giovedì 31 ottobre 2013

IL GRANDE INQUISITORE. DOSTOEVSKIJ E IL MALE




Quasi tutti i critici considerano l’episodio del dialogo fra Alesa e Ivan come la parte più bella del capolavoro di Dostoevskij “I fratelli Karamazov”, l’autentico apogeo e forse la chiave di lettura del grande romanzo. I due fratelli si incontrano in una trattoria e, dopo aver scambiato alcune parole su loro stessi, sul padre e sul fratello Dimitri, affrontano un problema di rilevanza estrema: l’esistenza di Dio.
Ivan Karamazov non nega l’esistenza di Dio. Può essere che Dio esista, anzi di certo egli esiste, ed esiste certamente un disegno divino volto ad instaurare nel mondo una superiore armonia, giustizia assoluta e universale felicità; ma, “immagina ora”, afferma Ivan rivolto ad Alesa, “che questo mondo creato da Dio, nel suo risultato finale, io non lo accetti e benché sappia che Egli esiste, non possa assolutamente approvarlo. Non è che non accetti Dio, intendi bene questo punto: è il mondo da lui creato, questo mondo di Dio che io non accetto e non posso piegarmi ad accettare. Mi spiego meglio: io sono convinto come un bambino che i dolori si rimargineranno e dilegueranno, che tutta l’avvilente commedia delle contraddizioni umane svanirà come un pietoso miraggio (…) che da ultimo, nel finale universale, nel momento della eterna armonia, avverrà e si svelerà qualcosa di tanto prezioso, che sarà sufficiente a bilanciare tutti i corrucci, a placare tutti gli sdegni, a riscattare tutti i delitti degli uomini, tutto il sangue sparso da loro, e sarà sufficiente non solo a perdonare, ma perfino a giustificare tutto ciò che è accaduto nella storia degli uomini; si, si, tutto questo avvenga pure e si sveli; ma io non lo accetto e non voglio accettarlo!” (1).
Il disegno divino è sublime, si colloca su un piano immensamente più elevato di quello accessibile alla ragione umana, un po’ come le geometrie non euclidee ci parlano di uno spazio di cui l’umana sensibilità non riesce a farsi una rappresentazione. Ma Ivan, il limitato, “euclideo” essere umano Ivan Karamazov, non può né, soprattutto, vuole accettare questo disegno, perché? La sublime bellezza del disegno divino si scontra con un fatto, un fatto duro che non è possibile rimuovere, un fatto che non si fa riassorbire in alcuna superiore armonia: il dolore, il dolore degli innocenti, dei bambini. “Posto che tutti si debba soffrire, per comprare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano però i bambini, me lo dici tu per favore? E’ assolutamente incomprensibile perché debbano soffrire anch’essi e perché, essi, debbano comprare quell’armonia con le sofferenze” (2). Paghi chi è colpevole di qualcosa per la futura, universale felicità; è comprensibile la solidarietà nel peccato fra i peccatori, ma perché deve pagare chi è innocente, chi non ha mai fatto male alcuno? Ivan narra ad Alesa la storia del piccolo servitore di un potente signore; il fanciullo, di non più di otto anni, tirando un sasso inavvertitamente ferisce la zampa di uno dei levrieri del padrone. Furibondo il signore fa sbranare il povero bimbo dalla muta dei suoi cani. Ecco, questo evento, questo evento terrificante, non quadra, non si accorda con alcuna armonia, rende impossibile ogni pacificazione, ogni universale perdono. “Certo, quando la madre s’abbraccerà con l’aguzzino che ha fatto sbranare dai cani il figlio suo, e tutt’e tre inneggeranno fra le lacrime: giusto sei tu o signore, allora si toccherà l’apice della conoscenza e tutto sarà chiarito. Ma appunto qui è l’inciampo, appunto questo io non posso accettare (…) a questa suprema armonia oppongo un netto rifiuto. Non vale essa le povere lacrime foss’anche di quel bambino solo (…) non vale, perché queste piccole lacrime rimarranno irriscattate (…) io non voglio insomma che la madre s’abbracci col carnefice che ha fatto sbranare suo figlio dai cani! Essa non deve osare perdonargli! (..) le sofferenze di quel bambino sbranato essa non ha il diritto di perdonarle (…) esiste forse, in tutto l’universo un essere che avrebbe la possibilità e il diritto di perdonare?” (3).

Chi ha diritto di perdonare? Si chiede, per bocca di Ivan, Dostoevskij e basta questa domanda per misurare la distanza abissale che separa il grande romanziere dal buonismo imbecille dei nostri giorni in cui invece tutti si pongono, senza pensarci su troppo, la domanda opposta: “chi ha diritto di condannare?”. Pace, armonia, perdono, amore universale! Che belle parole, che nobili ideali, ma… e le vittime? E le vittime innocenti, le loro lacrime, il loro sangue? Non rovinano quelle lacrime e quel sangue l’armonia, il perdono, la pace?
“Supponi” chiede Ivan ad Alesa “che fossi tu stesso ad innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno solo una minuscola creatura (..) e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni? Parla senza mentire.
- No, non consentirei – disse piano Alesa” (4)
Alesa risponde no alla domanda del fratello e quel no costituisce un colpo formidabile non solo a tutte le etiche fondate sull’utilitarismo ma anche, soprattutto direi, ad ogni forma di futurismo rivoluzionario. In questo brano splendido Dostoevskij sembra intravedere il futuro del suo paese, quando non uno ma milioni di bambini (e non solo di bambini) saranno condannati ad atroci sofferenze in nome della illusoria e mai realizzata felicità delle future generazioni. Ma Alesa non si limita a rispondere no, replica al fratello: per Alesa esiste un uomo che ha il diritto di perdonare: Gesù Cristo. Lui può perdonare, può farlo perché, assolutamente innocente, si è fatto carico dei peccati di tutti, li ha presi su di sé ed ha pagato per tutti, per tutti i colpevoli della storia (solo Dio può perdonare, di nuovo si noti la differenza fra il pensiero di Dostoevskij ed il chiacchiericcio di chi oggi afferma esattamente il contrario: solo Dio può condannare).
Ivan risponde al fratello parlandogli di una cosetta che gli frulla in mente, un poema che intende scrivere e di cui ha deciso il titolo: Il grande inquisitore.
 
Cristo decide di tornare fra gli uomini e compare a Siviglia al tempo dei grandi processi agli eretici, nel periodo più pauroso dell’inquisizione. Cristo appare alla folla che subito lo riconosce e lo acclama. Ma l’inquisitore, un vecchio quasi novantenne, praticamente signore assoluto della città, ordina che sia arrestato, lo fa imprigionare e si reca da lui in cella, vuole parlargli.
“Perché tu sei venuto a darci impaccio?” chiede il vecchio a Cristo che lo guarda silenzioso, ed aggiunge: “domani stesso io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i tuoi piedi domani, ad un mio semplice cenno, si precipiterà ad accostare le braci al rogo” (5). Perché l’inquisitore vuole bruciare Cristo come eretico? E’ un malvagio? Teme che il ritorno di Cristo fra gli uomini possa incrinare il suo potere assoluto? No, le sue motivazioni sono ben più complesse. Cristo pretende che gli esseri umani credano in lui per libera scelta, che la fede sorghi dalla interiorità, senza costrizione alcuna. Ma questo per il grande inquisitore è un ideale troppo elevato, non adatto agli uomini. Gli uomini, almeno, la stragrande maggioranza degli uomini, non amano la libertà. La libertà è un fardello troppo grande da portare, implica scelta, responsabilità, fatica. La fede non può fondarsi sulla libera scelta. “Tu hai voluto il libero amore dell’uomo” prosegue il grande inquisitore “hai voluto che liberamente ti seguisse, attratto e soggiogato da te. Al posto della vecchia, solida legge, con libero cuore l’uomo doveva d’ora innanzi decidere lui stesso che cosa fosse bene e che cosa male, senz’avere innanzi a sé altra guida che la tua immagine: ma possibile mai che tu non abbia pensato ch’egli avrebbe rigettato infine e addirittura contestato sia la tua immagine sia la tua verità, se si fosse trovato oppresso da un peso così tremendo come il libero arbitrio?”(6).

L’uomo è ribelle ma è un ribelle che non aspira ad altro in fondo che a trovare un nuovo padrone, è un individualista che tende ad unirsi al gregge. Nel momento stesso in cui si ribella l’uomo desidera, nel suo intimo, genuflettersi. Ridiamo la parola al grande inquisitore: “Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è, del pari, nulla di più tormentoso. Ed ecco che, invece di solidi fondamenti capaci di tranquillare la coscienza dell’uomo una volta per sempre, tu hai scelto tutto ciò che c’è di più difforme, di più misterioso, di più indefinito: hai scelto tutto ciò che è superiore alle forze degli uomini: e perciò hai finito per agire come se addirittura non li amassi affatto” (7). Cristo avrebbe dovuto dare pane agli uomini, non parlar loro di libertà, e, dando loro il pane avrebbe dovuto apparire potente ai loro occhi, rispondere all’umana aspirazione a genuflettersi. L’uomo aspira al pane, ed aspira alla protezione di una autorità indiscussa ed indiscutibile, una autorità che lo sollevi dalla terribile responsabilità della scelta, che sollevi tutti da questa terribile responsabilità, “giacché la preoccupazione di queste misere creature non consiste solo nel cercare qualche cosa di fronte alla quale io o un altro qualunque possiamo genufletterci ma nel cercare una cosa tale che anche tutti gli altri credano in essa e vi si genuflettano, anzi, più precisamente, tutti quanti insieme.” (8).


In nome della libertà gli uomini non seguiranno Cristo ma lo abbandoneranno, lo abbandoneranno per prostrasi fronte a nuovi idoli. Ma torneranno da noi, dice il grande inquisitore, se noi saremo per loro una autorità più forte, più protettiva, più totalizzante ed assoluta di quella che promana dai nuovi idoli. “Ci sono tre forze”, afferma l’inquisitore, “soltanto tre forze sula terra capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste tre forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima, la seconda e la terza” (9).
L’autorità: per dare pane agli esseri umani e proteggerli da loro stessi, per renderli schiavi ed insieme felici, il mistero: per impedire che qualcuno possa incrinare i fondamenti stessi dell’autorità, il miracolo: per dare forza indiscutibile all’autorità ed al mistero. Cristo ha rifiutato tutto questo. Cristo ha parlato anche di pane ma non ha promesso pane, ha promesso la liberazione nel regno; Cristo non ha fondato un movimento politico (date a Cesare quel che è di Cesare..); Cristo ha fatto alcuni miracoli ma non ha fondato sul miracolo la sua predicazione. Cristo è risorto quasi in sordina, senza apparire, risorto, alle masse, soprattutto Cristo non ha fatto il più grande dei miracoli: non è sceso dalla croce. “Tu non sei disceso dalla croce” gli rinfaccia il grande inquisitore “quando ti gridavano, pigliandosi beffe di te: - scendi dalla croce e crederemo che sei tu -. Tu non sei disceso perché, ancora una volta, non volesti asservire l’uomo col miracolo, e bramavi una fede libera e non una fede vincolata al miracolo” (10). Se Cristo fosse sceso dalla croce avrebbe vinto, non è sceso ed è stato sconfitto, malgrado la resurrezione. Gli inquisitori però hanno rimediato agli errori sublimi di Cristo, hanno fondato una autorità formidabile che protegge con amore quei bambini scapestrati che sono gli esseri umani, toglie loro ogni libertà al solo fine di renderli felici. Così facendo gli inquisitori non servono più Cristo, servono Satana, servono lui, Satana, anche se questo li fa soffrire orribilmente. Gli inquisitori tolgono satanicamente all’uomo ogni libertà e soffrono nel fare questo, ma devono farlo, devono farlo perché loro amano l’uomo, mentre Cristo non ama l’uomo, Cristo rende infelice l’uomo con l’ assurda pretesa della libertà.
“Noi non siamo con te, siamo con lui”(11), rivela a Cristo l’inquisitore e lavorando con lui lavoriamo per la felicità umana. E la tirannia degli inquisitori sarà insieme dolce e spietata “ noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro daremo alla loro vita come un assetto da gioco infantile, con canzoni da bambini cori e danze innocenti. Oh, noi permetteremo loro anche il peccato; sono così fragili e impotenti; e loro ci vorranno bene come bambini per il fatto che permetteremo loro di peccare” (12). Cori e danze innocenti, permesso di peccare e, insieme, i roghi, il carcere, il controllo totale sulla vita degli esseri umani, il tutto per la loro felicità! E Dostoevskij scrive queste cose prima dell’esperienza tragica dei grandi totalitarismi del ventesimo secolo! Il suo è davvero uno sguardo d’aquila!
Cristo non dice una parola, si limita a fissare l’inquisitore con occhi fiammeggianti. Quando questi finisce di parlare gli si avvicina e lo bacia. L’inquisitore è sconvolto da quel gesto, guarda Cristo negli occhi e gli grida di andarsene, di andarsene per non tornare mai più. Malgrado il fuoco che gli brucia dentro egli è sempre convinto di quanto ha detto. Se Cristo tornerà lo farà bruciare.


