domenica 31 gennaio 2016

AMORE, SESSUALITA', PROCREAZIONE.

Appare un po' deprimente che, mentre l'Italia e l'Europa stanno attraversando un periodo di crisi gravissima, l'argomento principe di quella cosa poco seria che è la politica italiana sia il matrimonio gay. Le cose stanno così però, quindi val la pena di cercare di spendere qualche parola sull'argomento. Intendo farlo nella maniera più pacata e meno polemica possibile, perché il matrimonio gay e la pratica dell'utero in affitto riguardano una problematica importante, che val la pena di affrontare con la dovuta serietà.

Desideri e diritti.
Da un po' di tempo è passata in occidente una concezione secondo cui i desideri delle persone possono, automaticamente o quasi, essere trasformati in diritti.
Nella tradizione democratico liberale i diritti fondamentali sono negativi. Il diritto difende la persona dalle altrui intrusioni ed aggressioni. Ho il diritto alla vita, alla incolumità personale, alla libertà, a godere come meglio credo dei beni che ho acquisito legalmente. Per il filosofo liberale Isaiah Berlin ogni individuo dispone, deve disporre, di un'area in cui egli solo decide. Dove intendo vivere? Che lavoro voglio fare? Mi sposo o no? Quali sono le mie preferenze sessuali? Sono d'accordo con Kant o con Hegel, o con nessuno dei due? Su argomenti di questo tipo sono io a decidere. Gli altri, siano questi dei privati cittadini o lo stato, devono solo tacere. I diritti fondamentali sono negativi perché mi difendono da qualcosa o qualcuno, tutelano la mia personale, individuale libertà. Mi rendo conto che l'argomento è molto vasto e richiederebbe un approfondimento che qui non può neppure essere tentato. Il punto di fondo però è piuttosto chiaro: quella che Isaiah Berlin chiama la libertà negativa è fondamentale in una democrazia liberale.
Ultimamente però in occidente si è sempre più estesa, accanto e spesso in contrapposizione alla sfera dei diritti negativi, un'altra sfera, quella dei cosiddetti diritti positivi.
Di nuovo, non è il caso di dilungarsi troppo. Basti accennare al fatto che il diritto positivo non ci tutela da qualcuno o qualcosa, ma ci autorizza a chiedere qualcosa a qualcuno: l'istruzione, ad esempio, o il lavoro, o un certo benessere. Avere affiancato ai diritti negativi alcuni diritti positivi è stato un fatto storicamente progressivo e meritorio, tuttavia la loro eccessiva estensione sta diventando un fattore di crisi e di disgregazione sociale. Specie negli ultimi tempi, quando si è sempre più sviluppata la tendenza a trasformare in diritti quelli che sono solo desideri delle persone. Sono così sorti strani “diritti” come il diritto alla salute, al benessere, alla felicità, ed infine, alla maternità o alla paternità.
Si tratta, lo dico molto chiaramente, di finti diritti. Io non ho il diritto alla salute, posso al massimo avere il diritto alla assistenza medica. Non ho il diritto al benessere, ho il diritto di poter lavorare per cercare di costruirmi un certo livello di benessere. Non ho il diritto alla felicità, posso solo avere il diritto di cercare di essere felice. NON HO il diritto alla paternità o alla maternità, ho solo il diritto di poter avere un figlio, se sono in grado di averlo.
Non tutti i desideri possono diventare diritti, a questo si oppongono due cosette di una certa importanza. In primo luogo i diritti degli altri. Un mio incondizionato “diritto al benessere” ad esempio obbliga gli altri a mantenermi, e questa è una violazione piuttosto pesante del loro diritto di NON mantenermi. Ma alla trasformazione dei desideri in diritti si oppone qualcosa di ancora più forte: la natura. Io vorrei essere alto un metro e novanta, avere l'intelligenza di Einstein e la bellezza ed il fascino di Marlon Brando, vorrei, ma non posso perché sono bassotto, dotato di una intelligenza normale e non particolarmente bello. Posso, ovviamente, cercare di migliorarmi ma questo non mi fa acquisire alcun diritto. Per quanti sforzi io faccia non diventerò mai bello come Brando ed intelligente come Einstein, e non potrò chiedere per questo i danni a nessuno: nessuno ha violato qualche mio diritto, semplicemente qualche mio desiderio è rimasto insoddisfatto.
Per venire al nostro argomento, se io e Tizio formiamo una coppia gay non potremo mai avere un figlio nostro. Potremo adottare un figlio o averne uno iniettando il seme mio, o di Tizio, in un utero preso in affitto. In ogni caso il figlio sarà mio (o di Tizio) e della ragazza che ci ha affittato l'utero. Non sarà il figlio mio e del mio compagno, non sarà nostro figlio.

