martedì 17 dicembre 2013

IL SISTEMA DELLE QUOTE




Un pericolosissimo nemico di tutte libertà e della democrazia avanza in Italia e nell'intero occidente. E' un nemico subdolo, come i tumori maligni. Cerca di presentarsi come qualcosa di molto liberale e di molto democratico e riscuote consensi trasversali; la sinistra ne è il portavoce più entusiasta, le forze di centro e di destra ammiccano, culturalmente subalterne; dicono “
NI”, oppure “SI, MA”, belano insomma. Di cosa si tratta? Del sistema delle quote.
Detto in estrema sintesi il sistema della quote teorizza che in tutte le istituzioni o comunque in tutti i posti di un certo rilievo sociale devono essere rappresentati i sessi, o le varie etnie, culture, razze presenti nella società. Le donne ad esempio rappresentano la metà circa della popolazione, ebbene, occorre che la meta dei parlamentari sia donna, e la metà dei consiglieri di amministrazione delle imprese deve essere parimenti costituita da donne, e lo stesso dicasi per tutte le altre cariche di rilievo. Certo, i sostenitori delle quote non fanno proposte tanto “avanzate”, si accontentano di un terzo invece che della metà, e non pretendono che tutte le imprese siano gestite paritariamente fra i sessi, ma si tratta, com'è fin troppo chiaro, di pura tattica. La loro filosofia è chiarissima: la composizione di tutte le istituzioni deve rispecchiare la articolazione del corpo sociale, se questo non avviene ad essere minate sono la democrazia e la libertà. I sostenitori delle quote si presentano come i nemici della discriminazione razziale e sessista, quindi i garanti e difensori della libertà e della democrazia. Ne sono invece implacabili nemici.

La filosofia delle quote è radicalmente sbagliata nel suo punto di partenza.
NON E' VERO che nelle istituzioni deve essere rappresentata la società in tutte le sue divisioni e in tutte le sue articolazioni. Questa pretesa non è liberale, non è democratica, è antimeritocratica e, nella sua essenza profonda, nichilista. Per la filosofia politica liberale, ed anche per il pensiero democratico, socialdemocratico e cristiano, la persona umana è il fondamento di tutto. Ad essere essenziale è l'individuo genericamente umano, colui che appartiene alla specie degli uomini. L'uomo ha una dignità ed un valore perché uomo, non perché maschio o femmina, nero o bianco, operaio o imprenditore. Certo, le particolarità degli esseri umani contano, e molto. Maschi e femmine hanno una funzione ben diversa nella riproduzione della specie, e nulla è più sciocco che il voler ignorare questo fatto, o sminuirne le conseguenze sociali; a volte operai ed imprenditori hanno, o possono avere, interessi contrastanti e questo influenza in maniera importante la vita sociale e politica di un paese; non è da queste particolarità però che nascono il diritto al rispetto che ognuno di noi ha ed il pari dovere di rispettare i propri simili a cui ognuno di noi è obbligato. Insomma, si è persone umane prima di essere maschi o femmine, neri o bianchi, operai o contadini o imprenditori, cristiani, buddisti o mussulmani. Tutta la nostra civiltà si basa su questa concezione.
E questa concezione ha una conseguenza ben precisa: il patto sociale nei paesi liberi dell'occidente è stipulato fondamentalmente in termini individuali. Quando si deve stabilire chi entra in certe istituzioni o chi è chiamato a coprire certi ruoli, lo si deve fare tenendo conto esclusivamente della attitudine che una certa persona ha di coprire quel ruolo, o di ben lavorare in quella istituzione, prescindendo dal fatto che questa persona sia maschio o femmina, nera o bianca eccetera.
In parlamento devono sedere coloro che riscuotono il consenso popolare, che sono votati da elettori ed elettrici. La cosa importanze è che non ci siano discriminazioni nel voto, che tutti abbiano libertà di elettorato attivo e passivo, poi, gli eletti possono anche essere tutti maschi, o tutte femmine, la cosa ha una importanza secondaria. Allo stesso modo, devono sedere nei consigli di amministrazione delle aziende persone capaci e competenti, e persone capaci e competenti devono coprire i ruoli socialmente rilevanti; quale sia il sesso, o il colore, o l'etnia di queste persone conta davvero poco.
Si tratta, come si vede bene, di ovvietà, che derivano tutte da un unico, fondamentale ed assolutamente ovvio, principio: si batte la discriminazione consentendo a tutti di poter occupare certi posti, essere presenti nelle istituzioni, non prefigurandone a priori la composizione. Si tratta, lo ripeto, di qualcosa di assolutamente banale, di una semplice questione di buon senso, eppure è necessari ribadire, urlare questa sensata banalità di fronte alle idiozie che i sostenitori del sistema delle quote gettano dai media, quotidianamente, in pasto pubblica opinione.
La insensatezza profonda delle pretese dei sostenitori delle quote salta intuitivamente agli occhi se solo allunghiamo lo sguardo da istituzioni come il parlamento o i consigli regionali ad altre istituzioni. Per i sostenitori delle quote dovrebbero esserci quote “rosa” (mi limito per ora a quelle) nelle varie istituzioni. “Le donne sono metà della popolazione, è inammissibile che non superino il dieci per cento in parlamento”, dicono. Benissimo, diamo un attimo per scontato che la composizione delle istituzioni debba rispecchiare la composizione sessuale della società. Però, anche il
carcere è una istituzione e di certo in carcere la maggioranza dei detenuti è di sesso maschile. Sarebbe sensato dire che siccome le donne sono la metà della popolazione devono essere la metà anche della popolazione carceraria? NO, ovviamente, si tratterebbe di una colossale stronzata. Si va in carcere se si sono commessi dei reati, su questo tutti, o quasi, concordano, nessuno, o quasi, pretende che la composizione della popolazione carceraria “rispecchi” la composizione della società. Però, esattamente come si va in carcere se si sono commessi dei reati, si va in parlamento se si viene votati, e si è nominati primari di un reparto ospedaliero se si possiede la necessaria professionalità. Non sta scritto da nessuna parte che la composizione delle istituzioni debba rispecchiare quella della società: una cosa simile non è giusta, né “liberale” né “socialmente progressista”, né “democratica”, è solo ideologica.

Il sistema delle quote
contrario al principio della uguaglianza davanti alla legge
Poniamo che Tizia partecipi ad un concorso. Tizia è brava, preparata, potrebbe far parte dei vincitori. Però, per il posto cui Tizia mira vale il sistema delle quote: la metà dei nuovi assunti deve essere di sesso maschile, l'altra metà di sesso femminile. I posti occupati dalle donne sono stati tutti assegnati quindi Tizia non passa. Al suo posto entra un concorrente maschio che si era dimostrato nelle prove meno preparato di lei. L'uguaglianza legale di Tizia è violata, è violato il suo diritto di poter competere alla pari con gli altri.

Il sistema delle quote è
contrario alla meritocrazia.
Un sistema che pretenda di assegnare gli incarichi socialmente rilevanti in base al sesso delle persone, o al colore della loro pelle o ad altre caratteristiche che non siano le loro competenze professionali distrugge qualsiasi
meritocrazia, e mina in questo modo l'efficienza e l'efficacia delle istituzioni.

Il sistema delle quote è
antidemocratico ed illiberale.
Il partito X non candida donne, e, malgrado ciò, ottiene moltissimi voti, di uomini e di donne. Che si deve fare? Togliere a quel partito una parte dei suffragi conquistati? Sempre lo stesso partito candida invece un gran numero di donne (o uomini, non conta), ma, nessuno vota queste donne (o questi uomini). Di nuovo, che bisogna fare? Obligare gli elettori del partito X a votare certi candidati e non altri?  E se quel partito
non riesce, a trovare un numero di donne da candidare pari a quello degli uomini, o viceversa? Se un buon numero di donne (o uomini) politicamente vicini a X preferisce occuparsi non di politica ma di altre cose, che si fa? Si invalidano le elezioni? O magari si obbligano un certo numero di donne, o uomini, a candidarsi comunque per far si che le quote siano rispettate? Il sistema delle quote si dimostra nemico della democrazia e della libertà. Per far si che il sistema delle quote venga rispettato occorre calpestare la volontà popolare liberamente espressa col voto ed imporre ai singoli intollerabili restrizioni della loro libertà personale. Non si tratta di un caso, a ben vedere le cose. Se è davvero fondamentale che i sessi siano paritariamente rappresentati in parlamento, se valiamo come maschi o femmine prima che come esseri umani, allora è del tutto naturale che le nostre libertà politiche e civili vengano sacrificate al principio delle “quote”.

