitario, non sono in grado di esprimere idee politiche sensate. Beppe Grillo, che troppo giovane non è, ha addirittura proposto di togliere ai vecchi (da lui definiti “anziani”) il diritto di voto... davvero bravo!
Con l'epidemia di coronavirus l'attacco ai vecchi ha raggiunto però vette in precedenza mai neppure sfiorate. L'epidemia non è grave, si tratta di una banale influenza, hanno detto in molti. E i morti, che ormai si contano a migliaia? Una banale influenza non fa trecento morti al giorno, per molti giorni, in progressione geometrica. Per i morti non ci si deve preoccupare rispondono: sono VECCHI! Inutili carcasse, improduttive bocche da sfamare, corpi indeboliti da curare, menti annebbiate incapaci di produrre nulla di buono. “Vite indegne della vita” per usare le parole di Adolf Hitler, oppure “vite leggere come piume”, per usare quelle del celeste presidente Mao Tze Tung.
Sarebbe sbagliato sottovalutare simili deliri. Si tratta al contrario di segnali di una decadenza culturale profonda, di una crisi del pensiero che potrebbe avere sbocchi catastrofici, se è vero, come è vero, che il pensiero conta, e tanto, nelle azioni degli esseri umani. Ed un pensiero malato conduce ad azioni aberranti.

Vecchi, liberalismo, mercato
Per i marxisti e, ancora di più, per i loro tardo epigoni cattocomunisti il liberalismo e l'economia di mercato sarebbero, nella loro essenza, nemici dei vecchi. Nelle democrazie liberali ad economia di mercato l'uomo conterebbe solo se e fino a quando è produttivo. Il vecchio che cessa di essere produttivo sarebbe quindi un inutile peso, un essere da mantenere gratuitamente che rallenta o addirittura inceppa i meccanismi del ciclo economico. Fine dell'economia di mercato sarebbe la “produzione per la produzione” e questa è incompatibile con la vecchiaia improduttiva.
Si tratta, val la pena di dirlo chiaro e tondo, di propaganda priva di serio retroterra teorico, smentita, se non altro, dal semplice fatto che i paesi a democrazia liberale ed economia di mercato sono quelli in cui è più alta la speranza di vita e maggiore la percentuale di vecchi sul totale della popolazione. E sono anche quelli in cui, tutto sommato, i vecchi stanno meglio, o meno peggio, che altrove. Si può giudicare come si vuole questo dato di fatto, ma non lo si può ignorare.
I fatti però solo molto raramente soddisfano i raffinati teorici cattocomunisti. Portiamoci quindi alle loro altezze e vediamo di affrontare il problema nell'aria pura ma un po', forse un po' troppo, rarefatta della teoria.

Nella filosofia politica liberale la libertà economica è parte della più generale libertà umana.
Libertà di pensiero e parola, di culto, libertà politica, diritto ad una sfera privata: in questo consiste la libertà liberale. Chi è libero deve, in una parola, poter organizzare come meglio crede la propria esistenza rispettando, ovviamente, la libertà degli altri e le esigenze della vita sociale. La libertà economica è parte e momento di questa più generale libertà. Se sono libero ho il diritto di cercare di migliorare il mio tenore di vita, di procurarmi i beni materiali che ritengo capaci di soddisfare bisogni che per me sono importanti, senza danneggiare né sfruttare gli altri.
Questa libertà è legata alla dignità ed alla responsabilità della persona umana, al suo essere un valore. Sono libero quindi ho un valore intrinseco, legato alle mie caratteristiche ontologiche di essere umano. Certo, può darsi che io non sia davvero libero, che tutto il mio agire e pensare siano solo l'effetto ultimo di una serie indefinita di cause. Il problema del libero arbitrio è uno di quelli che la speculazione filosofica si pone da sempre, senza riuscire a risolverlo. E la filosofi politica liberale non cerca neppure di risolverlo. In questa filosofia la libertà umana, intesa come autonomia dal determinismo naturale, è semplicemente presupposta. Sei libero, tutto parte da questa presupposizione. Sei libero quindi puoi scegliere, quindi sei responsabile per le scelte che compi, quindi sei un essere morale, capace di distinguere il bene dal male, quindi hai il diritto di essere rispettato ed il dovere di rispettare gli altri. La libertà economica è parte di tutto questo. Non è legata ad una presunta teorizzazione liberale della “produzione per la produzione” ma al suo concetto stesso di uomo.