Figli, amore, sesso.
Nella concezione tradizionale della famiglia dovrebbe esistere un legame strettissimo fra amore, sessualità e procreazione. Due persone si amano, vivono insieme, hanno rapporti sessuali ed hanno dei figli. Il figlio è il risultato del loro amore congiunto al sesso; allevare il figlio, educarlo, aiutarlo a crescere diventa uno dei compiti più importanti della loro vita in comune, qualcosa che le conferisce senso.
Non sono un ingenuo né, meno che mai, un bacchettone. So benissimo che può esserci sesso, omo od eterosessuale, senza amore, e non ci trovo nulla di particolarmente scandaloso. E possono esserci, e non c'è in questo nulla di negativo, sesso ed amore senza procreazione. Ed esiste anche l'amore senza sesso, anzi, alcune delle forme più profonde di amore, quella fra genitori e figli ad esempio, sono, devono essere, senza sesso: la presenza del sesso le corromperebbe irrimediabilmente.
L'unità fra amore, sesso e procreazione non è quindi un imperativo categorico, qualcosa che abbia valore assoluto, solo degli ingenui o degli ipocriti possono sostenere una tesi tanto bizzarra. Il punto però non è questo. Fermo restando che l'unità fra amore, sesso e procreazione non è affatto assoluta, a cosa si deve mirare quando ci sono di mezzo dei figli? Il legislatore deve favorire situazioni in cui il figlio sia la risultante di tale unità o è meglio che consideri tutte sullo stesso piano le varie forme di convivenza fra gli esseri umani?
Per cercare di spiegarci meglio prendiamo in considerazione il caso delle adozioni e dell'utero in affitto.
Poniamo che una coppia “normale”, composta da un uomo ed una donna, non possa per qualche motivo avere figli. La coppia adotta un bambino che non ha genitori e vive in una struttura pubblica, più o meno confortevole. L'adozione inserisce questo bambino in una situazione che non è identica a quella della famiglia naturale ma le si avvicina molto. Il piccolo passa dall'orfanotrofio ad una casa in cui due persone gli fanno, spesso egregiamente, da genitori.
Prendiamo ora in esame il caso dell'utero in affitto. Tizio e Caio, omosessuali, vivono insieme. Desiderano avere un figlio. Il seme di Tizio (o Caio) viene iniettato in Laura che, a pagamento, mette a loro disposizione il suo utero. Dopo nove mesi Laura partorisce e suo figlio vine subito dato a Tizio e Caio che possono soddisfare in questo modo il loro desiderio di paternità. Qui il mancato legame fra sesso, amore e paternità non è, come nel primo caso, il risultato di una circostanza sfortunata, è un dato ineliminabile. L'adozione in questo caso non è uno strumento finalizzato al benessere dei bambini, qualcosa che permette loro di avere quanto di più simile alla famiglia si possa immaginare. No, nel caso dell'utero in affitto assistiamo al tentativo di rendere normale la separazione fra procreazione da un lato e amore – sesso dall'altro. Avere un figlio dalla persona che si ama è solo uno dei tanti modi di soddisfare il “desiderio di paternità” o di maternità. Posso avere un figlio dalla donna che amo o iniettando il mio seme nel ventre di una donna che vive in Costarica o in Ucraina e che assume il ruolo non tanto di madre quanto di produttrice di bambini. La differenza fra produzione e riproduzione scompare, o si attenua in maniera esponenziale. Finora tutti si era più o meno convinti che la produzione riguardasse le cose, al massimo le piante o gli animali, per le quali è più corretto parlare di coltivazione o allevamento, e la riproduzione gli esseri umani. Ora ci troviamo invece in una situazione in cui gli esseri umani si producono. Non sono un nemico della tecnologia né un ecologista mistico, non ho nulla contro la produzione di beni e servizi ci mancherebbe. Può darsi che tutto questo sia positivo. Però, è bene sottolineare che di questo si tratta e non di altro. Non si tratta di omofobia, di accettazione o di rifiuto della omosessualità. Non si tratta di negare agli omosessuali il sacrosanto diritto a vivere la loro sessualità. La domanda chiave, diciamolo pure, le domanda filosofica è la seguente: si possono produrre gli esseri umani per soddisfare certi umani, umanissimi, desideri? Personalmente penso che la risposta sia NO.

Mercificazione.
“Non si deve “mercificare” il corpo della donna!” Ripetono ogni cinque minuti le femministe. Lo strillano di solito quando vedono il sedere di una bella ragazza usato per la pubblicità di jeans o minigonne. Altri si aggiungono al loro coro e protestano contro la “mercificazione” di altre cose: il lavoro, i polli, le opere d'arte, l'acqua, le spiagge, eccetera eccetera. Per Karl Marx la merce era al centro della economia capitalistica. I suoi tardivi seguaci non hanno quasi mai letto un rigo delle sue opere, ma condividono la fortissima antipatia del barbone di Treviri per tutto ciò che è merce.
Io invece guardo con simpatia alla economia di mercato e non ho nulla contro le merci. Però, ricordo che al suo affermarsi proprio l'economia di mercato ha ridotto l'area di ciò che può essere oggetto di compravendita. Un tempo la giustizia era spesso affare privato. I genitori di un assassino potevano comprare la grazia di loro figlio pagando i genitori della sua vittima, qualcosa di simile avviene ancora oggi nei paesi islamici. La massima estensione della economia mercantile e della filosofia politica liberale ha coinciso con la affermazione del principio secondo cui non tutto può diventare merce. Il motivo è semplice: lo scambio può avvenire solo fra soggetti che abbiano pari dignità e diritti. Trasformare in merce alcune cose, ad esempio gli esseri umani, contrasta con la logica dello scambio, o quanto meno ne riduce di molto la portata. Se esistono gli schiavi questi possono essere oggetto di scambio ma non suoi soggetti, se la giustizia si può comprare i rapporti fra venditori e compratori rischiano quanto meno di essere compromessi.
Non tutto si può scambiare quindi, non tutto può diventare merce. Se si vuole che la società, e nella società il mercato, si basino sulla libera attività di liberi soggetti alcune cose devono essere messe fuori dal mercato e dalle sue contrattazioni. Personalmente ritengo che la capacità della donna di diventare madre sia una di queste cose. Non trovo nulla di male nel pagare un uomo o una donna perché facciano un certo lavoro, e neppure nel pagarli perché si facciano fotografare incerte pose, anche “audaci”. Posso avere torto a ragione, ma protestare di fronte ad un manifesto pubblicitario che ritrae una bella ragazza seminuda, strillare che “mercifica” il corpo della donna e non avere nulla da ridire sull'utero in affitto mi sembra il massimo della incoerenza e della cattiva fede. Affittando il suo utero una donna “mercifica” quanto di più intimamente, radicalmente suo essa possiede: la sua capacità di riprodursi. Diventa produttrice di bambini allo stesso modo in cui, lavorando in fabbrica, può diventare produttrice scarpe o pantaloni. E, non tappiamoci gli occhi, lo fa sempre o quasi, perché spinta dal bisogno. Non a caso gli uteri si “affittano” in paesi caratterizzati da vaste fasce di povertà. Come possano delle persone che detestano le “merci” accettare tutto questo è e resta un mistero.

Conseguenze.
Finora non ho detto una parola sulla famosa legge Cirinnà. Intendo continuare a non parlarne.
Mi interessa molto, invece, esaminare le conseguenze logiche di certe prese di posizione. Nessuno o quasi lo fa, purtroppo. E' così ormai che funzionano le cose. Si dice: A senza curarsi di cosa discenda logicamente da A. Molti ad esempio sono favorevoli alle adozioni gay ma non all'utero in affitto, o alla fecondazione eterologa ma non alla creazione di un mercato degli uteri.
Torniamo ai nostri Tizio e Caio, omosessuali. Vogliono un figlio, quindi fanno iniettare il seme di uno dei due nel ventre si una ragazza colombiana che fornirà loro, a gestazione compiuta, il pargoletto. Però, se una simile pratica è del tutto lecita, ed è considerata assolutamente normale, perché Tizio non dovrebbe iniettare il suo seme in una fanciulla alta, bionda, in ottima salute e con un elevato quoziente di intelligenza? Anna e Laura, lesbiche, vogliono avere un figlio, quindi una di loro si fa iniettare il seme di Tizio. Perché non dovrebbe scegliere un donatore bello, muscoloso, intelligente e di razza bianca? Mario e Maria costituiscono una normalissima copia etero. Si amano, stanno bene insieme, e vogliono un figlio. Maria però è piuttosto bassa ed anche Mario non è uno spilungone. Ai due piacerebbe avere un figlio alto. Quindi Maria si fa iniettare il seme di Tizio, un ragazzone di un metro e novanta il cui padre superava i due metri e che ha già un figlio alto un metro e ottantotto. C'è qualcosa di sbagliato nel comportamento di Tizio e Caio, Anna e Laura, Mario e Maria? Difficile sostenerlo se si accetta il principio dell'utero in affitto. Se i bambini si producono perché non cercare di produrre dei bambini di buona qualità?
Separare, in linea di principio, riproduzione e sesso-amore, mettere da un lato i figli, dall'altro l'amore e la sessualità dei genitori trasforma in produzione la riproduzione e questo apre, lo si voglia o no, le porte alla eugenetica.