Mi scuso con chi ha la pazienza di leggermi se il mio breve riassunto non riesce, malgrado le citazioni, a rendere giustizia, neppure in minima parte, della bellezza di questo eccelso brano di letteratura filosofica; mi scuso e torno ai fratelli, ad Alesa e Ivan
Alesa protesta: la rappresentazione di Ivan è parziale e distorta, al massimo può andar bene per la Chiesa cattolica (è nota l’ostilità di Dostoevskij per il cattolicesimo). Altro che grandi inquisitori che opprimono gli uomini per renderli felici! Altro che profondi tormenti spirituali che li assillano! Quello a cui mirano questi personaggi altro non è che il potere terreno, la gloria del mondo. Della felicità umana a costoro non interessa un bel niente. Il poema di Ivan non è un attacco a Cristo, è una splendida apologia di Cristo! Ma Ivan non si lascia convincere. Può essere che gli inquisitori in carne ed ossa non siano affatto interessati alla felicità degli uomini, è molto probabile anzi che le cose stiano così, ma, non è possibile che per alcuni, magari per uno solo, il discorso sia diverso? E questo non basta a rendere quanto meno possibile il fosco quadro tracciato nella leggenda del grande inquisitore? Il problema, più che dalle intenzioni degli inquisitori è rappresentato dalla natura dell’uomo. Il discorso era partito dal male, dal disegno divino che si scontra col fatto della sofferenza degli innocenti. “Chi ha diritto di perdonare?” si era chiesto Ivan ed Alesa gli aveva risposto. “Cristo ha diritto di perdonare”. Ma Cristo sbaglia tutto afferma il grande inquisitore, il suo ideale sublime non va bene per gli uomini. Nella storia Cristo è sconfitto, ad essere vincenti sono gli inquisitori. Il sacrificio di Cristo non riscatta la sofferenza degli innocenti perché gli uomini non riescono neppure a capire il messaggio di liberazione che sottostà a quel sacrificio. E così resta il fatto della sofferenza degli innocenti, un duro fatto che continua a farci apparire il disegno divino inaccettabile, inaccettabile prima ed oltre che inesplicabile.
“Ma come farai a vivere?” chiede angosciato Alesa al fratello “con un simile inferno nel petto e nel cervello?” (13). Ma Ivan ha la forza di resistere: ha la forza dei Karamazov, della "bassezza karamazoviana".
“Nel senso allora che tutto è permesso?” ribatte Alesa e Ivan dà al fratello la risposta conclusiva: “Si, vada pure, tutto è permesso, giacché la parola è stata detta. Non la ritratto” (14)
Tutto è permesso. Nessuno può riscattare il male del mondo, la presenza tragica della sofferenza degli innocenti rende non solo vana ma addirittura immorale la speranza, quindi si può vivere al di la del bene e del male. Questa è la conclusione della filosofia morale di Ivan Fedorovic Karamazov. La si può condividere o meno ma, come sarebbe bello se tanti nichilisti dei nostri giorni avessero una tale profondità di pensiero!
 
Alesa afferma, contro Ivan, che uomini come il grande inquisitore non hanno alcun interesse per la felicità degli esseri umani, non sono affatto scossi da particolari tormenti interiori, mirano solo al potere. La risposta di Alesa ricorda un altro inquisitore: quello di “1984” di George Orwell. “Vogliamo il potere, il potere allo stato puro” afferma l’inquisitore orwelliano e prosegue: “il potere è un fine, non un mezzo. Non si instaura una dittatura al fine di salvaguardare una rivoluzione: si fa la rivoluzione proprio per instaurare la dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione, il fine della tortura è la tortura, il fine del potere è il potere” (15). E’ discutibile l’affermazione di Orwell anche se contiene molta verità. E’ discutibile perché rischia di mettere in ombra la componente fanatica di tutti i grandi totalitarismi. I grandi totalitari, specie i pionieri del totalitarismo, sono imbevuti di fanatismo. La sete di potere è in loro strettamente intrecciata con l’anelito a cambiare radicalmente il mondo e l’uomo; l’amore per la nazione, o la classe operaia, o i “dannati della terra”, si confonde in loro con la più radicale disumanità. I fanatici del totalitarismo amano l’uomo e fanno a pezzi gli uomini, sono schizofrenici oltre che fanatici, meglio, sono schizofrenici perché fanatici. Solo dopo arrivano i tiranni attaccati solo al potere e a tutto ciò che il potere permette loro di ottenere.

L’immagine del grande inquisitore di Ivan Karamazov è in effetti realistica, oltre che agghiacciante, è realistica e premonitrice. Il ventesimo è stato il secolo dei grandi inquisitori, ammalianti personaggi che hanno urlato parole d’ordine, o discettato filosoficamente con incomparabile profondità sul futuro del genere umano, stando comodamente seduti su montagne di cadaveri. Eppure c’è qualcosa che non quadra nell’immagine di Ivan. Il suo inquisitore ci appare in fondo troppo potente, i fili della sua logica sottile appaiono troppo forti, i suoi ragionamenti troppo inconfutabili. Se davvero gli esseri umani fossero così come li descrive il grande inquisitore varrebbe la pena di renderli felici? Perché costruire la grandiosa rete di inganni di cui parla l’inquisitore? Perché patire profondi tormenti spirituali, perché mentire e provar rimorso delle proprie menzogne? Perché tutto questo? Per rendere felici dei bambini capricciosi? Degli esseri stupidi sempre pronti a strillare per reclamare libertà e sempre pronti a barattare la libertà per un piatto di lenticchie? Se l’uomo fosse davvero come il grande inquisitore lo descrive, se lo fosse integralmente e senza riserve, meriterebbe di essere schiavo, esplicitamente schiavo, senza abbellimenti: preoccuparsi della sua felicità sarebbe una perdita di tempo.
Se l’immagine del grande inquisitore fosse solo e integralmente realistica, se il suo realismo fosse privo di incrinature, questa immagine non dovrebbe farci paura, non dovrebbe essere una immagine agghiacciante. Invece quel novantenne ci riempie di sgomento ed il solo pensare di essere dominati da lui, di vivere nella Siviglia descritta da Ivan Karamazov ci fa paura. Qualsiasi essere umano anche minimamente capace di pensare non vorrebbe vivere nella Siviglia del grande inquisitore e questo piccolo fatto dimostra che gli esseri umani sono si, molto spesso, stupidi, sono, a volte, pronti a barattare la propria libertà per un piatto di lenticchie, temono, è vero, la scelta e la responsabilità, sono e fanno tutte queste cose ma, malgrado ciò, sono liberi. L’uomo può temere la libertà, può barattarla, può disprezzarla perché intanto è libero, è libero nell’atto stesso di rinunciare alla propria libertà. La libertà è importante per l’uomo perché solo presupponendosi libero l’uomo può considerare davvero sua la vita che vive. Io agisco, penso, parlo, mi relaziono con altri e tutte queste attività, relazioni, pensieri sono qualcosa di mio perché sono libero. Se non sono libero la vita che vivo non è la mia vita. E se è vero che molte volte gli uomini dimostrano di non amare troppo la libertà, o addirittura di temerla, è anche vero che si sentono soffocare quando ne perdono troppa, di libertà, quando davvero la contrazione della libertà si mostra loro per ciò che realmente è: contrazione della propria vita autonoma.
Ecco perché oltre all’autorità, al mistero ed al miracolo l’inquisitore fa ricorso al carcere ed ai roghi. Gli inquisitori possono anche pensare di far felici gli esseri umani, possono contare sul desiderio dell’uomo a genuflettersi ma basano comunque il loro potere sui roghi e sulla tortura, sui lagher ed i plotoni d’esecuzione. La repressione è componente essenziale di ogni regime totalitario, non una sua caratteristica accidentale. E si tratta di una repressione vasta, capillare, crudele. Il sangue ed il sadismo costituiscono il cemento che tiene uniti mistero autorità e miracolo, ed ogni inquisitore è, nel suo intimo, un sadico. Ed ecco infine perché i grandi totalitarismi del ventesimo secolo sono alla fine crollati. E se il loro crollo non può farci indulgere in semplicistici ottimismi (già abbiamo altri totalitarismi con cui fare i conti, basti pensare all’integralismo islamico), può quanto meno indurre in noi un pizzico, solo un pizzico, di ottimismo.

Quali che sino però le interpretazioni della leggenda del grande inquisitore il quesito posto da Ivan nella prima parte del colloquio con Alesa resta però senza risposta. “Chi ha diritto di perdonare?” si era chiesto Ivan, “Cristo ha questo diritto” aveva risposto Alesa, lo ha perché lui, innocente, ha preso su di sé i peccati di tutti. Ma davvero la risposta di Alesa risolve il problema? Per Ivan no, per Ivan il problema resta aperto perché la predicazione di Cristo è votata al fallimento. Tutto sembra dipendere dalla plausibilità o meno della leggenda dell’inquisitore, ma, stanno davvero così le cose? Ammettiamo pure che tutto il discorso di Ivan sul grande inquisitore sia privo di fondamento, ammettiamo che il sublime messaggio cristiano possa, addirittura possa facilmente, essere assimilato dagli uomini. Questo risolve davvero il problema implicito nel quesito di Ivan?
“Io non voglio che la madre del bambino sbranato dai cani possa perdonare l’assassino” aveva detto Ivan, “nessuno ha diritto di perdonare una cosa simile”. “Cristo ha questo diritto perché si è addossato i peccati di tutti” gli aveva replicato Alesa. Ma non potrebbe il bimbo sbranato dire a Cristo: “tu non deve farti carico del peccato del mio assassinio, non devi prendere su di te tale peccato, non devi perdonare chi mi ha fatto sbranare da una muta di cani affamati”? Sarebbe ingiusta, sbagliata, vendicativa una simile pretesa del bimbo? o questa pretesa è implicita in un concetto su cui è basata gran parte della nostra civiltà: quello di responsabilità personale? Certo, Cristo può farsi carico dei peccati di tutti e non commette nulla di ingiusto facendolo. Ma quando questo farsi carico degli altrui peccati diventa perdono per i criminali ecco che l’ingiustizia riemerge, o meglio, ecco che noi miseri esseri umani ci troviamo di fronte a qualcosa che non può non apparirci ingiusto. La sofferenza degli innocenti rende per Ivan non solo inesplicabile ma inaccettabile il disegno divino, ebbene, questa stessa sofferenza non rende altrettanto inesplicabile ed inaccettabile il perdono che Cristo concede ai peccatori dopo essersi fatto carico dei loro peccati? Il sangue delle vittime è davvero riscattato se per quel sangue paga un innocente e, pagando, perdona chi di quel sangue ha ancora lorde le mani? I milioni di morti nei lagher e nei gulag potrebbero trovar pace se delle loro sofferenze si facesse carico un innocente che, così facendo, assolvesse i loro aguzzini? O questo sublime sacrificio non rischierebbe di diventare un altro schiaffo in faccia a chi tante offese ha già dovuto subire?
 
Il concetto di responsabilità è basilare nella nostra (e non solo della nostra) civiltà, è basilare nella religione cristiana e lo è nella letteratura di Dostoevskij. Il grande scrittore polemizza spesso in maniera durissima con coloro che negano la responsabilità, che di tutto danno colpa alla società, all’educazione, alle cattive amicizie o ai disturbi mentali. Ne “i fratelli Karamazov” ci sono pagine di spassosa ironia in cui Dostoevskij riempie di ridicolo gli “spiriti illuminati” sempre pronti a tutto giustificare e tutto comprendere.
Il concetto di responsabilità è basilare, si diceva, nella religione cristiana. In effetti il Dio cristiano perdona chi si pente ma chiede l’espiazione dei peccati. E il pentimento cristiano non ha nulla a che vedere col pentitismo ed il perdonismo buonisti che ammorbano l’atmosfera, ad esempio, dell’Italia di oggi. Il pentimento cristiano non assomiglia in nulla al “vogliamoci tutti bene” oggi tanto di moda. Quel pentimento è tormento, dolore, richiesta di espiazione. Il pentimento non ci rende innocenti, al contrario, il concetto stesso di pentimento richiama il concetto di colpa e di peccato, né il pentimento vero si identifica con la domanda di clemenza: si pente davvero chi sa di meritare la punizione, chi accetta il perdono ma non lo pretende, si pente davvero, e fino in fondo, chi chiede di essere punito per il male che ha fatto. Niente buonismi faciloni, niente sottovalutazioni del peso della colpa e del peccato quindi; ma, se le cose stanno così, perché il dolore, il sangue, le “invendicate lacrime” degli innocenti? Perché il perdono per chi si pente? Forse che il pentimento annulla lacrime e sangue? Anche se Dio non si limita a perdonare ma punisce, anche se nel suo disegno c'è posto per una giustizia che escluda qualcuno dal perdono, non si realizza comunque, anche questa giustizia, attraverso la sofferenza, il sangue e le lacrime degli innocenti? La domanda di Ivan Karamazov continua a restare senza risposta, ed il dolore degli innocenti un sasso lanciato negli ingranaggi del disegno divino. E, che sasso! Un sasso che nel secolo scorso è diventato un macigno, una montagna, qualcosa di mostruoso che ci appare in grado di rovinare ogni disegno salvifico.
 
