domenica 23 giugno 2013

LA MORALE DI KANT



Per Kant, come tutti sanno, il fondamento della morale è qualcosa di solo ed unicamente formale. Se l’imperativo morale fosse basato su qualche caratteristica empirica dell’uomo esso perderebbe ogni universalità. Se il fondamento della morale fosse ad esempio il piacere la legge morale diventerebbe inevitabilmente qualcosa di soggettivo. Ad A piace X, a B piace invece Y, se le azioni morali di A e di B dovessero essere determinate da ciò che a loro piace non esisterebbe più alcuna normativa morale universale, valida per A, B, C, per tutti insomma. Nella tradizione filosofica precedente è il concetto di bene a precedere quello di legge morale. E’ morale ciò che ha per fine il bene. Kant rovescia questa impostazione: il bene è tale se si accorda con la legge morale: “Posto che ora volessimo cominciare col concetto di bene, per far derivare da esso le leggi della volontà, questo concetto di un oggetto (come buono) darebbe nello stesso tempo quest’oggetto come l’unico motivo determinante della volontà. Ora, siccome questo concetto non avrebbe nessuna legge pratica a priori come sua regola; così la pietra di paragone del bene e del male non potrebbe consistere in altro che nella concordanza dell’oggetto col nostro sentimento del piacere e del dispiacere e l’uso della ragione potrebbe consistere solo in questo, nel determinare questo piacere e questo dispiacere (….) sarebbe così esclusa affatto la possibilità di leggi pratiche a priori” (1). Il discorso è abbastanza chiaro: se il concetto di bene precede quello di legge la legge decade a qualcosa di empirico, accidentale. Ogni universalità è distrutta e si aprono le porte al relativismo morale. La conclusione di Kant è quindi molto netta: “Non è il concetto di bene, come concetto di un oggetto, che determina e rende possibile la legge morale, ma al contrario è la legge morale che anzitutto determina e rende possibile il concetto del bene, in quanto esso meriti davvero questo nome” (2).
Per rendere ancora più chiaro il proprio discorso Kant ricorda che il termine “bene” può essere inteso in due sensi diversi ed espresso in tedesco da due diverse parole. Esiste un bene empirico, un bene sensibile che in tedesco è designato dal termine wohl. Con questo termine si designa il bene che è in relazione al nostro sentimento del piacere e del dispiacere. Esiste poi il bene in sé, il bene considerato nella sua relazione alla volontà, “in quanto questa è determinata mediante la legge razionale a far di qualcosa il suo oggetto” (3) e questo tipo di bene è designato dalla parola gut. Ora, l’uomo è un essere sensibile e deve certamente avere a cuore il suo wohl, tuttavia “egli non è affatto così animale da essere indifferente a tutto ciò che la ragione per se stessa dice, e da usare questa solo come strumento del suo bisogno, in quanto egli è essere sensibile” (4). E’ del tutto legittimo perseguire il proprio wohl ma non lo si può mai fare a discapito del gut. Se gut e wohl entrano in conflitto non possono esserci dubbi su chi debba prevalere.

In quanto slegata da ogni accidentalità empirica la legge morale deve essere per Kant unicamente formale: “opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale” (5). La legge morale determina la volontà per sé stessa. I suoi comandi (imperativi) valgono sempre, incondizionatamente, sono categorici. La legge morale vale in tutte le situazioni, quali che siano le condizioni empiriche in cui ci troviamo ad agire. Non ha senso interrogarsi sulle conseguenze dell’obbedienza alla legge: occorre obbedire, sempre e comunque. La legge ci costringe in base al fatto che è una legge formale, universale; nessuna considerazione per il nostro bene (wohl), nessuna valutazione della situazione in cui ci troviamo ad operare può giustificare la disobbedienza all’imperativo categorico. Chi non obbedisce all’imperativo morale compie una azione immorale, punto e basta. La legge morale non trae la sua validità dal fatto che gli esseri umani seguano i suoi precetti, varrebbe anche se nessuno al mondo li seguisse. E’ difficile seguire i dettami dell’imperativo categorico, non è un caso che nessuno li segua sempre e che molti non li seguano mai. Ciò non toglie nulla alla loro validità.
Come si sa Kant ha fornito diverse formulazioni dell’imperativo categorico. L’ultima sembra superare in parte il suo formalismo rigorista. Essa afferma infatti: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni altro, sempre anche come un fine e mai semplicemente come un mezzo” (6). Qui sembra in effetti che il formalismo kantiano si dia un contenuto: l’uomo, l’uomo nella sua materialità empirica, l’uomo come ente che esiste qui ed ora nel mondo. Una simile interpretazione forzerebbe però il pensiero di Kant. Per Kant in effetti l’uomo va rispettato ma va rispettato non tanto per ciò che egli è empiricamente ma per il fatto che le sue azioni possono essere determinate dall’imperativo morale. E’ l’umanità che si deve rispettare, l’umanità che vive nell’uomo. “Questo principio dell’umanità” afferma Kant “non ha origine empirica; prima di tutto per la sua universalità, perché comprende tutti gli esseri ragionevoli in generale (…) secondariamente perché in questo principio l’umanità è concepita non come fine degli uomini (soggettivo) ossia come un oggetto che noi stessi eleviamo a fine, ma come un fine oggettivo che, a prescindere dai fini che ci proponiamo, deve costituire, in quanto legge, la condizione limitatrice suprema di tutti i fini soggettivi (..) cioè: il fondamento della legislazione pratica si risolve oggettivamente nella regola e nella forma dell’universalità (..) e soggettivamente nel fine “ (7). Anche se parlando dell’uomo come fine in sé Kant sembra contraddittoriamente concedere qualcosa all’empiria non c’è dubbio che nel suo discorso prevalga ancora, e nettamente, l’impostazione formalistica che del resto è alla base di tutta la sua concezione della morale.

E’ indubbio che la concezione kantiana della morale contenga molto di positivo. Tutte le concezioni della morale che si basano sul concetto di bene o di vita buona sono destinate ad scontrarsi con difficoltà insormontabili. Nell’”Etica nicomachea” Aristotele espone la sua concezione di vita buona e virtuosa. Si tratta di una concezione abbastanza condivisibile, a modesto parere di chi scrive. Ma una cosa è avere una concezione condivisibile di cosa debba essere la vita buona, cosa diversa è stabilire se su questa sia possibile fondare la morale. E’ quanto meno assai dubbio che la virtù aristotelica possa davvero fondare la morale. E’ proprio impossibile che l’uomo equilibrato di Aristotele possa macchiarsi di un crimine? Se io sono interessato a sviluppare in maniera armoniosa tutte le mie facoltà, se ho intenzione di studiare, se miro a vivere in maniera sana, se amo avere buoni amici, possedere un discreto patrimonio che mi liberi da un lavoro abbruttente, far del bene ai miei simili posso ipso facto evitare di diventare un assassino? Non è ipotizzabile che si possa compiere un delitto allo scopo di procurarsi i mezzi che consentano di vivere una vita virtuosa? Se la morale si identifica con la ricerca di una buona vita non si può mai escludere che diventi compatibile col mancato rispetto degli altri. Possiamo uccidere un nostro simile anche allo scopo, nobile scopo, di procurarci i mezzi che ci consentano di far del bene ad altri esseri umani. Un artista può compiere atti immorali al solo fine di poter meglio sviluppare le sue doti artistiche, gli esempi potrebbero continuare. Dietro al saggio greco esistevano gli schiavi; dicendo questo non si vogliono emettere moralistiche sentenze di condanna nei suoi confronti, ci si limita a sottolineare che il mancato rispetto degli altri può benissimo convivere con la virtù.

Le concezioni della morale basate sul concetto di bene o di vita buona sono destinate a sfociare in qualche forma, più o meno velata di utilitarismo. E’ buono ciò che risulta utile a raggiungere il bene, che ci consente di vivere una buona vita. Ma se il fine è la ricerca dell’utile non si può mai escludere a priori che in questa ricerca si calpestino i diritti dei nostri simili.
Le cose non cambiano se si passa dal concetto di vita buona individuale a quello di vita buona collettiva, se il bene dei molti si sostituisce a quello del singolo. Per alcuni l’azione morale deve mirare al massimo bene per il massimo numero, o alla massima utilità per il massimo numero. Ma se, come ci ricorda Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”, per raggiungere “la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità (..) si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura (…) e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio” ? (8) . Se il massimo bene per il massimo numero si fondasse “sul sangue ingiustificato di un piccino straziato?” (9). Potremmo ancora considerare “morale” una simile ricerca del bene comune? Il massimo bene per il massimo numero è anch’esso compatibile con il mancato rispetto dei nostri simili, spesso di un numero esorbitante di nostri simili. La morale di Kant pone dei limiti, dei limiti invalicabili, alla ricerca dell’utile, della felicità e della stessa virtù. Tutto ciò che faccio deve poter diventare norma di una legislazione universale. Se questo non avviene, se questo limite negativo non è rispettato non c’è discorso su felicità, utilità o virtù che tenga, ciò che faccio è immorale.

Ma l’universalismo astratto di Kant va anch’esso incontro a gravi difficoltà. Kant pretende che l’imperativo morale sia forma pura, completamente slegata da ogni contenuto, ma è sostenibile una simile pretesa? E soprattutto, anche se una pretesa simile fosse fondata sarebbe in grado di giustificare il nostro giudizio su quelle che consideriamo azioni morali o immorali? Spieghiamoci meglio. Esistono azioni che sono comunemente considerate immorali dagli esseri umani ed altre che sono invece considerate morali o comunque conformi alla morale. Uccidere un bambino innocente è giudicato immorale, salvarlo dalla aggressione di un bruto morale. Ogni concezione della morale deve poter dare una giustificazione razionale di simili giudizi. Una concezione della morale che ci portasse a considerare morale uccidere un bimbo innocente non potrebbe non contenere qualcosa di profondamente sbagliato. Una morale completamente anti intuitiva non può essere giusta, non lo può esattamente perché non è in grado di dare un fondamento ed una giustificazione razionale dei nostri giudizi morali.
Ora, la morale kantiana cade molte volte precisamente in questo grave difetto. Appare (ed è) anti intuitiva, fredda, lontana anni luce dal comune modo di sentire degli esseri umani.
Per esemplificare esaminiamo questi due casi. Passeggio per strada e scorgo ad un tratto Giuseppe. Lo conosco, è una brava persona alle prese con gravi problemi economici. Suo figlio è malato, ha bisogno di cure costose, per farvi fronte Giuseppe ha chiesto un prestito in banca. Ad un tratto vedo che dalla giacca di Giuseppe cade un portafoglio, lo raccolgo, è colmo di banconote da 500 euro, si tratta senza dubbio del prestito. Esito un attimo, Giuseppe non mi ha visto... mi metto in tasca il portafoglio: stasera passerò una serata divertente dico fra me e me. Di certo non ho fatto il mio dovere, il mio comportamento sarebbe giudicato immorale da chiunque.
Immaginiamo ora un caso un po’ diverso. Passeggio per strada immerso in cupi pensieri. Mio figlio è malato, avrebbe bisogno di cure costose ma io sono senza un soldo, il piccolo rischia la vita. Un tale passeggia accanto a me, lo riconosco: si tratta di Mario, un essere spregevole, disonesto, pieno di soldi e avarissimo, gli ho chiesto un prestito giorni fa... niente da fare, non mi ha dato neppure un soldo. Dalla giacca di Mario cade il portafoglio, lo raccolgo, faccio per riportarglielo quando lo sguardo cade sulle banconote da 500 euro che contiene. E’ un attimo, Mario non si è accorto di nulla, per lui quei soldi non sono niente, per me tutto! Mi metto in tasca il portafoglio e mi allontano.
Posso anche ammettere che nel secondo caso io mi sia comportato in maniera immorale, ma di certo si tratta di una immoralità ben diversa da quella a cui si riferisce il primo caso. Se si prescinde da ogni considerazione empirica i due casi sono però assolutamente sullo stesso piano: in entrambi la formula dell’imperativo categorico è stata violata. Chiunque tuttavia può constatare che sono quanto meno diversi e nessuna speculazione filosofica potrà convincere un normale essere umano che non si tratti di una differenza importante.