Il sistema delle quote è
nichilista.
Si parla di quote e ci si riferisce di solito alle “quote rosa”, cioè al numero di esseri umani di sesso femminile che è obbligatorio siano rappresentati in certe istituzioni. Però, chi dice che la differenza di genere sia l'unica ad essere rilevante? Per qualcuno potrebbe essere fondamentale la differenza di razza, per qualcun altro quella di religione. In parlamento non dovrebbero esserci solo quote rosa, ma anche quote nere o gialle, o quote mussulmane o buddiste o ebraiche, oltre che cristiane. Un settentrionale potrebbe rivendicare quote di padani, un meridionale quote di meridionali, un gay potrebbe a pieno titolo pretendere le sue brave quote gay, mentre un operaio metalmeccanico potrebbe chiedere adeguate quote che lo rappresentino. Un simile sistema non solo distrugge democrazia, libertà e merito, frantuma la società, la trasforma in un insieme caotico di corporazioni prive di ogni cemento unitario, di qualsivoglia visione comune dei problemi sociali. Se non contiamo in quanto esseri umani ma solo in quanto membri di certi collettivi la società in quanto insieme di esseri umani cessa di esistere. Al suo posto subentra un aggregato informe di collettivi ognuno dei quali ha in se stesso la propria ragion d'essere. Maschi, femmine, cristiani, mussulmani, bianchi, neri, gialli: ognuno rivendica la sua quota, magari anche la sua quota di fondi pubblici, ognuno porta avanti le sue rivendicazioni, ognuno parla il suo linguaggio. Il più audace dei nichilisti non avrebbe potuto immaginare un quadro peggiore (o migliore, dipende dai punti di vista).

Il sistema delle quote è
offensivo per le donne e in genere per coloro che dice di voler tutelare.
Alle donne deve essere garantito un certo numero di posti nelle istituzioni, si dice. Ma, cosa rivela questa pretesa se non la convinzione che senza questo “aiuto” le donne non possono farcela? Nessuno voterebbe una donna, quindi, garantiamo alle donne le quote rosa. Insomma, le donne specie protetta, come i panda, o tutelate, come gli handicappati a cui sono garantiti un certo numero dei posti auto nei parcheggi.
Se fossi una donna mi sentirei profondamente offesa da simili “attenzioni”. Lo stesso discorso vale, ovviamente per tutti coloro per i quali si chiedono quote garantite.

Un sostenitore del sistema delle quote potrebbe a questo punto fare la seguente obiezione: “le considerazioni fin qui svolte sono, astrattamente considerate, corrette, però bisogna tener conto della realtà; e la realtà ci dice che da secoli certe parti della società sono escluse dal potere e dalla rappresentanza. Il sistema delle quote non pretende di fondare una filosofia politica, si tratta solo un espediente temporaneo per sanare una storica situazione di ineguaglianza. Sarà superato ma oggi è necessario”. Che rispondere ad una simile obiezione? Solo che
nulla tende a diventare tanto definitivo quanto ciò che si presenta come provvisorio. Il sistema delle quote si è via via espanso in questi ultimi anni. Riservato inizialmente, negli Stati uniti, ai neri si è ampliato prima alle donne poi a strati sociali sempre nuovi. Con l'esplodere del fenomeno della immigrazione clandestina questo sistema si è sposato con la tendenza a differenziare la legislazione per accordare ai vari gruppi etnici stati giuridici particolari, che tengano conto della loro “cultura d'origine”. In nome di questa spezzettamento della legalità nei paesi occidentali, specie in Europa, si accettano misure e pratiche che sono in totale contrasto con la nostra concezione dei diritti umani e della dignità della persona. Avanza e si consolida sempre più in occidente la tendenza a sostituire i gruppi agli individui quali referenti della attività legislativa; il contratto sociale individualista tende ad essere riscritto in termino collettivistico-corporativi. Ben lungi dal considerare il sistema delle quote un “espediente temporaneo” i suoi sostenitori lo propagandano come attuazione della vera democrazia. Le situazioni di discriminazione, è bene ribadirlo, si combattono rendendo davvero uguali per tutti i diritti ed i doveri, vigilando che nessuno violi questa uguaglianza, predisponendo misure in campo sociale ed economico tali da agevolare l'effettivo godimento di tali diritti ed il rispetto di tali doveri. Creare nuove forme di discriminazione e di diseguaglianza, nuovi ghetti e nuove ghettizzazioni non migliora in nulla le cose, e non le migliora frammentare la società lungo confini razziali, etnici o sessuali.
Il sistema delle quote è in realtà una spia della crisi di valori sempre più grave in cui si dibatte l'occidente, il sintomo di una malattia: la vergogna, spesso combinata ad odio, che molti occidentali provano per la loro civiltà. Si tratta di una malattia molto grave, addirittura mortale se non curata adeguatamente. Purtroppo in giro non si vedono molti medici, semmai numerosi stregoni, che giocano col fuoco.

sabato 14 dicembre 2013

LA FOLLIA E LA SPERANZA CAPITOLO NONO

 

Tutto era cominciato sul finire del secondo decennio del nuovo secolo. Già da tempo l’occidente era in crisi. Gettate nel vortice della globalizzazione, costrette a subire la concorrenza di vigorosi paesi emergenti, le economie occidentali avevano dovuto attraversare periodiche situazioni di recessione. Praticamente assuefatti all’idea che il loro benessere non sarebbe mai stato messo seriamente in discussione gli occidentali, quasi d’improvviso, si erano trovati a dover fronteggiare l’incertezza del domani; convinti da decenni di politiche assistenziali che lo stato avrebbe comunque garantito a tutti decenti livelli di consumo, abituati ad indebitarsi per sostenere un tenore di vita spesso superiore ai loro mezzi, avevano reagito con un misto di rabbia ed incredulità a crisi economiche che rimettevano in discussione quanto pareva definitivamente acquisito.
Ma la crisi dell’occidente non era solo economica era anche, forse soprattutto, una crisi sociale e culturale, una crisi di identità e di valori. Dopo che per lungo tempo si erano orgogliosamente ritenuti gli uni unici esseri umani veramente civili, gli occidentali erano rimasti profondamente scioccati dalla scoperta che la loro storia era, anch’essa, carica di violenze e di ingiustizie. L’occidente era stato la patria delle idee di libertà e di tolleranza, la scoperta che molto spesso le potenze occidentali avevano agito senza tenere in alcuna considerazione tolleranza e libertà aveva profondamente frustrato molti occidentali colti. L’orgoglio era stato rapidamente sostituito dallo scetticismo e da una larvata vergogna della propria storia. L’occidente aveva smesso di credere in sé stesso; ad essere oggetto di critica non erano le politiche che contraddicevano i principi di libertà, tolleranza e democrazia, erano questi principi ad essere messi in discussione o quanto meno ad essere fortemente relativizzati. Libertà e democrazia potevano andar bene per l’occidente, ma criticare altre civiltà perché in esse mancavano democrazia e libertà sarebbe stato una inaccettabile forma di imperialismo culturale. Allo stesso modo, la constatazione che nel mondo esistevano fame e miseria aveva spinto molti occidentali a vergognarsi quasi del loro benessere (a cui tuttavia continuavano a tenere moltissimo) e a ritenere che questo fosse la causa della miseria che ancora affliggeva milioni di esseri umani. Né questi erano sentimenti che riguardavano solo limitati settori di intellettuali. Banalizzate, diffuse a dismisura dai media, le colpe, vere o presunte, dell’occidente erano lentamente diventate oggetto di una universale esecrazione. Non esisteva difetto dell’occidente che non venisse sottoposto a pubblici e molto spesso faziosi processi, d’altro canto la severità che gli occidentali mostravano contro sé stessi si trasformava in ultra tolleranza nei confronti dei crimini e delle brutture di tutte le altre civiltà. Severissimo con sé stesso l’occidente era diventato tollerante oltre ogni misura nei confronti degli altri.
L’occidente era responsabile di tutto. Era responsabile del degrado ambientale, oggetto di continue denunce ed incessanti campagne catastrofiste. Era responsabile del fatto che molti paesi non riuscissero ad imboccare la strada dello sviluppo economico. Era in qualche modo responsabile dello stesso sorgere e svilupparsi di movimenti fondamentalisti e terroristi.
In breve, sul finire del secondo decennio del nuovo secolo l’occidente sembrava forte ma era profondamente debole. Lo sviluppo economico era stagnante, le società occidentali erano indebolite dal corporativismo e sottoposte alla pressione crescente di ondate migratorie sempre meno controllate e controllabili. Soprattutto, mancavano in occidente valori davvero condivisi, mancava qualcosa senza la quale nessuna civiltà può competere o dialogare con le altre, né può alla lunga evitare il declino: l’orgoglio per quanto di buono essa riesce ad esprimere, la consapevolezza della propria identità e del suo valore.