Qualcuno a questo punto potrebbe obbiettare che il mio procedimento è scorretto. Non sta scritto da nessuna parte che chi fa una certa scelta debba trarre sempre da questa tutte le sue possibili conseguenze. Ogni scelta può avere, in fondo, delle conseguenze negative che noi non siamo obbligati ad accettare. Il fatto che siano possibili, ad esempio, i trapianti di organi può avere come conseguenza la formazione di un mercato degli organi umani, ma non si tratta di qualcosa di necessario o comunque di impossibile da contrastare. Nei fatti è perfettamente possibile essere favorevoli ai trapianti di organi e contrari alla formazione di un loro mercato. Considerazioni simili si possono fare per le adozioni gay.
L'obiezione è intelligente ma sostanzialmente infondata. Certo, non è obbligatorio trarre dalle proprie scelte tutte le conseguenze in queste implicite. Da A può seguire B ma questo non significa che chi vuole A debba sempre e comunque volere anche B. Ma il punto è: chi vuole A e non B è una persona coerente o ha solo paura di ciò che in A è implicito?
Tutte le azioni e tutte le scelte possono avere conseguenze negative, si è detto, ed è vero. Certe conseguenze però possono essere logicamente connesse a certe teorie e a certe azioni, altre invece possono essere solo i loro possibili risultati. Se si sostiene che una certa razza è per sua natura inferiore alle altre è incoerente rifiutare il razzismo; il nazionalismo aggressivo invece è una conseguenza possibile ma non necessaria delle teorizzazioni della nazione e della sua rilevanza nella storia.
Questo riguarda anche il caso delle adozioni gay e dell'utero in affitto? E' davvero fondato il paragone con i trapianti e la possibile formazione di un mercato di organi umani?
Il trapianto di organi costituisce la risposta tragica ad una tragica emergenza: una persona è a rischio di vita e può essere salvata solo grazie ad un nuovo organo. Da una simile situazione può nascere, ma non è necessario che nasca un mercato di organi umani. E' possibile effettuare trapianti anche in assenza di un tale mercato, anzi, questo permetterebbe ai più ricchi di monopolizzare gli organi disponibili e ostacolerebbe, in ultima istanza, la generalizzazione delle pratiche di trapianto. La pratica dei trapianti non ha come necessaria conseguenza la nascita di un diritto all'acquisto di organi, non si traduce necessariamente in una nuova “normalità” che veda simili acquisti come qualcosa di ovvio, scontato.
Chi teorizza e vuole le adozioni gay mira invece proprio a questo tipo di normalità. Esiste un “diritto” alla paternità ed alla maternità e questo riguarda tutti, siano questi omo od eterosessuali. Prendere un utero in affitto non costituisce in questo caso la risposta purtroppo obbligata ad una tragica emergenza, ma una quotidiana normalità. Sono gay, ho diritto alla paternità o alla maternità quindi posso affittare un utero o comprare il seme di un donatore. Qui tutto è assolutamente normale, scontato, addirittura banale. Perché mai in una simile situazione non dovrei affittare un certo utero invece di un altro? Perché non dovrei comprare un certo tipo di seme invece di un seme di tipo diverso? Mettere limiti in questo senso è un po' come consentire l'acquisto di una certa merce e proibire nel contempo ogni contrattazione sulla sua qualità. Un assurdo evidente.

Il diritto ad essere dato.
A questo punto qualcuno potrebbe obiettare: “e sia, matrimonio ed adozioni gay portano alla pratica diffusa dell'utero in affitto e questa può far si che vengano “prodotti” dei bambini con certe predeterminate caratteristiche. Ebbene, cosa c'è di male in tutto questo? E' vero, si tratta di qualcosa che contrasta con un diffuso senso comune, che da fastidio a molti, ma questo prova solo che non ci siamo ancora liberati da pregiudizi secolari”.
La obiezione non è stupida, al contrario. Perché dobbiamo rifiutare la “produzione” dei bambini? E' tanto brutto avere un figlio come piace a noi? Bello, sano, intelligente?

