mercoledì 27 dicembre 2017

PALLE SU GERUSALEMME

Gerusalemme è una città santa per le tre religioni monoteiste.
Questo è come minimo inesatto. Gerusalemme è di certo città santa per l'ebraismo ed il cristianesimo. Lo è anche per l'Islam solo perché i musulmani la conquistarono oltre sei secoli dopo la morte di Cristo e, come pare sia loro abitudine, la dichiararono città santa per l'Islam. Secondo un simile criterio un giorno anche Roma potrebbe diventare città santa per l'Islam...

La risoluzione ONU del 1947 prevedeva uno statuto speciale per Gerusalemme. Questo viene violato dichiarando Gerusalemme capitale di Israele.
La risoluzione ONU del 29 Novembre 1947 prevedeva la creazione di due stati: Israele ed uno stato arabo; Gerusalemme avrebbe dovuto avere uno statuto speciale. Quella risoluzione fu accettata dagli dagli ebrei e rifiutata dagli arabi che iniziarono subito la guerra contro Israele. Gerusalemme fu attaccata dalle truppe Giordane e la sua parte orientale conquistata. La risoluzione del 1947 è stata stracciata dagli arabi. Chiedere che si ritorni a quella risoluzione sarebbe come se nel 1945 la Germania avesse chiesto che tornasse in vigore l'accordo di Monaco del 1938. La cosa è ancora più assurda se si pensa che neppure oggi gli arabi riconoscono la risoluzione 181 del novembre 1947. Infatti non riconoscono Israele e vorrebbero che Gerusalemme fosse capitale della Palestina. L'unico stato arabo che riconosce Israele, l'Egitto, non chiede, com'è del tutto ovvio, il ritorno alla situazione del 1948.

Gerusalemme deve essere aperta ai fedeli di tutte le religioni.
Verissimo, e lo è da quando, nel 1967, gli israeliani hanno strappato armi alla mano la città vecchia ai giordani. Nel periodo fra il 1948 ed il 1967 Gerusalemme è stata divisa e i luoghi santi aperti ai soli musulmani. Durante l'occupazione giordana vennero distrutte le 36 (trentasei) sinagoghe di Gerusalemme est.
Oggi, con Gerusalemme capitale di Israele, tutti i fedeli di tutte le religioni hanno libero accesso ai luoghi sacri. Se Gerusalemme diventasse capitale di un ipotetico stato palestinese la situazione cambierebbe radicalmente.

Gerusalemme dovrebbe diventare capitale di due stati: Israele e la Palestina.
A parte le precedenti considerazioni, i palestinesi NON riconoscono Israele. Hammas ne teorizza la distruzione, punto e basta. La ANP non parla di distruzione di Israele ma ne subordina il riconoscimento al rientro in terra israeliana di quattro, cinque milioni di profughi. Un po' come se un qualsiasi stato si impegnasse a riconoscere diplomaticamente l'Italia in cambio del rientro nel nostro paese di 40 milioni di “profughi”, cioè di figli, nipoti e pronipoti di persone che cinquanta o settanta anni fa preferirono abbandonare l'Italia. Un simile “riconoscimento” significherebbe la fine di Israele per quello che oggi questo paese è: lo stato che ha dato rifugio e protezione al popolo più perseguitato della storia.

Con la sua decisione Trump ha compiuto il “miracolo” di unificare gli stati arabi.
La risoluzione dell'ONU del 1947 che dava vita allo stato di Israele ha “unificato” gli stati arabi. Quando Israele nel 1967 ha sconfitto chi intendeva distruggerlo ha “unificato” gli stati arabi. Tutte le volte che Israele si difende “unifica” i suoi nemici. Li “unifica” per il semplice fatto di esistere. Israele scompaia dalla faccia della terra, in questo modo gli stati arabi non saranno più “unificati”. Ottima tattica!
Tra l'altro priva di fondamento. Gli stati arabi non sono stati affatto unificati dalla decisione di Trump, neppure sul tema caldo dei rapporti con Israele. Non hanno formato alcuna unione sacra né preso misure di ritorsione contro gli USA. Per ora ci sono state solo scontate proteste verbali, un bel po' di propaganda e qualche casino in piazza. In passato si era visto di molto peggio!