Gli elementi di crisi che minavano la civiltà occidentale si erano manifestati in tutta la loro gravità in occasione dell’attacco del fondamentalismo islamico. Solo una minoranza degli occidentali aveva capito la gravità di quanto stava avvenendo, gli altri avevano reagito in modi diversi ma tutti inadeguati. Ci fu chi incolpò di tutto la sua civiltà, altri invocarono il dialogo e la reciproca comprensione, la maggioranza infine adottò la politica dello struzzo: le cose non erano poi così gravi, bastava evitare reazioni sconsiderate e tutto sarebbe finito, prima o poi.
Malgrado tutti i tentativi per contrastarlo il fondamentalismo islamico si era molto rafforzato nei primi due decenni del nuovo secolo ed era diventato particolarmente pericoloso quando alcuni stati medio orientali governati da autentici fanatici erano riusciti a dotarsi di un piccolo arsenale di armi nucleari. Quando i terroristi fecero esplodere una bomba atomica tascabile su San Francisco, causando oltre cinquantamila vittime, la situazione iniziò a precipitare. In tutto l’occidente si diffuse un incontenibile odio anti islamico. E non solo anti islamico. Tutti coloro che non erano europei od americani furono considerati terroristi tout-court. Per molto tempo i pacifisti occidentali avevano bollato con l’epiteto di “razzisti” tutti coloro che invocavano una politica ferma contro il terrorismo islamico, ora il razzismo, che da molto tempo covava sotto la cenere, risorse davvero e in dimensioni spaventose. Ci furono linciaggi di negri ed arabi, moltissime moschee vennero devastate da folle inferocite, masse crescenti di popolazione invocarono lo sterminio di tutti i mussulmani a suon di testate nucleari. Non solo, ad essere messa sotto accusa fu la stessa democrazia liberale che si era dimostrata debole ed arrendevole. Resi incerti e timorosi dalle crescenti difficoltà economiche, terrorizzati dalla nuova escalation del terrore, molti Europei ed americani voltarono le spalle ai valori fondanti la loro civiltà. La democrazia, i diritti umani, la tolleranza erano i responsabili di tutto, avevano infiacchito il popolo, imbastardito la razza bianca, causato o quanto meno aggravato i problemi economici. Ovunque, in Europa e negli Stati Uniti sorsero partiti neonazisti decisi a farla finita con la tradizione liberale e democratica. Le numerose consultazioni elettorali che si tennero freneticamente in quegli anni non portarono ad alcun governo stabile ed autorevole.
Alla radicalizzazione delle forze di estrema destra fece riscontro una eguale radicalizzazione a sinistra.. Gli immigrati islamici si organizzarono militarmente in poco tempo, molti di loro del resto erano militarmente inquadrati già da anni. I gruppi della sinistra radicale misero da parte il tanto decantato pacifismo per prepararsi alla guerra contro la reazione. Gli scontri di piazza assunsero dimensioni sempre più gravi. Senza che nessuno la dichiarasse, non si sa bene quando né dove, scoppiò la guerra civile più feroce e catastrofica che il genere umano avesse mai conosciuto L’esercito dei vari paesi occidentali si divise fra alcuni reparti ribelli che appoggiarono i neonazisti e la maggioranza delle forze armate che continuò a sostenere i governi regolari; i paesi mussulmani aiutarono le formazioni degli immigrati e, in misura molto minore, quelle dell’estrema sinistra che riuscirono però a rifornirsi di una gran quantità di armi sul mercato clandestino.
Fu guerra di tutti contro tutti, crudele, priva di obiettivi che non fossero la distruzione dei nemici. Si sviluppò a macchia d’olio in tutta Europa e negli Stati Uniti e coinvolse anche, sia pure in misura minore, molti paesi asiatici e latino americani. A volte fra le forze in campo si formavano temporanee alleanze, ad esempio fra nazisti e governo contro gli islamici e la sinistra, o fra sinistra e nazisti contro il governo, ma si trattava di episodi passeggeri. Tutti odiavano tutti; anche fra estrema sinistra ed immigrati islamici i rapporti non erano buoni. Se gli ex pacifisti cercavano l’amicizia degli immigrati questi non scordavano neppure per un momento che quelli erano infedeli, sostenitori della liberazione della donna, insomma, occidentali corrotti anche loro, come tutti gli altri.
E mentre in Europa divampava la guerra civile in medio oriente si compiva un nuovo olocausto. Israele fu attaccato in maniera massiccia da tutti i suoi vicini arabi e stavolta lo stato ebraico era solo. Gli israeliani si difesero con rabbia e ferocia, furono tentati anche di usare le armi atomiche ma rimandarono più volte l’attacco nucleare per timore di rappresaglie. Ma questo non li salvò. Esasperati dalla difesa accanita degli israeliani i loro nemici fecero esplodere un’atomica su Tel Aviv. Ci furono oltre centomila vittime e l’inevitabile rappresaglia israeliana provocò un numero ancora più elevato di morti. Quella fra Israele e stati arabi non era più una guerra, era uno spaventoso massacro reciproco che terminò solo col totale annientamento degli ebrei in medio oriente. Una ottantina d’anni dopo la morte di Adolf Hitler il problema ebraico aveva finalmente trovato la sua soluzione finale.
Spaventati dalla virulenza del conflitto i pochi paesi coinvolti solo marginalmente in esso, come la Cina e la Russia reagirono chiudendosi in sé stessi ed accentuando al massimo il carattere autoritario delle loro strutture politiche. Russia e Cina regredirono rapidamente ai i tempi di Stalin e Mao, analoga regressione autoritaria fu conosciuta da tutti i paesi non toccati, o solo sfiorati, dal conflitto.

Il partito dell’amore nacque in Italia nei primi anni della guerra civile, si espanse fortemente nel corso di questa ed aprì sue sezioni in tutta Europa e negli Stati Uniti. Suo fondatore fu Carlos Vidal, un argentino emigrato molto giovane in Europa. Vidal aveva studiato a Parigi dove si era laureato in filosofia con una tesi sul giovane Marx, poi si era trasferito in Italia ed era vissuto a Milano, Firenze e Roma. Carlos Vidal militava in uno dei tanti partitini dell’estrema sinistra italiana quando la guerra civile iniziò a divampare. La sinistra radicale a quei tempi era costituita da una autentica ridda di ideologie diverse e a volte antitetiche. L’estremismo femminista conviveva con la simpatia per l’Islam, i sostenitori della centralità della classe operaia parlavano di sviluppo economico ed occupazione con gli ecologisti radicali per i quali nessuna ferita doveva essere inferta alla natura, i sostenitori dell’onnipotenza dello stato marciavano fianco a fianco con gli individualisti semi anarchici che rivendicavano droga gratis per tutti. Di intelligenza non particolarmente acuta ma dotato di una notevole capacità di sintesi, Carlos Vidal capì che occorreva unificare in un quadro teorico d’insieme e in un programma politico realistico le varie anime della sinistra radicale italiana e internazionale e a modo suo ci riuscì.
Il principale bersaglio polemico della teoria politica di Vidal era l’individuo, il singolo scisso dalla comunità, l’atomo egoista in perenne lotta con gli altri. Questo individuo altri non è che il borghese, lo sfruttatore, immagine e realizzazione nel contempo della umana alienazione. La società basata sull’individualismo borghese e quindi sull’economia di mercato e i cosiddetti diritti umani andava distrutta, su questo nessuna dubbio era possibile, andava distrutta ad opera di soggetti collettivi, di comunità che vengono prima, plasmano e inglobano in se gli individui. Ma sarebbe stato un grave errore ridurre ad uno questi soggetti comunitari. Marx aveva sbagliato nel ritenere che fosse la classe operaia il più importante o addirittura l’unico soggetto collettivo in grado di abbattere la società borghese. La classe operaia era uno dei soggetti rivoluzionari, altri ne esistevano: le civiltà che il corso della storia aveva messo in rotta di collisione con l’occidente capitalistico, quella islamica in primo luogo, le donne che volevano rifondare il mondo a partire dai valori del femminile, gli ecologisti che volevano ricostruire l’armonia fra uomo e natura, i giovani che comunitariamente cercavano di costruire modelli di vita alternativi alla alienazione borghese. Certo, non tutti questi soggetti collettivi avevano valori ed interessi coincidenti ma erano possibili fra loro la convivenza ed il dialogo, era possibile soprattutto la lotta comune contro il comune nemico: l’individualismo borghese. Battuta la borghesia sarebbe avvenuta la lenta integrazione dei vari comunitarismi e sarebbe sorta una comunità del tutto nuova, basata sulla armonia degli esseri umani fra loro e con la natura. Solo allora si sarebbe realizzato il paradiso in terra.
La costruzione teorica di Vidal non era molto più che un maldestro tentativo di sistematizzazione eclettica delle diverse ideologie della sinistra radicale italiana ed internazionale, nel tradurre questo corpus teorico in programma politico il rivoluzionario argentino si dimostrò però davvero geniale.
La guerra in corso non poteva continuare ad essere lotta di tutti contro tutti. Bisognava che alcune delle forze in campo si alleassero fra loro o almeno riducessero le reciproche ostilità per concentrare il fuoco contro il nemico comune. Ed il nemico comune non potevano che essere i governi regolari e le forze liberali, democratiche e socialdemocratiche, che li sostenevano.
Agli islamici il partito dell’amore fece una organica proposta di alleanza. Nulla di serio divideva le forze di sinistra confluite in quel partito dai combattenti islamici. Questi erano nemici giurati del liberalismo, della democrazia occidentale in tutte le sue forme e del capitalismo imperialista. Certo, esistevano differenze fra sinistra radicale ed islam, ma si trattava di differenze che potevano benissimo convivere nell’ambito di una società fondata sul rispetto per i valori del diverso. Il partito dell’amore dichiarò a chiare lettere nel suo programma che a guerra finita non sarebbe stata opposta restrizione alcuna alla immigrazione islamica e che tutto ciò che in qualsiasi modo avrebbe potuto offendere i sentimenti religiosi dei mussulmani sarebbe stato vietato. Si impegnò anche a risarcire adeguatamente gli islamici tutti per le vessazioni secolari che questi avevano dovuto subire ad opera degli occidentali.
Ma il partito dell’amore tendeva la mano anche a quello che avrebbe dovuto essere il suo nemico mortale: il partito neonazista unificato in cui erano confluite quasi tutte le organizzazioni di estrema destra europee ed americane. L’odio dei neonazisti verso gli islamici e i non bianchi in generale era senz’altro riprovevole, ma l’idea nazista di una comunità basata sulla nazione o addirittura sulla razza era da considerarsi positivamente. Nel suo programma per la ricostruzione il partito dell’amore si impegnava a rispettare tutte le tradizioni nazionali ma soprattutto si impegnava ad una lotta a fondo contro il sionismo, in tutte le sue forme. L’ebreo era, in quanto ebreo, il simbolo stesso del borghese. Estraneo alla cultura delle comunità in cui aveva vissuto l’ebreo era sempre stato un fattore di crisi e di divisione. Era l’ebreo a rompere l’armonia della comunità in cui viveva, ad insinuare ovunque la mala pianta dell’individualismo egoista, del gretto spirito commerciale. E quando l’ebreo aveva costruito un suo stato, aveva fatto di questo la punta di diamante della aggressione imperialista contro tutte le comunità fondate su autentici valori di solidarietà e di amore reciproco. L’ideologia sionista andava combattuta senza pietà, lo spirito ebraico doveva essere sradicato dalla testa e dal cuore degli esseri umani. I neonazisti erano abbastanza intelligenti per capire che la lotta contro il sionismo e lo spirito ebraico che il partito dell’amore proponeva loro altro non era che lotta contro gli ebrei tout court. E questo a loro andava benissimo.