Tutti noi siamo esseri dati. Non ci facciamo da soli, ci troviamo nel mondo. Il fatto che io viva qui ed ora, che proprio io sia nato in un certo periodo storico e non in un altro, in un certo paese e non in un altro, da certi e non da altri genitori, è qualcosa che io posso solo accettare. Sarei un essere dato anche se fossi figlio di una provetta, se qualcuno avesse deciso di farmi nascere con certe e non con altre caratteristiche: in ogni caso non sarei causa di me stesso, resterebbe in ogni caso un mistero il fatto che sia IO il risultato di quella fecondazione in provetta, che sia la MIA personalità e non quella di Tizio o Caio ad essere emersa da quella provetta.
Quale che sia il nostro atto di nascita, noi, tutti noi, siamo e restiamo dati. Possiamo venire da una famiglia tradizionale, da un utero preso in affitto, da una provetta, le cose non cambiano: siamo persone che possono solo constatare il fatto primario di esistere.
Però abbiamo una personalità, e dobbiamo presupporre di essere liberi. E in quanto persone libere, dotate di una personalità propria abbiamo il diritto alla nostra individuale, insopprimibile, datità. Io ho diritto di nascere senza che qualcuno decida come devo essere, che caratteristiche devo avere. Ho diritto alla datità mia, mia e di nessun altro.
Ipotizziamo che io sia stato concepito in provetta, qualcuno mi può dire: tu non c'eri quando sei stato concepito in quel modo, quindi, di cosa ti lamenti? Verissimo, ma ora che ci sono trovo inaccettabile il fatto che io sia così e così perché qualcuno ha deciso che io dovessi essere così e così, e trovo inaccettabile che qualcuno decida oggi che un essere umano che nascerà fra nove mesi sia così e così, perché a LUI piace sia così e così.
Difendere la nostra individuale datità significa difendere quella cosa fondamentale che la nostra autonomia, la nostra libertà di esseri morali e razionali.
Conosco l'obiezione: “chi ti dice che siamo davvero autonomi e liberi? Chi ti dice che esista qualcosa come il diritto ad una individuale, insopprimibile datità? E se fossimo solo macchine, o un insieme di reazioni chimiche? Che male ci sarebbe se, come macchine, fosse possibile produrci, per il maggior benessere di tutti?”.
Di nuovo, l'obiezione è intelligente. Nessuno può dimostrare che noi si sia liberi ed autonomi, forse siamo davvero macchine, o reazioni chimiche. Né la scienza né la filosofia possono risolvere il dilemma su cosa realmente noi siamo. Però dobbiamo presupporre di essere liberi ed autonomi. Perché se non lo siamo gran parte di ciò che diciamo, pensiamo o facciamo perde ogni senso. Se siamo macchine o reazioni chimiche diventa insensato parlare di bene e male, meriti e demeriti, premi e punizioni. In questo caso diventa impossibile protestare contro i figli in provetta, ma anche contro l'omofobia. Diventa insensata anche qualsiasi discussione su questi come su altri temi. Se siamo reazioni chimiche o macchine ha senso dire che Tizio ha torto e Caio ragione? I loro discorsi sono entrambi la risultante di complicati meccanismi chimici o meccanici, stabilire quale di questi sia giusto è semplicemente insensato.
Io non so cosa sono realmente. Però sento di essere capace di scelte, di avere una autonomia, di poter decidere, anche se in misura molto ridotta, come debba essere la mia vita. Sento di essere un io diverso dal flusso delle sue percezioni, un qualcosa che ha valore ed ha diritto alla tutela del suo valore. E so che se così non fosse moltissime cose, forse tutto, perderebbe il suo senso. Per questo rivendico il mio diritto ad essere dato, pretendo che nessuno lo tocchi, non voglio essere, e non voglio che altri siano, il risultato di una altrui “costruzione”. Per questo ritengo che il mio diritto ad essere dato sia più importante di altri diritti, o pseudo diritti, come il presunto diritto alla paternità o alla maternità. Solo per questo, non per reazionarie fantasie anti tecnologiche ed anti moderne, sono contrario ai figli in provetta ed agli uteri in affitto.
E tanto basta.

venerdì 29 gennaio 2016

LA MORTE, E LA PAURA DELLA MORTE

Liberare gli esseri umani, meglio, i saggi fra gli esseri umani, dalla paura della morte è da sempre uno degli obiettivi della speculazione filosofica. Il saggio cerca la pace interiore, vuole affrancarsi dalle passioni e forse nessuna passione turba tanto la pace interiore quanto la paura della morte. L’aspirazione a battere il turbamento, e la paura che il pensiero della morte suscita in noi è centrale nel pensiero taoista. “Quando Lao Tse morì, l’amico Chin Shin, giunto in ritardo, rimproverò ai presenti i loro lamenti e disse: comportarsi in tal modo è violare il principio della natura e accrescere l’emozione, è dimenticare quanto abbiamo ricevuto dalla natura (…). Quando il maestro giunse fu perché ebbe occasione di nascere, quando se ne andò non fece che seguire il corso naturale. Coloro che restano tranquilli in tali circostanze e seguono il corso naturale non possono essere turbati da dolore e da gioia” (1)
Il morire, come il nascere fanno parte del naturale ciclo degli eventi: chi comprende questa semplice verità non gioisce per la nascita né si addolora per la morte di qualcuno, e neppure teme la propria morte. Però, anche la gioia ed il dolore, le emozioni e la paura, e la paura della morte, fanno parte del naturale succedersi degli eventi; cercare di eliminarle totalmente dalla nostra vita è irragionevole. Portata all’eccesso la ricerca della pace interiore diventa essa stessa causa di interiori turbamenti. Il pensiero taoista è conscio di questa latente contraddizione e cerca di tenersi lontano dagli eccessi, compresi gli eccessi di saggezza.

Il rifiuto della paura della morte è presente sin dalle origini nel pensiero occidentale. Rivolgendosi ai giudici che lo avrebbero condannato, Socrate così parla della morte: “Una di queste due cose è il morire: o è come non essere più nulla, e chi è morto non ha più nessun sentimento di nulla; o è proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù ad altro luogo. Ora, se il morire equivale a non aver più sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non vede più niente neppure in sogno, ha da essere un guadagno meraviglioso la morte. Perché io penso che se uno, dopo aver trascelta nella propria memoria tal notte in cui si fosse addormentato così profondamente da non vedere neppur l’ombra di un sogno, e poi, paragonate a questa altre notti ed altri giorni della sua vita, dovesse dirci, bene considerando, quanti giorni e quante notti in tutto il corso della sua vita egli abbia vissuto più felicemente e più piacevolmente di quella notte; io penso che (…) troverebbe assi pochi e facili da noverare codesti giorni e codeste notti in paragone degli altri giorni e delle altre notti. Se dunque tal cosa è la morte io dico che è un guadagno. (…) D’altra parte, se la morte è come un mutar sede di qui ad altro luogo, ed è vero quello che raccontano, (…) quale bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo?” (2). La morte è o un profondo sonno privo di sogni o un viaggio verso un luogo migliore. La potente ragione socratica distrugge il naturale terrore che gli esseri umani hanno per la morte. E non è un atteggiamento quello di Socrate: nel “Fedone” Platone racconta l’estrema serenità con cui il suo maestro affronta l’attimo supremo. Dopo aver chiesto a chi gli aveva portato la cicuta se si dovesse, bevendola, libare a qualche Dio Socrate afferma: “ far preghiera agli Dei che il trapasso di qui al mondo di là avvenga felicemente, questo si potrà, credo, e anzi sarà un bene. E questa è appunto la mia preghiera; e così sia. E così dicendo, tutto d’un fiato, senza dar segno di disgusto, piacevolmente, vuotò la tazza sino in fondo” (3). Così, con serenità, senza paura alcuna, morì quello che Platone definisce “il più saggio ed il più giusto fra gli uomini”.