Il discorso sul vecchio come peso per la società si rivela a questo punto del tutto estraneo all'idea liberale. Il vecchio non è un peso perché, in quanto persona umana, è un valore. E' tipico del liberalismo considerare gli esseri umani innanzitutto come individui, singole persone inserite certamente in una rete di relazioni sociali e culturali, ma che conservano in questo inserimento tutto il loro valore di singoli. Per il liberalismo esiste in primo luogo Tizio come persona, indipendentemente dalla sua la sua età o capacità di produrre. Il fatto che Tizio non sia più, o non sia ancora, produttivo non lede di un grammo il suo valore in quanto persona, al contrario, il diritto riconosciuto a Tizio di cercare di migliorare col lavoro la propria esistenza materiale deriva dal suo valore in quanto persona. In questo il liberalismo si accorda col pensiero giudaico cristiano.
Certo, il liberalismo non ama l'assistenzialismo sprecone e parassitario. Ogni essere umano ha il dovere di provvedere a se stesso, quindi anche di predisporre, sino a che è produttivo, i mezzi per poter vivere dignitosamente quando l'età lo avrà costretto ad abbandonare il lavoro. Questo però è un aspetto dell'insistenza liberale per la responsabilità. Chi è libero è responsabile anche del proprio futuro. Se per una serie di circostanze non è stato in grado di predisporre i mezzi che gli permettano di mantenersi da vecchio sarà la società, insieme a chi gli è più vicino, figli, nipoti, a farsene carico. Questa però è l'eccezione. La regola, l'idea guida della filosofia politica liberale è quella del singolo libero e responsabile, dotato di un valore intrinseco che si conserva nel corso di tutta la vita, dalla nascita alla morte. E che non riduce mai l'essere umano al ruolo di inutile peso o fardello.

Per completezza val la pena di aggiungere telegraficamente che l'economia di mercato non è affatto finalizzata alla produzione per la produzione. Semplificando al massimo le cose, l'economia di mercato è caratterizzata dal fatto che le scelte di investimento, di risparmio e di consumo sono fatte da soggetti autonomi, non da un pianificatore centrale. In una simile economia alcune imprese cercheranno di incrementare al massimo investimenti e dimensioni aziendali, altre opereranno su mercati più ristretti mantenendo dimensioni limitate. In certi periodi gli investimenti prevarranno sui consumi, in altri avverrà il contrario. Mai però si avrà una produzione fine a se stessa, per la fondamentale ragione che sempre la produzione, compresa quella di mezzi di produzione, è finalizzata alla vendita e, tramite questa, al consumo, quindi alle scelte di individui liberi. In questo, nel rapporto fra produzione e scelte individuali, si basa lo stretto legame fra liberalismo ed economia di mercato. Legame che riguarda gli individui in quanto tali, quali che siano le classi di età cui questi appartengono. Del resto non ci vuole troppa capacità di osservazione per comprendere che, se esiste un ampio mercato dedicato ai giovani, ne esiste anche uno dedicato agli anziani ed ai vecchi. Nel mercato a decidere tutto sono le scelte dei consumatori, e questi possono avere venti od ottanta anni.

Vecchi e “soggetti collettivi”
La filosofia politica liberale mette al centro il singolo, l'individuo. Non un individuo assolutizzato, ridotto ad atomo o, peggio, a monade senza finestre sul mondo; un individuo inserito in vari tipi di relazioni sociali e culturali che conserva tuttavia, in tutte queste relazioni, il proprio insopprimibile valore di singolo. In altre filosofie politiche questo valore del singolo viene invece ad essere completamente annullato. Il singolo vale, in queste concezioni, solo come parte subordinata del tutto. Ad avere valore non sono più le persone singole ma misteriosi soggetti collettivi personalizzati. La classe, la nazione, la razza diventano super persone di cui le singole persone sono solo componente subordinata. La “classe operaia” o la “nazione tedesca” diventano qualcosa di simile a Tizio e Caio: entità sostanziali con un loro pensiero, una loro volontà, loro obiettivi. Soprattutto, con un loro destino metafisico. Questo è l'aspetto più importante di simili ideologie. La classe operaia ad esempio non è più un aggregato di esseri umani collocati in un certo modo nella divisione del lavoro e con alcuni interessi comuni. Diventa un soggetto sostanziale cui è affidato un compito storico: la riunificazione di ciò che il capitalismo alienante ha diviso. La scoperta del destino sostituisce la determinazione empirica degli interessi comuni; la complessità dell'azione umana viene sostituita dalla attribuzione di comportamenti stereotipati. Considerazioni simili si possono fare a proposito di altri soggetti collettivi sostanzializzati: la razza, l'etnia, la nazione. Va da se che , visto che tali misteriosi soggetti collettivi sostanziali non esistono, la loro volontà altro non è che la volontà di alcuni singoli, meglio, di UN singolo individuo. Hitler rappresentava la nazione tedesca allo stesso modo in cui Stalin era la personificazione della “classe operaia internazionale”. La trasformazione di soggetti sovra individuali in soggetti collettivi sostanzializzati distrugge i singoli solo per trasformare alcuni singoli in super individui, super persone, super uomini.