La decisione di Trump allontana la pace, rende più difficili i negoziati.
Quale pace, quali negoziati? Il nodo del problema non sono i territori o la stessa Gerusalemme. Il nodo è ISRAELE, il suo riconoscimento per quello che questo stato è: la patria degli ebrei. Il rifiuto di un simile riconoscimento da parte palestinese è totale. Parlare di pace che si allontana, negoziati che diventano impossibili è quindi pura, assoluta ipocrisia.
A parte questo, dove sta scritto che mostrarsi decisi allontana la pace? E' vero esattamente il contrario, è la politica della ritirata continua che allontana la pace e favorisce la guerra; lo dimostrano gli eventi che hanno preceduto lo scoppio del secondo conflitto mondiale. E lo dimostrano, al contrario, le vicende del rapporto fra Israele ed Egitto. L'Egitto ha combattuto tre guerre contro Israele e le ha perse tutte. Alla fine il leader egiziano Sadat ha compiuto un atto di coraggio e realismo ed ha riconosciuto lo stato ebraico, ricevendo in cambio il Sinai perso nella guerra dei sei giorni. Da allora è stata pace fra Israele ed Egitto. Però... però quando, nel 1967, Israele sconfisse gli aggressori egiziani i “realisti” occidentali parlarono di gesto che “allontanava la pace, rendeva impossibili i negoziati” e cose di questo genere...

Gerusalemme era già la capitale di Israele. Non occorreva che Trump peggiorasse le cose.
Cosi ragionano alcuni filo israeliani a cui Trump proprio non va giù. Gerusalemme deve essere la capitale di Israele, ma nessuno la deve riconoscere come tale. Deve esserlo in silenzio, di nascosto. Un po' come se il governo italiano pregasse i governi degli altri stati di non dire che Roma è la capitale d'Italia. “Roma è la nostra capitale, ma voi dite che la capitale è Casalpusterlengo”! Davvero fantastico!



Esiste il problema di Gerusalemme est e questo deve essere risolto da negoziati fra israeliani e palestinesi.

Trump si è limitato a riconoscere la realtà, cioè che Gerusalemme è la capitale di Israele, con i luoghi santi aperti a tutti. Ha esplicitamente lasciato a palestinesi ed israeliani il compito di definire i confini e lo status di Gerusalemme est.

Proviamo a metterci nei panni dei palestinesi...

E perché i palestinesi non provano una volta tanto a mettersi nei panni degli ebrei e degli israeliani? Assumere il punto di vista dell'altro è pratica lodevole, ma non può essere limitata ad una parte sola.

Per i palestinesi la nascita di Israele è stata una catastrofe, figuriamoci Gerusalemme capitale...
Perché mai la nascita, in un territorio enorme, di uno stato grande quanto la Lombardia, in una terra desertica, priva di ricchezze naturali, uno stato che sin dall'inizio ha garantito a tutti i suoi cittadini, ebrei o musulmani che fossero, tutti i fondamentali diritti, a partire dal diritto di praticare il proprio culto, perché mai la nascita di questo stato deve essere considerata una catastrofe? Non esistono spiegazioni economiche, sociali, politiche o nazionali per una simile reazione, tanto più che la nascita di Israele è stata accompagnata dalla nascita di uno stato arabo palestinese. L'unica spiegazione va cercata nel fondamentalismo religioso. Ma, con tutta la buona volontà di questo mondo, una simile motivazione non può essere condivisibile.

Tanto basta, direi.

venerdì 15 dicembre 2017

ABRAHAM YEHOSHUA: UN EBREO ISRAELIANO CONTRO ISRELE, E GLI EBREI


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Abraham B. Yehoshua ha assunto ultimamente alcune posizioni nettamente anti israeliane. Prima ha dichiarato di non essere più favorevole alla formula “due popoli due stati”. Occorre fondare uno stato binazionale che “superi” l'attuale Israele, ha detto. Poi ha assunto una posizione molto dura sulla decisione di Trump di riconoscere che Gerusalemme è la capitale di Israele, arrivando a paragonare il presidente americano a Nerone.
Yehoshua è uno scrittore importante, un intellettuale vero. Non è possibile sbarazzarsi delle sue posizioni con una alzata di spalle. Come mai un ebreo, israeliano, di Gerusalemme e, almeno in passato, sionista è arrivato ad assumere posizioni di fatto coincidenti con quelle dei peggiori nemici di Israele? Penso che possa aiutarci a capirlo un breve testo che lo scrittore ha dedicato anni fa all'antisemitismo: “Antisemitismo e sionismo”, Einaudi 2004.