Il tema della indifferenza di fronte alla morte è centrale, come si sa, nel pensiero stoico. Il saggio stoico cerca la pace interiore e se la raggiunge è totalmente, assolutamente libero. Il saggio non dipende dal mondo perché è indifferente al mondo. Vive egualmente bene in una reggia come in una capanna, si trova a suo agio alla corte dell’imperatore come ai remi di una galera, incatenato, schiavo fra gli schiavi. Morire gli è del tutto indifferente: il saggio può abbandonare la vita con la stessa imperturbabile tranquillità con cui esce da una stanza fumosa (ma perché uscire, da quella stanza, se si è tanto indifferenti al mondo?). Possiamo anche trascorrere una vita piacevole, ma questo non implica che la fine di questa piacevole vita debba esser causa di dolore e paura, esattamente come l’abbandonare una piacevole riunione fra amici non causa paura né dolore ad un uomo equilibrato. Spesso polemici con gli stoici gli epicurei sono d’accordo coi loro avversari sul tema della paura della morte. E’ giustamente famoso il detto di Epicuro secondo cui non si deve temere la morte, infatti, quando io ci sono la morte non c’è e quando la morte c’è io non ci sono. Autentica perla di saggezza che ricorda l’affermazione di Ortega y Gasset secondo cui da un certo punto di vista la vita umana è davvero eterna: sia il principio che la fine sono situati al di là dei suoi limiti. Tutto ciò che facciamo, diciamo, pensiamo fa parte della vita, tutto si svolge nei suoi confini e la morte è posta al di fuori di questi confini. “La morte non è un evento della vita” afferma Ludwig Wittgenstein, “la morte non si vive. Se per eternità si intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive in eterno chi vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo senza limiti” (4).

“La nostra vita è senza fine, così come il campo visivo è senza limiti”. Bella l’analogia, che esprime la formidabile potenza della ragione. Però sappiamo che l’occhio è nel contempo origine e limite del campo visivo, anche se ne è costantemente fuori. “L’occhio non si vede” dice Wittgenstein sempre nel “tractatus”, non si vede ma c’è; è fuori campo ma limita il campo appunto standone fuori. Se non se ne trovasse fuori l’occhio limiterebbe non il campo visivo ma questo o quell’ente nel campo visivo, esattamente come la vista di una casa mi preclude quella del mare. Così la morte. La morte non è un evento della vita, è sempre fuori dalla vita ma limita la vita. La limita precisamente perché non può essere vissuta. Se la morte fosse un evento della vita non limiterebbe la vita, limiterebbe altri eventi della vita, come ogni scelta che facciamo limita le possibilità di tutte le altre. La morte è il limite radicale, assoluto, è il non essere che circonda, limita e pressa l’essere da tutte le parti. E la radicalità di questo limite riguarda, prima di ogni altra cosa, il senso, l’esprimibilità. Per i taoisti la morte fa parte del corso naturale delle cose, Socrate paragona la morte ad un sonno senza sogni o ad un viaggio, gli stoici parlano del morire come di un uscire da una stanza, abbandonare una piacevole riunione, Epicuro parla della morte che c’è quando lui non c’e. Tutti esempi belli, intriganti, ma tutti, in qualche modo, inadeguati, necessariamente inadeguati. Perché la morte non è un qualcosa, non è un evento del ciclo della natura, non per chi muore almeno; non è qualcosa che c’è quando io non ci sono, e neppure un sonno, sia pure profondissimo e senza sogni. Forse la morte è davvero un viaggio ma, in questo caso, a ben vedere le cose, non di morte di tratta ma di un altro tipo di vita. Ogni modo di parlare della morte e del nulla è inadeguato perché il nulla e la morte si situano al di là del senso, della ragione e del linguaggio. Sempre per continuare il paragone col campo visivo, il limite del campo visivo non è l’oscurità, il buio. Il buio e l’oscurità noi li vediamo, il limite del campo visivo invece si situa in una dimensione che è priva di senso per la vista. Così è la morte per la vita. Non possiamo dire cosa sia il nulla della morte perché qualsiasi cosa si dica di questo nulla in qualche modo lo definisce, lo determina e lo fa così cessare di essere un nulla. La morte è la negazione del senso oltre che della vita, situandosi oltre la vita si situa al di là delle possibilità di espressione del linguaggio e di comprensione dell’umana ragione. La morte è trascendente, trascende la vita, la ragione, il linguaggio, il senso ed è in questa trascendenza che li limita, li rende irrimediabilmente finiti, caduchi.

“Essere… o non essere. E’ il problema”. Così inizia il più famoso monologo della letteratura occidentale. E non a caso lo splendido monologo è incentrato sul problema della morte. “E chi vorrebbe sopportare i malanni e le frustate dei tempi, l’oppressione dei tiranni, le contumelie dell’orgoglio, e pungoli d’amor spezzato e remore di leggi, arroganza dall’alto e derisione degl’indegni sul merito paziente, chi lo potrebbe mai se uno può darsi quietanza col filo d’un pugnale? Chi vorrebbe sudare e bestemmiare spossato, sotto il peso della vita, se non fosse l’angoscia del paese dopo la morte, da cui mai nessuno è tornato, a confonderci il volere e a farci indurire ai mali d’oggi piuttosto che volare a mali ignoti?” (5). In Shakespeare non c’è traccia della razionale serenità socratica. La morte non è più un profondo sonno privo di sogni, è qualcosa di misterioso ed inquietante, pieno di incognite e pericoli, qualcosa che piega la volontà e “fa tutti vili”. Il grande drammaturgo non parla della punizione divina, dell’inferno, parla del mistero della morte, dell’incognita insita nel non essere, della sua incomprensibilità. Ed è questa a farci paura, a renderci vili. La morte fa paura precisamente perché è il limite inconoscibile della vita. Se davvero non facesse paura, se davvero fosse solo qualcosa di connesso al corso naturale degli eventi non occorrerebbe un così formidabile dispendio di grandi energie intellettuali per rendercela accettabile. In effetti la morte è davvero un evento fra gli altri del grande ciclo della natura, come sostengono i taoisti, ma questo vale per la morte degli altri. La nostra morte non è solo un evento di questo genere, è, per noi, qualcosa di completamente diverso: è entrare in una dimensione fuori dalla nostra portata, il “paese da cui mai nessuno è tornato”, un paese che ci angoscia e ci spaventa, non può non angosciarci e spaventarci. Tutto ciò che diciamo, pensiamo o facciamo lo facciamo, pensiamo o diciamo nella vita. Anche la teorizzazione della naturalezza della morte è un evento della vita, e anche affrontare serenamente la morte è, sempre, un evento della vita. Si può essere sereni di fronte alla morte finché si è vivi, non un istante di più. E’ la radicalità del salto che ci porta al di là della vita che ci spaventa e questo salto è sempre radicale, è un salto verso l’indicibile.