Del resto Kant, spinto dal suo rigore e dalla ferrea logica che lo caratterizza, è giunto a conclusioni ancora più anti intuitive di quelle esposte nei nostri ipotetici casi. Nello scritto “Su un preteso diritto di mentire per amore degli uomini” Kant analizza il caso di una persona che mente ad un assassino in cerca della sua vittima. Ecco come il grande filosofo risponde al quesito se sia lecita in questo caso una menzogna: “La verità delle affermazioni che non si possono eludere è un dovere formale dell’uomo verso chiunque, per quanto grande sia il discapito che ne possa venire a lui o a un altro; e sebbene io non arrechi ingiustizia a colui che ingiustamente mi costringe alla dichiarazione, se la falsifico, con questa falsificazione, che allora può essere chiamata anche menzogna (…) compio tuttavia una ingiustizia in generale nel punto essenziale del dovere: ossia faccio in modo che, per quanto sta a me, le affermazioni (dichiarazioni) non diano alcun affidamento e dunque che anche tutti i diritti che sono fondati su pattuizioni perdano la loro forza” (10). Un criminale si presenta a casa mia e mi chiede dove si nasconde un bimbo che egli intende violentare e uccidere e io tranquillamente gli dico la verità, gli indico il nascondiglio dell’innocente! Lo faccio per amore del diritto in generale, della possibilità che possano continuare ad esistere relazioni fra gli uomini fondate sul diritto. Qui Kant forza probabilmente la sua stessa concezione della morale, alcuni hanno affermato che in un caso simile io avrei il dovere, non il diritto di mentire, tuttavia una risposta tanto sconcertante non è poi molto in contraddizione (mi sembra) con l’impostazione di fondo del suo pensiero morale. Ciò che è importante per Kant è l’umanità, non l’uomo empirico, è la universalità astratta, non l’universalità legata ad un contenuto concreto. Si salvi la norma e crolli pure il mondo! Dopo avere con parole bellissime definito l’uomo anche un fine in sé e non solo un mezzo Kant rischia di degradare l’uomo a mezzo par l’affermazione di una normativa astratta. Questo non è un difetto da poco della sua concezione della morale.

Ma è poi davvero fondata la pretesa kantiana di slegare completamente l’imperativo morale da ogni contenuto empirico? Proprio la sconcertante risposta al quesito se si debba o meno mentire ad un assassino in cerca della sua vittima dà un’ interessante indicazione al riguardo. Se io mento, afferma Kant, do il mio contributo a che tutte le pattuizioni perdano la loro forza. Mentendo io contribuisco a mettere in crisi un sistema di relazioni umane basate sul diritto. Ma, non è un fatto empirico l’esistenza di questo sistema? Non tutela forse un simile sistema gli uomini in carne ed ossa, i loro interessi legittimi, le loro aspirazioni? Non è forse questa fondamentale caratteristica empirica del diritto quella che consente la sua universalizzazione?
Esaminiamo un altro caso, assai più chiaro. Nella “Fondazione della metafisica dei costumi” Kant affronta il problema se mi sia lecito, in caso di difficoltà, fare una promessa (ad esempio di restituire il denaro che mi è stato prestato) ripromettendomi di non mantenerla. Se mi chiedessi se una simile promessa è lecita “mi renderei subito conto” afferma Kant “che se posso volere la menzogna non posso certo volere una legge generale che comandi di mentire, perché, stabilita questa legge, non ci sarebbe più propriamente alcuna promessa: sarebbe inutile dichiarare la mia volontà rispetto alle azioni future perché gli altri non presterebbero alcuna fede alle mie dichiarazioni o, se sconsideratamente lo facessero, mi ripagherebbero con egual moneta con la conseguenza che la massima , una volta trasformata in legge universale, non farebbe altro che distruggersi da se” (11). Il discorso di Kant come si vede è assai rigoroso. Non è possibile che la massima: “fai promesse non veritiere”sia generalizzata: non appena cercasse di generalizzarsi una tale massima si auto distruggerebbe. Tutto vero, ma, su cosa si basa una simile impossibilità se non sulla caratteristica empirica degli esseri umani che li porta a non fidarsi delle promesse di un mentitore o addirittura a ripagarlo con pari moneta? Se nessuno restituisse il denaro che ha ricevuto in prestito non esisterebbe più credito, questo è vero, ma l’impossibilità di generalizzare la pratica di chiedere credito senza onorarlo si basa sul concreto, concretissimo (e legittimo) interesse degli esseri umani a vedersi restituire ciò che hanno prestato.

Anche prescindendo da queste considerazioni resta comunque il punto fondamentale. Basta la forma della universalità a rendere morale un comportamento, una azione? Le considerazioni che si facevano poco sopra sul diritto o meno di mentire a fin di bene dovrebbero indurre almeno dei dubbi in proposito, ma altre se ne possono fare. E’ davvero impossibile concepire una azione malvagia che possa essere generalizzata? Forse, ma questa impossibilità si basa davvero sulla forma o non va piuttosto ricercata nel contenuto empirico di questa azione? “Amatevi e rispettativi gli uni con gli altri” può essere generalizzata, “uccidetevi tutti a vicenda” molto probabilmente non lo può, ma questa impossibilità non si basa, di nuovo, su una concreta caratteristica empirica degli esseri umani? Se dico: “Uccidetevi tutti a vicenda” ed il mio invito è accolto con tutta probabilità ci saranno dei superstiti, ma questo lo si deve solo al fatto che gli esseri umani cercano di sfuggire alla morte: in una lotta di tutti contro tutti ci sarà il più abile che ucciderà riuscendo a non essere ucciso a sua volta. Questo però è un fatto empirico, ha poco a che vedere con la forma più o meno universale della norma. Dal punto di vista puramente formale la massima “amatevi gli uni con gli altri” è sullo stesso piano di “odiatevi gli uni con gli altri”; “uccidetevi a vicenda” non è formalmente dissimile di “aiutatevi a vicenda”. La guerra di tutti contro tutti dal punto di vista formale è sullo stesso piano del rispetto generalizzato, tra l’altro la guerra di tutti contro tutti è possibile anche dal punto di vista empirico.

La possibilità di universalizzare una norma è un elemento essenziale della morale. In assenza di questo elemento la morale degenera inevitabilmente nel relativismo o nella stucchevole morale dei buoni sentimenti che ne costituisce spesso l’anticamera. Ognuno ha la sua morale perché ognuno ha la sua scala di valori. Tutti possono essere giustificati perché tutto ciò che facciamo avviene in certe circostanze empiriche che possono essere usate come scusante. Tizio ruba? Ha problemi economici, Caio uccide? Ha avuto una infanzia disagiata, Sempronio stupra? Ha sempre avuto problemi con l’altro sesso. E se tutte le giustificazioni particolari non reggono si può sempre incolpare di tutto la “società”, questa sorta di moderno feticcio capace di cancellare ogni responsabilità individuale, di trasformare ogni delitto in problema sociologico.
Ma l’universalizzazione non può essere fine a se stessa. In sé la possibilità di universalizzare un imperativo non basta a renderlo buono. Se l’imperativo “uccidetevi a vicenda” fosse universalizzabile non sarebbe per ciò conforme alla morale. Un imperativo è davvero morale quando ci comanda di rispettare universalmente qualcosa che è positivo per l’uomo, che gli consente di svilupparsi liberamente. E’ morale rispettare la vita, la libertà, l’autonomia degli esseri umani e la norma che ci impone di farlo non vale solo per me o per pochi altri, magari per i miei amici ed i miei familiari. La forma universale dell’imperativo morale vieta l’autoesenzione, non consente che qualcuno possa riservare a se solo qualche diritto o possa ritenersi esentato dall’obbligo di fare ciò che il dovere impone. Proprio per questo pone dei limiti alle nostre azioni, ci impedisce di violare i diritti degli altri e può impedircelo precisamente perché questi diritti sono universali, valgono per me ma anche per Tizio, Caio, Sempronio, per Laura e Maria, per tutti gli esseri umani. La forma universale che deve assumere la norma morale è quindi essenziale, ma lo è in quando difende e tutela universalmente cose che riguardano gli esseri umani in carne ed ossa, persone empiricamente determinate che vivono qui ed ora nel mondo (o che ci vivranno).
La forma universale non può prescindere dal contenuto, dal cosa si universalizza. Il contenuto dal canto suo è davvero qualcosa di morale solo se vale per tutti. La tutela della mia libertà non può essere disgiunta della tutela della libertà di tutti, altrimenti consente ogni prevaricazione; il sacrosanto diritto a godere dei frutti del mio lavoro apre le porte al furto ed allo sfruttamento se non si accompagna al riconoscimento di un pari diritto per tutti gli esseri umani. Forma e contenuto della norma morale non possono scindersi e contrapporsi, vanno, nei limiti del possibile, tenute unite.
Considerare unitariamente norma e contenuto dell'imperativo etico non vuol dire, si badi bene, cercare di giustificare l'uno tramite l'altra. Chi cercasse un simile tipo di giustificazione entrerebbe inevitabilmente in un circolo vizioso. La legge morale sarebbe buona perché tutela l'uomo e l'uomo sarebbe buono perché obbedisce alla legge morale. Il discorso è diverso: una situazione in cui ognuno rispetti la vita e la dignità di tutti gli altri è, intuitivamente, una situazione buona, di cui è impossibile fornire ulteriori giustificazioni, si tratta si un dato etico. Questo dato può essere espresso dicendo che è “buono” chi rispetta la vita e la dignità dei suoi simili o che è “buona” la legge che tutela chi è capace di un simile rispetto. Non si tratta, come si vede, di fondare una cosa tramite l'altra e viceversa ma di esprimere in modi diversi una stessa verità non ulteriormente analizzabile.

Tenere uniti forma e contenuto nella morale consente di superare certe conclusioni sconcertanti cui porta l’assoluto rigorismo morale di Kant. Esaminiamo il caso della mancata restituzione del portafoglio. Chi non restituisce al suo proprietario il portafoglio che questi ha perso commette sempre un’azione sbagliata, ma c’è una bella differenza fra i due casi che sono stati esposti sopra. Se l’universalizzazione è considerata del tutto scissa da ogni contenuto questa differenza non emerge, se invece si considerano insieme contenuto e forma essa emerge chiaramente: chi si appropria di un bene altrui al fine di passare una piacevole serata non può essere messo sullo stesso piano di chi lo fa per salvare un bimbo malato. Ed ancora, Kant ha ragione: mentire è male, ma mentire ad un assassino in cerca della sua vittima significa salvare una persona che proprio l’osservanza generalizzata dell’obbligo del rispetto per gli altri dovrebbe tutelare. In un caso simile io avrei il dovere prima che il diritto di mentire, ma questo dovere nasce precisamente dalla considerazione del contenuto della norma. Se si prescinde da tale contenuto la menzogna, anche in un simile caso non sarebbe ammissibile.

Considerare insieme la forma ed il contenuto dell’imperativo morale non risolve però tutti i problemi, al contrario. Una simile concezione è, per così dire, sempre in equilibrio instabile. Se si accentua il momento formale di questa unità si rischia di ricadere nel rigorismo assoluto di Kant, se invece si dà più importanza al momento contenutistico ed empirico si rischia di ritrovarsi su posizioni relativiste. Occorre universalizzare un contenuto, un contenuto che interessi all’uomo, ma... di quale contenuto deve trattarsi? Del mio, del suo, del loro? Comunque la si prenda emergono problemi, difficoltà. E non si tratta di difficoltà sempre ed interamente superabili. Considerare il contenuto lega la morale all’empiria, quindi, almeno potenzialmente, ne sminuisce l’universalità. Considerare la forma accentua il momento della universalità e della necessità dell’imperativo morale a scapito della sua concretezza, della capacità di interpretare le situazioni reali in maniera conforme al comune sentire umano.
Se vogliamo tenere uniti forma e contenuto possiamo dotarci al massimo di una norma regolativa, non di una massima. La massima ci offre una formula che da risposte sicure, la norma regolativa ci aiuta ad orientarci, non ci può sempre dire con certezza cosa è morale e cosa no, ci offre criteri di orientamento, non risposte definitive. Seguendo la massima (e la kantiana formula dell’imperativo categorico è una massima) sappiamo che strada percorrere, ricorrendo all’idea regolativa cerchiamo di orientarci, ed orientarsi significa avanzare per strade non sempre conosciute, tornare indietro; a volte chi cerca di orientarsi perde l’orientamento, non sa dove andare, deve fermarsi, e riflettere.
Chi segue la massima ha la risposta ai problemi morali e non si cura troppo delle conseguenze che mettere in atto tale risposta può avere. Chi segue una idea regolativa spesso dubita delle risposte di cui dispone, esamina sempre le conseguenze delle azioni che ritiene siano conformi alla morale. Per lui la massima “sia fatta giustizia e crolli il mondo” non può valere. Non può valere perché sa che la giustizia è un fatto di questo mondo. Chi segue una idea regolativa può, al contrario di chi segue una massima, trovarsi di fronte ad autentici dilemmi morali, a situazioni cioè in cui non si confrontano un bene ed un male ma due beni diversi o addirittura contrapposti e sa che quale che sia la sua la scelta in una simile circostanza essa non sarà mai perfettamente giusta.