La tesi che Yehoshua sostiene in questo suo scritto è molto chiara, anche se nascosta da ragionamenti spesso piuttosto contorti: sono gli ebrei i responsabili dell'antisemitismo, o, quanto meno, fra le responsabilità dell'antisemitismo alcune, ed importanti, riguardano direttamente gli ebrei, la loro tradizione, la loro cultura. Si, lo so, sembra incredibile che uno scrittore ebreo israeliano sostenga una tesi simile, ma le cose stanno esattamente così. Per rendersene conto occorre analizzare il contenuto del libro di Yehoshua.
Già il punto di partenza del romanziere di Gerusalemme è assai discutibile.
“La lezione della Shoa”, afferma, “ci costringe a compiere uno sforzo intellettuale maggiore per capire (ma, Dio ce ne guardi, non per giustificare) il meccanismo patologico che porta degli esseri umani a commettere crimini tanto orribili contro gli ebrei” (1).
“Capire ma non giustificare”, sembra quasi un mettere le mani avanti... Proseguiamo.
Una parte del processo che ci dovrebbe portare a “capire senza giustificare” l'antisemitismo, riguarda, a parere di Yehoshua, “la realtà ebraica e il modo in cui essa interagisce con il mondo che la circonda” (2).
Uno studio sulla cultura antisemita dovrebbe partire dalla analisi dell'antisemitismo. Dovrebbe cercare di capire dove affonda le sue radici questo autentico cancro dell'occidente, e non solo, quali mitologie, quali deliri irrazionalisti lo alimentano. Dovrebbe insomma partire dalla analisi della cultura dei carnefici e solo in seconda, o in terza, battuta dovrebbe occuparsi di quella delle vittime. Yehoshua fa esattamente il contrario. Tutta la sua attenzione è rivolta allo studio della identità ebraica, ed è in questa che il nostro autore cerca le cause profonde dell'antisemitismo.
“E' quindi necessario discendere fino alle radici dell'identità ebraica, scavare in profondità, per capire la pericolosa interazione patologica che talvolta si crea fra gli ebrei ed i loro vicini” (3).
Insomma, per capire l'antisemitismo occorre prima di tutto capire gli ebrei. Curiosa posizione, che ricorda i deliri di tanti occidentali che per capire il terrorismo islamico analizzano le “colpe” storiche, e non solo, dell'occidente.

Quale è la causa profonda dell'antisemitismo? Yehoshua rifiuta le tesi di chi vede in questo fenomeno una conseguenza dell'invidia che molti proverebbero nei confronti degli ebrei. E' vero che spesso gli ebrei sono riusciti a conquistare posizioni di assoluto prestigio nelle società che li ospitavano, ma a livello di massa sono rimasti una minoranza emarginata e molto spesso assai povera. Pensare che un gran numero di esseri umani potessero provare invidia nei confronti di persone in un simile stato è completamente fuorviante.
Alle radici dell'odio antisemita non sta l'invidia, sta qualcosa di più profondo, afferma Yehoshua: la paura. Gli ebrei fanno paura: questa la tesi di partenza di Abraham Yehoshua. Quale che sia la sua validità, fa sorridere che lo scrittore israeliano non si renda conto che contro la tesi della paura si possono avanzare le stesse obiezioni che è possibile avanzare contro quella dell'invidia. Chi invidierebbe una comunità di emarginati, poveri ed umiliati? Si chiede polemicamente Yehoshua. Ma con altrettante ragioni ci si può chiedere: a chi dovrebbero davvero far paura questi emarginati, umiliati e poveri?
Ma questi in fondo sono dettagli. Il punto fondamentale è legato alla domanda: perché mai gli ebrei farebbero paura? Quale è la causa di questo insano sentimento che starebbe dietro a tanti secoli di persecuzioni? La causa, risponde Yehoshua, va cercata dentro la identità ebraica, nella sua caratteristica principale. La causa è costituita dalla identificazione fra religione e nazionalità che, per Yehoshua, è tipica degli ebrei e solo di loro.