Le proposte del partito dell’amore per il momento non dettero frutto alcuno e per un anno almeno la guerra continuò come feroce lotta di tutti contro tutti. I dirigenti dei governi regolari dal canto loro diedero l’ennesima prova di cecità politica prevedendo il rapido declino di quel partito. Il tentativo di unificare tutti i nemici del liberalismo, della democrazia e del socialismo democratico sarebbe fallito, sentenziarono. Cosa univa fra loro neonazisti e comunisti? Estremisti islamici ed estremisti ecologici? Nulla se non l’odio verso l’occidente liberale e democratico, prima o poi queste forze si sarebbero distrutte a vicenda, non potevano esserci dubbi al riguardo. Nella loro infinita e colpevole ingenuità i leader del vecchio occidente non capirono che l’odio può unire quanto e più dell’amore, che il nulla può diventare in certi momenti un formidabile programma politico.
Quando divenne chiaro che nessuna delle forze in campo aveva da sola la forza per vincere il conflitto iniziarono i contatti per cercare di stabilire delle alleanze. Fra milizie islamiche e partito dell’amore si giunse infine ad una intesa sulla base delle proposte che il partito di Vidal aveva avanzato da tempo. I neonazisti dal canto loro non giunsero ad una vera intesa col partito dell’amore, ma gradualmente cominciarono ad indirizzare i loro colpi contro il governo regolare, evitando gli scontri troppo cruenti con le milizie islamiche e la sinistra di Carlos Vidal. Questi fatti da soli non sarebbero però bastati a determinare il crollo dei governi regolari e la vittoria del partito dell’amore. Decisivi furono altri due eventi. In primo luogo l’opinione pubblica dei paesi straziati dalla guerra iniziò a spostarsi sempre più a favore del partito dell’amore. La gente era stanca per l’orrendo massacro che sembrava non finire mai ed il programma di Vidal, con le sue parole di pace, dialogo, convivenza e rispetto fra diversi aveva il potere di affascinare uomini e donne che da anni convivevano con la morte e neppure ricordavano più le cause scatenanti del conflitto. Inoltre l’amore per la libertà era ormai morto nei cervelli e nel cuori di moltissimi esseri umani che bramavano solo a riconquistare un minimo di benessere e di sicurezza, ed il programma del partito dell’amore, con le sue rivendicazioni di assistenzialismo statale e programmazione centralizzata, sembrava fatto apposta per venire incontro a tali esigenze.
Ma il fatto davvero decisivo fu un altro. Le potenze estranee al conflitto, Russia e Cina soprattutto, avevano dapprima sperato di trarre benefici dalla guerra in corso e si erano ben guardate dal favorire questa o quella forza in campo. Col passare del tempo però sorsero anche in quei paesi formazioni estremiste in grado di influenzare settori consistenti di pubblica opinione. In Cina e soprattutto in Russia erano abbastanza diffusi gruppi islamici fondamentalisti che aspettavano solo la occasione buona per scatenarsi. In entrambi i paesi stavano sorgendo inoltre movimenti ultra nazionalisti che potevano diventare molto pericolosi per le autocrazie al potere. La prosecuzione indefinita della guerra rischiava di coinvolgere anche i paesi che erano riusciti a restarle estranei e un intervento diretto avrebbe potuto significare lo scoppio di una guerra civile anche in quelli. La guerra andava fermata, occorreva che ci fosse un vincitore. Quale? Il partito dell’amore apparve ai nuovi dittatori di Russia e Cina la carta migliore su cui puntare. Il partito dell’amore non era animato dai propositi espansionistici che caratterizzavano le formazioni neonaziste ed islamiche ed il suo programma di dialogo e convivenza fra diversi poteva riuscire a stabilizzare la situazione, almeno per il tempo necessario alle nuove autocrazie di Mosca e Pechino per stabilizzare il loro giovane potere.
La guerra durava da oltre cinque anni quando un autentico fiume di aiuti militari iniziò a rinforzare le fila del partito dell’amore. I governi regolari, che avevano iniziato le ostilità potendo disporre di una buona superiorità militare, si trovarono ad essere deboli ed isolati. La maggioranza della popolazione stava loro voltando le spalle e le diserzioni dalle loro fila si erano intensificate, i loro nemici avevano trovato il modo di non massacrarsi a vicenda e il partito dell’amore era diventato la forza militarmente preponderante. I governi avrebbero potuto ancora vincere se avessero usato le armi atomiche in loro possesso, armi di cui detenevano il quasi monopolio. Ma il conflitto in corso era una autentica guerra senza fronte: non esistevano ampie zone dell’Europa e degli Stati Uniti sotto il controllo esclusivo di una sola delle forze in campo. L’uso massiccio di armi atomiche, oltre a provocare un numero mostruoso di vittime civili, avrebbe colpito inevitabilmente anche forze fedeli ai governi regolari accentuando ulteriormente il loro isolamento. Inoltre i leader liberali e democratici avevano troppi scrupoli umanitari per prendere una decisone tanto grave. Vennero usate alcune atomiche tascabili per colpire campi di addestramento e depositi di armi del partito dell’amore e questi rispose con eguali rappresaglie usando mini atomiche che gli erano state fornite dai governi russo e cinese, ma la guerra continuò ad essere prevalentemente convenzionale.
La guerra durò ancora due anni. Alla fine i governi regolari cedettero e si aprirono trattative di resa. Il partito dell’amore terminava il conflitto da trionfatore. Era stato lui ad infliggere i colpi più micidiali agli eserciti regolari. Tutte o quasi le grandi aree metropolitane erano controllate dalle sue truppe e poteva vantare anche un notevole appoggio fra la pubblica opinione.
In breve fu raggiunto un accordo con le milizie islamiche sulla base delle precedenti intese stipulate in tempo di guerra. Il partito dell’amore sapeva di non potersi permettere una lotta contro quelle milizie che avevano l’appoggio di tutti gli stati arabi, né voleva scontrarsi con quelli che considerava come suoi amici. Con i neonazisti il discorso fu diverso. Con loro non esistevano accordi né i neonazisti intendevano davvero pacificarsi con la sinistra. Molti militanti di estrema destra nella fase finale del conflitto si pentirono amaramente di aver concentrato i propri attacchi sull’esercito regolare lasciando mano libera alle truppe del partito dell’amore, ma ormai era troppo tardi. Comunque la loro sorte non fu particolarmente crudele: un gran numero di militanti aveva abbandonato il partito neonazista unificato negli ultimi mesi di guerra e nell’immediato dopoguerra la tendenza crebbe impetuosamente. Furono i transfughi del partito neonazista unificato a fornire i migliori combattenti al corpo dei guardiani della rivoluzione ed alla costituenda milizia per la sicurezza popolare. I neonazisti irriducibili continuarono la lotta e vennero distrutti solo dopo molti anni, altri contrattarono una resa dignitosa e si inserirono abbastanza bene nella nuova società. Malgrado le promesse fatte nel corso delle trattative per la resa, i quadri dei vecchi partiti democratici furono invece sterminati e la stessa sorte toccò a molti dei loro militanti. I plotoni d’esecuzione lavorarono a pieno regime per almeno un paio d’anni dopo la fine delle ostilità, inoltre moltissimi militanti o semplici simpatizzanti dei partiti che un tempo avevano governato l’Europa e gli Stai Uniti d’America furono deportati in campi di lavoro e di rieducazione, e non fecero più ritorno.
Per molti anni continuarono scontri sparodici ed episodi di violenza e le voci su nuove azioni militari di questa o quella forza sconfitta durarono molto a lungo, favorite anche dalla assoluta mancanza di informazioni attendibili.
Comunque nei primi mesi del 2.028 la guerra era ufficialmente finita. Era durata 7 anni ed aveva mietuto più di 120 milioni di vite umane. Nei paesi pienamente coinvolti dal conflitto, Europa e Stati Uniti d’America, la vittoria del partito dell’amore era stata piena. L’Europa, Russia esclusa, venne divisa in due grandi paesi fratelli: Centreuropa e Mediterranea, governati rispettivamente dalla sezione settentrionale e meridionale del partito dell’amore. La divisione aveva motivazioni tecniche ed organizzative e sarebbe stata superata in poco tempo, si diceva. Una soluzione simile fu adottata per gli Stai Uniti d’America che vennero divisi in tre grandi sottostati governati da branche diverse del partito dell’amore americano. Naturalmente il conflitto aveva avuto ripercussioni in tutto il mondo. In Giappone aveva preso il potere il partito degli antichi samurai, una formazione ultra nazionalista e sciovinista. La Malesia e le Filippine erano cadute nelle mani del fondamentalismo islamico. In Cile ed in Argentina avevano preso il potere dei partiti comunisti simili ma non identici al partito dell’amore, in Brasile era stata instaurata una feroce dittatura militare. Dove ancora esisteva una democrazia parlamentare, come in Canada, o in Australia, questa era la caricatura di sé stessa, un povero regime debole e sottoposto ad ogni forma di ricatto.
Quando i cannoni cessarono di tuonare nella tarda primavera del 2028 la civiltà occidentale era morta.