Front Cover

L’idea regolativa non è in grado di fornire sempre risposte certe, del tutto univoche. A ben vedere le cose però questa non può essere considerata una sua “colpa”. E’ la realtà ad essere difficile, è il mondo a non lasciarsi facilmente imbrigliare in giudizi definitivi. Per rendersene conto proviamo a riprendere in esame la domanda posta da Dostoewskji ne “I fratelli Karamazov”.
Sarebbe giusto che la felicità di tutti si basasse sulle atroci sofferenze di un bimbo innocente? La risposta ad una domanda così formulata non può essere che un no nettissimo. Ma proviamo a modificare la domanda del grande narratore russo. Se la sofferenza, o addirittura la morte di un bimbo innocente fosse il solo modo per ottenere la salvezza di numerose vite umane, comprese le vite di altri bimbi innocenti, come dovremmo comportarci? Potremmo accettare lo scambio fra la sofferenza e la morte di uno con la sofferenza e la morte di molti? Per un utilitarista il problema non dovrebbe neppure porsi. Una sofferenza che coinvolge uno solo è da preferire ad una sofferenza che coinvolge molti. Ma è davvero così semplice la risposta? Davvero le considerazioni sulla quantità di sofferenza possono risolvere il problema? Nessuno potrebbe mai convincere l’innocente condannato a sacrificarsi per la salvezza di molti che egli non sta subendo una enorme ingiustizia. Se davvero la quantità di sofferenza fosse l’unico o il prevalente criterio di scelta perché un essere umano, magari in età avanzata, non potrebbe essere ucciso al fine donare i suoi organi a molti giovani malati?
Anche per un rigorista kantiano non dovrebbero esserci troppi problemi: per lui la risposta sarebbe un no nettissimo. Ma, anche questa risposta è così scontata? Poniamo che io sia alla guida di un’auto e che d’improvviso i freni si guastino. L’auto corre all’impazzata, davanti a me c’è un gruppo di bambini, sto per travolgerli. Posso salvarli solo sterzando, ma se sterzo investo un altro bambino che se ne sta in disparte. Cosa devo fare? In questo caso è davvero ininfluente il numero delle vittime? E se, per fare un altro esempio, si dovesse scambiare la morte di un solo innocente con quella di alcuni milioni di esseri umani potremmo comunque disinteressarci del numero delle vittime? Se un atto di giustizia verso un solo innocente dovesse essere pagato in maniera tanto mostruosa non si trasformerebbe ipso facto in una ingiustizia? Colui che dispone non di una massima assoluta ma solo di una idea regolativa si rende conto del carattere drammatico di simili dilemmi e, soprattutto, si rende conto del fatto che ad essi non si può rispondere in maniera scontata. Quale che sia la risposta essa è destinata a lasciarci insoddisfatti, in ogni caso si avrebbe la sensazione, estremamente fondata, che la scelta che si è fatta contiene qualcosa di sbagliato, di non interamente conforme a ciò che consideriamo dovere morale.

Ma è proprio per questo che l’idea regolativa è da preferire alle massime assolute. E’ meglio rendersi conto che a volte i nostri criteri di scelta sono destinati a rivelarsi tragicamente inadeguati che bearsi nell’illusione di potersi sempre comportare in maniera assolutamente corretta. E’ la flessibilità, la capacità di adattamento, il carattere mai del tutto esaustivo dell’idea regolativa ciò che la rende preferibile all’assolutismo delle massime.
D’altro canto se è legittimo riconoscere l’imperfezione della idea regolativa non è però corretto accentuare più del dovuto tale imperfezione. Una morale che guardi sia alla forma che al contenuto è comunque possibile e ci consente nella maggioranza dei casi di riconoscere con sufficiente esattezza cosa è giusto fare. La stragrande maggioranza degli esseri umani sa intuitivamente che certe cose sono cattive ed altre buone. Le sofferenze inflitte ad un innocente vengono riconosciute da tutti come qualcosa di deplorevole. Ciò è talmente vero che anche chi tormenta i suoi simili cerca pretesti per giustificare il suo comportamento: parla di azioni che ripagano altre ingiustizie o nega che le sue vittime siano innocenti. Per tornare un attimo a due dei tre casi cui è fatto accenno in precedenza, quelli della persona anziana uccisa per donare i suoi organi e dell’auto impazzita, è abbastanza chiaro vedere cosa li differenzia. Nel caso della persona anziana io agirei volontariamente per ucciderla al fine di salvare altre persone e questo è decisamente inammissibile, nel caso dell’auto impazzita io sarei comunque costretto ad uccidere ed appare legittimo in un simile caso che cerchi di limitare i danni.
Un kantiano potrebbe ribattere che ragionando in questo modo teorizziamo una morale accidentale. Cosa rispondere ad una simile obiezione? Forse si può rispondere solo che in ogni morale esiste un ineliminabile momento di accidentalità. Se gli esseri umani non avessero la capacità di porsi problemi morali la morale non esisterebbe. Questa sola considerazione introduce, piaccia o meno la cosa, un momento accidentale nella morale. Si prescinda dalle caratteristiche empiricamente date dell’uomo e il discorso morale resta sospeso nel vuoto, non può neppure essere formulato.

Chi lega forma e contenuto dell'imperativo etico pone un dato alla base dell'etica: qualcosa è buono, punto e basta, oltre non si può andare. Anche il razionalismo etico di Kant deve accettare, alla fine una simile datità: l’imperativo morale è per Kant un fatto della ragione, un dato non ulteriormente spiegabile. In quanto essere morale l’uomo può solo accettare di obbedire ai comandi della norma morale, non può spiegarla, deve solo accettarla. “In qual modo per noi una ragione pura, senza altri moventi, qualunque sia la loro provenienza, sia per se stessa pratica, in qual modo cioè il semplice principio della validità universale di tutte le sue massime come leggi (…) offra per sé stesso un movente e susciti un interesse che posa dirsi puramente morale o, in altri termini, in qual modo la ragion pura possa essere pratica, nessuna ragione umana può assolutamente spiegare, e ogni sforzo ed ogni fatica per spiegarlo sono del tutto inutili “ (12)
L'imperativo morale ci obbliga perché è morale, oltre non si può andare, neppure per Kant. Noi non possiamo sapere perché la morale ci interessa, non possiamo sapere perché la legge ci obbliga, né come ci obbliga, possiamo solo accettare questo dato di fatto e assumerlo come vero. La concezione razionale e formale della morale di Kant incontra qui il suo limite invalicabile.
Il dato è ineliminabile da tutto ciò che è umano ed il dato è sempre qualcosa di accidentale. Nessuna necessità logica spiega perché esista qualcosa come l'imperativo etico e perché esista un ente interessato a tale imperativo. Può non piacere che il dato, quindi l'accidentale entri anche nella morale. Ma la morale è un fatto umano...







Note

1) I. Kant: Critica della ragion pratica. Laterza 1983. pag 78 79

2) I. Kant: opera citata pag. 79

3) Ibidem pag. 75

4) Ibidem pag. 77

5) Ibidem pag. 39

6) I. Kant: Fondazione della metafisica dei costumi. Laterza 1985 pag. 61

7) I. Kant: opera citata pag. 63

8) F Dostoevskij: I fratelli karamazov. Einaudi 1993 pag. 328 329.

9) F. Dostoevskij: opera citata pag. 329

10) I. Kant: Su un preteso diritto di mentire per amore degli uomini. In “I grandi filosofi: Kant”. Edizioni del “sole 24 ore” pag. 723. Sottolineature di Kant.

11) I. Kant: Fondazione della metafisica dei costumi. Laterza 1985 pag. 24

12) I. Kant: opera citata pag. 105-106. Sottolineatura di Kant











venerdì 14 giugno 2013

UN DOCUMENTO SCONVOLGENTE, E RIVELATORE




Il 10 dicembre 1937, a meno di tre mesi dall'inizio del terzo grande processo di Mosca alla vecchia guardia bolscevica, Nikolai Bucharin, scrisse una lettera a Giuseppe Stalin. Nikolai Bucharin era stato uno dei dirigenti bolscevichi più prestigiosi, il “prediletto del partito” lo aveva definito Lenin. Alleato di Stalin nella lotta contro Trotskij entrò successivamente in rotta di collisione col georgiano. Nel 1937 era ormai finito politicamente. Arrestato venne costretto a “confessare” di essere un traditore al soldo dell'imperialismo, un terrorista, un sabotatore. La lettera che inviò a Stalin è un documento sconvolgente, che la dice lunga sulla natura del comunismo. Val la pena di esaminarla.

“Onde evitare malintesi”, esordisce Bucharin, “tengo a dirti che per il
mondo esterno (la società)
1 – Non ritirerò niente, pubblicamente, di quanto ho scritto durante l'istruttoria.
2 – Non ti domanderò niente che riguardi
quello, e tutto ciò che ne deriva, non ti implorerò di far nulla che possa nuocere alla faccenda, che deve seguire il suo corso. Ti scrivo unicamente per tua informazione personale. Non posso lasciare questa vita senza averti scritto queste ultime righe, perché sono tormentato da diverse cose che devi sapere.
1 – Dato che mi trovo sull'orlo di un baratro senza ritorno, ti do la mia parola d'onore di non aver commesso i crimini che ho riconosciuto durante l'istruttoria.
2 – Non avevo altra soluzione se non confermare le accuse e le testimonianze degli altri e ampliarle: in caso contrario si sarebbe potuto pensare che non deponevo le armi”.

Non esiste una sola verità afferma Bucharin. Per il mondo esterno vale la verità dell'istruttoria. Per il popolo, per i lavoratori di cui i bolscevichi si dicono i più fedeli difensori, Bucharin è, deve essere, un traditore, un terrorista. Ma a Stalin, ed ad una ristrettissima elite dipartito, lui può dire la verità “vera”: non è un traditore e un terrorista, non ha commesso crimine alcuno. Bucharin “confessa” la sua innocenza a Stalin nel momento stesso in cui lo rassicura. Collaborerà alla farsa, non chiederà nulla che riguardi “
quello”, non farà nessuna ritrattazione. Insomma, sarà un attore disciplinato, sino alla fine, solidale con l'apparato che lo sta distruggendo.
Così procede Bucharin:

“Esiste la
grande e audace idea della purga in generale
a) in rapporto alla minaccia di guerra b) in rapporto al passaggio alla democrazia.
Questa purga riguarda: a) i colpevoli, b) gli elementi che nutrono dei dubbi, c) coloro che potenzialmente potrebbero nutrire dei dubbi (…) in questo modo la direzione del partito non nutre alcun rischio dotandosi di una garanzia totale.
Ti prego di non pensare che, applicando a me stesso tali ragionamenti, intenda muoverti dei rimproveri. Sono maturato, capisco che i
grandi piani, le grandi idee, i grandi interessi sono più importanti di qualsiasi altra cosa e che sarebbe meschino mettere la questione della mia miserabile persona sullo stesso piano di questi interessi di importanza mondiale e storica, che gravano innanzitutto sulle tue spalle.”

La mia vita non vale nulla se confrontata ai grandi interessi, alle grandi idee di cui il partito è portatore, afferma Bucharin. Il partito fa bene ad organizzare le grandi purghe, ad eliminare anche chi solo potenzialmente potrebbe nutrire dubbi sulla sua linea. Fa bene a farlo perché è il levatore della storia e nulla e nessuno devono, in alcun modo, ostacolare la sua azione redentrice. Non appare strano
che, partendo da questi presupposti, Bucharin, che pure ha “confessato” a Stalin la sua innocenza, si dichiari in qualche modo colpevole. Non colpevole di sabotaggio o di terrorismo, non colpevole di essersi alleato con Hitler e con “l'imperialismo” per distruggere il “paese del socialismo”. No, Bucharin si dichiara colpevole di qualcosa d'altro, se possibile ancora più grave:

“Ritengo di dover espiare per gli anni in cui ho combattuto la linea del partito (…) è questo l'episodio che più mi tormenta, il peccato originale, il peccato di Giuda. (…) e ora espio per tutto questo, pagando con il mio onore e la mia vita. Perdonami per questo Koba (Koba era un precedente nome di battaglia usato da Stalin n.d.B.). Non posso morire senza averti chiesto ancora una volta perdono. Ecco perché non sono in collera con nessuno, né con la direzione del partito né con chi ha condotto l'istruttoria, e ti chiedo ancora una volta perdono”.

Bucharin era stato arrestato, accusato di crimini mai commessi, torturato crudelmente, obbligato a firmare una confessione di piena colpevolezza, eppure chiede perdono ai suoi carnefici. Perdono di cosa? Di non aver condiviso, per un certo periodo, la linea del partito, per aver portato ad essa delle critiche. Quello che in ogni altro partito era, ed è, una prassi del tutto normale diventava “peccato originale”, “peccato di Giuda”, nel partito bolscevico, un crimine per cui
è giusto pagare con la perdita dell'onore e con la morte. La cosa incredibile, incredibile per chi non conosce il comunismo, è che, anche nel momento supremo, Bucharin è d'accordo con un tale sistema, esalta la macchina che sta per ucciderlo, si dice addirittura disposto a collaborare ancora con essa. Se Stalin fosse tanto generoso da salvargli la vita Bucharin vorrebbe essere esiliato in America dove potrebbe condurre una lotta a morte contro il trotskismo e contro tutti coloro che in qualsiasi modo, si oppongono al “padre dei popoli”.

“Condurrò una campagna sui processi (…) porterò dalla nostra parte larghi strati dell'intellighenzia, sarò in pratica un anti Trotsky. (…) Potresti mandare con me un cekista esperto e, come garanzia supplementare, tenere mia moglie in ostaggio in URSS. (…) Se invece nutri anche un minimo dubbio a riguardo, (esiste) questa possibile alternativa: essere esiliato per 25 anni a
Pecora o a Kolyma, in un campo di lavoro. Vi organizzerei una università, un museo, una stazione tecnica, degli istituti, una galleria d'arte, un museo etnografico, un museo zoologico, un giornale da campo. Farei insomma un lavoro da pioniere”.