Nella storia dell'occidente la nazione non si è mai identificata con la religione. Una religione, molte nazioni, e, al converso, una nazione, molte religioni sono i due fenomeni che per Yehoshua  hanno caratterizzato la storia occidentale. Per gli ebrei questo non è avvenuto. I legami nazionali fra gli ebrei sono oltremodo labili. Poco o nulla accomunava un povero contadino ebreo russo ad un ricco imprenditore ebreo statunitense. Il loro solo legame era religioso. In occidente si sono avute numerose nazioni cristiane, o addirittura cattoliche, e, per converso, all'interno di ogni nazione hanno convissuto membri di religioni diverse. Questo non è avvenuto per gli ebrei. In loro una estrema labilità dei legami nazionali ha sempre convissuto con un nucleo culturale unificante costituito dalla religione.
Di nuovo, la ricostruzione di Yehoshua appare quanto meno fortemente lacunosa. Che i legami nazionali fra gli ebrei siano sempre stati assai labili è vero, ma questo può dirsi di molte altre, se non di tutte, le nazionalità. E in tutte le nazionalità la religione è stata quanto meno uno degli elementi unificanti fra le persone. Ed è vero che sono esistite ed esistono molte nazioni caratterizzate dall'avere una unica religione, il cristianesimo ad esempio, ma questa è la naturale conseguenza del fatto che tale religione si è diffusa enormemente ed ha conquistato centinaia di milioni di esseri umani, che si sono organizzati in stati nazionali indipendentemente dalla religione di appartenenza; come si vede una situazione del tutto diversa da quella degli ebrei, piccolissima minoranza della popolazione mondiale. Non è vero invece che il principio “una nazione molte religioni” sia sempre stato applicato in occidente. E' vero esattamente il contrario. Basta pensare alle interminabili guerre di religione, ai massacri di “infedeli”,
alle innumerevoli persecuzioni degli ebrei di cui sono piene le storie dell'occidente e dell'islam, per rendersi conto che l'esclusivismo religioso non è di certo un monopolio ebraico, al contrario. Escludere dalla nazione i fedeli di altre religioni è stata una caratteristica peculiare della cristianità e dell'islam. Solo recentemente, e solo in occidente, questa è stata superata. Ed è stata superata anche dagli ebrei, anzi, da loro meglio che da altri.