ALIENAZIONE, LOTTA ED ARMOMIA IN MARX





Esiste nel pensiero di Marx una fortissima componente conflittuale. “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte ci classi” (1) afferma Marx nel “manifesto del partito comunista” e tanto dovrebbe bastare per confutare la tesi che il marxismo sia una melensa filosofia dell'armonia fra gli esseri umani. In effetti forse nessun pensatore ha come Marx sottolineato l'importanza dello scontro, della lotta nella storia; catalogare il marxismo fra le filosofia dell'armonia sociale è francamente impossibile.
Il marxismo è una filosofia della conflittualità più che dell'armonia, ma  si basa sul rifiuto di ogni forma di dualismo.
Il marxismo è, insieme, una filosofia conflittuale e monistica, una sorta di forma atea di monismo panteistico. Marx esalta al massimo il ruolo dello scontro sociale nella storia, ma questo scontro è interno ad un processo necessario che parte da, e si concluderà con, l'armonia, una armonia che segna la riconciliazione dell'uomo con se stesso.
All'alba della storia regna la perfetta armonia degli esseri umani fra loro e con l'ambiente circostante. Si tratta di un'armonia che ha però ben poco di attraente. Una unità immediata, basata in gran parte su vincoli di sangue e sulla totale supremazia delle leggi di natura; una situazione in cui la vita umana non è troppo dissimile da quella puramente animale. La lotta degli uomini per costruire col lavoro le proprie condizioni materiali di esistenza rompe questa unità immediata: la (mitica) società comunista primitiva si dissolve e nascono le differenziazioni sociali, le classi e con le classi lo sfruttamento. E' una fase che caratterizza per Marx praticamente tutta la storia. Fase triste e drammatica in cui l'umanità si divide sempre più in oppressi ed oppressori, sfruttatori e sfruttati. Tuttavia, una fase necessaria perché nella sua ultima tappa, quella della economia capitalistica di mercato, si creano le condizioni materiali che rendono insieme necessaria e possibile la ricomposizione armonica degli uomini fra loro e con la natura. Ricomposizione che si situa ad un livello enormemente più alto di quello della società comunista primitiva, mediata com'è dallo sviluppo delle forze produttive sociali che rende possibile la integrale liberazione dell'uomo, il suo sviluppo illimitato e multilaterale.
Questa visione unitaria, e dogmatica, del corso storico è, nella sua intima essenza, profondamente monistica. Per Marx non esistono, o, se esistono sono del tutto marginali, divisioni, contrasti fra gli esseri umani che possano in qualche modo essere considerati definitivi, possano cioè essere ascritti alla
condizione umana in quanto tale. Nel mondo non esistono per Marx autonomi soggetti, individuali e collettivi i cui valori, idee, interessi possono convergere ma anche divergere e che è quindi necessario mediare, cercare di armonizzare e far convivere. I vari soggetti sociali si alternano nel corso della storia e recitano ognuno la parte che è stata loro assegnata fino al lieto fine che conclude il dramma. E ciò che vale per i rapporti fra gli soggetti sociali vale per il rapporto fra uomo e natura o fra gli individui. Uomo e natura si trovano dapprima in uno stato di immediata unità; subentra poi la fase della separazione e della contrapposizione fra natura e uomo, fase che sarà superata nel comunismo con la totale umanizzazione della natura e naturalizzazione dell'uomo. Che fra uomo e natura possa esistere, oltre all'armonia, un contrasto di fondo, contrasto di cui la morte è simbolo angoscioso, non è minimamente ipotizzato da Marx. Ed anche rapporti fra individui sono caratterizzati dallo stesso andamento. Inizialmente si ha una unità immediata fra io e tu, io tu e loro. Unità che soffoca ogni individualità libera ed impedisce lo sviluppo della personalità individuale. Segue lo stato di atomizzazione e di lotta di ogni essere umano contro tutti gli altri: è la situazione che caratterizza la società di mercato. Infine io e tu e loro si unificano armoniosamente nel “noi”, “noi” che non è la negazione dell'individuo ma unità armoniosa di individuale e collettivo, io ed altro. Ancora una volta, che siano almeno potenzialmente possibili contrasti fra gli individui, che questi facciano parte del loro “status ontologico”, è respinto con la massima decisione da Marx. Tutti i contrasti sono interni ad uno schema che si conclude con l'eliminazione di ogni contrasto. La libertà umana coincide con la fine di ogni divisione fra gli esseri umani, la loro unità nella comunità. Ogni altra forma di libertà è considerata da Marx “alienazione” separazione dell'uomo da se stesso, abbandono della sua essenza.