La paura della morte è differente, radicalmente differente, da tutti gli altri tipi di paura. Tutti gli altri tipi di paura riguardano eventi o cose determinate. La paura della morte no. Questa ci mette di fronte non ad eventi tragici della vita ma alla radicale negazione della vita stessa, riguarda il mistero oltre che il tragico, meglio, riguarda il tragico perché riguarda il mistero. Il dolore fisico, la malattia, la miseria, una delusione d’amore, lo stesso dolore per la morte di una persona cara sono tutti eventi della vita. Il dolore che ci causano può essere talmente grande che ad esso si può a volte preferire la morte, ma questo non riduce di un millimetro la differenza fra questo tipo di paure e dolori e la paura della morte. Chi preferisce la morte alla malattia ed al dolore fisico, chi preferisce morire piuttosto che assistere alla morte di suo figlio, ed ancora, chi è pronto a sacrificare la sua vita per un nobile ideale o per salvare altre vite non si colloca per questo in una dimensione posta oltre la vita, non ama la morte né odia la vita, al contrario. Costui considera tanto universalmente importante la vita da sacrificare la sua, di vita, per salvare quelle di altri, o ama talmente certi aspetti della vita da considerare insopportabile una vita priva di certe caratteristiche. Una vita di miseria, di dolore, una vita senza che quella certa persona sia a mio fianco, una vita trascorsa in una società ingiusta non è una vita degna di essere vissuta, meglio allora il grande salto verso l’ignoto. La paura della morte può essere controllata, addirittura vinta. Può sublimarsi in un gesto eroico, può essere intrappolata dalle sottili e ferree argomentazioni di una grande mente, può, cosa assai più comune, essere sopraffatta da una paura momentaneamente più grande, un diverso tipo di paura, determinato, concreto; può ancora essere annullata dalla disperazione, dal senso di vuoto o di inutilità che in certi momenti possono subentrare nella vita degli esseri umani. La paura della morte insomma non è invincibile ma è comunque una costante, una fondamentale ed originalissima costante della vita umana.
La morte è posta fuori dalla vita, la paura della morte è per così dire la presenza della morte nella vita. Se la morte è indicibile la paura della morte è invece qualcosa di determinato, qualcosa che si sente, di cui si può sensatamente parlare. Tramite la paura che suscita in noi la morte diventa, in un certo senso, meno misteriosa, familiarizza con noi, muta forma e diventa anch’essa, come paura, un evento della vita. Ma non diventa per questo meno terribile. Perché, se è vero che a volte la paura della morte può essere vinta, essa resta tuttavia fra tutte le paure, quella che ci mette di fronte alla discontinuità più radicale, ci fa toccare con mano il senso ultimo della nostra finitezza. “Coraggio, la vita continua”: a moltissimi dolori si risponde in questo modo. La vita continua, bisogna stringere i denti ed andare avanti, reagire. E, molte volte ci riusciamo, per fortuna, a reagire. E la vita, in effetti va avanti, ci si riprende, si ridà un senso ai propri giorni, si può di nuovo, in qualche modo essere sereni, se non felici. La paura della morte ci mette di fronte a qualcosa di completamente diverso, tanto diverso da far diventare ridicola l’esortazione a “tirare avanti”. La morte spezza il corso degli eventi, interrompe progetti, aspettative, amori, affetti, passioni, ideali, antipatie. E’ a questa radicale, assoluta, discontinuità che ci mette di fronte la paura della morte. La paura della morte, nella sua concretezza, ci mette contemporaneamente di fronte al mistero dell’insensato ed insieme alla rottura radicale di ogni continuità nel conoscibile e nel sensato, in questo senso è la più radicale di tutte le paure, anche se può non essere sempre la più acuta. Trattare di come le varie correnti del pensiero occidentale si sono misurate col problema della morte significherebbe, nientemeno, scrivere la storia della filosofia occidentale, compito che l’autore di queste note ritiene leggermente superiore alle sue forze. Semplificando scandalosamente le cose si può dire che nel pensiero occidentale emergono tre posizioni riguardo alla morte: quella di chi ritiene che ci si possa e ci si debba emancipare dalla morte, quella di chi cerca di esorcizzarla ed infine quella di chi ritiene si possa cercare di convivere con essa.
Già in Platone è presente non tanto l’idea dell’emancipazione dalla morte quanto una autentica valutazione positiva della stessa. Per Platone l’anima è prigioniera del corpo e, incatenata in questa prigione, le è inibita la contemplazione del mondo delle idee. Siamo lontani, come di vede, dalla stessa concezione socratica della morte come sonno profondo o come viaggio verso un luogo migliore (concezione che è lo stesso Platone ad esporre). Nello sviluppo del suo pensiero Platone arriva a definire la morte come liberazione dell’anima dalla prigione del corpo e la filosofia come una sorta di preparazione alla morte. Anche se negli anni Platone ammorbidirà questa sua posizione essa resta centrale nel pensiero del grande filosofo. La morte non ci dissolve nel non essere ma ci porta nella dimensione autentica dell’essere. Sono abbastanza evidenti le analogie fra il platonismo ed il pensiero cristiano: la morte segna il passaggio da una ad un’altra forma di vita. Risorgendo Cristo ha sconfitto la morte ed ha aperto a tutti gli esseri umani la prospettiva della vita eterna e beata. Nel cristianesimo però non è presente, o, quanto meno, è assai meno accentuata, la concezione negativa del mondo sensibile che è invece tipica del platonismo. La vita in questo mondo è importante perché, se rettamente vissuta, ci conduce alle porte del Regno. Il mondo ultrasensibile ha la priorità assoluta, ovviamente, ma questo non fa scadere il mondo sensibile a qualcosa di privo di ogni importanza. E’ sulla terra che dobbiamo dimostrate di non essere indegni del cielo. In ogni caso, sia nella filosofia platonica che in quella cristiana, in tutte le innumerevoli scuole in cui queste si dividono, la morte non si identifica col non essere. Ci si può emancipare dalla morte perché la morte, in senso proprio, non esiste: la morte è solo un passaggio fra dimensioni diverse dell’essere.