Proseguiamo. L'identità ebraica, fondata sulla identificazione fra religione e nazionalità è nel contempo forte e sfuggente, evanescente e solida. Una sorta di identità virtuale, una presenza inafferrabile ma estremamente reale che spaventa, fa paura a chi ebreo non è. Lasciamo di nuovo la parola a Yehoshua. “La componente virtuale presente nell'ebreo, sviluppatasi intorno al doppio nocciolo, durissimo e denso, di nazionalità e religione, gli permette quindi di tendere le ali della sua identità sino a limiti distanti e indefiniti, rendendole sottilissime e facendo si che penetrino con facilità nell'identità di altri popoli senza che questi siano sempre in grado di riconoscere ciò che è insinuato in loro e senza la certezza di poterlo assimilare in modo soddisfacente” (4). Spiace dirlo ma qui Yehoshua sembra fare propri i peggiori miti dell'antisemitismo classico. La figura dell'ebreo forte e sfuggente, che si insinua ovunque ed ovunque tutto corrompe è stata caratteristica del nazismo, Yehoshua di certo lo sa bene. Non è allora un caso, forse, se si sente in dovere di specificare che tutto questo non giustifica in alcun modo gli antisemiti: “La comprensione del processo di interazione fra l'immaginario ebraico e quello gentile non assolve gli antisemiti dalla responsabilità morale dei loro crimini” (5)
Insomma, l'identità ebraica è tale da spaventare, fa paura, ma questo non giustifica chi reagisce in maniera inconsulta a questo sentimento, per il resto legittimo. La precisazione di Yeoshua sa tanto di “exusatio non petita”.
Del resto, se, a parere di Yehoshua, il carattere “pauroso” della identità ebraica non giustifica gli antisemiti e le persecuzioni, queste non eliminano le responsabilità degli ebrei. Lo stesso atteggiamento degli ebrei nei confronti dell'antisemitismo “risulta” dice Yehoshua, “piuttosto complesso. Da un lato vi è la rabbia e la paura, dall'altro un bisogno fortissimo di occuparsi di questo fenomeno, di ingigantirlo (!), perché serva da cemento rinsaldante nell'infrastruttura della elusiva identità ebraica”. (6)
Gli ebrei che che “ingigantiscono” il fenomeno dell'antisemitismo per rinsaldare la loro unità! Parole che ricordano le farneticazioni di un Ahmadynejad!
Ma non è tutto. L'identità insieme coesa e sfuggente degli ebrei costituisce per Yehoshua una sorta di chiave miracolosa in grado di spiegare tutto o quasi della vicenda del popolo più perseguitato della storia. La diaspora, ad esempio, non fu imposta agli ebrei, fu una loro scelta dolorosa “nevrotica, compiuta (…) perché, malgrado i i rischi, le sofferenze e le umiliazioni che essa comportava aiutava a risolvere il peso del conflitto (e del paradosso) insito nella loro identità. Solo nella diaspora infatti poteva sussistere un modus vivendi, uno status quo, una tregua tra i due diversi codici di comportamento: quello nazionale e quello religioso” (7).
Una nazione che si definisce soprattutto in base alla religione poteva vivere come tale solo nella diaspora! Come mai allora questa nazione - religione ebbe per secoli un proprio regno? E come mai nella diaspora nacque e si alimentò l'ideale sionista che tendeva appunto a dare una patria agli ebrei? Chi cercasse nel testo di Yeoshua una risposta a queste ovvie domande resterebbe molto deluso.

Non stupisce, date simili premesse, la conclusione a cui arriva Yeoshua. Val la pena di citare per esteso il brano che costituisce il punto centrale di tutto il suo discorso.
“Nel corso della storia anche noi ebrei siamo diventati cittadini di altre nazioni esigendo, a ragione, pieni diritti. Se altri popoli si fossero comportati come noi, vincolando l'appartenenza alla nazionalità a quella di una particolare religione, ciò non sarebbe stato possibile e noi avremmo dovuto abbandonare la diaspora e fare ritorno alla terra di Israele, oppure rassegnarci ad una condizione di eterni stranieri . In altre parole siamo noi a violare il principio di reciprocità nei confronti degli altri popoli e questo è moralmente sbagliato” (8 - sottolineatura mia).
Sarebbe fin troppo facile rispondere a queste incredibili affermazioni di Yehoshua ricordandogli che per secoli gli “altri popoli” non hanno affatto concesso agli ebrei i “pari diritti”, ed in medio oriente questi non vengono loro concessi neppure oggi. O che il “ritorno alla terra di Israele” è stato per secoli una scelta tragicamente impossibile, o ancora che poche minoranze hanno cercato con più convinzione di quella ebraica di integrarsi nei paesi di appartenenza, e nessuna di loro ha dato alla cultura di questi paesi un contributo paragonabile neppure alla lontana con quello della comunità ebraica. Sarebbe facile, ma non basta.