Pecora e Kolyma erano due orribili lager, luoghi in cui i condannati ai lavori forzati morivano, letteralmente, come le mosche. Eppure Bucharin dà mostra di credere che si tratti di qualcosa di simile ad un college inglese, luoghi in cui si discetta amabilmente di zoologia e di etnografia. Non c'è da stupirsi troppo, in fondo. Lui, si proprio lui che aveva subito in maniera brutale le dolcezze della istruttoria staliniana, era pronto a dichiarare di fronte al mondo che i processi erano assolutamente regolari e rispettosi dei diritti degli imputati, e non trovava nulla di strano nel fatto che la moglie avrebbe dovuto fungere da ostaggio nelle mani del suo fraterno amico Koba.
Le “proposte” che Bucharin fa a Stalin potrebbero far pensare che egli nutrisse qualche speranza, si facesse illusioni sulla sua sorte. Così probabilmente non è, ne è prova il drammatico finale della sua lettera, una sinistra mistura di consapevolezza della fine ormai prossima e di reiterate dichiarazioni d'amore per i suoi assassini.

“Josif Vessarionovic! Con me tu hai perduto uno dei tuoi generali più capaci e devoti. Mi preparo interiormente a lasciare questa vita e sento per voi tutti, per il partito, per la nostra
causa solo un sentimento d'amore immenso, senza limiti. La mia coscienza è pura davanti a te, Koba. (…) Ti stringo fra le braccia con il pensiero. Addio per l'eternità e non provare rancore per lo sventurato che sono”.

Nikolay Bucharin fu fucilato il 1
5 marzo 1938. Sarebbe ingiusto nei suoi confronti considerare insincera la sua lettera, leggerla come un supremo tentativo di impietosire il suo nemico, di aver salva la vita. Forse il “figlio prediletto del partito” aveva qualche speranza, forse, ma ridurre il suo testamento ad un meschino espediente per salvarsi vuol dire non aver capito nulla del comunismo e dei comunisti. In realtà in questa sua drammatica lettera Bucharin è, nell'essenziale, sincero. Sincero di quella sincerità che è, insieme, insincerità.
Bucharin era stato uno dei massimi dirigenti del partito bolscevico, e come tale responsabile della edificazione nel suo paese di un mostruoso apparato totalitario. Era anche stato alleato di Stalin nella lotta contro l'opposizione trotskista, era un uomo che conosceva l'apparato e sapeva bene come funzionava. Aveva infine sperimentato sulla sua pelle i metodi dell'apparato, non ignorava nulla. Eppure è sincero quando dichiara di amare il partito, la causa, lo stesso Stalin. La lettera di Bucharin è un esempio da manuale dell'orwelliano bispensiero. Bucharin sa di essere innocente ma è convinto anche di essere colpevole, crede che i campi di lavoro favoriscano la rigenerazione degli esseri umani anche se sa che sono luoghi di morte, sa che Stalin è un sanguinario (lo aveva definito “un barbaro” in una conversazione privata) ma sente di amarlo, sa benissimo che i lavoratori non hanno nella Russia sovietica alcun diritto ma crede che la Russia sovietica sia il paese dei lavoratori, sa che i partiti “borghesi” dell'occidente hanno ragione quando denunciano come una farsa i processi di Mosca ma è pronto rintuzzare “col massimo entusiasmo” le loro “menzogne”, ama la moglie ma è pronta ad offrirla come ostaggio a garanzia della sua virtù rivoluzionaria.
Danton fu ghigliottinato dopo un processo farsa, ma gli fu concessa la possibilità di affermare con forza la sua fede rivoluzionaria, di sbattere in faccia ai suoi accusatori tutto il suo disprezzo. “Tu mi seguirai, Robespierre”, disse mentre si avviava al patibolo. Il privilegio del martirio fu invece negato a Bucharin e agli altri protagonisti dei processi di Mosca. Comunista da sempre, Bucharin morì urlando al mondo di essere un miserabile nemico del comunismo, perse la dignità prima di perdere la vita. Eppure amava la causa, il partito, i suoi carnefici, amava Stalin. Come è possibile un tale pervertimento della logica, una simile corruzione morale, una distruzione tanto radicale di sentimenti umani fondamentali? Cosa rende possibile una simile mostruosità? La risposta è molto semplice: la
ideologia.

Sono in molti coloro che ritengono “bella” l'idea comunista, che assimilano il comunismo ad un romantico “amore per la povera gente” o al nobile desiderio di vedere sanate le troppe ingiustizie che ancora esistono nel mondo. Il comunismo realizzato è stato orribile, ma l'idea comunista era e resta bella, forse un po' irrealistica ma degna di rispetto, così argomentano in tanti. A tutti coloro che la pensano in questo modo, ed hanno un minimo di onestà intellettuale, la lettera di Bucharin pone un problema teorico enorme. Come è possibile che una idea “bella”, una dottrina “generosa” suscitino comportamenti simili? Come può essere “umana”, “nobile”, “generosa” una idea che spinge un essere umano a proporre al suo carnefice di prendere in ostaggio sua moglie? O che lo induce a mentire deliberatamente, ad accusare ingiustamente gli altri e se stesso? Che umanità può mai trovarsi in una dottrina che spinge le vittime ad amare i loro boia? Ad amarli, attenzione, non di amore cristiano, non perché dietro al boia c'è comunque l'uomo, no, spinge le vittime ad amare i boia in quanto boia, ad esaltare la loro funzione di carnefici. Dove si può trovare un grammo di “umanità” in simili perversioni?
In realtà il comunismo
non mira ad aiutare la “povera gente”, né a sanare le numerose ingiustizie che affliggono il mondo, mira a qualcosa d'altro, e di ben diverso. Mira a modificare radicalmente la natura umana, a rivoltare come un guanto la società. Il comunismo non è mosso dall'amore per gli esseri umani che vivono qui ed ora nel mondo, vuole imporre a questi esseri umani una torsione violenta della loro natura, li vuole ricostruire dalle radici e con loro vuol ricostruire dalle radici la società. E se la società nella sua spontaneità non accetta di farsi rivoltare come un guanto? Se gli esseri umani non vogliono che la loro natura venga “rigenerata”? Tanto peggio per loro. Il rovesciamento totale dell'uomo e della società, la ricostruzione da zero del mondo sono fini assoluti nel cui nome tutto è possibile; e se per ottenerli occorre fare il male, questo automaticamente si trasforma in bene, se occorre perdere la dignità questo diventa il massimo esempio di dignità, se occorre perder la vita lo si fa amando il proprio carnefice. I comunisti non compiono nefandezze al fine di edificare il bene, dichiarano buona ogni nefandezza se è compiuta al fine di realizzare il fine sovrumano che si sono posti. Il male compiuto da un buon comunista è per definizione un bene.
Un comportamento come quello di Bucharin resta incomprensibile se lo si fa dipendere “dall'amore per la povera gente”. La “povera gente” che circondava Bucharin erano i contadini russi che Stalin stava massacrando, o le centinaia di migliaia di reclusi nei gulag. Per costoro Bucharin non prova alcun sentimento di amore, l'ingiustizia che devono subire non suscita le sue lacrime. Il comportamento di Bucharin diventa invece comprensibilissimo se lo si mette in relazione col fine assoluto in cui lui, e con lui gli altri comunisti, crede ciecamente e fanaticamente: la trasformazione totale del mondo, la assoluta rigenerazione dell'uomo, il mutamento radicale della sua natura.
Il fine comunista è sovrumano, per questo i comunisti non dimostrano alcun amore, nessuna simpatia per gli esseri umani in carne ed ossa che popolano il mondo, per questo sono disposti anche alla abiezione contro se stessi pur di avvicinarsi a quel fine, e di salvaguardare il partito che lo incarna e lo persegue.
Obiettivo della furia omicida di Stalin, Bucharin è, insieme, vittima e carnefice, carnefice di se stesso,
monumento dei livelli di mostruosità che il fanatismo ideologico può raggiungere. La sua figura tragica dovrebbe far pensare, anche oggi, i molti, troppi, che si baloccano con gli assoluti terreni.

lunedì 10 giugno 2013

LIBERTA' ED UGUAGLIANZA. DUE


Robert Nozick

Natura o società?

Molti egualitaristi rifiuterebbero con sdegno l’accusa di volere un appiattimento generale degli esseri umani. A dover essere eliminate sono le disuguaglianze sociali, non le differenze naturali, “tutti eguali ma diversi”, questo slogan riassume bene le loro concezioni. Eliminare le disuguaglianze sociali sarebbe per costoro il mezzo per far risaltare al massimo le differenze naturali che ci caratterizzano. La società capitalistica massifica gli esseri umani, fa perdere all’uomo molte delle sue caratteristiche riducendo tutti alla sola dimensione dell’avere. L’uomo che vive nelle società capitalistiche avanzate, dominate da una tecnologia alienante, è, diceva Marcuse, un uomo ad una dimensione un uomo che vive solo per produrre e consumare, privo di rapporti autenticamente umani con gli altri, alienato dalla sua autentica essenza.
Non è il caso di dilungarci troppo sulla immagine catastrofica che Marcuse, e con lui altri esponenti della scuola di Francoforte, hanno dato delle società capitalistiche avanzate e, più in generale, di tutte le organizzazioni sociali caratterizzate da un elevato sviluppo tecnologico. Il capitalismo è un sistema socio economico in cui le fondamentali scelte relative alla produzione ed al consumo non sono decise centralmente ma sono lasciate all’autonomia dei singoli. Nelle società libere ognuno può scegliere lo stile di vita che preferisce; può tentare di diventare un grande imprenditore o entrare in convento, può fare sport con l’obiettivo di guadagnare un sacco di soldi o per il puro piacere di farlo, può fare il lavoratore dipendente o autonomo, può amare il successo o aspirare ad una vita anonima. Però deve essere coerente con le scelte che fa. Non può lamentarsi di non aver troppo denaro se ha scelto di praticare da professionista uno sport che non piace molto alle masse, né può pretendere che lo stato finanzi la sua attività artistica che non riesce a trovare estimatori. Per essere brevi, non si può pretendere ricchezza e successo nel momento stesso in cui si esprime un aristocratico disprezzo verso questi beni mondani.
Se l’economia di mercato ha prodotto e produce quantità prima inimmaginabili di beni ciò è dovuto, tra l’altro, al fatto che questi trovano acquirenti, che gli esseri umani amano possedere beni materiali. Lo stato in una società libera non educa i cittadini, chi produce dal canto suo lo fa non per migliorare spiritualmente i consumatori ma per venire incontro alle loro esigenze. Ricorda Ludwig von Mises: “i capitalisti perdono il loro denaro non appena mancano di investirlo in quei rami che soddisfano meglio le esigenze del pubblico” (1). Ma non dover subire l’”educazione” dello stato o di qualche produttore non significa perdere la propria essenza umana, decadere da animale razionale ad animale consumista; solo chi ha una fede superstiziosa nello stato e nei burocrati può pensare cose simili. L’uomo che vive nelle società libere ad economia di mercato non è necessariamente impegnato solo a produrre, guadagnare e consumare; semplicemente ha la fortuna di non dover avere a che fare con un potere politico che cerca di imporgli fini di vita che a lui non piacciono e di poter disporre (almeno in molti casi) di alcuni degli strumenti materiali necessari a realizzare le proprie aspirazioni. Se poter viaggiare, leggere, vivere in una casa comoda, nutrirsi decentemente, non dover lavorare dieci ore al giorno solo per potersi sfamare massifica, l’uomo di oggi è massificato al massimo grado, per fortuna, potremmo dire.