Praticamente tutte le filosofie dell’assoluto e della totalità esorcizzano, o cercano di esorcizzare, la morte e la paura che questa provoca in noi. Si tratta di filosofie che svalutano radicalmente il ruolo del singolo, quindi l’importanza centrale che ha per il singolo il fatto angoscioso della morte. Gli individui sono mortali ma non lo è il genere, la morte di un individuo non conta nulla se inquadrata nel flusso millenario della storia: quante volte non si sono sentite affermazioni simili? A contare è sempre l’intero, la totalità, la società nel suo complesso, l’armonia complessiva del tutto. Poiché i singoli contano solo in quanto membri dell’intero, parti della sua superiore armonia, e poiché la morte è, sempre, morte del singolo, è la mia, la tua, la sua morte, la morte non conta, non fa paura, non deve fare paura. Cosa conta il singolo di fronte all’assoluto hegeliano che si auto manifesta dialetticamente o alla marxiana storia a soggetto che rivela a sé stessa il suo fine immanente? Nulla. La sua morte, quindi la morte, perde importanza, centralità, viene assorbita in una superiore, e più profonda, ed infinitamente pervasiva, armonia. Assorbita e quindi esorcizzata, ma non sconfitta, al contrario. Perché nel momento stesso in cui mirano ad una tanto elevata armonia queste filosofie non possono dare risposta alla domanda che Dostoevskij mette in bocca ad Ivan Karamazov: “è giusta una armonia che renda tutti felici gli esseri umani ma si basi sul dolore anche di un solo bimbo innocente?”. La contrapposizione fra individui e genere, parte e tutto, non distrugge questa tanto conclamata armonia? Non è quanto di meno armonico si possa concepire? Ed ancora, tutte queste grandi costruzioni metafisiche divinizzano, contro l’individuo, il genere, e fingono di non vedere che non sta scritto da nessuna parte che il genere sia immortale, ignorano l’indifferenza della natura nei confronti delle esigenze più profonde dell’uomo; parlano, a volte, di scienza ma ignorano quasi sempre i risultati delle sue ricerche. Infine, ed è la cosa più importante di tutte, tutte queste sublimi speculazioni metafisiche non possono dire nulla all’uomo che è posto di fronte al fatto tragico della propria morte. Il richiamo al genere, al corso della storia, alla totalità non danno alcun senso alla morte di quella persona lì, non squarciano il mistero del nulla in qui questa sta per dissolversi; e non danno consolazione, non aiutano, non leniscono alcun dolore. E’ possibile sacrificarsi serenamente per qualcosa di cui si vede e si sente l’importanza e la grandezza, per lottare contro un’ingiustizia che si tocca con mano e che si sente intollerabile. Morire felici, per la superiore armonia del tutto o per una assoluta felicità di cui gli uomini godranno fra 10.000 anni è invece impossibile, e quando, per pura ipotesi, sia possibile è indice di nichilismo fanatico, fonte di ulteriori dolori, non di consolazione.

Ma ad esorcizzare la morte sono anche, paradossalmente, alcune filosofie che la mettono al proprio centro. Esemplare e paradigmatica fra queste è la filosofia di Martin Heidegger.
Per Heidegger (e le considerazioni che seguono costituiscono solo telegrafici richiami ad alcuni punti della sua filosofia), per Heidegger si diceva, l’uomo è sempre in una situazione, gettato in essa, è un esserci. L’uomo è nel mondo e progetta la sua vita nel mondo; si rapporta in questo modo attivamente con gli enti del mondo, ne prende cura. Ma in questo riferirsi agli enti l’uomo perde la propria caratteristica principale: quella di essere un ente, l’unico ente, che si pone la domanda sul senso dell’essere. Interessato agli enti e non all’essere l’uomo conduce una vita inautentica, diventa esso stesso ente fra gli enti. La coscienza tuttavia richiama l’uomo all’esistenza autentica, in cui recuperare il rapporto col senso dell’essere. Rapportarsi a questo o a quell’ente, cercare di realizzare questo o quel progetto sono tutte scelte in qualche modo equivalenti. Ogni progetto che si basi sugli enti porta l’uomo a condurre una vita inautentica, lo perde. L’uomo (l’esserci) può recuperare l’autenticità del suo essere solo se concentra la sua attenzione su un evento che segna la radicale impossibilità di ogni progetto, ogni scelta e questo evento è la morte. Io posso non studiare, non lavorare, non amare ma non posso non morire. La morte è la possibilità che rende impossibili tutte le altre possibilità, è ciò che di più essenziale, autentico esiste nell’uomo. L’esistenza autentica è l’essere per la morte, il vivere anticipando nella vita la morte. L’essere per la morte si realizza nel sentimento dell’angoscia. Vivere in maniera autentica significa comprendere angosciosamente che il senso della vita altro non è che la morte. L’angoscia è ben diversa dalla paura della morte che è invece tipica della esistenza inautentica, banale. Chi vive per la morte non la teme ma sa che la finitezza radicale della morte costituisce il senso profondo del suo vivere.
“la morte in quanto possibilità, non offre niente da realizzare all’uomo e niente che esso possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni comportamento verso ogni esistere. Nell’anticipazione questa possibilità si fa sempre più grande, (..) si rivela come la possibilità dell’incommensurabile impossibilità dell’esistenza”. (6) “La morte non offre niente da realizzare all’uomo” afferma Heidegger, ma questo niente è ciò che conferisce senso ed autenticità alla sua vita: “ L’esserci si apre a sé stesso nei confronti della possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter essere sé stesso significa: poter comprendere sé stesso entro l’essere dell’ente così svelato: esistere. L’anticiparsi si rivela come la possibilità della comprensione del poter essere più proprio ed estremo, cioè come la possibilità dell’esistenza autentica”. (7) Aprendosi nei confronti della “possibilità estrema” l’uomo comprende sé stesso entro “l’essere dell’ente”, si rapporta non agli enti e a sé stesso inteso come ente fra gli enti, ma all’essere, all’essenza. Così facendo conduce una vita autentica, non frivola, non banale, fondata sull’angoscia.
In questo modo però, a modestissimo parere di chi scrive, la morte è di nuovo esorcizzata. Da non senso che pressa e circonda il senso, la morte diventa senso, smette di essere l’al di là del limite, al di là misterioso e insensato, per trasformarsi in autenticità della vita. La paura della morte è, appunto, paura di quell’al di là, di quel non senso inconoscibile che, mai esperito, mai neppure detto, ci limita. Ma nella filosofia di Heidegger la paura della morte diventa una forma banale e frivola di angoscia mentre nella vera e non banale angoscia ci si rivela l’autenticità. Vivendo per la morte l’uomo fonda in maniera più solida la propria vita. La cosa è a mio parere tanto più evidente se si considera che per Heidegger “l’essere per la morte non implica alcun atteggiamento di distacco e fuga dal mondo, ma porta l’esserci, affrancato da ogni illusione, nella decisione dell’agire”. (8) Anticipando la morte nella propria esistenza l’uomo non rinnega la volontà di vivere, in questo Heidegger è molto distante da Schopenhauer. In Heidegger non c’è il rifiuto della volontà, né la serenità socratica né l’amletico timore del paese da cui nessuno è tornato. C’è la scoperta di un non senso che nichilisticamente conferisce senso e che spinge all’azione. Senza voler essere ingiusti verso un grande pensatore non si può scordare che Martin Heidegger aderì entusiasticamente al partito nazionalsocialista e in più occasioni assunse atteggiamenti al limite dell’apologetico nei confronti di Adolf Hitler. Se visto in questo senso l’heideggeriano vivere per la morte non può non assumere un colore sinistro.