E' fin troppo chiaro perché simili concezioni non diano, non danno, troppa importanza ai vecchi. Se il singolo vale solo come parte del tutto e per il contributo che può dare alla realizzazione di quelli che si ritiene siano i fini del tutto ne segue necessariamente che la gran parte di vecchi ha un valore scarso o nullo. Persone avanti negli anni, improduttive, bisognose di assistenza possono contribuire poco alla realizzazione di determinati fini assoluti. Solo pochi vecchi sono davvero utili: scienziati, intellettuali o presunti tali, apologeti del regime, leader politici che, a dispetto degli anni, vengono presentati come sprizzanti energia da tutti i pori. Gli altri, i vecchi normali, sono considerati inutili fardelli, pesi improduttivi che ostacolano il glorioso cammino verso la perfezione. I vecchi, insieme a malati e disabili, sono il peso morto della società, non val troppo la pena di curarsi di loro. I regimi totalitari esaltano ed hanno esaltato, tutti, forme di giovanilismo fanatico, salvo reprime ferocemente i giovani non allineati, i ribelli o semplicemente gli anticonformisti. I “pionieri” nell'URSS staliniana, la “gioventù hitleriana” nella Germania nazista, le “guardie rosse” nella Cina di Mao, i “Balilla” nell'Italia fascista... tutte le dittature totalitarie hanno inquadrato militarmente la gioventù cercando di trasformare adolescenti e ragazzi in guardie pretoriane del regime. La gran maggioranza dei vecchi li hanno lasciti negli ospizi. Non è un caso.
Come non è un caso che in questo periodo terribile, caratterizzato dalla epidemia di covid 19, ci sia chi cerca di sminuirne la gravità con il vergognoso argomento che “a morire sono in maggioranza anziani con patologie pregresse”.
Nel momento stesso in cui si fa ai vecchi il grande favore di chiamarli “anziani” si stabilisce che una epidemia che ne fa strage non è qualcosa di troppo grave, perché il valore di un vecchio, magari diabetico, non è troppo elevato. Pesa sui conti INPS, ha bisogno di cure costose, spesso è un insopportabile brontolone, serve davvero mantenerlo in vita? In natura esiste la selezione: i più forti sopravvivono, gli altri muoiono, perché qualcosa di simile non potrebbe avvenire anche nella dolce civiltà multietnica e post moderna? Tanti deboli vecchi possono benissimo essere sostituii da migranti giovani e forti... nessuno propone le camere a gas, ovviamente; non ha il coraggio né la coerenza per avanzare simili proposte. E poi... c'è il Covid 19 che può servire da sostituto. Fra i teneri virgulti del post moderno ci sono tanti nipotini del vecchio Adolf.