Ma torniamo alla formula “tutti uguali ma diversi”, torniamoci perché merita di venire analizzata attentamente. Una simile formula sarebbe del tutto condivisibile se col termine “uguali” si intendesse formalmente uguali o ci si riferisse ad una situazione in cui oltre ad essere tutti formalmente uguali, gli esseri umani potessero disporre di alcune protezioni sociali volte a garantirli dalle turbolenze del mercato e da sempre possibili eventi disastrosi. Ma per eguali qui si intende “socialmente uguali", ci si riferisce cioè, se le parole hanno un senso, ad una società in cui non dovrebbero esistere disuguaglianze sociali fra gli esseri umani, o per lo meno queste dovrebbero essere contenute entro limiti estremamente ridotti. Sarebbe precisamente questa eguaglianza delle condizioni sociali a garantire il pieno dispiegamento delle differenze naturali che ci caratterizzano. L’egualitarismo sociale garantirebbe un accettabile individualismo, si potrebbe avere eguaglianza senza appiattimento.
Anche se affascinante una simile formula è intimamente contraddittoria. Non è possibile affermare che le differenze naturali fra gli esseri umani siano un fatto positivo e farsi promotori nel contempo dell’egualitarismo sociale. Chi propugna una simile concezione non può neppure affrontare il problema delle conseguenze sociali delle differenze naturali fra gli esseri umani.
Se ho una intelligenza superiore a quella di altri, se ho una migliore capacità di apprendere o una maggior forza di volontà, probabilmente riuscirò a raggiungere una posizione sociale migliore della loro, sarà proprio il riconoscimento del valore delle mie caratteristiche naturali a permettermelo. Le differenze naturali fra gli esseri umani hanno molto spesso conseguenze sociali. Un atleta capace di correre i 100 metri piani in nove secondi e sette decimi non solo vincerà medaglie alle olimpiadi ed ai campionati del mondo; stipulerà contratti vantaggiosi con i migliori sponsor, guadagnerà somme più elevate di quelle percepite da molti suoi competitori meno dotati. Per impedire situazioni di questo genere bisognerebbe fare in modo che le differenze naturali fra gli esseri umani fossero prive di conseguenze sociali, ma questo porta, oltre che a restrizioni della libertà personale paragonabili a quelle che sono state esaminate nel punto precedente, anche a situazioni al limite dell’assurdo. Poniamo che l’atleta Tizio corra i 100 metri in nove e sette, cosa occorrerebbe fare per impedire che questa sua superiorità atletica si tramuti in disuguaglianza sociale? Stabilire d’ufficio che Tizio non possa vincere più di tante gare? Ogni atleta dovrebbe avere assicurato un quantum di medaglie: tante d’oro, tante d’argento e tante di bronzo? O il pareggio dovrebbe essere il risultato, deciso a priori, di tutte le competizioni? O bisognerebbe impedirgli di trarre profitti dalla sua abilità? Se Tizio gareggia gli stadi si riempiono però lui non dovrebbe avere un centesimo dei maggiori introiti derivanti dalla sua sola presenza. A qualcuno questa potrebbe apparire una buona soluzione, ma, trattato in questo modo, Tizio potrebbe rifiutarsi di gareggiare. Lo si dovrebbe allora obbligare? L’illiberalismo di certe concezioni è palese.
Il filosofo americano Robert Nozick in “Anarchia, stato e utopia” immagina che il governo di un certo paese, poniamo un governo democraticamente eletto, decida una certa distribuzione dei beni, una distribuzione equa che risponda alle esigenze di uguaglianza votate dalla maggioranza della popolazione “Chiamiamo D1 questa distribuzione” (2) afferma Nozick. Anche il campione di basket Wilt Chamberlain partecipa a questa equa divisione dei beni; il governo stabilisce quale quota della ricchezza sociale deve andare ai giocatori di basket e Chamberlain riceve esattamente quanto gli altri giocatori. Visto però che è fortemente richiesto dalle squadre di basket, Chamberlain firma con una di esse il seguente contratto: “Per ciascuna partita in casa avrà venticinque centesimi del prezzo di ogni biglietto d’ingresso (…) Supponiamo che in una stagione assistano alle sue partite in casa un milione di persone, e Wilt Chamberlain concluda con 250.000 dollari, una somma di gran lunga maggiore del reddito medio e maggiore perfino di quanto abbia chiunque altro. E’ ingiusta” si chiede Nozick “questa nuova distribuzione D2?” (3). Per il filosofo americano (ed io, modestamente, concordo) la risposta è no. Le persone che hanno pagato per vedere Chamberlain possedevano legittimamente il loro denaro: era stato loro assegnato dallo stato in base ad una distribuzione giusta. “Ciascuna di queste persone ha scelto di dare venticinque centesimi del suo denaro a Chamberlain. Avrebbero potuto spenderlo andando al cinema o in un negozio di dolciumi o acquistando copie della rivista Dissent o della Montly Review. Invece tutti, o quanto meno un milione di loro, convengono nel darli a Wilt Chamberlain in cambio dello spettacolo che offre giocando a basket. Se D1 era una distribuzione giusta e le persone si spostano volontariamente da questa a D2 (…) non è forse giusta anche D2?” (4)
Si ammetta che esistano differenze naturali fra gli esseri umani, che alcuni siano più abili o forti o simpatici o intelligenti di altri, si conceda loro un minimo di libertà e qualsiasi modello di “equa” distribuzione dei beni è destinato ad essere modificato dalle scelte dei singoli. “Per mantenere un modello” conclude Nozick ”si deve interferire continuamente per impedire alla gente di trasferire risorse secondo i suoi desideri” (5) e tutto ciò ha conseguenze devastanti per la libertà. Chi mette in atto comportamenti capaci di modificare il modello di distribuzione (chi va a veder giocare Chamberlain per capirci) “andrà forse rieducato o costretto a sottoporsi ad autocritica” (6)?. La storia ha purtroppo risposto affermativamente a questa domanda.

Nozick parte dall’ipotesi che lo stato divida in maniera egualitaria la ricchezza patrimoniale fra i cittadini. Si possono, volendo, fare ipotesi anche più restrittive che conducono tutte allo stesso risultato. Si supponga che lo stato decida non solo la distribuzione della ricchezza patrimoniale ma anche l’ammontare dei redditi. Il nostro Wilt Chamberlain stavolta non può firmare contratti vantaggiosi con le varie società di basket, deve accettare il reddito deciso dal potere politico. Nessuno però impedirà ai dirigenti della società per cui Chamberlain gioca di pagare un premio ulteriore al campione per invogliarlo a giocare meglio, non solo, potrebbero essere gli spettatori ad accettare di pagare un biglietto maggiorato per finanziare il loro idolo. L’unico modo per impedire che le libere scelte dei singoli modifichino il modello di distribuzione egualitaria dei redditi dovrebbe consistere nella proibizione di questi comportamenti, non solo lo stato deciderebbe i redditi dei cittadini, ma impedirebbe a questi di trasferire ad altri parte di quelli. Si può anche ipotizzare che lo stato non solo decida i redditi ma anche il lavoro delle persone. Chamberlain in questo caso non farà il giocatore di basket ma l’impiegato di banca, finalmente non potrà trarre vantaggi sociali dalle sue doti naturali! Ma Chamberlain potrebbe, finito il lavoro, organizzare partite con i suoi amici e chiedere un compenso a chi volesse vederlo, potrebbe anche allenarsi a giocare a basket e chiedere denaro a chi assiste ai suoi allenamenti. Ancora una volta la possibilità di scelta concessa agli esseri umani scompaginerebbe i piani egualitari del potere politico. Per impedire che le scelte libere dei singoli scompaginino i vari modelli politici di equa distribuzione dei beni occorre che le limitazioni della libertà personale siano sempre più ampie, estese, profonde. Non solo le idee politiche ma le idee in generale dovrebbero essere controllate, e non solo le idee, ma i comportamenti, e non solo i comportamenti, ma i desideri, le aspirazioni, le pulsioni degli esseri umani dovrebbero essere sottoposte ad un controllo statale soffocante. L’ideale di chi sogna un generale egualitarismo è una società integralmente controllata dal potere politico, meglio, una società un cui il potere politico non controlla ma stabilisce quali devono essere le idee, le aspirazioni, i desideri, i comportamenti, le pulsioni degli esseri umani. Va da sé che una simile società oltre a distruggere ogni libertà creerebbe la più grave ed intollerabile forma di ineguaglianza che sia possibile concepire: quella che contrappone chi può decidere sul destino di moltissimi suoi simili a chi invece può solo subire le scelte del potere. E queste non sono, sia ben chiaro, fantasie, esercitazioni logiche. C’è chi ha tentato simili esperimenti sociali che non a caso hanno sempre avuto esiti disastrosi.




Note

1) Ludwig von Mises: La mentalità anticapitalistica: Armando editore, 1988. Pag. 24.

2) Robert Nozick: Anarchia, stato e utopia. Il saggiatore 2005. Pag. 174

3) Robert Nozick: opera citata pag. 174

4) Robert Nozick, opera citata pag. 174. Sottolineature di Nozick

5) Robert Nozick: opera citata pag. 176

6) Robert Nozick: opera citata pag. 176.



Le cerimonie in ricordo di Kim Jong-il


L’eguaglianza di opportunità

La richiesta che tutti possano disporre nella vita di eguali opportunità appare assai meno estremistica della rivendicazione dell’egualitarismo sociale. Lo appare ed in una certa misura lo è. Chi rivendica l’eguaglianza di opportunità vuole uguali punti di partenza, non uguali punti di arrivo. Noi tutti siamo diversi, è vero, ed è anche vero che le differenze naturali fra noi hanno profonde conseguenze sociali, danno vita a situazioni di disuguaglianza. Tutti però abbiamo diritto ad avere gli stessi punti di partenza. Forse Tizio è migliore di me, forse è destinato ad occupare una posizione sociale migliore della mia, nulla da eccepire se questo avviene, ma non è giusto che Tizio parta avvantaggiato nei miei confronti. Se Tizio è destinato a superarmi che lo faccia in una gara in cui entrambi partiamo alla pari; se questo non avviene la gara è truccata.
Posizioni di questo tipo sono del tutto accettabili se intese in senso debole, se si traducono cioè, oltre che nella sacrosanta richiesta della più rigida uguaglianza formale, nella rivendicazione di riforme sociali miranti a garantire ad ognuno una certa quantità di opportunità che gli consentano di cercare di realizzare le proprie aspirazioni e, perché no, i propri sogni. Ma molto spesso l’eguaglianza di opportunità non viene intesa in questo modo. Ciò che si teorizza non è una società in cui tutti possano godere di certe opportunità, una società, per intenderci, in cui esista una scuola dell’obbligo, in cui i capaci e meritevoli possano trovare i mezzi per proseguire gli studi fino ai livelli più elevati (borse di studio, prestiti sull’onore ecc.) o in cui siano garantiti a tutti certi livelli di previdenza e di assistenza sanitaria. No, quella che si teorizza spesso è la assoluta uguaglianza dei punti di partenza. Perché il rampollo di una ricca famiglia può accedere tranquillamente alle migliori università mentre il figlio di un bracciante, non in grado di pagare le tasse universitarie, se vuole laurearsi deve sperare in una borsa di studio o contrarre un prestito? E anche nella scuola dell’obbligo c’è forse vera parità fra gli studenti? Anche prescindendo dal fatto che un giovane benestante può usufruire di lezioni private, magari frequentare una scuola privata eccetera, il solo fatto che i ragazzi di classi sociali diverse vivano in diversi ambienti sociali non crea fra loro enormi disuguaglianze? Sono davvero sullo stesso piano il figlio di un medico ed il figlio di un borgataro semi analfabeta? Il primo vive in un ambiente colto, ha genitori che parlano correttamente l’italiano e magari altre lingue, abita in una casa piena di libri, viaggia; il secondo invece vive con genitori che non vedono l’ora che egli lasci la scuola per guadagnare qualche soldo. Il fatto di frequentare la stessa scuola rende davvero uguali i loro punti di partenza? Gli esempi potrebbero continuare. Davanti ai giudici un povero immigrato assistito da un avvocato d’ufficio è davvero uguale all’industriale che può farsi difendere da un principe del foro? Il ricco che può pagarsi i migliori specialisti gode della stessa tutela della salute di colui che può solo fare ricorso alla sanità pubblica? L’eguaglianza di opportunità, a vedere bene le cose, è una pura illusione; ognuno di noi affronta il gioco della vita non partendo alla pari con gli altri, ma da posizioni di privilegio o di svantaggio. Chi vuole una vera eguaglianza di opportunità dovrebbe eliminare tutti i privilegi che rendono le opportunità di ciascuno diseguali, spesso molto diseguali, da quelle degli altri.
Che rispondere ad argomentazioni di questo tipo? Al di là delle esagerazioni esse contengono molto di vero. Ad esse si può rispondere solo: “E allora?”
Certo, i punti di partenza di tutti non sono mai del tutto uguali, non possono esserlo. Nessuno di noi partecipa al gioco della vita partendo da posizioni uguali a quelle degli altri, e questo per il semplicissimo motivo che è proprio questo gioco a differenziare continuamente le posizioni, a renderle diseguali. Tizio e Caio possono anche partire da posizioni uguali, se Tizio però ha più fortuna di Caio, o è più abile di lui, le loro posizioni subito si differenziano. Tizio e Caio hanno iniziato la scuola da posizioni uguali ma Tizio è arrivato sino all’università, Caio si è fermato prima. Il proseguo della loro esistenza sarà segnato da questa disuguaglianza, i nuovi punti di partenza di Tizio e Caio non saranno più uguali. Tizio sarà avvantaggiato quando entrambi cercheranno un lavoro, i suoi titoli conteranno di più in un concorso, forse godrà di un certo vantaggio sull’amico-rivale anche corteggiando le ragazze. Caio potrà superare a sua volta Tizio, ovviamente, ma la cosa gli costerà più di quanto costi a Tizio conservare il vantaggio acquisito. I figli di Tizio e Caio poi partiranno da posizioni ancora più nettamente diseguali; ereditando quanto di positivo e di negativo (e non mi riferisco solo alla ricchezza materiale) hanno loro lasciato i genitori essi verranno da subito a trovarsi in posizioni diseguali, non avranno le stesse opportunità. Come ovviare a una tale “ingiustizia”? Stabilendo fra tutti gli esseri umani posizioni di assoluta eguaglianza sociale e naturale? Abbiamo già visto nei punti precedenti che questo distrugge la libertà e crea nel contempo nuove, spaventose forme di disuguaglianza. Intervenendo continuamente per ristabilire la parità di opportunità che è stata modificata? Questo è del tutto assurdo. Farlo significherebbe permettere la concorrenza ma intervenire di continuo per modificare i risultati della sfida concorrenziale, favorire la meritocrazia ma togliere a chi ha più meriti ciò che ha saputo conquistare per darlo a chi è rimasto indietro. Meritocrazia e concorrenza sono incompatibili con l’egualitarismo sociale, quindi anche con l’assoluta eguaglianza delle opportunità. Correggere continuamente i risultati del gioco della vita è un po’ come giocare a poker intervenendo ogni due o tre mani per ridistribuire i premi fra i giocatori, accettare il rischio salvo poi pretendere che chi perde venga rimborsato e chi vince perda ciò che ha vinto. Una assurdità del tutto contraddittoria.