Ne “
la questione ebraica”, opera di poco anteriore ai “manoscritti economico filosofici”, il giovane Marx sottopone ad una dura critica la dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1793. Si tratta di una critica molto importante al fine di comprendere la concezione marxiana della libertà, per cui val la pena di dedicarle un po' di spazio e molta attenzione.
La società borghese basata sulla economia di mercato è divisa, per Marx, in due sfere distinte. Da un lato, nella società civile, gli esseri umani concreti sono in perenne lotta fra loro. Divisi in sfruttati e sfruttatori, oppressori ed oppressi sono, tutti, atomizzati e tutti in lotta l'uno con l'altro. A questo regno dell'ineguaglianza si contrappone, nella società politica una formale eguaglianza di tutti gli esseri umani. Alla particolarità della società civile si contrappone la universalità astratta della società politica che fa tutti uguali gli esseri umani astraendo dalle loro diseguaglianze di fatto. Ma astrarre da queste diseguaglianze vuol dire sancirle, renderle eterne. “Lo stato in quanto stato” afferma Marx,”annulla ad esempio, la
proprietà privata, l'uomo dichiara soppressa politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce il censo per l'eleggibilità attiva e passiva, come è avvenuto in molti stati nordamericani (…) Tuttavia con l'annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la proprietà privata ma essa viene addirittura presupposta. Lo stato sopprime nel suo modo le differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione dichiarando che nascita, condizione, educazione, occupazione non sono differenze politiche, proclamando ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare senza riguardo a tali differenze (…) Nondimeno lo stato lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione e facciano valere la loro particolare essenza” (2)
Il discorso di Marx è estremamente chiaro. Nella sfera politica i cittadini sono tutti liberi ed uguali ma questa uguaglianza non annulla le loro diseguaglianze di fatto, al contrario, le presuppone.
In effetti la libertà e la democrazia liberali non annullano le diseguaglianze: essere liberi ed uguali di fronte alla legge vuol dire anche poter essere, o poter diventare, diseguali, anche profondamente diseguali, nella realtà di fatto. La libertà è anche, forse soprattutto, libertà di essere diversi ed essere diversi significa, o può significare, anche essere diseguali. Le stesse politiche sociali volte a moltiplicare le possibilità concesse ad ogni individuo di potersi realizzare, non annullano, almeno entro certi limiti, questa realtà: l'obbligo scolastico, le varie forme di assicurazione sociale non eliminano la diseguaglianza, semmai ne ampliano le basi. Esistono più chance per tutti: questo significa che la possibilità di poter diventare diseguali si generalizza, riguarda la totalità o quasi degli esseri umani. La critica di Marx mira al cuore di queste concezioni. Ad essere messa sotto accusa è la libertà politica che si traduce, non casualmente, in disuguaglianza sociale. In particolare è oggetto della critica di Marx l'individualismo atomistico della società borghese. Per Marx la divisione degli individui fra loro, il fatto che ogni essere umano costituisca una sorta di isola che deve essere difesa dalle altrui prevaricazioni, è sinonimo di alienazione, separazione dell'uomo dalla sua essenza. E' in questa separazione che vanno cercate le basi della ineguaglianza e dello stesso sfruttamento. Quando scrisse “
la questione ebraica“ Marx non aveva ancora compiutamente elaborato la sua teoria dello sfruttamento basata sui concetti di valore lavoro e plusvalore, questa tuttavia non contraddice gli assunti di fondo di questa opera giovanile, semmai li conferma.
Nella critica alla dichiarazione dei diritti dell'uomo questo aspetto del pensiero marxiano emerge con palmare evidenza.
“I cosiddetti diritti dell'uomo” afferma Marx “non sono altro che i diritti del
membro della società civile, cioè dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità” (3)
Separatezza dell'uomo dall'uomo e dalla comunità: questa è per Marx la caratteristica negativa più grave della società borghese. “la liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui” afferma la dichiarazione del 1793. Commenta Marx: “La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muoversi
senza nocumento altrui, è stabilito per mezzo della legge, come il limite tra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta della libertà dell'uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. (…) Il diritto dell'uomo alla libertà si basa non sul legame dell'uomo con l'uomo ma piuttosto all'isolamento dell'uomo dall'uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell'uomo limitato, limitato a se stesso” (4)
In effetti la libertà liberale è anche diritto all'isolamento. Se si riconoscono all'individuo un suo valore ed una sua autonomia allora si deve riconoscere che egli ha, se vuole, il diritto ad isolarsi ed ha diritto ad essere garantito da altrui, non desiderate, intrusioni. Tutto questo è però sinonimo, per Marx, di alienazione, di separazione fra uomo empirico ed essenza umana. Ciò risulta molto chiaro nelle righe che egli dedica al diritto di proprietà. Questo diritto altro non è per Marx che “diritto all'egoismo”, diritto che “lascia che ogni uomo trovi nell'altro uomo non già la realizzazione ma piuttosto il limite della sua libertà” (5). Allo stesso modo, “La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto di polizia, che l'intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti, della sua proprietà. (…) Per il concetto di sicurezza la società civile non si innalza oltre il suo egoismo. La sicurezza è piuttosto l'assicurazione del suo egoismo” (6)
Tutti i diritti negativi, tutte le tutele poste a difesa del singolo, della sua vita e dei suoi beni, sono quindi considerati da Marx come egoistici, escludenti, sostanzialmente antisociali. E, si badi bene, non sono considerati tali perché dietro alla formale eguaglianza che questi diritti garantiscono si nascondono intollerabili diseguaglianze di fatto fra gli individui. Certo, anche questo è un bersaglio della critica marxiana, ma non il bersaglio fondamentale. Ad essere messo sotto accusa è il singolo in quanto tale, l'individuo con la sua autonomia, i suoi diritti che non possono essere violati da nessuno, la sicurezza di cui deve godere in una società libera. Tutelare l'individuo così inteso equivale per Marx a tutelare l'egoismo escludente, la separazione atomistica fra gli esseri umani, in una parola, la loro alienazione.
“Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè l'individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso come specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come la cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria”. (7)
L'essere membro di una società costituisce l'essenza specifica dell'uomo ma questa essenza nella società di mercato si separa dall'uomo, vive una deformata vita propria contrapposta e separata da quella degli individui. Invece di essere integrazione armoniosa degli individui la società esiste come loro limite, come qualcosa da cui gli individui devono in qualche modo essere protetti. Di nuovo emerge il sostanziale monismo di Marx. L'uomo è un animale sociale quindi la integrazione degli individui nella società deve essere totale e priva di residui. Soprattutto, deve essere, armonica. Non esiste l'esigenza di tutelare il singolo dalle eventuali intrusioni di un suo simile e meno che mai da quelle del collettivo a cui entrambi appartengono. Il garantismo liberale diventa in questo modo il simbolo stesso di una situazione alienata, sostanzialmente disumana.

Si potrebbe dire, ed in effetti è stato detto, che tematiche di questo tipo sono proprie del Marx giovane, di un Marx che usa ancora prevalentemente categorie antropologiche, che non ha ancora esplicitato il meccanismo dello sfruttamento capitalistico connesso alla legge del valore, insomma, di un Marx filosofo hegeliano e non economista materialista. Ma non è così. La tematica della alienazione non è in Marx una civetteria giovanile, un passeggero vezzo hegeliano. Certo, il Marx maturo approfondisce ed amplia le basi del suo pensiero, soprattutto in campo economico, si misura con Smith e Ricardo più che con Hegel, ma non abbandona mai la tematica “giovanile” della alienazione presente in opere come i “manoscritti economico filosofici” e la stessa “questione ebraica”. La tematica della alienazione è presente nella opera maggiore di Marx: nel “Capitale”, e specificamente in quel paragrafo intitolato: “il carattere di feticcio della merce e il suo segreto”. Si tratta di un paragrafo assolutamente fondamentale per la comprensione di Marx. Non vorrei esagerare ma si può dire che chi non lo ha compreso non ha capito nulla di Marx. Per questo occorre esaminarlo con cura.