“Tutto è permesso”: così Ivan Karamazov risponde alla domanda che lui stesso ha posto. Il male nel mondo resta uno scandalo inaccettabile, il sublime messaggio di Cristo è al di là delle forze umane, quindi... tutto è permesso. Seguendo un proprio percorso Ivan Fedorovic Karamazov giunge alle stesse conclusioni dei grandi nichilisti: Dio è morto, tutto è permesso, viviamo al di là del bene e del male. E’ ben vero che il “tutto è permesso” non risolve alcun problema, non offre soluzione alcuna. Se tutto è permesso allora il dolore degli innocenti è inesorabilmente destinato a crescere, lo scandalo che tanto colpisce Ivan a diventare sempre più grande e mostruoso. Se tutto è permesso la libertà degenera in nichilismo, si trasforma in formidabile forza distruttiva ed autodistruttiva, diventa la base del totalitarismo. Al grande inquisitore tutto è permesso ed infatti egli tratta come oggetti gli esseri umani. Ma Ivan può replicare che tutto questo non gli interessa. Se il mondo è privo di valori ontologicamente fondati, se la morale è solo una umana convenzione perché angosciarsi se il nostro agire diventa fonte di sofferenza? Il dolore degli innocenti esiste quindi la morale è priva di fondamenti, quindi tutto è permesso, occorre prenderne atto, una volta per tutte!
Ma stanno davvero così le cose? Diamo pure per scontato che il dolore degli innocenti resti un mistero sul piano teorico e uno scandalo su quello etico, questo davvero può farci concludere che “tutto è permesso”? Se l’universo ci si presenta come non governato da principi etici, se lo stesso disegno divino ci appare sfigurato dal fatto incontestabile del male e dell’ingiustizia, possiamo davvero concludere che la ricerca del bene e della giustizia sia qualcosa di effimero e che si possa tranquillamente vivere "al di là del bene e del male"? Questa conclusione mi sembra francamente inaccettabile. Forse non riusciremo mai a comprendere quale sia il posto della morale nel mondo, molto probabilmente il rapporto fra il bene ed il male da un lato e la struttura dell’universo (per chi non crede) o il disegno divino (per chi crede) continuerà ad apparirci insieme tenebroso e scandaloso, ma di una cosa possiamo essere certi: il bene ed il male ci interessano, siamo, molto spesso, capaci di riconoscerli intuitivamente così come riusciamo a capire se una certa azione è giusta o ingiusta, conforme o meno ad idee e sentimenti di rispetto e benevolenza verso i nostri simili. Ivan parte in fondo da un sentimento di indignazione morale, si ribella contro un disegno divino che gli appare ingiusto ed immorale. “Se nel disegno divino c’è posto per il sangue e le lacrime dei bambini innocenti io rifiuto questo disegno” afferma, ma, questa sua affermazione non ha profonde motivazioni morali? Se davvero Ivan si comportasse in base al principio ”tutto è permesso” non dovrebbe indignarsi per le lacrime degli innocenti, dovrebbe disinteressarsi di queste lacrime, il bimbo sbranato dai cani non dovrebbe procurargli particolare repulsione, non dovrebbe suscitare in lui un sacrosanto sentimento morale come l’indignazione. Un bruto fa sbranare dai suoi cani un bimbo innocente? “Che importa? Devo affrettarmi, sono invitato a cena da amici, tutto è permesso!” Ed anche al termine del romanzo Ivan si dimostra assai poco coerente con il principio che professa. L’assassinio del padre lo sconvolge, il pensiero di essere stato in qualche modo complice dell’assassino lo porta alle soglie della follia. Per Ivan il “tutto è permesso” diventa sofferenza autodistruttiva perché in Ivan, malgrado tutto, esiste l’aspirazione al bene ed il rifiuto del male, perché nel suo fondo Ivan sa, tormentosamente sa, che non tutto è permesso.
 
La morale è iscritta nella struttura ontica dell’essere? E’ parte fondamentale del disegno divino? E’ un imperativo della nostra autonoma ragion pratica? Consiste in un insieme di proposizioni non ulteriormente analizzabili? Si fonda su un moderato ed universale senso di simpatia verso i nostri simili? Difficile decidere. Però la morale è componente essenziale della vita umana. L’uomo è l’unico animale capace di concepire il bene ed il male e questo semplice fatto un significato dovrà pure averlo, alla fine dei conti. Io penso che lo abbia e sia assai semplice: anche se non riusciamo a cogliere il senso del mondo e della presenza nel mondo del bene e del male, anche se il disegno divino può apparirci insieme misterioso e inaccettabile possiamo, anzi, dobbiamo, cercare, almeno cercare, di agire moralmente. Non è un fatto strano questo, in fondo. L’uomo è ignorante, non solo ignora molte più cose di quante ne conosca, ma ogni passo avanti della scienza, mentre aumenta le nostre conoscenze ci pone di fronte a nuovi problemi irrisolti, spesso a paradossi, contraddizioni, misteri. Questo però non ci impedisce di continuare a studiare né di utilizzare le nostre conoscenze, comprese quelle che ci pongono di fronte a problemi che ci appaiono insolubili. I paradossi di Zenone sullo spazio ed il movimento non hanno impedito all’uomo di muoversi ed esplorare lo spazio, terrestre e, in minima parte, anche extraterrestre. I misteri ed i paradossi della fisica quantistica non impediscono il progresso della scienza fisica. Il mistero del male nel mondo ci sgomenta ma non può né deve impedirci di operare per il bene e contro il male. Nei limiti ovviamente delle nostre possibilità e delle nostre debolezze di uomini.


Note

1) Fedor Dostoevskij: I fratelli Karamazov. Einaudi 1993 pag. 314 – 315.

2) Ibidem pag. 327

3) Ibidem pag. 327 - 328

4) Ibidem pag. 328 - 329

5) Ibidem pag 334

6) Ibidem pag. 340

7) Ibidem pag 340

8) Ibidem pag. 339 (sottolineatura di D.)

9) Ibidem pag. 340

10) Ibidem pag. 341

11) Ibidem pag 343

12) Ibidem pag. 345

13) Ibidem pag. 350

14) Ibidem pag. 350 - 351

15) George Orwell: 1984. Oscar Mondadori 2007 pag. 270 – 271.












mercoledì 30 ottobre 2013

SUL RADICALISMO ANIMALISTA




Negli ultimi decenni si è sempre più diffusa a livello di massa l’immagine di una natura in cui ogni contrasto, ogni disarmonia sono definitivamente banditi. Un amore generalizzato unisce tutti gli esseri viventi e questi si integrano armoniosamente con il mondo inorganico. Tutto ciò che, volenti o nolenti, non quadra con questa visione da cartone animato del mondo naturale viene giustificato con argomentazioni tanto sofistiche quanto affascinanti. Il leone uccide lo gnu, è vero, ma così facendo il grande predatore contribuisce al superiore equilibrio del tutto. Uccidendo il singolo gnu il leone contribuisce alla salvaguardia della specie degli gnu (e di tutte le altre) e lo stesso si può dire per lo squalo, la tigre, il pitone e così via. E' evidente il profondo irrealismo di una simile concezione. L’idea secondo cui la lotta a morte fra animali miri alla conservazione di tutte le specie è in totale antitesi con le conclusioni di Darwin (cui molti ambientalisti si rifanno) che parla esplicitamente della natura come terreno di lotta per la sopravvivenza del più adatto, sia esso singolo o specie, ed anche con quanto  ci insegna la storia naturale. Ma, anche a prescindere da queste considerazioni, quello di cui non si rendono conto i mistici dell’armonia naturale è tanto macroscopico che la loro cecità appare sorprendente. Un sistema in cui la vita del gruppo può essere assicurata solo dalla morte di alcuni singoli non è affatto armonico, non è per niente finalizzato al bene di tutti. E’ per definizione un sistema lacerato, un sistema che si basa sulla sofferenza e sulla morte di alcuni come condizione per l’incerta sopravvivenza degli altri. Non è assolutamente mia intenzione giudicare moralmente la natura, questa sarebbe una autentica idiozia. E' semplicemente assurdo giudicare moralmente il comportamento di tigri o squali, mucche o gatti. La natura non umana si colloca in una dimensione in cui concetti di bene e di male non hanno rilevanza alcuna. Ciò non significa che non la si possa amare, ed ammirare, e rispettare, al contrario. Si possono amare, ammirare, rispettare un cane o un gatto, ed anche un abete o un fiume, o una montagna. Significa però che non è possibile conferire a montagne, abeti o squali la dignità di soggetti morali. Questo è il punto davvero centrale su cui intendo soffermarmi.

Gli animalisti radicali indirizzano i loro strali polemici soprattutto contro un nemico: lo specismo. Di cosa si tratta? Ecco la definizione che ne da Wikipedia:
Specismo è un termine coniato da Richard Ryder per descrivere la diffusa convinzione antropocentrica che gli esseri umani godano di uno status morale superiore - e debbano quindi godere di maggiori diritti - rispetto agli altri animali. L'intento di Ryder era quello di porre in evidenza le analogie fra lo specismo e il razzismo, dimostrando che le motivazioni filosofiche per condannare queste due posizioni sono analoghe.” (1)  L’uomo non ha uno status etico diverso da quello degli altri animali, non merita più rispetto di quello che meritano un cane, un gatto o un topo. Chi teorizza il diverso status etico che spetterebbe agli esseri umani rispetto a quello che dovrebbe spettare ai topi è un razzista. Nulla di serio divide il razzismo di chi afferma la superiorità dei bianchi rispetto ai neri dal razzismo di chi teorizza la superiorità dell’uomo rispetto a topi, conigli o sardine:
“L'antispecismo è il movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo. Come l'antirazzismo rifiuta la discriminazione arbitraria basata sulla diversità razziale umana, l'antispecismo respinge quella di specie e sostiene che la sola appartenenza biologica ad una specie diversa da quella umana non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro di un essere senziente.” (2)
Gli aderenti al movimento per la liberazione animale sono piuttosto coerenti. Non affermano di difendere gli animali perché questo risulterebbe utile per l’uomo. Orsi e squali vanno difesi non perché all’uomo piace vivere in un mondo popolato anche da orsi e squali; allo stesso modo gli esperimenti su animali vanno rifiutati non perché poco utili per la ricerca ma perché ledono i diritti degli animali e le diete a base di carne vanno respinte non perché poco salubri per l’uomo ma per la ragione ben più fondamentale che non è possibile cibarsi di un essere che è soggetto morale. David Oliver in un saggio diffuso in rete sui rapporti fra liberazione animale e protezione animale esprime molto bene questi concetti. Polemizzando contro i militanti della protezione animale Olivier va al fondo della questione: non si tratta di difendere gli animali per favorire l’uomo, li si deve liberare perché essi stessi sono degni di tutela morale e rispetto. “Anziché rimettere in discussione il principio dell'utilizzo di animali per un qualsiasi fine umano, la protezione animale insiste sull'«inutilità» degli esperimenti – inutilità per gli umani, s'intende.” (3) Olivier ha il grosso pregio di non barare. Non afferma che gli esperimenti su animali sono scientificamente infondati, dice chiaramente che quegli esperimenti sono comunque da vietare. Sperimentare nuovi medicinali su cavie umane sarebbe scientificamente produttivo ma è eticamente inaccettabile quindi va proibito. La stessa cosa può dirsi per gli esperimenti sui topi. Anzi, gli esperimenti sui topi sono eticamente ancora più condannabili di quelli sugli uomini: le medicine, in larghissima misura,  servono agli uomini, quindi, se proprio le si deve testare, lo si faccia sugli umani, logico no?  E la critica non si ferma agli esperimenti su animali, mette in luce gli equivoci di fondo della protezione animale: la protezione animale è un po’ l’avvocato degli animali, afferma Olivier, ma “L'avvocato – il difensore – di un ladro deve poter difendere il suo cliente, cioè chiedere che non venga condannato, o che sia condannato di meno, senza contestare le leggi che condannano i ladri. La protezione animale difende gli animali, all'interno di un sistema dato. In difesa dei cani, dirà che tengono compagnia agli anziani, in difesa dei gatti, che ammazzano i topi, in difesa dei topi, che il loro uso negli esperimenti non è affidabile. In difesa delle anatre, che il fegato d'oca è tossico, in difesa delle lepri, che la caccia uccide gli umani. Sull'avvocato di un ladro pesa sempre, malgrado tutto, la minaccia di essere scambiato per l'avvocato dei ladri, per un loro amico, per un sostenitore del furto. È vitale, per la sua difesa, che il giudice non abbia l'impressione, se libera quel  ladro, di liberare tutti i ladri. Allo stesso modo, la difesa animale avverte come vitale la necessità di non rimettere in discussione lo specismo.” (4) Non si può non ammirare tanta coerenza, anche se si tratta della lucida, sinistra coerenza della follia.