Al di la di tutte le polemiche occorre misurarsi con il piccolo grumo di verità che sta dentro le argomentazioni di Yehoshua, tipico grumo di verità che serve sempre a mascherare e a rendere più digeribili le peggiori menzogne.
E' vero che nella definizione della identità nazionale ebraica la religione gioca un ruolo maggiore che non in quella di altre nazioni. In questo non c'è nulla di strano o negativo. Cosa caratterizza l'identità nazionale? Un insieme di fattori che, a ben vedere e cose, variano da nazione a nazione. Linguaggio, storia, legame con un territorio, tradizioni, usi e costumi, valori condivisi, religione. In una certa nazione prevalgono certi fattori, in un'altra certi altri. Certe nazioni sono deboli perché sono deboli i legami che le uniscono. Nell'Islam ad esempio il legame nazionale è secondario rispetto a quello religioso che unifica o divide i musulmani indipendentemente dal fatto che siano iracheni o iraniani, sauditi od algerini. Nei paesi occidentali sono importanti i legami linguistici, territoriali e storici, del resto erosi da processi migratori incontrollati. Gli ebrei sono stati divisi, sparsi per il mondo, privi di un loro territorio, per circa due millenni. Nulla di strano se hanno potuto, e saputo, conservare la loro identità proprio riferendosi alla comune religione ed alla tradizione ad essa connessa. In questo non c'è nulla di particolarmente negativo, nulla che richiami ad alcun esclusivismo settario. Se una nazione si definisce prevalentemente in base alla tradizione religiosa è chiaro che chi non fa parte di quella tradizione non fa parte di quella nazione, esattamente come una nazione che si definisca prevalentemente in base alla lingua non può considerare suoi membri coloro che non parlano quella lingua.
Il richiamo alla comune tradizione ha permesso agli ebrei, a tutti gli ebrei, compresi quelli non credenti o agnostici, di conservare la loro identità. Ma questo non ha impedito loro di integrarsi nei paesi di appartenenza, di diventare, rimanendo ebrei, ottimi cittadini tedeschi, o francesi o americani e di dare, val la pena di ripeterlo, alla cultura, alla politica, all'arte, alla musica, alla economia, dei paesi ospitanti un contributo che è impossibile sopravalutare; un contributo talmente grande che i paesi che hanno cacciato gli ebrei sono stati profondamente danneggiati dalla loro scelta sciagurata.
E il legame con una tradizione prevalentemente religiosa non ha impedito agli ebrei, quando questi hanno finalmente avuto un loro stato, di organizzare in maniera laica, democratica e liberale le relazioni fra i cittadini. Certo, un musulmano od un buddista israeliani non possono definirsi ebrei, come potrebbero? Ma possono definirsi israeliani e come tali hanno tutti i diritti ed i doveri di tutti i cittadini israeliani, ovviamente se non seguono le sirene del fondamentalismo omicida. Il problema vero non è costituito da quale sia il cemento che fa si che una nazione sia tale. Il problema davvero importante è costituito da come questa nazione organizza il proprio stato, se ne ha uno, dai diritti e dai doveri che in questo stato sono concessi ai cittadini, per farla breve, dai livelli di libertà, democrazia, diritti civili che lo caratterizzano. E in questo gli ebrei, ed il loro stato, non devono ricevere lezioni da nessuno.

Yehoshua è probabilmente un liberal e come tale deve trovare particolarmente insopportabile il fatto che una nazione possa definirsi soprattutto in base al legame con una tradizione religiosa. Ed è automaticamente portato a collegare un simile tipo di identità nazionale con l'esclusivismo, il separatismo e chissà, forse, sotto sotto, con una inconfessabile capacità di corrompere ogni ambiente sociale.