Presente, passato e futuro 
Non esiste nella storia l'assolutamente nuovo. Il nuovo si innesta sempre sul vecchio, ogni modifica degli stati di cose presenti, quale che sia il modo per metterla in atto, parte da, e si appoggia su, ciò che già esiste. Non c'è discontinuità fra presente, passato e futuro. Il presente di oggi è il passato di domani, il presente di domani è il futuro di oggi. La stessa cosa avviene con i giovani ed i vecchi. I vecchi di oggi sono i giovani di ieri ed i giovani di oggi sono i vecchi di domani. Le generazioni si succedono costantemente, ognuna lascia qualcosa alla successiva e si appoggia su quella che la ha preceduta. E' la continuità del corso storico.
Ma tale continuità ha i suoi nemici: coloro che vogliono rinnovamenti radicali, assoluti, della società, dell'uomo e del mondo. Meglio, non rinnovamenti, trasfigurazioni, rovesciamenti radicali che rompano ogni continuità del corso storico. Un uomo, una società, un modo
assolutamente altri rispetto al mondo, alla società ed all'uomo “vecchi”. Non si tratta di dare risposta a desideri, aspirazioni, speranze degli esseri umani empirici, coloro che vivono qui ed ora nel mondo, di risolvere problemi sociali emergenti, modificare quanto sembra andare male nel mondo. Si tratta di creare un tipo umano del tutto nuovo, con desideri, speranze, aspirazioni del tutto nuove rispetto a quelle che caratterizzano gli esseri umani di oggi. E di creare una società ed un mondo che nulla hanno in comune col mondo e con le società in cui da millenni vivono uomini e donne. Questo vogliono i rinnovatori radicali, i rivoluzionari che del passato non intendono lasciar pietra su pietra.
Spesso la loro tensione all'assolutamente nuovo si combina col richiamo ad un passato mitico, una lontanissima età dell'oro da cui l'umanità si è colpevolmente allontanata, tanto, tanto tempo fa e che ora va ripristinata, in forma diversa e “più elevata”. La famosa società comunista primitiva di cui parla Engels, il buon selvaggio di Rousseau, i miti prenazisti di un'epoca in cui sangue e terra, simbioticamente uniti, davano vita a razze forti e fiere, che lentamente hanno perso l'originaria purezza.
In nome di questo richiamo ad epoche mitologiche si invoca la rottura radicale del corso storico reale, la trasfigurazione assoluta di tutto. Gli esiti di simili follie ideologiche sono scontati. La combinazione di assoluto futurismo e vagheggiamento di un passato mitizzato sfocia nel più brutale nichilismo. L'utopia dell'assolutamente nuovo si è realizzata nell'unico modo in cui si poteva realizzare: il sorgere di mostruose tirannie totalitarie che, in nome dell'uomo nuovo, hanno massacrato a decine di milioni gli uomini “vecchi”. E' quello che è successo: nel lager nazisti, nei gulag staliniani, nel laogai maoisti, nelle campagne cambogiane. Sempre, con la stessa terrificante regolarità.

Non è un caso che tutti i malati di ideologia provino una naturale, istintiva antipatia per i vecchi, con le notevoli eccezioni di alcuni “grandi vecchi”. Canuti, benefici vegliardi che hanno saputo resistere alle sirene della integrazione e della alienazione. I guru, i santoni, coloro che forti della loro saggezza e della loro autentica sapienza, ben diversa dalla bassa ed asservita cultura degli altri, illuminano la via che conduce alla perfezione. I Grillo, i Gino Strada, i Noam Chomsky, i Soros: intrepidi campioni del mondialismo, della accoglienza generalizzata, del misticismo ecologico questi vecchi sono da amare e seguire, con filiale venerazione.
Gli altri no. Gli altri sono solo vecchi, legami viventi con la tradizione, persone la cui stessa esistenza dimostra che il corso storico ha la sua continuità, che il nuovo è sempre legato al vecchio, il futuro al presente ed il presente al passato.
Sono insopportabili questi vecchiacci! Il vecchio Grillo vorrebbe toglier loro il diritto di voto. Con la loro misera, breve prospettiva di vita questi ruderi non hanno una qualsiasi visione di ampio respiro, pensano solo ai pochi anni che potranno ancora vivere, fregandosene di chi nel mondo vivrà ancora a lungo. Idiozia massima questa, che forse vale per Grillo e per alcuni come lui, non per la stragrande maggioranza dei vecchi. Perché nessuno come loro tiene al futuro, non il proprio, quello dei loro figli e nipoti. Proprio perché ha poco da vivere il vecchio pensa al mondo in cui vivranno gli altri, i giovani che ama e a cui si sente vicino.
E Grillo non è solo, ovviamente. In occasione della epidemia di covid 19 in tanti hanno cercato di rassicurare il popolo bue raccontando che non c'era troppo da preoccuparsi perché le vittime dell'epidemia erano “anziani con patologi pregresse”. Un settantenne diabetico può crepare, chi se ne frega? Una pseudo scrittrice è giunta a dire,commentando le misure restrittive messe in atto per fronteggiare l'epidemia, che stiamo sacrificando cultura, socialità ed economia alla salvaguardia degli over 75. La vita di una persona di 76 anni non vale una cena in pizzeria! Qualcuno dimentica che
TUTTI, prima o poi, diventiamo vecchi. 