Ma su quale principio si basa una così rigida difesa della vita animale? Forse sulla difesa della vita in generale? Su una concezione sacra della vita in quanto tale che va difesa sempre e comunque, quale che sia il genere o la specie dell’essere vivente? O su una concezione sacra della natura, concezione secondo cui tutta la natura è ugualmente sacra e non è lecito fare alcuna distinzione al suo interno? Su nessuna di queste. In natura la vita si conserva tramite la morte, il rispetto generalizzato di ogni forma di vita, ed ancor di più di ogni ente, condurrebbe, piaccia o non piaccia la cosa, alla scomparsa della vita; anche i più radicali fra gli animalisti ed i mistici dell'ecologia questo lo devono riconoscere. Gli oltranzisti di “liberazione animale” introducono quindi, come tutti, divisioni nella natura, non considerano tutta egualmente sacra la natura e non considerano neppure tutte egualmente sacre le forme di vita. Il loro principio guida è quello che occorre rispettare non la vita in generale e meno che mai la natura non vivente, ma la vita senziente. Gli animali possono soffrire e questa capacità di soffrire fa di loro dei soggetti morali al pari degli esseri umani. Gli animali condividono con l’uomo la sensibilità, la capacità di provare dolore e questo di fatto li equipara agli esseri umani. Torniamo a cedere la parola a David Olivier che ha l’indubbio pregio di essere molto chiaro:
“personalmente non rispetto la vita delle piante. Non perché le disprezzi, ma perché non penso che siano sensibili, ovvero che percepiscano ciò che succede loro. Se esse non provano né piacere nel vivere, né sofferenza nell'essere tagliate o sradicate, né dispiacere di dover morire, non trovo ragioni per non farne l'uso che mi conviene, e in particolare per non mangiarle.” (5) In base a queste considerazioni il militante animalista spiega il paradosso consistente nel fatto che chi difende la vita di topi e anguille non ha nulla da dire contro l’aborto che consiste nell’eliminazione di una vita umana, sua pure ancora in parte potenziale: “ è praticamente certo che l'embrione umano non è sensibile almeno durante le prime 18 settimane di gravidanza (su un totale di 38 settimane) per via dell'assenza prima e dell'immaturità poi del suo sistema nervoso. Il neonato invece è sensibile; la sensibilità appare dunque ad un certo momento nel corso della seconda metà della gravidanza. Prima, l'essere in questione, che non prova né piacere né dolore, né timori né speranze, non mi sembra moralmente più significativo di un filo d'erba o di un sasso.” (6, sottolineatura mia). Per 18 settimane quello che sarà (e in parte già è) un essere umano merita minor tutela di un filo d’erba o di un sasso, c’è da rabbrividire. E ancora di più fanno rabbrividire le posizioni del padre fondatore dell’animalismo radicale: Peter Singer, filosofo australiano esponente di rilievo della nuova etica tollerante e postmoderna, fondata sul pensiero debole. “Un bambino di una settimana non è un essere razionale cosciente e vi sono molti animali non umani la cui razionalità, autocoscienza, consapevolezza , capacità di sentire e così via è superiore a quella di un bambino umano di una settimana o anche di un anno. Se il feto non ha la stessa pretesa alla vita di una persona sembra che non l’abbia neanche il neonato, e che la vita di un neonato abbia meno valore della vita di un maiale, un cane o uno scimpanzé” (7 sott.mia). Questo si che è parlare chiaro! La vita umana non vale in quanto tale, valgono certe caratteristiche della vita (vita tout court), fra cui è basilare la capacità di provare dolore. Ora, è chiaro che in certi animali queste caratteristiche sono più sviluppate che in un neonato, quindi la loro vita vale più di quella di un neonato, non siamo mica razzisti, diamine! Sulla base di queste, lucidissime, argomentazioni Singer avanza tranquillamente la proposta di legalizzare l’infanticidio quando il neonato presenti gravi malformazioni, ad esempio, sia affetto da sindrome di Down con deficit intellettivi (ma perché solo in quei casi?), e a chi definisce mostruose simili proposte replica tranquillamente: “La nostra attuale protezione assoluta della vita degli infanti è un atteggiamento tipicamente ebraico cristiano (…) L’infanticidio è stato praticato in società che vanno geograficamente da Thaiti alla Groenlandia e culturalmente dagli aborigeni australiani nomadi, alle sofisticate civiltà urbane dell’antica Grecia o della Cina dei Mandarini” (7).  Se è per questo la storia dell’umanità ha conosciuto anche lo schiavismo, i genocidi, la tortura, i roghi per i liberi pensatori, chi più ne ha più ne metta. In base al relativismo etico culturale di Singer dovremmo accettare tutto, ma proprio tutto. Né il filosofo australiano amico di gatti e topi (ma non dei bambini) si preoccupa degli argomenti di chi gli ricorda che un feto (e a maggior ragione un neonato) è una persona in potenza. “Un X potenziale” afferma Singer “non ha tutti i diritti di X. Il principe Carlo è un potenziale re d’Inghilterra ma non ha i diritti di un re. Perché mai una persona solo potenziale dovrebbe avere i diritti di una persona?” (8).  E’ possibile ovviamente difendere l’aborto, almeno in certi casi lo trovo personalmente il male minore. Ma gli argomenti di Singer sono assolutamente risibili. Il principe Carlo non ha i diritti del re ma ha il diritto di prepararsi a diventare Re, un neonato non ha i diritti di un adulto (chi lo ha mai sostenuto?) ma ha il diritto di poter diventare adulto. Con Singer l’animalismo etico postmoderno giunge al sua apice. Con grande coerenza il filosofo di Melbourne trae dalle premesse tutte le conseguenze, senza pudori né timori. Peccato che le sue proposte non siano troppo nuove, in fondo. A conclusioni abbastanza simili era arrivato, un bel po’ di anni fa, un ometto piuttosto isterico, con un ciuffo da capelli lisci sulla fronte ed un bel paio di baffetti.

Esaminiamo ora famoso principio di sensibilità, quello secondo cui la capacità di provare dolore darebbe a tutti gli esseri sensibili la dignità di enti morali. Perché questa capacità dovrebbe dare a chi la possiede tale la dignità? Dovrebbe darla perché decidiamo, noi umani decidiamo, che chi ha la sensibilità deve essere, ipso facto, soggetto di diritto? Certo, si può decidere una cosa simile, ma si possono decidere, con pari e migliori ragioni, anche cose diverse, ad esempio che il semplice fatto di vivere o anche solo di esistere è sufficiente per essere considerati enti morali. In fondo la vita vegetativa viene prima di quella senziente e l’esistere è prioritario rispetto al vivere: per poter provare dolore devo esistere e devo vivere. Gli animalisti come i non animalisti fanno delle discriminazioni nella natura, ma ogni discriminazione deve affrontare un problema fondamentale: dove passa il confine fra gli enti che si discriminano? Perché il confine tra chi è e chi non è soggetto morale deve collocarsi al livello degli enti senzienti? Perché non collocarlo al livello degli enti semplicemente viventi o a quello degli enti tout court? Se la facoltà di provare dolore dà ad un topo la dignità di soggetto morale perché la facoltà di crescere non dovrebbe dare ad un abete una pari dignità? E perché il semplice fatto di esserci, di esistere da migliaia di anni, non dovrebbe conferire la stessa dignità alla vetta innevata del Monte Bianco? Se è razzista privilegiare la vita intelligente rispetto alla vita semplicemente senziente perché non dovrebbe essere razzista privilegiare la vita senziente nei confronti della vita vegetale, o privilegiare ciò che è vivo rispetto a ciò che non lo è? Molti animalisti chiedono polemicamente perché si debba attribuire tanto valore all’intelligenza, la domanda è legittima, ma con altrettanta legittimità si può chiedere perché mai si debba attribuire tanto valore alla sensibilità. C’è quasi da sospettare che sotto sotto i super amici degli animali siano un po’ antropocentrici: privilegiano orsi, gatti e topi perché questi condividono con l’uomo qualcosa di importante, perché li sentono più vicini, si sentono, da uomini, attratti da loro. Questa però, se valgono le categorie dell’animalismo estremista, è una forma di razzismo.

In quanto tale il principio di sensibilità non giustifica un bel niente. Si può stabilire che questo principio deve essere decisivo ma si può anche stabilire il contrario. Ciò che rende per alcuni plausibile il principio di sensibilità non è il principio in quanto tale, è la ripugnanza del dolore. Si vede un agnello che sanguina e soffre, un cervo colpito dal proiettile di un cacciatore che stramazza al suolo, si è colpiti dallo spettacolo della sofferenza e si stabilisce che questa deve essere bandita. Non si deve far soffrire nessuno, neppure un topo perché la sofferenza è ripugnante. Se le cose stanno così però il principio di sensibilità è privo di qualsiasi universalità: non vale nei confronti di chi non prova sentimenti di ripugnanza verso il dolore, inoltre può al massimo giustificare la richiesta di non infliggere troppe sofferenze agli animali, no di non ucciderli. Ma il punto davvero centrale è un altro. Se davvero la capacità di provar dolore dovesse costituire il discrimine fra chi è degno di rispetto morale e chi no le conseguenze sarebbero devastanti e paradossali. Se è la capacità di provare dolore quella che dà ad un ente la dignità morale la massima immoralità che si può commettere è quella di arrecare dolore a qualcuno. Se valesse il principio di sensibilità la norma morale fondamentale non dovrebbe essere: “non uccidere” ma : “non provocare dolore”. Uccidere un bambino nel sonno, senza causargli dolore alcuno dovrebbe essere un atto non contrario alla morale, (forse Singer sarebbe d’accordo..) un killer molto abile che ti uccidesse di sorpresa in un centesimo di secondo con un colpo di pistola alla nuca non farebbe nulla di riprovevole. I sostenitori del principio di sensibilità si trovano in un bel dilemma. O sostengono tale principio indipendentemente della repulsione che in quanto uomini proviamo verso il dolore, ed allora non possono giustificarlo in alcun modo, possono solo affermarlo, ma la loro affermazione non ha più valore che un pugno sbattuto sul tavolo. Oppure possono difendere tale principio basandosi sulla ripugnanza del dolore ed allora devono ammettere che ogni crimine che non implichi dolore per le vittime non è un crimine. Se una bomba atomica distrugge istantaneamente la vita di centomila persone, le uccide tutte e le uccide senza farle soffrire, (cosa che le atomiche possono fare) allora sganciare quella bomba non deve essere considerato moralmente sbagliato. Viene quasi da pensare che gli animalisti si rifacciano al principio di sensibilità perché si rendono conto che estendere il diritto al rispetto e la personalità giuridica a tutta indistintamente la natura è impossibile e dà vita a paradossi troppo grossi anche per loro. Se analizzata a fondo tutta la loro concezione ha però conseguenze altrettanto devastanti e paradossali.

Il dolore è presente in natura, è quanto di più naturale possa concepirsi. In natura la vita si mantiene e si trasmette tramite la morte e in natura la morte è sempre o quasi congiunta al dolore, spesso a molto dolore. Si tratta di dati di fatto, dati di fatto che non è possibile esorcizzare con strilli e condanne morali. Gli animalisti di “liberazione animale” si ribellano a questi dati di fatto e chiedono che il dolore scompaia dal mondo o quanto meno che si contragga, che venga ridimensionato. E a chi chiedono di operare affinché avvenga questo ridimensionamento del dolore? Lo chiedono all’uomo.
All’uomo piace mangiare carne o indossare una calda pelliccia, o fare una corsa a cavallo, addirittura l’uomo prova piacere a cacciare o a pascare. E’ nella natura dell’uomo tutto questo, esattamente come è nella natura del leone abbattere la gazzella o del toro diventare aggressivo di fronte allo sventolare di un drappo. Ma per gli animalisti l’uomo deve reprimere queste componenti della sua natura, egli è intelligente, sa distinguere il bene dal male può farlo, deve farlo! Deve farlo in quanto essere intelligente, morale, deve farlo in quanto uomo! All’uomo e solo all’uomo si chiede, a volte giustamente, di reprimere certi istinti, di correggere la propria natura, non avrebbe senso alcuno a chiederlo a uno squalo, ad un gatto e neppure agli intelligenti delfini e scimpanzè, all’uomo invece si, chiederlo a lui ha senso. Eppure questi stessi animalisti negano che l’uomo abbia uno status diverso da quello di tutti gli altri animali senzienti; nel momento stesso in cui devono riconoscere che non tutto nell’uomo è semplice natura o quanto meno che nella natura umana esiste, per quel che possiamo sapere, qualcosa che non esiste in nessuna altro ente naturale, proprio nel momento in cui ammettono tutto questo, gli animalisti considerano “razzista” chiunque sottolinei la particolarità e la alterità dell’uomo nei confronti degli altri animali, teorizzano che nulla di fondamentale può farci preferire la vita di un essere umano a quella di un topo, considerano la vita di un’anguilla più importante di quella di un feto umano. Dando prova di una dissociazione schizofrenica davvero notevole i liberatori degli animali esaltano e nel contempo degradano l’uomo.