Gli ebrei hanno saputo conservare la loro identità riuscendo nel contempo ad integrarsi ampiamente nelle società ospitanti. Questa loro caratteristica positiva è stata invece fonte di sospetto ed ostilità. E' questo che andrebbe analizzato, questo il problema, il male misterioso da cercare di capire. Yeoshua invece preferisce mettere sul banco degli imputati la "identità ebraica", la sua identità. Come un grande ebreo antisemita, Karl Marx, anche Yehoshua pensa probabilmente che esista una “questione ebraica” ed ha un suo modo di risolverla: eliminare il legame fra nazione e religione ebraica. Se l'ebraismo è nazionalità, “allora che sia tale, senza alcuna condizione di credo religioso. E se religione allora che sia aperta anche a persone di altra nazionalità” (9).
Insomma, lo scrittore di Gerusalemme propone che l'ebreo cessi di essere tale, visto che in tutte le pagine del suo saggio, ed in molti dei suoi romanzi, non fa altro che mettere in risalto il legame fra ebraismo e tradizione religiosa. Non c'è nulla di male in questa proposta, sia ben chiaro. Le identità culturali e nazionali, religiose o non religiose che siano, possono nascere e morire, rinforzarsi e dissolversi. Solo, appare strano che un ebreo si auguri la dissoluzione dell'ebraismo nel momento stesso in cui questo è sotto attacco da parte del fondamentalismo islamico. Ed è semplicemente indecente che si ritenga di aver trovato nella tradizione ebraica la causa vera di due millenni di persecuzioni.
Soprattutto, questa visione “liberal” è alla base delle proposte politiche di Yehoshua riguardo ad Israele. Come si è detto Yehoshua non crede più alla prospettiva "due popoli due stati", al suo posto propone una Israele (magari con un nome di verso) binazionale, uno stato ebraico – palestinese del tutto diverso da ciò che Israele è oggi ed è stato nei settanta anni della sua vita.
Israele è già ora uno stato liberal democratico, plurinazionale e tollerante in materia religiosa. Da questo punto di vista la proposta di Yehoshua non contiene nulla di nuovo. Ma è anche lo stato che ha dato rifugio e protezione al popolo più perseguitato della storia. E' potuto essere questo, anche se molti suoi cittadini non ebrei ne sognano la fine, perché la sua componente ebraica è sempre stata largamente maggioritaria. Ora Yehoshua propone candidamente una Israele abitata da, diciamo, sei milioni di ebrei e dieci milioni di palestinesi, senza minimamente chiedersi quale sarebbe in un simile stato il destino degli ebrei. Da buon “liberal” immagina che tutti gli esseri umani basino le loro azioni sulla tolleranza, il rispetto, il riconoscimento reciproco e paritario di diritti e doveri. Ed è convinto che per nessuno la religione si trasformi in politica, che nessuno vagheggi in qualche modo la teocrazia. Insomma, crede che il mondo sia abitato da liberal come lui, con qualche eccezione, ad esempio i cattivissimi Trump e Nattanyauh. Così può favoleggiare su uno stato “palestinese” simile ad una sorta di Svizzera medio orientale, senza integralismi, odi religiosi, pieno di amore di tutti per tutti. Un quadretto che farebbe solo ridere se non nascondesse una realtà tragica. La “Svizzera medio orientale” vagheggiata da Yehoshua sarebbe il teatro di nuove persecuzioni anti ebraiche, forse di un nuovo olocausto. Ma questo non preoccupa il nostro “liberal”. Come tanti altri occidentali politicamente corretti anche lo scrittore israeliano si è costruito un islam moderato, laico, tollerante e lo ha messo al posto di quello reale. Nel caso di Yeoshua questa immagine melensa e zuccherosa viene a sostituire una realtà che più che altrove è impastata di violenza, intolleranza, antisemitismo violento e fanatico. E questo non depone a favore dello scrittore, ovviamente.

Abraham B. Yehoshua è uno scrittore importante, val la pena di ripeterlo. Un romanzo come “Il signor manu” ricostruisce a ritroso il formarsi della identità ebraica con ammirevole acutezza e disincanto. Per questo le sue posizioni sono particolarmente gravi e destinate ad offrire spunti ed armi polemiche ai nemici di Israele. Non quelli che vogliono uno “stato binazionale”: non esistono troppi personaggi simili, a parte Yehoshua ed altri intellettuali lontani dal mondo. Le offrono a coloro che oggi strillano “Palestina libera”, intendendo con questo la fine dello stato di Israele, o che vogliono “buttare a mare” gli ebrei. Nel loro sonno politicamente corretto persone come Yehoshua non si avvedono di questi personaggi, li hanno eliminati dalla scena. La scena però è loro, piaccia o non piaccia la cosa agli intellettuali del politicamente corretto. Per questo noi, che intellettuali non siamo, che non abbiamo l'erudizione profonda né la grande abilità nello scrivere che invece è patrimonio di Yehoshua, abbiamo tutto il diritto di dire a questo signore: “la rispettiamo come scrittore, ma ci permettiamo di non rispettare affatto le sue considerazioni storiche e filosofico politiche.”
Torni ai suoi romanzi, è molto meglio!




NOTE

1) Abraham B. Yehoshua: Antisemitismo e sionismo, Einaudi 2004 pag. 28.
2) Ibidem pag. 28
3) Ibidem pag. 29
4) Ibidem pag. 49
5) Ibidem pag. 55
6) Ibidem pag. 47
7) Ibidem pag. 79
8) Ibidem pag. 81.
9) Ibidem pag. 89