In società davvero libere e democratiche le ineguaglianze anche assai marcate che esistono non conducono, almeno nella maggioranza dei casi, a situazioni drammatiche ed è comunque compito dei governi operare affinché queste situazioni non si producano. Molto spesso le ineguaglianze sono sentite come intollerabilmente ingiuste solo da chi ritiene l’uguaglianza il valore assolutamente prioritario. Per chi invece non considera l’uguaglianza, l’uguaglianza reale o sostanziale, il valore più importante non è gravissimo che, ad esempio, a scuola il figlio di un bracciante non sia sullo stesso piano del figlio di un medico. La superiorità del figlio del medico non è un problema troppo grave se si hanno scuole che funzionano bene, con insegnanti preparati e buoni strumenti didattici. In una scuola simile il figlio del bracciante potrà avere buone possibilità di conseguire un livello di istruzione più che accettabile, ed è questo che davvero conta. In una società libera inoltre le disuguaglianze non sono quasi mai definitive. Se è vero che i punti di partenza non sono mai del tutto uguali è anche vero che non sempre chi parte avvantaggiato riesce a conservare il vantaggio sui chi è partito dietro. Dove la disuguaglianza non è garantita per legge le posizioni possono sempre rovesciarsi, l’ultimo di ieri può diventare il primo di domani, le grandi fortune così come si accumulano possono disfarsi; l’affermato imprenditore che non riesce a tener dietro ai mutamenti del mercato è destinato al declino, il giovane rampante appena entrato nella sfida concorrenziale, e che gli anziani guardano con commiserazione, può affermarsi, scoprire nuovi mercati, lanciare nuovi prodotti, inventare nuovi processi produttivi e in poco tempo tutti smetteranno di guardarlo con commiserazione. Se dal mercato volgiamo lo sguardo alle elitès della società possiamo renderci conto che è quanto meno azzardato affermare che queste provengono sempre, o anche solo prevalentemente, dalle classi ricche. In maggioranza i grandi artisti, scienziati, filosofi, statisti non appartengono né appartenevano alla elite finanziaria o alla nobiltà. I più erano di origini abbastanza umili, provenivano dalle classi medie o addirittura da quelle povere. Molti uomini che hanno onorato se stessi, il loro paese ed il genere umano con le loro opere sono partiti da posizioni di grande svantaggio sociale, sicuramente molto indietro rispetto a loro coetanei di cui oggi nessuno ricorda il nome. Per tutta la vita Mozart è stato tormentato da problemi economici, Kant era figlio di un sellaio, il padre di  Einstein era proprietario di una modesta officina che gestiva col fratello, tutti sono stati poco favoriti dalla sorte, ciò non ha impedito loro di fare quello che hanno fatto. Le disuguaglianze hanno la loro importanza, ovviamente, ma in molti casi meno di quanta comunemente si attribuisca loro.

Molto spesso il discorso sulla disuguaglianza dei punti di partenza è ampliato alla competizione politica. Si sente spesso dire che la competizione politica non è davvero uguale, che certi partiti possono godere di grandi finanziamenti di cui altri sono invece privi, che solo chi dispone di grandi somme può aspirare alla presidenza degli Stati Uniti e cose simili. Sulla competizione politica possono farsi considerazioni analoghe a quelle fatte a proposito degli individui. I partiti già affermati godono di un indiscutibile vantaggio su quelli nuovi, chi dispone di ingenti finanziamenti o di notevoli ricchezze private avrà maggiori possibilità di essere eletto presidente degli Stati Uniti eccetera. Anche qui la situazione può essere parzialmente corretta ma non eliminata. Si possono riservare a tutti i partiti degli spazi televisivi, garantire un tot di visibilità a tutte le posizioni politiche che godono di un minimo di seguito, molto oltre non si può, e a mio modesto parere non si deve, andare. Significa poco o nulla il fatto che un candidato alla presidenza degli Usa debba disporre di elevati mezzi finanziari. Come si potrebbe correggere un fatto tanto ovvio? Finanziando con denaro pubblico chiunque voglia tentare la scalata alla presidenza? Dovremmo pagare le tasse per consentire a Luigi Rossi o Mario Bianchi di diventare presidenti? Considerazioni simili possono farsi sul finanziamento ai partiti. Se io, mia moglie ed un amico fondiamo un partito abbiamo forse diritto, in nome della eguaglianza delle opportunità, di godere di finanziamenti pubblici? O chi finanzia il partito X deve essere obbligato a finanziare anche me? O si deve impedire a chiunque di finanziare un partito? E se io invece lo voglio finanziare? Se decido di versare tutti i mesi una certa somma su un conto intestato al partito X, perché non dovrei poterlo fare? Iscriversi a un partito pagando tessera, contributi e quant’altro non significa finanziare quel partito? E se è lecito finanziare un partito diventando suoi iscritti perché non dovrebbe esserlo finanziarlo senza iscriversi? Certo, molto spesso dietro al finanziamento privato ai partiti ci sono tangenti, corruzione e tante cose poco chiare. Il problema però sono la corruzione e le tangenti, non il finanziamento privato in quanto tale.
Ma la critica degli egualitaristi alla politica democratica è più sottile. Per far politica occorrono notevoli mezzi finanziari, questo proverebbe secondo loro che gli unici interessi che le forze politiche proteggono sono quelli delle classi agiate. Se i partiti sono costosissimi apparati, se i candidati alla carica di presidente o primo ministro sono persone piene di soldi come si può pensare che possano tutelare gli interessi della povera gente? Noam Chaomsky lo ha detto chiaramente parlando della corsa alla casa bianca: entrambi i candidati hanno alla spalle grossi potentati economici, nessuno quindi rappresenta davvero il popolo. L’impareggiabile Noam dovrebbe spiegare perché quel popolo che nessuno rappresenta non abbia mai dato il minimo sostegno a formazioni di estrema sinistra, che non hanno alle spalle i potentati economici. Il partito comunista americano è sempre stato solo una piccola setta, la stessa cosa può dirsi a proposito della sezione americana della trotskista “quarta internazionale”. Quando negli anni 70 dello scorso secolo il partito democratico presentò quale candidato alla presidenza un uomo nettamente schierato a sinistra come il senatore Mc Govern subì la sconfitta più bruciante della sua storia. Noam Chaomsky forse dovrebbe prendersela col suo popolo, e forse sotto sotto lo fa…

In effetti i partiti sono apparati piuttosto costosi e sono spesso finanziati da gruppi di potere economico, questo però non dimostra affatto che non possano e debbano cercare di soddisfare con la loro azione le esigenze dei loro elettori. Se un gruppo di potere economico finanzia il partito X lo fa perché ritiene di essere in qualche modo avvantaggiato dal suo programma. Ma il partito X andrebbe incontro alla scomparsa se elaborasse i suoi programmi tenendo conto unicamente o prevalentemente delle esigenze del suo potente finanziatore. La forza di un partito in ultima analisi sta tutta nella sua capacità di mettersi in sintonia con le idee, gli interessi, le aspettative, i sentimenti di grandi masse di esseri umani. Se un partito riesce davvero ad interpretare e a fare sue le esigenze profonde di larghi strati della popolazione è destinato a diventare forte, a contare e quindi anche ad ottenere finanziamenti. Se invece un partito diventa solo la cassa di risonanza politica di certi potentati economici è destinato a giocare un ruolo marginale nella competizione politica. Il partito nazionalsocialista riuscì, purtroppo, nella Germania del primo dopoguerra a mettersi in sintonia con i sentimenti profondi di larghi settori del popolo tedesco. La satanica grandezza politica di Hitler consistette precisamente nel saper assimilare le ansie, i timori, le pulsioni di larghe masse di tedeschi. Questo e solo questo spiega il mistero di un fallito, che entra in un partitino praticamente sconosciuto e riesce in poco tempo a diventare il dittatore assoluto di uno stato come la Germania. Il partito nazionalsocialista non è diventato forte grazie ai finanziamenti di alcuni magnati dell’industria, è vero il contrario: i magnati dell’industria hanno deciso, commettendo un imperdonabile atto di cecità e criminalità politica, di finanziare il partito nazionalsocialista dopo che questo aveva già acquistato un notevolissimo seguito di massa. Gli stessi, o altri magnati del resto finanziavano anche altri partiti ma questo non impedì a tali partiti di essere spazzati via dal trionfo dell’oscuro demagogo austriaco.

Il fatto che non tutti i partiti politici siano sullo stesso piano, che abbiano a disposizione mezzi non del tutto uguali non falsifica quindi la competizione politica, non rende illusoria la democrazia. I partiti che interpretano davvero le esigenze di vasti settori della popolazione troveranno le loro fonti di finanziamento (va ricordato per inciso che una delle principali fonti di finanziamento di un partito sono i suoi iscritti, i militanti, i simpatizzanti, gli elettori), altri che si dimostrano incapaci di assolvere questo compito perderanno alla lunga anche i finanziamenti e per primi perderanno quelli dei loro militanti, simpatizzanti, elettori. Ho fatto sopra l’esempio di Hitler, altri sono possibili. I partiti socialisti non avevano al loro nascere grandi mezzi, ciò non ha impedito loro di crescere e di affermarsi, la lega nord al suo nascere era quasi completamente priva di mezzi ed era inoltre osteggiata da tutti i media. Però interpretava esigenze e sentimenti assai diffusi nel “profondo nord”, per questo ha avuto successo. Il segreto del successo di Berlusconi non sta nei suoi soldi, anzi, questi hanno offerto ai suoi rivali innumerevoli argomenti polemici. Berlusconi si è imposto perché è riuscito ad apparire come l’uomo nuovo della politica italiana, ha saputo sintonizzarsi con le idee ed i sentimenti di milioni di italiani anticomunisti che la distruzione della vecchia DC aveva lasciato politicamente orfani.
L’assoluta parità di opportunità è una chimera anche in politica ma questo non ha risultati necessariamente disastrosi. Le disuguaglianze fra forze politiche hanno la loro importanza, ed è bene ridurle, ma non sono un fattore decisivo. La democrazia è minacciata assai più che dalla disuguaglianza di opportunità dalle ventate di irrazionalismo che spesso attraversano i corpi elettorali, avvelenando la vita politica e culturale di intere nazioni. Il caso di Hitler è assai significativo ed inquietante, ma lo è anche il fatto che per decenni milioni di onesti lavoratori abbiano visto in uno Stalin il loro leader e potenziale liberatore. Forse non è un caso che chi protesta con più veemenza contro la disuguaglianza delle opportunità in politica cavalchi ed alimenti queste ondate di pericoloso irrazionalismo. Ma questo è un altro discorso.










sabato 8 giugno 2013

LIBERTA' ED UGUAGLIANZA. UNO



Forma contro sostanza?

Da più di un punto di vista la libertà è legata all’eguaglianza. Non può esistere libertà se tutti non sono eguali davanti alla legge, se esistono norme che favoriscono, o sfavoriscono, certi ceti sociali, o certe razze o certe confessioni religiose. Il liberalismo non sostiene la libertà del singolo inteso come unico singolo, sostiene la libertà di tutti i singoli, la libertà generalizzata, e questo implica necessariamente l’eguaglianza o meglio, certe forme di eguaglianza, in primo luogo l’eguaglianza giuridica, l’eguaglianza dei diritti. Il liberalismo è anche compatibile con una certa eguaglianza di condizioni economiche. Scuola gratuita per tutti, varie forme di assicurazione sociale, sussidi di disoccupazione e politiche di sostegno della domanda, anche se affondano le loro origini nella tradizione socialista e socialdemocratica si sono dimostrate del tutto compatibili col liberalismo. Nei grandi paesi democratici dell’occidente il confronto politico verte sulla quantità e sulla qualità dell’azione statale volta a garantire condizioni decorose di vita a tutti, non sulla legittimità di una azione di questo tipo; allo stesso modo in questi paesi nessuno (o quasi) contesta l’economia di mercato ma ci si divide semmai sui suoi limiti e sui controlli a cui deve essere assoggettata.
Per i critici del liberalismo tutto questo però non può assicurare agli esseri umani una libertà vera, una vita davvero degna di essere vissuta. Le condizioni di relativo benessere economico che liberali e socialdemocratici hanno realizzato nei paesi da loro governati altro non sono per costoro che strumenti miranti a permettere al sistema di superare le proprie crisi e continuare ad opprimere i lavoratori. I critici di estrema sinistra del liberalismo e della socialdemocrazia sono persone esenti da ogni dubbio: il sistema democratico liberale, l’economia di mercato sono qualcosa di oppressivo, questo è vero a priori. Se ammortizzatori sociali e politiche anticicliche permettono al sistema di superare le sue crisi, questo vuol dire che si tratta di cose intrinsecamente negative; che poi queste cose “negative” garantiscano ai lavoratori un livello di vita almeno decente è del tutto secondario, anzi, è un fatto criticabile perché distrae gli stessi lavoratori dai loro “veri” obiettivi.
Com’è ovvio però sono le libertà formali ad essere l’oggetto delle critiche più severe. La libertà di fronte alla legge è un inganno, anzi, costituisce la legittimazione prima di ogni forma di disuguaglianza. Trattare nello stesso modo A e B che sono diseguali significa sancire la disuguaglianza fra loro. I diritti dell’uomo nel momento stesso in cui garantiscono la formale uguaglianza di tutti sostengono e istituzionalizzano la disuguaglianza reale fra gli esseri umani. Ma dove impera la disuguaglianza reale la libertà non è autentica, dove l’uguaglianza è solo formale anche la libertà è solo formale. Nella società borghese l’uomo, formalmente libero, è realmente in catene. La più dura oppressione economica e sociale costituisce in questa società il contraltare della libertà formale, lo sfruttamento è l’altra faccia dei diritti umani, il dominio di classe costituisce l’essenza, il volto nascosto della libertà.