Ma è in qualche modo possibile che l’uomo segua le raccomandazioni degli animalisti? Quali sarebbero le conseguenze di una loro generalizzata messa in pratica? Che l’uomo possa correggere alcuni aspetti della propria natura è vero, che possa instaurare rapporti (quasi) non violenti con alcuni animali e meno violenti col mondo animale nel suo complesso lo è altrettanto. Che molta violenza umana, diretta sia verso altri esseri umani che contro la natura non umana, sia gratuita e vada ridotta è ancora vero. Con tutto ciò però il problema di fondo resta irrisolto. Forse l'uomo non è solo natura ma comunque è e resta anche un essere naturale, spinto ad agire da istinti, esigenze, bisogni naturali. Se l’uomo fosse una sorta di angelo o di semidio potrebbe assumere nei confronti del resto della natura atteggiamenti del tutto esenti da ogni forma di violenza, ma l’uomo è solo uomo, è nella natura, non sopra o a fianco di essa e precisamente in quanto essere naturale, non potrà mai eliminare del tutto la violenza nei confronti degli altri esseri naturali. Fra uomini, gatti e topi non esisterà mai un rapporto simile a quello che esiste, o può, o deve esistere, fra soggetti morali.
Ammettiamo pure che gli esseri umani possano rinunciare senza troppi inconvenienti a diete carnivore, a bistecche di manzo e a pesce, a latte, uova e formaggio ed ancora a pellicce, seta e lana, scarpe, cinture e borse di cuoio, cera, miele, medicine testate su animali e tante altre inutili cosette. Il problema non sarebbe affatto risolto, caso mai aggravato. Lo sviluppo dell’agricoltura, come quello della urbanizzazione, tolgono spazi agli animali e ne uccidono molti più che non la tanto aborrita caccia; la costruzione di una fabbrica di lana sintetica, o di un villino eco compatibile, distruggono una quantità enorme di lombrichi, fanno a pezzi tane di talpe, lasciano senza cibo uccelli, lepri e scoiattoli, lo stesso accade per la gran maggioranza delle opere dell'uomo. L'habitat dell'uomo toglie spazio vitale agli altri animali, lo stesso amore umano per certi animali si trasforma in violenza verso altri animali, quelli che a torto o a ragione non sono oggetto di pari affetto da parte nostra, basta entrare in un negozio in cui si vendono articoli per animali per rendersene conto.
Non è il caso di moltiplicare gli esempi: l’unico modo che l’uomo avrebbe per trattare coerentemente da esseri morali gli altri animali sarebbe quello di rinunciare alla civiltà, recedere di secoli, ricostituire una situazione sociale e culturale in cui il solo parlare di rapporti meno violenti con gli animali farebbe indignare o ridere. Le proposte animaliste radicali sono folli perché se attuate condurrebbero a rischio di estinzione l’unica specie a cui ha senso parlare di obbligazione morale ed anche di benevolenza verso le altre specie.

Non si possono instaurare rapporti fondati sull'etica con esseri per i quali l'etica non ha senso alcuno. Rispettare moralmente, ad esempio, un orso, e conferire allo stesso la dignità di soggetto giuridico, vuol dire rispettarlo per quello che è, rispettarlo in quanto orso. Questo fatto però ha molte conseguenze. Se, per fare solo un esempio, l’orso ci aggredisse potremmo ucciderlo in nome della legittima difesa? No, ovviamente. L’istinto ad aggredirci è parte della natura dell’orso che noi dobbiamo rispettare dal momento stesso in cui abbiamo elevato l’orso al rango di soggetto morale e di diritto. E’ possibile pretendere che un essere morale, capace di distinguere il bene dal male, un uomo insomma, ci rispetti, è giusto difendersi da lui e punirlo se non lo fa. Nei confronti dei nostri simili hanno senso i concetti di giustizia, punizione e legittima difesa. E’ insensato invece punire un essere che non è capace di distinguere il bene dal male, o affermare che ci difendiamo legittimamente da lui. Se l'orso è soggetto morale, è lui ad aggredirici legittimamente, spinto dalla sua natura che noi dobbiamo rispettare. In realtà con un essere simile si possono avere rapporti basati sulla forza, sulla ricerca dell'utile o anche sulla benevolenza, ma non si potranno mai avere rapporti basati sui concetti di diritto, giustizia, legittimità, legittima difesa.
Qualcuno potrebbe obiettare che situazioni simili si verificano anche con gli esseri umani, ad esempio con i bambini o con persone incapaci di intendere e di volere che non possono essere incolpate per le loro azioni, ma sono tuttavia titolari di diritti. L'obiezione però si basa su un equivoco. Un bambino diventerà capace di intendere il bene ed il male, il disabile potrebbe diventarlo, o avrebbe potuto esserlo. Entrambi fanno parte di una specie che ha come sua caratteristica essenziale la capacità di discernere il bene dal male, per questo sono titolari di diritti. E sono indirettamente sottoposti a doveri. Se loro non possono essere incolpati per le loro azioni sbagliate altri possono esserlo per loro: i genitori, un tutore. Ma ha senso una simile situazione per un leone o un orso? Un orso od un leone non sono degli uomini menomati, la mancanza di capacità di intendere il bene ed il male non è una carenza della loro natura ma una sua caratteristica essenziale. Chi dovrebbe essere responsabile per un leone od un orso? Un uomo forse? Questo vorrebbe dire che orso e leone dovrebbero essere addomesticati, quindi privati della loro libertà, quindi menomati nei loro presunti diritti. Comunque si rigiri la cosa l'equiparazione etica fra uomo ed animali non umani resta una ridicola chimera.

Il vero confine nella natura passa fra chi è e chi non è capace di giudizio morale, fra chi sa e chi non sa distinguere il bene dal male e quindi può essere definito “buono” o “cattivo”, “innocente” o “colpevole”
. L’uomo merita uno status morale particolare non perché più buono delle bestie ma perché può essere considerato cattivo se si comporta da bestia. Ha senso considerare l’uomo degno di rispetto morale perché l’uomo può legittimamente essere punito se rifiuta il rispetto ai suoi simili. Anche se spesso si comporta peggio delle belve più sanguinarie l’uomo merita uno status diverso da queste perché definendo lui “una belva” lo si svalorizza. La possibilità di agire moralmente crea una frattura nella natura perché forse questa possibilità non può essere interamente spiegata dalle leggi della natura. L’uomo forse non è solo natura, appunto per questo forse è libero, quindi responsabile, quanto meno va considerato tale. Nessun gatto invece lo è. E’ tutta qui la differenza fra uomini e gatti.






Note

1) Wikipedia: Specismo. Rinvenibile in rete alla voce: specismo

2) Ibidem

3) David Oliver: Protezione animale e liberazione animale. Rinvenibile in rete digitando: “movimento per la liberazione animale” e poi “protezione animale e liberazione animale”

4) Ibidem

5) David Olivier: Aborto e liberazione animale. Rinvenibile in rete digitando “liberazione animale” e poi “aborto e liberazione animale”

6) Ibidem.

7) P: Singer: Etica pratica. Citato in: Giovanni Fornero: Bioetica cattolica e bioetica laica. Bruno Mondadori 2009 pag. 109

8) Ibidem pag. 109 - 110





sabato 19 ottobre 2013

SUL SOLIPSISMO







1  -  TUTTO E' RAPPRESENTAZIONE?

Tutte le forme di relativismo, di scetticismo e, in genere, tutte le filosofie che riducono il mondo empirico al soggetto cercano di tenere lontano da loro un ospite che, chissà perché, viene considerato impresentabile. Lo tengono lontano più che altro ignorandolo, se sono costrette a parlarne lo fanno solo per dire che questo personaggio non ha nulla a che fare con loro, un po' come si fa in certe ricche famiglie con i parenti poveri di cui ci si vergogna. Eppure si tratta di un personaggio che ha la sua dignità ed è da sempre presente nel dibattito filosofico. Il suo nome è solipsismo.
Il solipsismo nega l'esistenza di ogni realtà esterna al soggetto, compresa l'esistenza di altri esseri senzienti e pensanti. Noi non vediamo mai le cose, e neppure le persone, vediamo sempre solo le nostre rappresentazioni delle cose e delle persone. Tutto ciò che ci sembra oggettivo, fuori di noi, è in realtà in noi, nella nostra mente o nei nostri organi di senso. Le “cose” e le “persone” (non sono casuali le virgolette) sono in realtà sensazioni, o rappresentazioni nel soggetto.
Sono chiaramente solipsistiche le considerazioni scettiche di Cartesio. Tutto è nel soggetto ma, attenzione, il soggetto autentico, l'unico della cui esistenza posso essere indubitabilmente certo, sono IO. Gli altri esseri umani sono infatti esterni a me esattamente come alberi, fiumi e monti. Io non vedo Tizio come Tizio è in realtà è: lo vedo nei miei occhi, sento nelle mie orecchie ciò che lui dice, lo tocco, sento il suo odore. Esattamente come un sasso Tizio è solo un insieme di rappresentazioni in me. “Penso, dunque esisto” questa è per Cartesio l'unica certezza originaria, la base su cui costruire tutto l'edificio del sapere. Cartesio non è un teorico del solipsismo. Parte dal “cogito” per costruire una concezione del mondo in cui l'esistenza della realtà esterna e, a maggior ragione, degli altri soggetti, non possa più essere messa in dubbio. La certezza granitica su cui tutto si fonda è però di tipo chiaramente solipsistico: “Penso, esisto”, appunto... IO penso, IO esisto.

Non è mia intenzione esaminare le varie forme di solipsismo che hanno fatto da sempre capolino nella storia del pensiero. Si tratta di una impresa assolutamente superiore alle mie forze. Quello che mi interessa sottolineare è che molti pensatori le cui posizioni hanno, se coerentemente sviluppate, conseguenze solipsistiche si sono sempre tirati indietro di fronte a queste. La cosa non deve stupire in fondo. Il solipsismo appare talmente assurdo al senso comune che anche quei filosofi che col senso comune non vogliono averci nulla a che fare non possono non sentirsi in imbarazzo accanto ad un compagno di strada tanto strano. Che il mondo, e col mondo gli altri esseri umani, non esistano, che io sia l'unico essere pensante e senziente al mondo, che tutto sia rappresentazione in me è difficile da sostenere, anche da parte di chi quasi trova un sottile, perverso, piacere nello stupire la gente. Sopratutto le tesi solipsistiche sono contraddette in ogni momento dal concreto agire degli esseri umani, compresi quegli strani esseri umani che sono i filosofi. Il professore di filosofia che sostiene che “tutto è rappresentazione in me”, polemizza con Tizio, parla con Caio, legge le opere di Sempronio. Ed inoltre fa tante altre cosette. Si alza la mattina e si reca all'università dove spiega ai suoi studenti che il mondo è solo “rappresentazione in me”, si... ma in quale “me”? Nel “me” del professore che parla? O in quello degli studenti che ascoltano? Non viene specificato. Finita la lezione il solipsista va a a pranzo con amici, poi entra in un negozio e compra una camicia, la sera si incontra con la fidanzata e magari, se la serata è quella giusta, fa con lei un po' di sesso. E' la vita, prima delle confutazioni teoriche a far apparire il solipsismo una assurdità. Schopenhauer definisce il solipsismo “un problema psichiatrico e non filosofico”, forse ha ragione, peccato che alcune parti del suo sistema, quelle in cui definisce “rappresentazione” il mondo empirico, abbiano implicite conseguenze solipsistiche; forse sta proprio qui la causa della sua invettiva. Come tutti i parenti o gli amici di cui ci si vergogna il solipsismo è riempito di improperi proprio da chi gli è a volte piuttosto vicino.