I vecchi sono davvero solo un peso? 
Finora si è dato per scontato che i vecchi gravino, tutti e sempre, su chi vecchio non è, siano in qualche modo assimilabili ai bambini, con la fondamentale differenza che i bambini sono belli ed i vecchi no. Come i bambini i vecchi sono improduttivi e così come i genitori hanno il dovere di mantenere i figli questi hanno il dovere di mantenere i genitori quando non sono più in grado di accudire a se stessi. Tutto questo non trasforma nessuno in un inutile parassita: è il ciclo della vita che impone a tutti, a turno, diritti e doveri.
C'è una parte di verità in tutto questo, ma solo una parte.
La maggioranza dei vecchi in realtà non è mantenuta da nessuno ma si mantiene da sola e, se ha di certo bisogno di cure, si prende cura a sua volta di chi vecchio ancora non è. Ben lungi dal rappresentare un “inutile peso” in molti paesi occidentali la gran parte dei vecchi ha un fondamentale ruolo di stabilizzazione sociale. Vecchi genitori aiutano i figli, quando questi non riescono a trovar lavoro, cosa abbastanza frequente, purtroppo. Danno loro una mano nell'acquisto della prima casa, accudiscono i nipotini supplendo alle carenze dello stato sociale. Altro che “inutile peso”! Se in Italia, dall'oggi al domani, tutti i vecchi sparissero il bilancio dell'INPS di certo migliorerebbe, ma moltissimi giovani si troverebbero di fronte a problemi economici drammatici.

Andiamo oltre queste considerazioni puramente economiche e chiediamoci: è proprio vero che invecchiare significhi,
sempre e comunque, perdere o veder compromesse in maniera gravissima, le proprie capacità più specificamente, nobilmente, umane?
Che la vecchiaia significhi declino è scontato. Ma quanto è rapido questo declino? Quali parti di noi investe? Riguarda in egual misura il corpo e la mente? Soprattutto, è sempre vero che nel declino, anche mentale, l'uomo non sia capace di incredibile grandezza creativa? Detto ancora più provocatoriamente: è vero che gli ultimi anni di vita delle persone siano solo periodi di declino, uno spegnersi privo di sprazzi di luce? Basta fare la domanda giusta per avere la risposta. E la risposta è
NO.

Michelangelo Buonarotti morì a 89 anni. Fino a pochi giorni dalla morte lavorò alla “pietà Rondanini”, una delle sue opere più belle, forse
la più bella.
Ludwig Van Beethoven morì a 57 anni, per l'epoca si era quasi vecchi ad una simile età. Compose la nona sinfonia tre anni prima di morire. Lavorò sin quasi alla vigilia della morte ai suoi ultimi quartetti.
Immanuel Kant morì a 80 anni. Scrisse la “
critica del giudizio” a 66 anni, lavorò sin quasi alla morte agli scritti poi chiamati “opus postumum”.
Galileo Galilei morì a 78 anni. Scrisse i “
discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze”, forse la sua opera più importante dal punto di vista strettamente scientifico, nel 1638, quattro anni prima di morire.
Si potrebbe continuare ma credo possa bastare. Il periodo della vecchiaia a volte coincide con quello di massima creatività, di espansione massima di doti specificamente umane, in tutti i campi.
Se è vero che la vecchiaia è declino è falso che sia
solo declino. Spesso è declino ma anche creatività. Non è sempre così, ovviamente, ma la parte finale dell'umana esistenza può essere il periodo intellettualmente più ricco che un essere umano attraversa. Certo, poi c'è il gran salto nel nulla, nell'inesprimibile che tutto cancella. Ma questa è la condizione umana, triste, dura e che ci riguarda tutti. Inesorabilmente.

Tutti moriamo e tutti invecchiamo, tranne chi muore giovane. Il declino, il progressivo assottigliarsi delle aspettative future è componente basilare, ontologica, del nostro essere. Certamente la morte di un giovane è più tragica di quella di un vecchio. Il dolore dei genitori per la morte di un figlio è molto più intenso di quello dei figli per la morte dei genitori. Nel primo caso si tratta della distruzione del senso stesso della propria esistenza, nel secondo della dolorosa ma ineluttabile conclusione di un ciclo. Ma, appunto, di conclusione dolorosa si tratta. Un evento la cui naturalezza dimostra solo fino a che punto la natura sia intrisa di dolore, contenga un insopprimibile momento di tragicità. La inevitabilità della morte non riduce quindi di un grammo il valore della vita di chi alla morte è più vicino, non da a nessuno il diritto di classificare le vite, di considerarne alcune “leggere come piume” ed altre “pesanti come montagne”, per usare la cinica espressione diMao Tze Tung.
Un buon padre ottantenne, ed ancora di più una madre, in casi estremi sono disposti anche a morire per i propri figli, ma questa è una scelta
loro, che non dà ad alcun burocrate, ad alcun politico, ad alcun filosofastro il diritto di discettare sul valore di qualsiasi vita o di considerare “poco pericolosa” una epidemia solo perché colpisce in maggioranza persone “anziane” se non francamente vecchie.
Ognuno di noi ha il diritto di vivere
tutta la propria vita, dal primo all'ultimo giorno. Chi non capisce questo non capisce il senso profondo dei valori portanti della nostra civiltà.