E’ stato Karl Marx a teorizzare in maniera estremamente rigorosa il carattere illusorio e mistificante della libertà formale. I diritti dell’uomo emancipano politicamente gli esseri umani, afferma Marx nella “Questione ebraica”. Il riconoscimento della libertà garantisce formalmente a tutti di acquisire ricchezze e potere, senza alcun riguardo al diritto di nascita; i diritti dell’uomo impediscono che il rampollo di una nobile famiglia possa acquisire grandi proprietà grazie ai privilegi del censo. Nella società borghese moderna l’uomo vale in quanto tale, in quanto generico essere umano, non in quanto patrizio o plebeo, nobile o villano. “Lo stato in quanto stato annulla ad esempio, la proprietà privata, l’uomo dichiara soppressa politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce il censo per l’eleggibilità attiva e passiva” (1) Ma abolire il censo quale fonte di accesso alla proprietà non abolisce affatto la proprietà, al contrario: “con l’annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta. Lo stato sopprime nel suo modo le differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione dichiarando che nascita, condizione, educazione, occupazione non sono differenze politiche (…) nondimeno lo stato lascia che la proprietà privata, l’educazione, l’occupazione, operino nel loro modo cioè come proprietà privata, condizione, educazione, occupazione e facciano valere la loro particolare essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo stato esiste piuttosto in quanto le presuppone ” (2)
Il discorso è molto chiaro: libertà ed uguaglianza formale non aboliscono ciò che di fatto opprime l’uomo, ma lo presuppongono e lo eternizzano; l’emancipazione politica non solo non realizza l’emancipazione umana ma ne allontana la realizzazione. Non si tratta, come alcuni hanno sostenuto, di posizioni giovanili, poi superate dal Marx maturo. Il legame fra libertà formale ed oppressione è presente nel “Capitale” e costituisce la parte centrale della marxiana teoria del valore, ove il fondatore del socialismo scientifico cerca di dimostrare che lo sfruttamento nasce dal libero scambio di equivalenti, dal rapporto privo di coercizione fra soggetti formalmente liberi ed uguali.
Ma c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato. La situazione di sfruttamento e di schiavitù reale che la libertà e l’eguaglianza formali presuppongono e sostengono nasce a sua volta dall’isolamento dell’uomo, dalla situazione di atomizzazione in cui egli deve vivere nella società borghese moderna. Lo sviluppo capitalistico distrugge i legami arcaici che nei precedenti modi di produzione tenevano uniti gli esseri umani, fa di ogni uomo un singolo in perenne lotta con tutti gli altri, un atomo sociale privo di rapporti che non siano conflittuali con gli altri atomi sociali. La rottura del legame organico fra gli esseri umani sarebbe alla base della penosa situazione moderna in cui l’uomo ha perso la sua umanità e vive solo per lottare contro i suoi simili. “i cosiddetti diritti dell’uomo” afferma Marx sempre nella Questione ebraica “non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità” (3)
Poco più avanti Marx riporta la definizione di libertà della famosa dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1791: “La liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui” e così commenta: “La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muoversi senza nocumento altrui, è stabilito per mezzo della legge, come il limite fra due campi e stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su sé stessa (..) il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a sé stesso.” (4)
Dopo la libertà è la proprietà a diventare l’oggetto degli strali marxiani: “Il diritto dell’uomo alla proprietà è il diritto all’egoismo (..) essa lascia che ogni uomo trovi nell’altro non già la realizzazione ma piuttosto il limite della sua libertà” (5). Né sorte migliore tocca al diritto alla sicurezza: “la sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto della polizia, che l’intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà (…) la sicurezza è piuttosto l’assicurazione del suo egoismo” (6)

E’ difficile equivocare il senso del discorso marxiano. Per il filosofo liberale Isaiah Berlin non esiste libertà se non esiste uno spazio che è solo del singolo, uno spazio in cui solo lui ha diritto di decidere. Secondo questa concezione l’uomo ha anche il diritto di restare isolato, non a caso Kant parla espressamente del diritto alla solitudine, del diritto di mettere una certa distanza fra se e gli altri. E' proprio questo che  fa letteralmente orrore a Marx: l’individuo isolato la cui libertà limita la libertà altrui ed è da questa limitata, costituisce un elemento essenziale della concezione liberale della libertà. Se sono libero ho il diritto di essere amico di alcuni ed non amico di altri, ho diritto di amare ma anche di non amare, ho diritto di formare con alcuni miei simili delle comunità basate sull’amore e la reciproca collaborazione (si pensi alla famiglia), ma ho anche il diritto di competere, pacificamente e rispettando certe regole, con altri esseri umani. Il singolo insomma ha un valore in quanto tale e riconoscere la sua libertà significa anche tutelarlo dagli altri, non solo da quegli altri che hanno verso di lui mire aggressive, ma anche da coloro che vogliono imporgli il loro amore a la loro benevolenza. Per Marx invece la libertà coincide con la restaurazione di una originaria (e mitica) unità organica di ogni individuo con tutti gli altri. Si è liberi se si supera la separazione fra io e tu, me e te, noi e loro, se io, tu, noi, loro formiamo un insieme armonico e privo di ogni possibile contrasto. In Marx il soggetto libero è una misteriosa entità metafisica, non l’io empirico, il singolo essere umano che vive qui ed ora nel mondo, ma un io collettivo che dovrebbe superare la parzialità egoistica dell’io empirico, del singolo che limita gli altri ed è da questi limitato. E se questo io collettivo nei fatti non da segno alcuno di esistere, se in concreto gli io empirici rifiutano l’armonica fusione nel tutto storico sociale che dovrebbe precederli, se gli esseri umani dimostrano di essere attaccati alla loro particolarità egoistica e limitata e non seguono i consigli di chi li invita a trascenderla, sarà sempre possibile obbligarli ad andare oltre i loro limiti. La libertà reale, la sostanza opposta alla forma della libertà potrà essere imposta agli esseri umani; come già vagheggiato prima di Marx da Rousseau, questi potranno essere obbligati ad essere liberi.

La contrapposizione fra libertà formale e libertà sostanziale o reale è in realtà piuttosto insensata. Ogni libertà e ogni diritto che garantisce qualche libertà hanno in sé un ineliminabile aspetto formale. La libertà di parola mi consente di dire X o il contrario di X, la libertà privata mi consente di sposarmi o non sposarmi, di avere o non avere figli; se sono libero di scegliere il mio lavoro potrò fare il bancario o il metalmeccanico. Se in nome della libertà reale o sostanziale qualcuno mi imponesse cosa dire, con chi sposarmi, che lavoro fare costui avrebbe molto semplicemente distrutto la mia libertà. La critica marxiana della libertà e della eguaglianza “solo” formali non si basa in realtà su considerazioni sull’uomo e i suoi diritti e neppure su ricerche di antropologia empirica. Si basa su una concezione aprioristica della storia che nel suo corso andrebbe verso una unificazione organica degli esseri umani. La storia partirebbe dalla (presunta) unità organica della comunità comunista primitiva, dopodichè, attraversate le fasi della separazione atomistica, della alienazione e dello sfruttamento, raggiungerebbe nel comunismo un nuovo e più elevato grado di unificazione fra gli uomini. Il traguardo finale della storia vedrebbe la pacificazione fra uomo e natura, individuo e società, essenza ed esistenza umana. Gli uomini daranno vita ad una superiore organizzazione sociale in cui la possibilità stessa di frizioni fra loro sarà scomparsa per sempre, il garantismo diventerà inutile perché non ci sarà più nessuno da garantire, lo stato si estinguerà. Non esisteranno conflitti di alcun tipo fra i membri di questa società armoniosa, l’io si integrerà totalmente col tu, i miei interessi, le mie aspirazioni saranno anche le tue, le sue, le loro. Un bel sogno, non c’è che dire. Un bel sogno che però non può diventare realtà. Non può farlo perché l’io non può risolversi integralmente nel tu senza annullarsi in quanto io, un uomo non può diventare puro elemento di un organismo sovra individuale senza cessare di essere quello che è: un singolo dotato della sua insopprimibile autonomia. Non è un caso allora che questo bel sogno si sia trasformato con estrema facilità nel più angoscioso degli incubi non appena l’avanguardia cosciente del progresso storico ha imposto agli uomini in carne ed ossa la sua non verificata concezione del mondo. La libertà e l’eguaglianza formali sono state sostituite non dai loro corrispettivi reali o sostanziali ma da orrende, e realissime, forme di ineguaglianza e di schiavitù. La storia, quella vera, non quella costruita su mistificanti dialettiche aprioristiche, di solito non tiene conto delle profezie.




Note

1) Karl Marx: La questione ebraica. Editori riuniti 1974 pag. 57. Sottolineature di Marx

2) Karl Marx: Opera citata pag. 57. Sottolineature di Marx.

3) Karl Marx: Opera citata pag. 70. Sottolineatura di Marx.

4) Karl Marx: Opera citata pag. 71. sottolineature di Marx.

5) Karl Marx: Opera citata pag. 72. Sottolineature di Marx.

6) Karl Marx : opera citata pag. 72 73. Sottolineature di Marx.





John Ralws

 

Eguaglianza reale

Su un punto i critici della libertà e della uguaglianza solo formali hanno ragione. La libertà e l’uguaglianza formale sono compatibili con disuguaglianze reali anche assai marcate. Il diritto uguale non può eliminare le disuguaglianze reali, non può farlo appunto perché è uguale. Trattare nella stessa maniera persone diseguali significa far si che continuino a restare diseguali, assoggettare tutti alle stesse norme vuol dire permettere a chi è più dotato di altri di emergere. Questo appare particolarmente evidente nello sport: arbitrare senza favoritismi una partita di calcio fra il Brasile e una squadretta di dilettanti significa far vincere il Brasile, e lo sport, lo si sa, è spesso una metafora della vita.
D’altro canto nessuno di noi ha particolari colpe o meriti per essere quello che è. Tizio non è “responsabile” di essere poco intelligente esattamente come Caio non ha alcun merito per essere nato intelligentissimo; è giusto che chi ha un gran fisico possa far carriera nello sport mentre chi è grassoccio o gracilino possa al massimo disputare una partitella fra amici? La natura è spesso assai ingiusta nel distribuire i suoi doni agli esseri umani e gli esseri umani non hanno colpe o meriti di alcun tipo per ciò che ricevono in questa distribuzione. Ben lungi dall’essere uguale il diritto dovrebbe essere diseguale, dovrebbe trattare diversamente i diversi, favorire chi è stato sfavorito da madre natura, solo in questo modo l’ingiusta distribuzione dei suoi beni potrebbe essere, almeno in parte, corretta.
Anche un filosofo liberale come John Ralws ha sostenuto, nella sua opera più importante, "una teoria della giustizia", concezioni che possono in qualche modo richiamare l'idea di una "redistribuzione" dei doni che la natura concede in maniera diseguale agli esseri umani.  Quali criteri di giustizia sceglieremmo se dovessimo fare la scelta in una situazione di "ignoranza originaria"? Si chiede Rolws.  Se non sapessimo a quale classe sociale apparteniamo ed inoltre se siamo intelligenti o sciocchi, belli o brutti, forti o deboli, abili o disabili che scelta faremmo sui criteri di distribuzione delle ricchezze? Accetteremmo che i più dotati debbano avere di più se non sapessimo se siamo più o meno dotati della media? La risposta di Ralws, com'è noto, è che in questo caso sceglieremmo di considerare asccettabili solo quelle disuguaglianze che si risolvono in un vantaggio per tutti. Non è il caso di sottoporre a critica queste conclusioni, lo ha fatto in maniera molto penetrante un altro grande filosofo politico americano: Robert Nozick in "Anarchia stato e utopia", quello su cui mi interessa concentrare l'attenzione è il punto di partenza di Rolws, e non solo: quello di un individuo del tutto staccato dalla totalità delle sue caratteristiche empiriche.   