Naturalmente avvicinarsi a volte al solipsismo non significa aderire alla sua tesi di fondo. Si parlava di Schopenhauer, ebbene, la sua filosofia può essere definita tutto meno che solipsista. Il grande filosofo ritiene addirittura di aver scoperto l'essenza ultima del mondo, l'intellegibile noumeno che sta sotto ai fenomeni e che si identifica per lui, è noto, con la volontà; siamo ben lontani, come si vede, non solo dal solipsismo ma da ogni tipo di soggettivismo. Però, se Schopenhauer ritiene di avere nel suo sistema penetrato l'arcano della misteriosa cosa in se, il suo atteggiamento verso il mondo fenomenico può definirsi senza ombra di dubbio radicalmente soggettivista. “Il mondo è la mia rappresentazione” così comincia il mondo come volontà e rappresentazione, e prosegue: “ è questa una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto possa tradurla nella coscienza riflessa, astratta: e se ciò egli fa realmente, ecco che è cominciata in lui la riflessione filosofica. Allora si fa per lui chiaro e certo che egli non conosce il sole e la terra, ma sempre e solo un occhio che vede un sole e una mano che sente una terra; che il mondo che lo circonda esiste solo come rappresentazione, cioè sempre e solo in rapporto ad un altro, al portatore della rappresentazione, che è egli stesso” (1)
Il mondo fenomenico esiste come rappresentazione in me. Schopenhauer interpreta in maniera fortemente soggettivistica il fenomenismo di Kant. Il mondo esiste nel cervello, negli organi di senso, nel soggetto, è nulla al di fuori del soggetto. Questa verità, afferma Schopenhauer, “fu Berkeley che la enunciò decisamente: egli si è in tal modo acquistato un merito immortale verso la filosofia” (2) ma ben prima di Berkeley questa verità era stata affermata, sia pure in forma di mito, dalla antica filosofia vedantica che aveva negato alla materia una esistenza autonoma dalla percezione.
Per Schopednhauer il mondo empirico quindi è sempre rappresentazione, è qualcosa che non ha esistenza autonoma ma che esiste solo nel soggetto. Esiste nel soggetto non come informe rapsodia di sensazioni ma come insieme strutturato e coerente di fenomeni. Su questo Schopenhauer segue Kant: l'esperienza è qualcosa di ordinato, conforme all'apriori dell'intelletto, anche se il filosofo di Danzica riduce alla sola causalità le categorie kantiane. Schopenhauer è però un pensatore non solo di estrema intelligenza ma anche di profonda onestà intellettuale e non si nasconde il problema che sorge spontaneamente nel suo sistema: “ Da una parte” afferma, “l’esistenza di tutto il mondo dipende necessariamente dal primo essere conoscente (..) dall’altra vediamo che questo primo animale conoscente dipende altrettanto necessariamente e in modo assoluto da una lunga catena a lui precedente di cause ed effetti in cui esso medesimo rientra come un piccolo anello. Queste due vedute contraddittorie a ciascuna delle quali in realtà noi siamo condotti con uguale necessità potrebbero veramente essere dette un’antinomia della nostra facoltà conoscitiva” (3).
L'ordine che le categorie impongono al mondo fenomenico non è qualcosa di soggettivo, una sorta di capriccio al quale il soggetto assoggetterebbe i fenomeni. E' un ordine oggettivo, universalmente valido, costituisce il fondamento stesso delle scienze e del loro valore conoscitivo; in questo, di nuovo, Schpenhauer segue Kant, anche se rigetta undici delle dodici categorie kantiane e ritiene che la concordanza dei fenomeni con la causalità possa essere oggetto di una intuizione intellettuale. Però sono proprio le scienze a dirci che il mondo, il mondo così come empiricamente ci appare, il mondo fatto di uomini e montagne, gatti e fiumi, è esistito prima dell'uomo, ed il mondo inanimato ha preceduto l'entrata in scena degli esseri viventi. Se questo è vero come è possibile sostenere che l'oggetto esista solo in relazione al soggetto conoscente? Schopenhauer accetta questa antinomia, non la risolve. Il tempo e lo spazio sono solo nel soggetto, e solo nel soggetto è la causalità, e solo nel soggetto sono le rappresentazioni. D'altra parte il soggetto è nel tempo e nello spazio, è determinato da cause. Se cerca di uscire dall'antinomia Schopenhauer lo fa approfondendo il livello della speculazione, passando dal livello della rappresentazione a quello della volontà, dal mondo dei fenomeni a quello sottostante della cosa in se.

Rilevando nel suo sistema una antinomia della facoltà conoscitiva Schopenhauer sfiora il problema del solipsismo, ma subito se ne ritrae, leggermente infastidito. Afferma, lo si è già ricordato, che il solipsismo è un problema psichiatrico e non filosofico ma questo non risolve il problema implicito nella antinomia da lui stesso evidenziata.
Esiste una autonomia del mondo dal soggetto? Il mondo esisteva prima che apparisse un qualsiasi soggetto senziente? E' evidente che nella mia esperienza io sono in costante rapporto col mondo ed il mondo è in costante rapporto con me, ma il punto è: il mondo esiste solo nella mia esperienza o la mia esperienza mi rivela, in piccolissima parte, il mondo? Non appena il problema sia posto in questi termini esso inevitabilmente si amplia. Quasi tutti i soggettivisti parlano di soggetto ma usano poi spesso e volentieri il pronome “noi”. Parlano delle rappresentazioni “nell'uomo” ed intendono rappresentazioni in Tizio, Caio e Sempronio, addirittura si riferiscono alle rappresentazioni degli animali. Ma se il mondo è rappresentazione,  se esiste solo in relazione al soggetto, a quale soggetto è relazionato? In chi è rappresentazione?  Basta porre la domanda per avere la risposta: gli altri soggetti sono per me oggetti, oggetti esterni come le case ed i gatti; se il mondo esiste solo relazionato al soggetto esiste relazionato a me, è  rappresentazione in me. Tutto il resto, compresi gli altri esseri umani esistono solo come mie rappresentazioni. Con quale fondamento allora posso parlare di Tizio, Caio e Sempronio come di soggetti senzienti distinti da me? Io vedo Tizio, parlo con lui, lo sento. Ma, se Tizio esiste solo come rappresentazione in me, posso ipotizzare che io sia a mia volta rappresentazione in lui? In realtà io non ho, non ho mai avuto e non posso avere la rappresentazione di Tizio che vede me come sua rappresentazione. Se io posso essere rappresentazione in Tizio allora Tizio non è, non può essere, solo rappresentazione in me, è, deve essere, almeno in parte, autonomo da me. Tizio ha rappresentazioni che io non ho né posso avere, la mia ad esempio, esiste anche quando io non lo vedo e non lo sento, esisteva prima che io nascessi se è più anziano di me, esisterà dopo che io sarò morto, se mi sopravviverà. O Tizio è rappresentazione in me, e in questo caso non ha autonomia da me e non ha a sua volta rappresentazioni, oppure Tizio ha sue rappresentazioni, ha una sua autonomia da me, ed allora non è solo rappresentazione in me. Tertium non datur.
Non è vero che il rapporto soggetto oggetto di cui parlano spesso i soggettivisti sia, come a volte qualcuno di loro afferma, un rapporto alla pari. Se il mondo è sensazione, o percezione, o rappresentazione allora la realtà primaria è il soggetto, non il mondo, e tutto ciò che consideriamo mondo non ha esistenza autonoma al di fuori del soggetto. Ma nel mondo ci sono anche gli altri esseri umani, gli altri esseri senzienti, gli altri centri in cui dovrebbero apparire rappresentazioni non mie. Se tutto è rappresentazione questi altri esseri umani e senzienti non esistono come esseri autonomi da me, solo io esisto. Piaccia o non piaccia la cosa, se il mondo è solo rappresentazione, o percezione, o sensazione allora il solipsismo è vero.

Il problema del solipsismo è legato a quello della verità. E' evidente che se non esiste alcuna realtà esterna al soggetto non si pone neppure il problema del confronto fra questa realtà e le nostre rappresentazioni, ed i nostri pensieri. Poniamo che io veda in lontananza una città e dica: “è Parigi”. Poi mi avvicino e dico: “no, non è Parigi, è Roma”. Se il mondo è sensazione, o percezione, o rappresentazione in me, ha senso dire che la prima affermazione è falsa e la seconda è vera? Se la realtà esterna non esiste potrò solo dire che prima ho avuto una rappresentazione che ho chiamato “Parigi” e dopo un'altra che ho chiamato “Roma”. Si elimini una realtà indipendente dal soggetto e si potranno ordinare percezioni, sensazioni e rappresentazioni, le si potrà confrontare fra loro ma non le si potrà mai dividere in “vere“ e “false”. E neppure si potranno dividere le rappresentazioni in nitide e confuse, chiare o sbiadite. Perché la visione di un palazzo distante, di cui non riesco ad intravedere il colore né, con precisione, le forme, dovrebbe essere “confusa”? Il significato di confusa o di nitida riferito ad una rappresentazione ha senso se esiste qualcosa di esterno alla rappresentazione stessa, qualcosa che la rappresentazione raffigura in maniera più o meno fedele, chiaramente o confusamente. Si elimini la realtà esterna e tutte le rappresentazioni sono sullo stesso piano, posso definirle simili o dissimili fra loro ma non più o meno nitide, più o meno confuse. Una volta che si accetti il solipsismo il problema della verità svanisce, tutto diventa vero perché qualsiasi percezione, o sensazione o rappresentazione è vera per il solo fatto di essere esperita dal soggetto. In effetti chi accetta davvero il solipsismo non ha difficoltà alcuna a negare il concetto stesso di verità. Per lui la verità è un falso problema, o ci sono molteplici verità, tante verità quante sono le rappresentazioni, il che equivale a dire che non c'è verità alcuna. E' meno chiaro invece l'atteggiamento di coloro che negano validità al concetto stesso di verità e rifiutano il solipsismo. E' questo il triste destino dell'ospite indesiderato: molti gli sono piuttosto vicini ma pochissimi lo accettano, anzi, gli improperi più duri gli arrivano a volte proprio da coloro che dovrebbero essergli amici.

Spesso varie filosofie che si avvicinano pericolosamente al solipsismo gli sfuggono indirizzando l'analisi verso livelli più profondi di realtà. La conclusione a cui Cartesio giunge nelle sue “meditazioni” è chiaramente solipsistica: “penso, dunque esisto”. Io penso, io esisto, solo di questo posso essere certo. Il soggetto cartesiano che pensa e dubita è solo al mondo, quanto meno, solo della sua isolata esistenza può essere certo. Cartesio però sfugge al solipsismo. Passa dal cogito all'esistenza di Dio e questa fonda e garantisce in maniera indubitabile l'esistenza del mondo esterno e degli altri esseri pensanti e senzienti.
Schopenhauer dal canto suo riduce il mondo a rappresentazione ma non fa del soggetto isolato l'unica realtà, al contrario. Dietro al mondo delle rappresentazioni c'è la volontà che si particolarizza nel mondo empirico. Tizio che vedo e con cui parlo esiste in realtà fuori di me, ma non come Tizio, come essere umano che vive nello spazio e nel tempo, in quel senso Tizio è solo una mia rappresentazione. Il vero Tizio è la volontà, meglio, una particolarizzazione della volontà che mi appare nella forma fenomenica di Tizio. L'altro da me esiste quindi ma esiste in una forma del tutto diversa da quella in cui mi appare, del tutto diversa ed assolutamente inaccessibile.
Però noi quando parliamo di esistenza del mondo e di Tizio intendiamo precisamente esistenza di enti che esistono nello spazio e nel tempo, che sono sostanze e vivono in un mondo in cui opera la legge di causalità. E' di questi enti che parla la scienza quando afferma che alcuni di loro sono esistiti prima che l'uomo, o addirittura ogni essere senziente, comparissero sul pianeta. Quando parlo di autonomia di Tizio nei miei confronti mi riferisco al fatto che ora io non vedo né sento Tizio, eppure egli è da qualche parte nel mondo, parla con altri esseri umani, ha rappresentazioni che io ora non ho, non ho avuto e forse non avrò mai. E' in relazione ad un ente di questo tipo che sorge il problema del solipsismo. Qualsiasi cosa sia a fondamento di Tizio, quale che sia il “Tizio in se”, egli ha una esistenza autonoma nello spazio e nel tempo, è una sostanza, vive in un mondo in cui esistono cause ed effetti? Oppure questo Tizio spazio temporale, empirico, è solo un insieme di rappresentazioni in me?
Anche un filosofo dichiaratamente soggettivista come Berkeley cerca di sfuggire alla sirena solipsistica mettendo sopra al soggetto un ente che è totalmente altro da lui: Dio. Per Berkeley essere coincide con percepire, non esiste un mondo materiale in se, indipendente dalle percezioni soggettive. Tutto questo però non porta al solipsismo: le cose esistono anche quando non le percepiamo perché vengono costantemente percepite da Dio.
La scoperta di un livello più profondo di realtà, di Dio o del misterioso “in se” rende non assoluto il solipsismo, pone sopra, o sotto, o accanto al soggetto senziente qualcosa di diverso da lui che lo salva dalla assoluta solitudine. Si tratta però di una garanzia che, a ben vedere le cose, salva ben poco del mondo. Io non sono l'unico essere pensante e senziente al mondo perché sopra, o accanto, o sotto di me esiste un ente inconoscibile, o Dio. Però... però mia moglie e i miei figli, ed i miei amici, ed il mio fedele cane, ed il monte che vedo dalla finestra di casa mia non hanno una esistenza propria, sono solo nella mia mente e nei miei organi di senso. Se si limita l'analisi al mondo fenomenico tutte le filosofie che riducono il mondo a sensazione, o percezione o rappresentazione cadono o si avvicinano pericolosamente al solipsismo.