Marx, lo si è visto, ha una visione fortemente unitaria del rapporto uomo natura: l'uomo è parte della natura e la natura è “il corpo inorganico dell'uomo”, il grande laboratorio che l'uomo ha a disposizione per la sua attività produttiva e creativa: il lavoro. Con il lavoro l'uomo “umanizza la natura”, costruisce le proprie condizioni materiali di esistenza. Molte delle cose che Marx dice sull'importanza del lavoro e del processo di costruzione delle condizioni materiali di esistenza sono del tutto condivisibili, però è l'impostazione di fondo del filosofo di Treviri a non essere accettabile. Il prodotto del lavoro non è per Marx una cosa, un oggetto che serve all'uomo per soddisfare determinati bisogni. No, il prodotto del lavoro è “cristallizzazione del lavoro umano, gelatina di lavoro sociale” e, poiché la capacità di lavorare è caratteristica essenziale dell'uomo, il prodotto del lavoro è essenza umana che assume la forma fenomenica di un abito, o di tre metri di tela, o di una seggiola, o di un chilo di pasta. E' chiaro il legame fra questa concezione e quella secondo cui la natura è il corpo inorganico dell'uomo. La natura è corpo inorganico dell'uomo, il prodotto del lavoro, cioè la natura modificata dal lavoro, è essenza umana esteriorizzata. Non uomo e natura, quindi, uomo e prodotto del lavoro, ma uomo che è anche natura e natura che è anche uomo, e prodotto dell'umano lavoro che è esso stesso uomo, inorganica essenza umana.
“La forma generale di valore, che riporta i prodotti di lavoro come pura gelatina di lavoro umano indifferenziato, mostra di essere l'espressione sociale del mondo delle merci, tramite la sua propria struttura” (8), dice Marx. La società capitalistica è basata sulla produzione di merci, cioè di beni destinati allo scambio. Queste merci sono “gelatina di lavoro umano”, e si scambiano fra loro in base alla quantità di lavoro sociale che ognuna di esse rappresenta. Vendendo e comprando merci, compresa quella merce particolarissima che è per Marx la forza lavoro, gli esseri umani entrano in determinate relazioni sociali; ma, di che tipo di relazioni sociali si tratta? Questo è il punto decisivo.
Una fabbrica produce mobili, un sarto cuce abiti, un'azienda agricola rifornisce il mercato di frutta e uova. Mobili, abiti e frutta rappresentano ognuno una certa quota parte del lavoro sociale complessivo, sono il risultato della divisione sociale del lavoro, un prodotto della società. Nella economia capitalistica però non è la società a decidere direttamente quanto, cosa e per chi produrre. La attività economica è frammentata fra tanti operatori, ognuno dei quali immette sul mercato le merci che ha prodotto. E qui queste merci sfuggono al suo controllo, al suo come a quello di qualsiasi altro essere umano. Tizio ha prodotto abiti pensando che questi sarebbero stati venduti a 100, però nel frattempo i gusti sono cambiati e un abito viene venduto a 50, Caio pensava che la sue uova sarebbero state vendute in un mercato locale, invece sono finite in una grande fabbrica dolciaria gestita da imprenditori giapponesi, i mobili prodotti nella fabbrica di Sempronio invece hanno aumentato il loro valore dopo che un mobilificio tedesco è fallito. Le merci sono lavoro umano cristallizzato, ma l'uomo non controlla i loro movimenti e la loro destinazione. Sul mercato esse si rendono autonome dall'uomo, agiscono di vita propria.
Sul mercato, dice Marx “l'uguaglianza dei lavori umani prende la forma reale dell'uguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza lavorativa umana prende tramite la sua durata nel tempo la forma della grandezza di valore di prodotti del lavoro, infine i rapporti fra i produttori, nei quali si affermano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, prendono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro” (9). Quelli che sono rapporti sociali fra uomini diventano sul mercato rapporti fra cose, meglio, rapporti sociali fra cose. Il lavoro cristallizzato si stacca dal produttore e diventa oggetto e, come oggetto, si rapporta ad altri oggetti. L'essenza umana si allontana dall'uomo e si reifica.
“Il segreto della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l'immagine della caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose e perciò ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale fra oggetti che esista al di fuori di loro. I prodotti del lavoro tramite questo quid pro quo, diventano merci, cose sensibilmente soprasensibili, ossia cose sociali” (10)
Cose sociali: oggetti che vivono di vita propria, e che presentano come proprie caratteristiche quelle che sono invece caratteristiche sociali. Un abito si scambia con tre paia di scarpe perché l'abito rappresenta una porzione del lavoro sociale complessivo che è tripla di quella rappresentata da un paio di scarpe. Sul mercato però il rapporto fra abiti e scarpe diventa rapporto fra cose e le caratteristiche di scarpe ed abiti qualcosa di interno a loro in quanto cose, una loro caratteristica specifica. L'uomo perde in questo modo il controllo sul lavoro, quindi sulla sua essenza specificamente umana, lo perde perché questa si oggettivizza, si rende autonoma e contrapposta all'uomo.
“Quello che qui prende per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è solamente il determinato rapporto sociale che esiste tra gli stessi uomini. (…) Questo è quel che io chiamo feticismo, che si attacca ai prodotti del lavoro quando vengono prodotti come merci e che perciò è indisgiungibile dalla produzione di merci” (11)
La società di mercato è quindi un mondo rovesciato, alienato. In essa i rapporti fra persone sono diventati rapporti fra cose, l'essenza umana si è staccata dall'uomo, e l'uomo, privo della sua essenza, è degradato al rango di cosa. I rapporti fra gli uomini, regolati dal puro interesse materiale, sono puramente quantitativi, i rapporti fra cose invece sono qualitativamente molteplici e cangianti. Ai produttori, afferma Marx ”Le relazioni sociali si manifestano per quello che sono: ossia non come rapporti direttamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti di cose tra persone e come rapporti sociali fra cose” (12)
Siamo, come si vede, in piena teoria della alienazione. Nella società borghese gli uomini diventano cose e le cose uomini. La società ha perso il controllo sui prodotti del lavoro e questi vivono di vita propria. Si scambiano come cose sul mercato e sul mercato sono sottoposti all'imperio di leggi impersonali. Quanto e cosa produrre, per chi produrre, come produrre cessano di esser decisioni sociali collettive, diventano la risultante delle anonime leggi che regolano lo scambio di quelle cose sociali che sono le merci. Sono i rapporti fra le cose e le impersonali leggi che li regolano a decidere dell'attività produttiva, quindi della vita di milioni di esseri umani.

Le posizioni di Marx qui rapidamente esposte si prestano a critiche che spaziano in molti campi; una disanima critica adeguata dovrebbe toccare la teoria del valore, la dialettica, la concezione marxiana della storia, insomma, i numerosi capisaldi del marxismo. Qui ci si limiterà a porre in evidenza come la teoria marxiana del feticismo della merce, e più in generale tutta la tematica della alienazione, si basino su una avversione quasi superstiziosa verso tutto ciò che è oggetto, cosa, e su una altrettanto profonda avversione per tutto ciò che in qualche modo è “diviso”. Così come la natura non è cosa ma “corpo inorganico dell'uomo” i prodotti del lavoro non sono per Marx oggetti, cose che servono all'uomo. I prodotti del lavoro sono “gelatina”, “cristallo” di lavoro umano, sono essenza umana solidificata, insomma, prolungamento dell'uomo, non qualcosa d'altro rispetto all'uomo: un insieme di oggetti che possono essergli utili, ma che possono anche non esserlo, o non esserlo per tutti, o che possono esserlo in maniera differenziata. Per Marx i prodotti del lavoro diventano “cose” perché sono venduti sul mercato, perché i produttori non decidono insieme quanto, come e per chi produrre, insomma, perché l'economia non è centralmente pianificata. Ora, sono note le obiezioni economiche che si possono opporre ai sostenitori della pianificazione: rinunciando al mercato l'economia rinuncia ad un indispensabile selettore dei consumi e degli investimenti, ma non è questa la sede per approfondire questo discorso. Quello che qui si vuole sottolineare è che non è vero che i rapporti mercantili siano rapporti fra cose, meno che mai rapporti sociali fra cose e rapporti cosali fra gli uomini. I rapporti mercantili sono rapporti fra uomini che si scambiano delle cose. Si possono definire “alienati”, "disumanizzati” simili rapporti solo se si ha un timore superstizioso per tutto ciò che è “cosa” e solo se si ritiene che ogni relazione fra gli esseri umani debba essere assimilata ad una relazione organica. Tizio e Caio possono decidere insieme quanto e cosa produrre e come ripartirsi i prodotti del comune lavoro, o possono operare autonomamente. In questo caso se Tizio produce tavoli e Caio sedie, entrambi accetteranno di scambiare le loro merci solo se le riterranno adatte a soddisfare le proprie esigenze. E' vero che nello scambio si prendono in esame le caratteristiche materiali di quelle cose che sono le merci, ma questo non “disumanizza” lo scambio perché quelle caratteristiche hanno come punto di riferimento i bisogni degli esseri umani. Il fatto che un tavolo si scambi con un quattro sedie non crea alcuna relazione sociale fra tavoli e sedie, la relazione sociale è sempre fra venditori e compratori, fra persone che vogliono tavoli ed altre che desiderano sedie.
Ed ancora, lo scambio di tavoli e sedie non “offusca” il fatto che sedie e tavoli sono entrambi prodotti del lavoro umano e della divisione sociale del lavoro, al contrario: lo scambio esiste perché esiste la divisione del lavoro e questo appare con immediata evidenza nel mercato. Sul mercato i vari prodotti del lavoro vengono confrontati fra loro e con le esigenze dei consumatori e vengono venduti a determinati prezzi. Il prezzo astrae  dalle caratteristiche qualitative di un certo bene: il bene A costa 10, come il bene B, qualitativamente del tutto diverso. Questo però non elimina le caratteristiche di A e di B ed il loro rapporto con le esigenze umane. Se un libro costa quanto un paio di scarpe vuol dire che c'è per il libro un acquirente che è disposto a pagare lo stesso prezzo che un altro acquirente paga per le scarpe. Alla base di entrambi gli acquisti stanno esigenze umane. Affermare che la attribuzione del prezzo, poniamo 100, a un libro e ad un paio di scarpe elimina le loro differenze qualitative, riduce entrambi ad "astratta gelatina di lavoro umano", è un po' come dire che se mi trovo in una località che dista 100 chilometri dal mare in una direzione e 100 dalla montagna, in un'altra direzione, questo annulla le differenze fra mare e montagna. Il prezzo come relazione quantitativa permette che cose qualitativamente diverse si indirizzino verso soggetti qualitativamente diversi, esattamente come la misurazione delle distanze permette a soggetti con gusti ed esigenze diverse, di viaggiare verso luogo diversi qualitativamente.