Davvero potremmo scegliere qualcosa in una situazione di ignoranza originaria? che scelta può fare un essere umano che non sappia se è sciocco  o intelligente, bello o brutto, simpatico o antipatico, che non sappia nulla dei suoi gusti e delle sue preferenze, delle sue aspirazioni e dei suoi sentimenti, della propia avversione o predisposizione al rischio? E per scegliere non occorre forse un certo livello di intelligenza? E una tale caratteristica, se è necessarai alla scelta, non costituisce in fondo una deroga alla ralwsiana ignoranza originaria?
Il diritto diseguale come correttivo della natura e delle sue ineguaglianze, la consapevole ed equa azione degli uomini contro l’iniqua distribuzione dei beni della natura, o, nella concezione di Ralws, una distribuzione equa delle ricchezze che in qualche modo "compensi" tale iniqua distribuzione naturale dei beni. Cosa c'è, dietro a posizioni di questo tipo se non il tentativo, l’ennesimo, di reagire contro il nostro essere dati? Il punto di partenza del nostro discorso era che "nessuno di noi ha colpe o meriti per essere quello che è". Ma, si tratta di un punto di partenza sensato, o non è piuttosto indice di un colossale equivoco?   
E' vero: nessuno di noi ha colpe o meriti per essere quello che, ma, cos’altro è ognuno di noi se non quello che è? Io non ho meriti se sono bello, sano, forte, intelligente e simpatico ma esisto io al di fuori del mio essere bello, sano, forte, intelligente, simpatico? Esiste un io che sia qualcosa di anteriore alla totalità delle sue qualità? Un io che prescinda dal suo carattere, dalla sua intelligenza, dalla sua volontà, dal suo aspetto fisico, eccetera? Chi parla di meriti e colpe (o meglio, di mancati meriti e colpe) per le caratteristiche che madre natura ci ha donato dimentica che noi siamo precisamente la totalità di quelle caratteristiche; non siamo una X, una essenza astratta cui successivamente vengano attribuite delle caratteristiche, siamo l’insieme coordinato, coeso e, forse, autodiretto, di queste caratteristiche, si tolgano queste e parlare di io, dei suoi meriti, delle sue colpe o dei suoi mancati meriti e colpe diventa privo di senso, e diventa privo di senso parlare delle scelte di questo io. Siamo esseri dati, ognuno con le sue qualità ed i suoi difetti. La nostra libertà è la libertà di esseri dati, l’uguaglianza che può esistere fra noi non deve né può prescindere dalla nostra datità. Si tratta di eguaglianza fra persone che sono diverse perché hanno caratteristiche diverse, non di eguaglianza fra entità astratte che esistono al di fuori di queste.

Per il pensiero liberale ciò che va riconosciuta e rispettata è la persona umana per ciò che essa è, con tutto ciò la rende unica e diversa da tutte le altre. Il soggetto dell’eguaglianza liberale non è una X anteriore all’uomo che vive qui ed ora nel mondo, è precisamente questo uomo, questo insieme unico, diverso da tutti gli altri, di qualità, difetti, caratteristiche. E’ questo ente che va tutelato, rispettato difeso, è di questo ente che occorre riconoscere la libertà, è questo ente che va considerato uguale, formalmente uguale agli altri.
Chi pretende di ridistribuire fra gli esseri umani i doni della natura in realtà non rispetta gli esseri umani per ciò che empiricamente essi sono (è chiaro che questo discorso non riguarda Ralws, per quanto si possano considerare discutibili certe sue posizioni). Per costoro  io non sono Tizio con un certo carattere, una certa intelligenza, un certo aspetto fisico eccetera, sono una X, una astratta essenza umana, cui un sapiente legislatore (o anche una maggioranza democraticamente eletta) attribuirà un nuovo carattere, una nuova intelligenza, un nuovo aspetto fisico. Il tentativo prometeico di rendere gli esseri umani "realmente" uguali fra loro passa inevitabilmente per la distruzione della libertà degli esseri umani dati, degli uomini in carne ed ossa che vivono sul pianeta terra.
Qualcuno può considerare eccessive queste ultime affermazioni? Non lo sono affatto, bastano pochi esempi a confermarlo.
Tizio gode di buona salute ed ha due reni in ottime condizioni; Caio invece è piuttosto malaticcio e soffre di gravi problemi renali. Siamo di fronte, come si vede ad una grave ingiustizia che madre natura ha commesso ai danni di Caio, ingiustizia a cui occorre far fronte. Sarebbe allora accettabile che Tizio fosse costretto a donare uno dei suoi reni a Caio? Per il teorico della uguaglianza reale non dovrebbero esserci esitazioni: Tizio non ha meriti per avere due reni sani né Caio colpe per averli malati. Cedendo uno dei suoi reni a Caio, Tizio non farebbe altro che riparare, o rendere meno stridente, l’ingiusta distribuzione dei beni naturali fra lui e Caio. Uno stato che obbligasse Tizio a cedere un rene a Caio metterebbe in atto l’eguaglianza reale, i sostenitori di questa dovrebbero richiedere a gran voce una misura di questo genere.
Altro esempio. Francesca è una bella ragazza, è disinibita ed ha una vita affettiva e sessuale felice. Mario invece è brutto, timido e un po’ antipatico, nessuna ragazza gli concede le sue grazie. Se davvero si vuole ottenere un po’ di uguaglianza reale Francesca andrebbe costretta a far l’amore con Mario e magari anche a simulare un po’ di simpatia per lui.
Esempio limite: il signor Giovanni ha sessanta anni ma gode di ottima salute ed ha un cuore in perfetto stato. Luigi invece ha solo venti anni ma è molto malato, il suo cuore è in pessime condizioni, morirà se entro pochi giorni se non ci sarà un trapianto. Anche se riceverà un cuore nuovo comunque Luigi con tutta probabilità non potrà vivere ancora per più di un decennio. Perché l’anziano Giovanni non dovrebbe donare il suo cuore a Luigi, morire per lui? Giovanni in fondo ha vissuto sessanta anni, il povero ragazzo invece al massimo arriverà ai trenta. Giovanni è già stato molto più fortunato di Luigi, perché accrescere ancora il divario fra loro? Perché Giovanni dovrebbe vivere fino a ottanta e più anni mentre Luigi dovrebbe spegnersi a venti? In nome della uguaglianza reale Giovanni andrebbe ucciso per far vivere Luigi.
Tutti questi esempi ci presentano situazioni che contrastano profondamente con i sentimenti morali della stragrande maggioranza degli esseri umani. Chiunque sente che è inaccettabile e profondamente ingiusto obbligare una ragazza a far l’amore con un uomo che a lei non piace, o costringere un essere umano a morire per un altro o anche solo a cedergli un suo organo vitale. Ma cosa giustifica questo sacrosanto sentimento di rifiuto? Precisamente la considerazione che ogni essere umano è un fine in sé, una persona da rispettare per ciò che essa è, un soggetto di diritto che per il solo fatto di esistere pone dei vincoli all’azione degli altri. Nessuna volontà di realizzare una maggiore equità, nessun tentativo di ridurre le disuguaglianze fra gli esseri umani possono giustificare che i diritti fondamentali dei singoli vengano calpestati. Io ho diritto di vivere tutta la mia vita, ed anche se è orribile che un giovane debba morire a venti anni nessuno mi può obbligare a morire al suo posto. Ognuno di noi ha diritto di essere rispettato per quello che è, con tutto ciò che lo rende diverso, e quindi anche più o meno fortunato, da tutti gli altri. Si distrugga in nome della uguaglianza reale questo diritto e si apre la via che conduce alla peggior barbarie.

Il tentativo di rendere tutti realmente uguali gli esseri umani porta alla distruzione totale della loro libertà e si scontra con basilari considerazioni e sentimenti morali. A prescindere da questo tuttavia è possibile chiedersi se tale tentativo possa essere in qualche modo coronato dal successo o non sia invece radicalmente impossibile, impossibile perché intimamente contraddittorio.
Facciamo un esperimento mentale. Un saggio legislatore, aiutato da una equipe di grandi scienziati, è riuscito a rendere tutti uguali gli esseri umani. Non ci sono più i forti e i deboli, i simpatici e gli antipatici, gli intelligenti e gli sciocchi. Tutti sono eguagliati fra loro ad un certo livello, ognuno ha perso qualcuna o tutte le sue caratteristiche ed è ora un uomo (o una donna) del tutto nuovo, con caratteristiche nuove e diverse, uguali a quelle di tutti gli altri. Si può subito obiettare che un simile esperimento è impossibile, visti le attuali e le prevedibili conoscenze scientifiche; si può anche dire che si tratterebbe comunque di qualcosa di mostruoso, il punto però ora non è questo. Il punto è che un simile esperimento non può ottenere ciò che cerca, la reale eguaglianza di tutti, non può ottenerla per ragioni logiche prima ancora che empiriche o etiche. Cerchiamo di vedere perché.
Tizio aveva, prima dell’esperimento, un livello di intelligenza pari a 100, Caio invece pari a 20. Ora entrambi hanno un livello pari a 60, sono uguali. Laura aveva la qualità X, Luisa la qualità Y, ora hanno entrambe la qualità Z, sono uguali. Giudichiamo pure negativamente questo fatto, diciamo pure che è empiricamente impossibile, dovremo comunque ammettere che almeno in teoria una simile situazione è raggiungibile: Tizio e Caio, Laura e Luisa sono uguali, quale che sia il giudizio che noi diamo su questo fatto. Invece no, questa eguaglianza non è raggiungibile! Il fatto che Tizio e Caio abbiano lo stesso livello di intelligenza, che Laura e Luisa abbiano le stesse qualità non soddisfa in egual modo Tizio e Caio, Luisa e Laura. Per Tizio che era al livello 100, trovarsi al livello 60 è fonte di frustrazione, per Caio che partiva da una situazione diversa è fonte invece di soddisfazione. Laura era contenta della sue qualità, Luisa no. Il fatto che entrambe abbiano ora le stesse qualità, diverse dalle originarie, renderà felice Luisa ed infelice Laura. Anche dopo che le loro caratteristiche sono state rese uguali Tizio e Caio, Laura e Luisa restano diseguali. Trattare in maniera uguale i diseguali non elimina le disuguaglianze fra loro, ma trattare in maniera diseguale chi è diseguale è fonte a sua volta di nuovi tipi di disuguaglianze. Rendere tutti uguali non è possibile perché l’atto stesso di eguagliare tutti ha conseguenze diseguali su ognuno di noi. Metterci tutti la stessa divisa non ci renderà uguali perché ognuno reagirà diversamente all’ordine di indossarla.
Solo in un caso l’eguagliare tutti non creerebbe nuovi tipi di disuguaglianze. Affinché questo avvenga il generale appiattimento, l’eguaglianza forzata di tutti dovrebbe creare degli esseri umani che hanno rotto completamente i ponti col loro passato, uomini “nuovi” che neppure ricordano le loro vecchie preferenze, qualità, modi di pensare. Tizio in questo caso non soffrirebbe per il fatto di essere a livello 60 per il semplice fatto che neppure ricorderebbe di essere fino a ieri stato a livello 100; Laura non rimpiangerebbe le qualità che ha perso per il semplice fatto che sarebbe una persona nuova che nulla sa di esse. In questo caso nessuno sarebbe infelice né felice per il cambiamento che ha dovuto subire, tutti saremmo nuovi, rigenerati e soprattutto uguali. Ma questa “rigenerazione” corrisponderebbe all’omicidio di massa di tutti coloro che la hanno subita. Se svegliandomi domani io fossi un uomo del tutto nuovo, dimentico addirittura di ciò che fino ad oggi sono stato, io sarei morto, morto e sostituto da un altro. Il cambiamento totale di un io, la cancellazione dei suoi ricordi, del suo carattere, del suo modo di pensare, dei suoi sentimenti equivale alla sua uccisione. Se io diventassi da un momento all’altro un uomo del tutto nuovo cesserei di esistere, un altro avrebbe preso il mio posto. L’eguaglianza totale e senza rimpianti può nascere solo da una cesura senza precedenti, dalla soppressione di chi si intende eguagliare. L’eguaglianza “reale”, se fosse possibile, affonderebbe le sue radici nella più radicale ineguaglianza che possa essere concepita. Per essere uguali e senza rimpianti gli esseri umani attualmente viventi dovrebbero sparire per far posto ad altri, nessuno può concepire qualcosa di più radicalmente diseguale.
Un’ultima considerazione. Per eguagliare tutti occorre che tutti si adeguino ad un certo modello, ma chi sceglie il modello a cui tutti devono adeguarsi? La scelta del modello non può ovviamente essere lasciata ai singoli, se così fosse infatti tutti sceglierebbero il modello che più loro aggrada e non si realizzerebbe nessun tipo di uguaglianza. Potrebbe essere la risultante di elezioni democratiche ma in questo caso chi risultasse perdente si vedrebbe imposta dai vincitori nientemeno che la propria natura; non è una bella prospettiva andare a votare sapendo che se si perde si diventa persone del tutto diverse da quelle che si è, che il vincente non si limiterà a governarci ma potrà trasformarci a suo piacimento. Neppure la prospettiva “elettorale” appare quindi minimamente realistica: nessuno accetterebbe mai di mettere ai voti una cosa simile. In realtà l’obiettivo di rendere tutti uguali gli esseri umani implica interventi contro la loro libertà di tale ampiezza e spessore che solo un governo dittatoriale dotato di poteri assoluti su tutti e tutto potrebbe compiere. Ancora una volta la più radicale disuguaglianza è la base, l’unica base possibile della eguaglianza reale.