Il problema diventa ancora più intricato se si pensa che io stesso sono una rappresentazione. Il mio corpo è esteso nello spazio, i miei stati interni si dipanano nel tempo, ritengo di essere una realtà sostanziale, sono sottoposto alla legge di causalità. Insomma, io sono un essere empirico, quindi una rappresentazione. Ma se io sono una rappresentazione in cosa sono rappresentazione? E di cosa lo sono? Risorgono le contraddizioni relative al noumeno kantiano. Come può un essere fuori da spazio e tempo, sostanza e causalità, quantità e qualità conoscere se stesso e il mondo in forma spaziale e temporale? Come può conoscersi e conoscere il mondo come sostanza quali quantitativa, come causa ed effetto? Si può dire che l'albero in se, colpendo i miei organi di senso mi appare in forma spazio temporale, o che la mia mano in se, stimolando i miei organi sensoriali mi appare grande e colorata. Ma, che senso hanno queste affermazioni? L'albero in se è fuori da spazio e tempo, sostanza e causalità, non ha relazione alcuna con i miei organi sensoriali; dal canto loro i miei organi sensoriali sono qualcosa che esiste ed opera nello spazio e nel tempo, sono grandi o piccoli, e colorati, insomma sono parte del mondo empirico come gli alberi e le mani. Il salto dall'in se al fenomeno è sempre troppo ampio.
Nel bel “saggio sulla critica della ragion pura” il filosofo analitico Peter F. Strawson, che pure riconosce il grandissimo valore della prima critica, coglie molto bene questa debolezza del concetto di noumeno inteso non come limite al conoscibile ma come fondamento e causa dei fenomeni. Esattamente come percepisco in forma fenomenica il mondo in se io, come soggetto noumenico, mi conosco fenomenicamente. Kant, ricorda Strawson, fa spesso simili affermazioni. Però, aggiunge il filosofo inglese “l'identità che si deve spiegare – l'identità del soggetto empiricamente autocosciente e del soggetto reale o sopra sensibile – è semplicemente assunta, senza essere minimamente resa più comprensibile. Se le apparenze di X a X si presentano nel tempo, non possono far parte della storia di un soggetto trascendentale soprasensibile che, in quanto tale, non può avere una storia. In altre parole, non possono essere descritte in modo fondato come apparenze per me come IO (soprasensibilmente) sono in me stesso. Il riferimento a me stesso come IO (soprasensibilmente) sono in me stesso cade, in quanto è superfluo e ingiustificato; di conseguenza cade ogni fondamento per affermare che io, nell'autocoscienza empirica, appaio a me stesso diverso da come sono realmente” (4)
Io appaio come non sono ad un essere che non sono. Apparendo fenomenicamente, quindi come non è, l'io noumenico non conosce se stesso, non appare, in senso proprio, a se stesso: questa la conclusione di Strawson. Se la conclusine è fondata (e sembra davvero esserlo) che senso ha parlare del fenomenico come di un "apparire"?
Considerazioni simili possono farsi se si passa dall'analisi dell'io noumenico a quella del mondo noumenico. Questo appare come non è ad un soggetto che non è come appare. Le cose che sono nel mondo acquistano in questo modo caratteristiche assai strane. Io vedo una di queste, ad esempio una sedia. La tocco, sento il rumore che fa strisciando sul pavimento, mi è capitato di inciampare su questa dannata sedia una volta, camminando in una stanza buia. Ma tutto questo non riguarda la sedia noumenica. Questa non la tocco, né la sento, né inciampo in essa. La cosa noumenica non ha nessuna di quelle caratteristiche che fanno di un ente una cosa. Non è nello spazio né nel tempo, non ha relazione alcuna, né diretta né indiretta, con la sensibilità, non è causa né effetto di nulla. Un simile ente è davvero qualcosa?
Ancora una volta, non appena ci si avvicina al baratro che separa l'in se dai fenomeni questo ci appare incolmabile. L'in se si ritrae e scompare, resta il mondo fenomenico, inteso però non come apparenza o percezione o rappresentazione. Inteso come mondo reale. “La vera cosa in se è il fenomeno”. Qualcuno ha cercato in una simile affermazione la chiave per una interpretazione di Kant che elimini dal criticismo ogni traccia di soggettivismo.

Questa eliminazione tuttavia risulta difficile, perché un certo soggettivismo affonda le sue radici in quello che è giustamente considerato uno dei concetti basilari del criticismo: il concetto di sintesi. Che ogni conoscenza sia in una certa misura una sintesi non può, dopo Kant, essere messo in dubbio. Se non collegassi in una rappresentazione unitaria il molteplice dell'intuizione sensibile non avrei in senso proprio una esperienza ma solo un insieme caotico di sensazioni. Se non considerassi unitariamente le mura, il tetto e le finestre non potrei dire che quella che mi sta di fronte è una casa, ed il considerare unitariamente non è mera passività, è attività dell'intelletto, sua capacità sintetica. In questo senso chi parla di sintesi coglie in larga misura nel segno. Ma, una cosa è dire che se io non collegassi in una rappresentazione unitaria le mie sensazioni il mondo per me sarebbe caos, altra cosa è dire che in effetti il mondo è caos e che solo la mia sintesi crea in esso un certo ordine. C'è chi dice proprio questo, forte, occorre ammetterlo, di agganci nell'opera principale di Kant. Il mondo sarebbe caos, caos in cui la sintesi mette ordine. E' il soggetto ad ordinare spazialmente e temporalmente le impressioni sensibili, a collegarle secondo categorie e a costruire in questo modo il mondo. In questa concezione mondo esiste fuori dal soggetto ma non come mondo in cui esistono le case, e le mura, e le finestre, ed i tetti, esiste come caos inintellegibile di sensazioni puntuali che solo grazie alla sintesi del soggetto prendono forma e diventano, appunto, mondo. Lo scetticismo di chi non crede al “fuori di noi” diventa scetticismo di chi crede che non esista nulla di comprensibile, e neppure di intuibile, fuori di noi.
Ma, come osserva giustamente Strawson nel già citato “saggio sulla critica della ragion pura”, l'ipotesi della sintesi creatrice dell'ordine poggia su quella del caos originario, e l'ipotesi del caos originario si basa su quella della sintesi ordinatrice. La sintesi è creatrice dell'ordine perché il mondo è caos, il mondo è caos perché ogni ordine in esso rinvenibile è il risultato di una sintesi: le due tesi si richiamano e si sostengono a vicenda. In realtà ogni sintesi presuppone un certo ordine. Per poter sintetizzare nello spazio e nel tempo qualcosa, occorre che questo qualcosa abbia già una dimensione spaziale e temporale. Io posso collegare la porzione di spazio A con quella B, ed entrambe con le porzioni di tempo T' e T'' solo se A e B, T' e T'' hanno già uno spessore spaziale e temporale, sono già parti di spazio e di tempo. Se il tempo e lo spazio non esistessero al di fuori della sintesi non potrebbe esistere alcuna sintesi spazio temporale per il semplice motivo che non ci sarebbe nulla da sintetizzare. Ed ancora, per poter considerare unitariamente come una casa, tetto e pareti, porte e finestre occorre che queste abbiano un minimo di stabilità e contiguità spazio temporale: se porta, pareti e tetto si trasformassero di continuo in un albero, e poi in un insieme di colori, e poi ancora in sprazzi di luce, quale sintesi potrei mai instaurare fra simili fenomeni? E lo stesso soggetto ordinatore deve a sua volta essere in qualche modo ordinato per poter ordinare, deve essere in qualche modo una sostanza per potersi riconoscere come sostanza e poter riconoscere nel mondo delle sostanze. Se tutto nel mondo è caos e ogni tipo di ordine discende da una sorta di sintesi creatrice dell'ordine, a diventare incomprensibile è proprio questa sintesi.
Ogni costruttivismo presuppone una realtà, oggettiva e soggettiva, in qualche modo già costruita. Si elimini questa e nella stessa sintesi kantiana si intrufola, di nuovo, l'ospite indesiderato, il solipsismo. Si, proprio lui, anche dove sembrava non potersi intrufolare. Perché, se ogni ordine nel mondo è, tutto e per intero, il prodotto di una sintesi soggettiva, come posso ammettere l'esistenza, fuori di me, di Tizio e Caio? Tizio e Caio sono enti strutturalmente ordinati, con una loro permanenza spazio temporale, sono fuori di me ed autonomi da me. Ma, se ogni ordine nel mondo promana dal soggetto perché mai l'ordine che è in Tizio e Caio, e che fa si che essi siano Tizio e Caio, non potrebbe, meglio non dovrebbe essere il prodotto della mia sintesi? La sintesi kantiana è una sintesi intersoggettiva, si potrebbe dire, una sintesi di tutti i soggetti, si, ma per me gli altri soggetti sono in realtà oggetti, enti che hanno un loro ordine sostanziale, una propria permanenza spazio temporale solo grazie alla mia sintesi. Come posso riconoscere tutti i soggetti, quindi gli altri soggetti, capaci come me di sintesi ordinatrice, se sono io a donar loro ordine e sostanzialità con la mia sintesi? Come posso dire che Tizio compie una sintesi simile alla mia se è la mia stessa sintesi ordinatrice che pone in essere quella realtà che chiamo Tizio? Ci imbattiamo in difficoltà simili a quelle cui si è fatto cenno parlando delle “rappresentazioni” di Schopenhauer.
Nel suo capolavoro Kant si scontra spesso con simili problematiche senza riuscire a sciogliere i nodi ad esse connessi. La sua opera si presta così a molteplici interpretazioni, da quelle che vi vedono una forma particolarmente ingegnosa di realismo empirico ad altre, che tendono ad assimilare il criticismo ad un soggettivismo tendenzialmente scettico. Capita a tutte le grandi filosofie di aprire strade diverse, che spesso vanno in direzioni opposte.


Note
1) A. Schopenhauer: Il Mondo come volontà e rappresentazione. RCS quotidiani 2009. pag. 110
2) Ibidem pag. 111
3) Ibidem pag. 141
4) Peter F. Strawson: “Saggio sulla critica della ragion pura”. Laterza 1985 pag. 236-237.







2  -  WITTGENSTEIN E IL SOLIPSISMO LINGUISTICO

Nel Tractatus Ludwig Wittgenstein non parla solo di logica. Al centro dei suoi interessi sta il rapporto fra linguaggio logico e mondo. Parlando di questo rapporto però, anche lui si trova a fare brevemente i conti con “l'ospite indesiderato”, che però per il filosofo viennese non è affatto tale. Caso abbastanza raro Wittgenstein affronta il solipsismo chiamandolo per nome e lo analizza con grande acutezza, nel suo inconfondibile, e bellissimo, stile telegrafico.
“Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto” afferma Wittgenstein” e prosegue: “che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò: che i limiti del linguaggio (il solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo. Il mondo e la vita sono tutt'uno” (1)
Affermando che il limite del linguaggio è il limite del mio mondo Wittgenstein conferisce forma linguistica al solipsismo. Come per il soggettivista non si può uscire dalle rappresentazioni per il solipsista linguistico non si può uscire dal linguaggio. Sappiamo che la affermazione che il mio linguaggio è il solo che io comprenda contrasta con la critica del linguaggio privato che in un secondo momento Wittgenstei condurrà nelle “ricerche filosofiche”, ma possiamo tralasciare ora questo dettaglio. Seguiamo invece Wittgenstein nella sua analisi del solipsismo.
Il solipsismo fa per Wittgenstein affermazioni corrette ma, quali sono le loro conseguenze? Appena si misura con queste Wittgenstein mostra che il suo solipsismo è del tutto particolare. Per il solipsista il mondo non esiste se non nel soggetto, in me. Ma, afferma Wittgenstein “Il soggetto che pensa, immagina, non v'è. Se io scrivessi il libro: il mondo come lo trovai, vi si dovrebbe riferire anche del mio corpo e dire quali membra sottostiano alla mia volontà, e quali no, eccetera, e questo è un metodo di isolare il soggetto, o piuttosto di mostrare che, in un senso importante, il soggetto non v'è: D'esso soltanto infatti non si potrebbe parlare in questo libro. Il soggetto non appartiene al mondo ma è un limite del mondo” (2)
Il soggetto non appartiene al mondo. Il rapporto fra soggetto e mondo è simile a quello fra occhio e campo visivo. Ciò che non vediamo mai nel campo visivo è proprio l'occhio. Allo stesso modo il soggetto metafisico, quello in cui esistono le rappresentazioni, quello che vede e sente e pensa e parla non appare mai nel mondo, è sempre fuori dalle rappresentazioni. “Il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide col realismo puro. L'io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso” (3)
Il soggetto è il limite del mondo, non è nel mondo. Non il soggetto empirico ovviamente, le nostre mani o le nostre gambe sono nel mondo, cose fra cose; non è nel mondo il soggetto metafisico, l'io pensante e senziente, quello in cui sono le percezioni, le sensazioni, i pensieri. Per Cartesio l'autocoscienza del me pensante è la base di ogni conoscenza; nella “confutazione dell'idealismo” Kant contesta la posizione di Cartesio: la coscienza del mio me è possibile solo se sono in rapporto con un mondo oggettivo, dotato di almeno un certo grado di stabilità.. Wittgenstein rovescia invece la posizione di Cartesio. L'io pensante non costituisce affatto l'unica evidenza, al contrario questo io non può essere percepito in alcun modo. E così viene espulso dal mondo, cessa di esserne la base per diventarne il limite, limite che mai può essere oggetto di conoscenza alcuna. Il solipsismo più rigoroso si trasforma nel più rigoroso realismo, un realismo del tutto oggettivo, privo di soggetto. Comunque lo si prenda il solipsismo distrugge qualcosa di essenziale. Nella sua versione classica distrugge il mondo, nella personalissima versione di Wittgenstein distrugge il soggetto.