Per Marx, lo si è visto, tavoli e libri, e sedie e scarpe e ogni merce che si scambia sul mercato altro non sono che lavoro sociale cristallizzato, quindi sociale essenza umana in forma fenomenica di prodotti. Per impedire che questa essenza sociale si reifichi e si contrapponga all'uomo occorre, per Marx, che la società nel suo complesso guidi l'attività economica sottoponendola ad un piano. Ogni altra forma di organizzazione delle attività economiche e produttive è assimilata da Marx alla alienazione ed alla reificazione, segna il contrasto dell'uomo col prodotto del suo lavoro, quindi dell'uomo con se stesso. Alla base di questa concezione c'è non solo un atteggiamento di timore superstizioso verso tutto ciò che è cosa, c'è un uguale timore per ogni forma di divisione fra gli esseri umani. O esiste fra gli esseri umani una totale armonia, con l'io che si integra senza riserve nel tu, o i rapporti umani sono alienati e regnano fra gli uomini l'egoismo escludente, il reciproco timore e la reciproca ostilità. Che gli esseri umani possano essere autonomi l'uno dall'altro e che possano entrare in relazioni sociali senza che si instauri fra loro una perfetta armonia è considerato quasi una contraddizione in termini da Marx. Eppure è questa la situazione dei reali rapporti umani. Tizio si trova bene con Caio, sono amici e si completano a vicenda. Oltre ad voler bene a Caio, Tizio prova simpatia per Sempronio, con cui però ha rapporti molto meno stretti, inoltre conosce superficialmente Luigi da cui compra il pane, acquista libri su internet e neppure sa che faccia abbia chi li ha stampati, prova sentimenti di forte antipatia per Piero, è innamorato di Laura e sente una certa attrazione sessuale per Maria. I rapporti fra esseri umani sono fortemente differenziati, non è vero che ogni uomo è il complemento di tutti gli altri. In una società libera e aperta è possibile che si instaurino fra le persone molteplici forme di rapporto, tutte lecite a condizione che nessuno aggredisca l'altrui autonomia.
E' possibile, ovviamente, organizzare in maniera pianificata l'attività economica, non affronto qui il problema di quali siano le conseguenze sociali, politiche ed economiche della pianificazione. Però, è completamente sbagliato vedere in una economia fondata sullo scambio qualcosa di “alienato”, non umano. Una economia fondata sulla scambio prevede rapporti umani differenziati, quindi anche impersonali, ma questo può apparire “inumano” solo a chi consideri “umane” solo le relazioni “faccia a faccia”, meglio, le relazioni faccia a faccia assolutamente armoniche. L'esperienza ed un minimo di senso del reale ci ricordano del resto che anche le economie pianificate sono in larga misura impersonali, più impersonali delle stesse economie di mercato. Che relazione "faccia a faccia" legava un contadino ucraino col "padre dei popoli"? Nelle economie pianificate il consumatore non conosce il produttore esattamente come non lo conosce in quelle  di mercato, con la differenza che nelle economie di mercato il consumatore è libero, entro certi limiti di decidere cosa consumare, o che lavoro scegliere, o che stile di vita adottare, tutte libertà "alienanti" che sono state distrutte nelle economie basate sulla pianificazione. 
Si possono fare infine considerazioni simili per l'avversione di Marx verso le impersonali leggi del mercato. Di nuovo, il fatto che le numerosissime relazioni fra compratori e venditori diano vita a fluttuazioni economiche non previste ne programmate da nessuno appare a Marx come il prototipo della ”alienazione”, del carattere non umano delle economie basate sullo scambio. Per Marx tutto deve essere il risultato di una azione razionale cosciente; in senso proprio non dovrebbero esistere per Marx “leggi” visto che ogni legge è, per sua natura, impersonale. Che tantissime azioni umane diano vita a conseguenze non previste da nessuno gli appare come qualcosa di “disumano”: il soggiacere dell'uomo a forze che gli sono estranee, una sua subordinazione alle cose. Invece nulla è più conforme alla natura umana del il fatto che spesso molte azioni umane abbiano conseguenze inintenzionali. L'uomo è un essere debole, limitato, vive in un mondo governato da leggi che trova come date, leggi che può conoscere e di cui deve tener conto, ma a cui non può sottrarsi. La conoscenza umana, è sempre limitata, parziale, legata al punto di vista. Il non poter prevedere e programmare tutto non è il frutto di qualche imposizione che l'uomo deve subire, è al contrario una sua caratteristica essenziale.

Questa nostra caratteristica essenziale, che Marx scambia per "reificazione", è legata alla nostra umana finitezza, lo si è visto, ma è anche la forma specifica della nostra grandezza. La conoscenza umana, ricorda Fiedrik Von Hayek, è sempre limitata, dispersa. Anche la persona più colta e geniale del mondo conosce solo una frazione molto limitata dello scibile umano, anche lei dipende, nella sua vita di tutti i giorni, dal lavoro, e dalle conoscenze, di milioni di altre persone di cui ignora totalmente l'esistenza. Esiste una conoscenza collettiva, un cervello collettivo dell'umanità lo ha definito Matt Ridley in "un ottimista razionale", che non si identifica affatto con la mente di qualche onniscente programmatore, sia esso un singolo individuo o anche una assemblea democraticamente eletta, e che non può neppure essere racchiusa nel programma del più perfezionato dei computers. La divisione del lavoro e gli scambi sul mercato mettono a disposizione di tutti una massa enorme di conoscenze che resterebbero altrimenti frammentate e disperse, e mettono a disposizione di tutti i risultati di queste conoscenze. Quanti di coloro che navigano in internet saprebbero costruire un PC? E quanti sanno con precisione come funziona? Eppure il PC fa parte della loro vita, agevola il loro lavoro, contribuisce al loro sviluppo intellettuale. La divisione del lavoro, i detestati scambi di equivalenti, mettono a mia disposizione le idee, il lavoro, le opere di persone che non conosco e non conoscerò mai, gettano un ponte nello spazio e nel tempo, creano una rete di rapporti umani che non si limita affatto al commercio in senso stretto. Comprende il linguaggio, il confronto delle idee, la scienza, l'arte, la filosofia. Altro che "reificazione", altro che "rapporti umani fra cose e rapporti cosali fra uomini"!  Quello che Matt  Ridley ha  definito il cervello collettivo dell'umanità cresce e si sviluppa precisamente nello scambio, nella divisione del lavoro, nella rete dei rapporti impersonali fra gli uomini, retti da leggi che spesso sfuggono al loro controllo immediato. Si elimini questa rete, si pretenda di tornare alla società faccia a faccia, o di programmare tutto centralmente e si torna alla preistoria, o si crea il più feroce, ed economicamente inefficiente, totalitarismo che sia possibile immaginare.
Pretendere che l'uomo possa prevedere tutto, e tutto stabilire in anticipo è una forma di prometeismo romantico che non tiene assolutamente conto della nostra autentica natura, e delle condizioni reali che permettono la nostra crescita civile e culturale. Certo, occorre cercare di correggere le conseguenze negative impreviste di certe azioni umane, ma questo non vuol dire sostituire alla spontaneità degli individui la guida “illuminata” di una ragione onnicomprensiva. 
In definitiva, la teoria marxiana del feticismo e della alienazione si basa su una concezione radicalmente unitaria dell'uomo e della storia e sul contemporaneo rigetto di tutto ciò che è cosa, divisione, rapporto impersonale, legge impersonale. O tutto è uomo, suo corpo organico o sua essenza cristallizzata, o l'uomo è alienato; o i rapporti fra gli uomini sono organici ed assolutamente armonici o l'uomo è fuori di se stesso, o l'uomo prevede e controlla tutte le conseguenze della sue azioni o è in balia di forze non umane. Dietro alla teoria del feticismo e della alienazione c'è una concezione titanica dell'uomo, un nuovo, ennesimo, rifiuto del nostro essere dati, finiti. Un travisamento profondo delle nostre caratteristiche essenziali.




NOTE
1) K. Marx F. Engels: Manifesto del partito comunista. Einaudi 1966 pag. 100.
2) K. Marx: La questione ebraica. Editori riuniti 1974 pag. 57. Sottolineature di Marx.
3) Ibidem pag. 70 71. Sottolineatura di Marx
4) Ibidem pag. 71. Sottolineature di Marx
5) Ibidem pag. 72.
6) Ibidem pag 72 73, Sottolineature di Marx.
7) Ibidem pag. 73
8) K. Marx: Il capitale. Avanzini e Torraca 1965 pag. 63.
9) Ibidem pag. 69.
10) Ibidem pag. 69
11) Ibidem pag. 69
12) Ibidem pag. 70. Sottolineature di Marx.