Le filosofie che mettono al centro l’individuo, o la persona, o il singolo considerano la morte come ciò che di più intimo, personale, privato possa concepirsi. La morte è prima di ogni altra cosa la mia morte, come mia è la vita e miei, miei in sommo grado, sono gli aspetti fondamentali del mio esistere: il rapporto con la mia coscienza, o l’amore, o il sesso. Non sto trattando, né intendo trattare, sia ben chiaro, del problema se la vita sia o meno un bene disponibile, o di temi come l’aborto, l’eutanasia o il suicidio. Il cattolico che consideri indisponibile la vita sosterrà che la vita è un dono di Dio che dobbiamo utilizzare bene, resta pur sempre il fatto che tale dono è nostro e che il rapporto con quel dono è quanto di più intimamente, privatamente nostro si possa immaginare; del resto lo stesso rapporto con la divinità è privato prima che pubblico, riguarda l’intimità della coscienza prima che il rito collettivo.
Le filosofie liberali non dicono molto, in quanto filosofie, sul problema se sia possibile o meno, e come, emanciparsi dalla morte. Molti filosofi liberali sono stati e sono credenti, si pensi a Locke, ma la speranza della salvezza riguarda la loro fede, non i loro sistemi speculativi. Infine, ed è la cosa più importante, le filosofie che privilegiano il singolo non cercano in alcun modo di esorcizzare la morte. Si può sperare ed anche credere nella emancipazione, trascendente, dalla morte ma la pretesa di esorcizzarla è quanto di più pericoloso si possa concepire. Cercare di costruire una società mondana in cui ci si senta liberati dalla paura e dal senso di smarrimento che inevitabilmente la morte induce in noi significa inseguire il più perfezionista, il più utopico e prometeico fra i sogni degli esseri umani. Ed in nome di un simile sogno, ormai dovremmo averlo imparato, si possono commettere le peggiori turpitudini. Nessuno ha fatto scorrere tanto sangue innocente quanto coloro che sognavano l’assoluta felicità umana, nessuno ha causato tante morti quanto coloro che volevano liberare l’umanità dal male oscuro della morte. Il trionfo sulla morte ha finora sempre coinciso col trionfo della morte.

A modesto parere di chi scrive ogni filosofia che riconosca francamente i limiti dell’uomo non può teorizzare che il tentativo di convivere con la morte. La morte è il limite pauroso dell’esistere ma non annulla l’esistere. Non è senso, è mancanza di senso, ma non ci impedisce di dar senso ai nostri giorni. Se proiettata oltre sé stessa la vita non ha senso o, quando lo ha, si tratta di un senso del tutto privo della dimensione individuale, privata. Una grande opera letteraria parla nel tempo del suo autore, ha un senso che va oltre la vita di chi la ha composta, ma si tratta di un senso che per l’autore non ha ormai nessuna importanza, un senso che l’autore non vive, non fa proprio, forse neppure avrebbe condiviso. La “nona” di Beethoven o la Critica della ragion pura di Kant hanno, oggi, senso per noi, continueranno ad averne nella storia della filosofia e della musica. I loro autori però sono fuori dal senso delle loro opere, ne sono fuori irrimediabilmente, per sempre. L’immortalità del grande uomo è una immortalità fasulla, non emancipa dalla morte, nessuno può esserne emancipato. Nessuna emancipazione quindi (solo Dio può emancipare dalla morte, ma, qui entra in gioco la fede...) ma tentativo di dare comunque senso al nostro vivere. Perché, se è vero che proiettata oltre sé stessa la mia vita è insensata è anche vero che non sono insensate le cose che faccio nella vita. Il mio relazionarmi agli altri, parlare, scrivere, amare, aver avuto dei figli, averli educati, lavorare, tutte queste cose non sono un banale agitarsi, un frivolo cercare di distrarsi per non pensare alla morte, come direbbe Pascal. No, sono il senso del mio esistere, senso più o meno grande, più o meno importante ma senso, significato. Il senso della vita sta nel viverla. E di questo senso fanno parte, è vero, la nostra caducità, la morte che ci pressa col suo non senso, e la nostra paura della morte, ed il pensiero angoscioso dell’annichilimento che ci attende. Ma tutto questo non annulla la gioia, o la serenità, o le soddisfazioni che la vita ci può dare. Non rende la vita un inferno pervaso di angoscia, non toglie importanza a quanto, tanto o poco, nella vita riusciamo a realizzare. Avere un figlio, allevarlo, educarlo, aiutarlo a diventare una persona matura e responsabile sono cose che danno senso ai miei giorni, anche se un giorno morirò e dopo di me morirà mio figlio e poi il suo ancora. E danno senso il parlare con una persona che si sente amica, il confrontarsi, il porsi degli obiettivi ed il cercare di raggiungerli. Ed ha anche senso, forse, la malinconia che a volte ci pervade, la stessa sottile insoddisfazione che accompagna lo scorrere del tempo, e quella sensazione che tante volte ci coglie di non aver raggiunto tutto ciò che, forse, potevamo raggiungere. Vivere il meglio possibile la vita vuol dire evitare l’ottimismo beota come la disperazione nichilista, l’atteggiamento frivolo di che cerca di stordirsi per non pensare alla fine, come il macerarsi autodistruttivo. Certo, oltre a questo resta la fede, e con la fede la speranza, ma questo può riguardare solo chi la ha, fede. Altro non si può dire, a mio parere. Tutti qui? Si potrebbe obiettare. Si, tutto qui. Non si tratta di conclusioni molto originali, me ne rendo conto, soprattutto, non si tratta di considerazioni che possano in qualche modo risolvere il problema che si è cercato di affrontare. Ma è davvero risolvibile un tale problema?



Note


1) Fung Yu lan: Storia della filosofia cinese. Mondadori 2004 pag. 88.


2) Platone: Apologia di Socrate. In “I grandi filosofi: Socrate”. Ed. Il sole 24 ore 2006 pag 420


3) Platone: Fedone. Ibidem pag. 528.


4) Ludwig Wittgenstein: Tractatus logico philosophicus. Einaudi paperbacks 1984 pag. 80


5) William Shakespeare: Amleto. Oscar classici Mondadori 2007. Pag. 133 – 135.


6) Martin Heidegger: Essere e tempo, Longanesi 1976 pag. 319


7) Ibidem pag. 319


8) Ibidem pag. 374