Le considerazioni di Wittgenstein sul solipsismo e, più in generale sul soggetto, non possono essere comprese pienamente se non si approfondisce un elemento centrale del pensiero del filosofo viennese: la distinzione fra dire e mostrare. Per Wittgenstein il linguaggio è una immagine del mondo, una immagine in senso abbastanza stretto, come una carta topografica è una immagine del territorio. Le proposizioni del linguaggio sono immagini degli stati di cose, le combinazioni fra proposizioni, immagini delle combinazioni fra stati di cose. Per Wittgenstein “il mondo è tutto ciò che accade” e “la totalità dei fatti determina ciò che accade ed anche ciò che non accade” (4). Il linguaggio quindi raffigura tutti i fatti possibili che possono accadere, raffigura il mondo nella sua totalità. Tutto ciò che nel linguaggio raffigura il mondo può essere detto. “Dire” significa raffigurare in una proposizione qualcosa che accade nel mondo. Tutto ciò che accade può essere detto.
Ma c'è qualcosa che il linguaggio non può raffigurare, quindi non può dire: il rapporto fra se stesso ed il mondo.
Se il linguaggio è raffigurazione del mondo, qualsiasi cosa il linguaggio dica fa parte di questa raffigurazione, quindi non può esplicitare il rapporto fra raffigurazione e cosa raffigurata. Se guardo la foto di un paesaggio posso scorgere in questa tutti i particolari del paesaggio ma non il rapporto fra il paesaggio e la foto. Poniamo che io veda nella foto la scritta: “questa è una foto” e dica: “questa scritta rappresenta il rapporto fra foto e realtà”. Direi una cosa sensata? No, ovviamente, perché quella scritta sarebbe parte della raffigurazione del paesaggio, lo sarebbe per il solo fatto di essere stata fotografata. Se invece fosse una scritta non fotografata ma aggiunta a mano da qualcuno essa sarebbe estranea alla forma foto. Wittgenstein chiama forma logica ciò che accomuna il linguaggio al mondo e fa si che una certa combinazione di proposizioni nel linguaggio raffiguri una certa combinazione di fatti nel mondo. La proposizione non può dir nulla sul suo rapporto col mondo, quindi sulla forma logica che la accomuna al mondo. Per farlo dovrebbe uscire da se stessa, osservare se ed il mondo per così dire, dall'esterno. “La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare: la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori dalla logica, vale a dire, fuori dal mondo!” (5)
Ma se la forma logica non può esser detta può essere mostrata. Parlando del mondo il linguaggio mostra il suo rapporto col mondo, evidenzia nell'uso ciò che lo accomuna al mondo e che ne rende possibile la raffigurazione linguistica: “La proposizione mostra la forma logica della realtà. L'esibisce. (…) se due proposizioni si contraddicono, lo mostra la loro struttura; e così pure se l'una segue dall'altra e così via. Ciò che può esser mostrato non può essere detto” (6)
Per il solo fatto di parlare mostro che il mio linguaggio si riferisce al mondo e mostro ciò che accomunando linguaggio e mondo rende possibile questo riferimento. Questo “mostrare” riguarda in Wittgenstein linguaggio e la forma logica, e, appunto per questo, il mondo ed il soggetto. Parlando del solipsismo Wittgenstein aveva detto, lo si è già visto, che questo è del tutto corretto, però, aggiunge, il solipsismo non si può dire ma solo mostrare. Il perché è chiaro: Il linguaggio è formato da proposizioni combinate fra loro che raffigurano i fatti, anch'essi combinati fra loro, del mondo. Ora fra i fatti del mondo può trovarsi tutto meno che il soggetto metafisico, questo è fuori del mondo, e ancora meno può trovarsi nei fatti del mondo la rappresentazione delle cose nella coscienza degli esseri umani. Il solipsismo mostra se mostrando i fatti raffigurati nel linguaggio. Per gli stessi motivi il linguaggio non può dir nulla sulla esistenza del mondo. Il mondo è tutto ciò che accade, è l'insieme degli eventi ma, ovviamente, nessun evento può esser definito “esistenza del mondo”, quindi nessuna proposizione lo può raffigurare. Nulla si può dire sulla esistenza del mondo ma questa non è affatto oggetto di dubbio perché il mondo mostra se, mostra se, precisamente, negli eventi che lo costituiscono; il nostro rapporto con questo mostrarsi del mondo Wittgenstein lo chiama: il mistico. “Non come il mondo è è il mistico, ma che esso è. Intuire il mondo sub specie aeterni è il mistico. Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico” (7)
Il mondo mostra la sua esistenza, porsi delle domande su questa è insensato, quindi è insensato per Wittgenstein, lo scetticismo. Lo scetticismo si pone domande su argomenti di cui non si può parlare perché su questi nulla si può dire, invece, “dubbio può sussistere solo ove sussiste una domanda; domanda solo ove sussiste una risposta; risposta solo ove qualcosa può essere detto” (8)
E così, partendo dalla accettazione del solipsismo, Wittgenstein dapprima conferisce forma linguistica al solipsismo (il limite del mio linguaggio è il limite del mondo), trasforma poi il soggettivismo solipsista nel più rigoroso realismo, infine relega il dubbio nel campo dell'insensato, perché nulla è più privo di senso che il dubitare di ciò che non si può dire.

Il rifiuto dello scetticismo è però per Wittgenstein parte del più generale rifiuto di ogni forma di metafisica. Soggetto, oggetto, rapporto fra linguaggio e mondo, fra mondo e soggetto, esistenza del mondo sono tutte cose di cui nulla si può dire. Quando affronta certi argomenti il linguaggio gira per così dire a vuoto, perde significato. Però... però se questo è vero allora lo stesso discorso di Wittgenstein è un “girare a vuoto”. Il Tractatus parla del rapporto fra mondo e linguaggio, perché definire il linguaggio una immagine del mondo è, precisamente, affrontare il problema del rapporto fra linguaggio e mondo. Ed ancora, dire che il soggetto metafisico si contrae in un punto inesteso, scompare e resta solo il mondo, significa, di nuovo, parlare di ciò che non può essere detto, e la stessa critica allo scetticismo ed alla sua pretesa di far domande ove non si può domandare si avventura, anche lei, in un terreno che dovrebbe essere quello del silenzio. Insomma, se ciò che dice Wittsenstein è vero allora il Tractatus è privo di senso. Questa è del resto la conclusione cui giunge lo stesso filosofo viennese, e che espone nella bellissima fase conclusiva del suo capolavoro: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (9)
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere: così si conclude il Tractatus. Vedere rettamente il mondo coincide col considerare insensate le proposizioni che ci hanno consentito questa retta visione del mondo. E' difficile non subire il fascino della prosa di Wittgenstein, bellissima nella sua scarna essenzialità. Però non è possibile non vedere i problemi che questa pone. Come può il non senso aiutarci a vedere rettamente il mondo? Se davvero non è possibile parlare del rapporto fra linguaggio e mondo, e se davvero è insensato porsi domande sull'esistenza del mondo e sul suo rapporto con noi, la stessa decisione di collocare nel non dicibile tutti questi argomenti non può a sua volta essere detta. Non può essere detta neppure una volta. Non si può invitare chi è salito a buttare la scala, dopo averla usata. Se la scala si colloca nella dimensione del non senso allora non può venire usata mai.
Il problema del Tractatus è un po' lo stesso che stiamo affrontando sin dalle prime righe di questo lavoro, che non a caso si è aperto con l'analisi del paradosso del mentitore. Ogni nostro rapporto col mondo è, deve essere, sempre parziale, deve sempre lasciare qualcosa fra parentesi. Wittgenstein ha ragione: mentre parlo del mondo devo dare per scontato il rapporto fra linguaggio e mondo; quando da soggetto mi rapporto al mondo non posso che assumere come dato non analizzabile il fatto che io ed il mondo ci possiamo rapportare. La forma logica del linguaggio, la sua comprensibilità, la sua possibilità di descrivere il mondo mostra se quando uso un linguaggio, mostra se, non è detta. Ma questo è sintomo di una generale non dicibilità del rapporto linguaggio - mondo? O non è possibile, in fondo, al linguaggio uscire da se stesso, e osservare il suo rapporto col mondo? Non può il parlante porsi in un metalinguaggio ed esaminare da quello alcuni rapporti fra linguaggio, o un linguaggio, ed il mondo, o una parte del mondo? Ed ancora, non può il linguaggio, mettendosi a lato di se stesso, approfondire il discorso su se ed il mondo? Proposizioni come “il mondo esisteva quando io non c'ero”, o giudizi del tipo “Quella azione è infame”, o ancora domande come: “l'esperienza è davvero retta dalla causalità?” o: “esiste Dio?” non possono riferirsi ad alcun fatto del mondo, eppure noi le formuliamo e le comprendiamo, è un fatto che le formuliamo e che le comprendiamo, il senso di queste frasi mostra se, è immediatamente evidente. Wittgenstein mostra il massimo rispetto per i problemi che emergono da simili frasi, ma mette entrambi, frasi e problemi, nel campo di ciò che non può essere detto. Ma se qualcosa noi la comprendiamo, davvero ci è impossibile dirla? Certo, queste ultime considerazioni sono probabilmente abbastanza incompatibili con la visione del linguaggio come immagine del mondo, ma forse non è un caso se questa concezione, pure estremamente interessante, sia stata corretta dallo stesso Wittgenstein nelle fasi ulteriori della sua ricerca.

Resta ancora una considerazione da fare. Il solipsismo linguistico di Wittegenstein coincide, lo si è già sottolineato, col più rigoroso realismo. Il solipsismo si mostra come insieme di fatti raffigurati da un insieme di proposizioni. Questo mostrare lascia fuori qualcosa di importante, lo si è visto. Lascia fuori tutte le considerazioni generali sul mondo e sul linguaggio e sul soggetto e l'oggetto, e la mente e il corpo, e tante altre cose ancora. Lascia fuori lo stesso discorso sul solipsismo come concezione del mondo. Insomma, lascia fuori quella che si è definita per secoli metafisica o, semplicemente, filosofia. E neppure Wittgenstein è in grado di restare fedele alla consegna del silenzio che lui stesso pronunciata. Ma il solipsismo senza soggetto di Wittgenstein nel suo mostrarsi lascia fuori qualcos'altro, una parte importante della nostra esperienza che, anch'essa, mostra se, in qualche modo. Si tratta della coscienza del me pensante e vivente. Non, cartesianamente, una coscienza originaria cui attribuire l'unica certezza a cui potremmo aspirare, tuttavia qualcosa che si sente, e che mostra se in noi. Forse non saremo in grado di dirlo ma il mondo non è solo la totalità dei fatti, e il soggetto non compare solo in forma oggettivata nei fatti del mondo. Esiste e si mostra nel mondo qualcosa che mi dice che “io sono vivo”, sono presente a me stesso, qualcosa che fa ”mie“ le esperienze che faccio. Il soggetto è fuori del mondo, ne costituisce il limite? Forse, ma sente di esserci, la coscienza del suo se è ingrediente fondamentale della nostra esperienza.


Note
1) L. Wittgenstein: Tractatus logico philosophicus. Einaudi 1984 pag. 63
2) Ibidem pag. 64.
3) Ibidem pag 64.
4) Ibidem pag. 5
5) Ibidem pag. 28
6) Ibidem pag. 29
7) Ibidem pag. 81
8) Ibidem pag. 81
9) Ibidem pag. 82