martedì 16 settembre 2014

IL TERZOMONDISMO, MALATTIA SENILE DEL COMUNISMO



“La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. (...)
Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. (...)
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. (…) All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. (...)
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente. (...)
Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?”

Chi parla in questo modo? Un apologeta del capitalismo? Il funzionario di qualche grande multinazionale? Un razzista che divide il mondo in nazioni “barbare” e “civili”? No, a parlare in questo modo è un certo Karl Marx, e il libro da cui sono tratte queste citazioni è nientemeno che il celeberrimo “manifesto del partito comunista”. Si proprio “il manifesto”, quello che termina con l'invocazione: “proletari di tutti i paesi unitevi”.
Anche se le espressioni di Marx potrebbero far strillare molti odierni militanti di sinistra, Marx non è affatto un apologeta della borghesia, al contrario. Marx detesta la borghesia, l'economia di mercato, la stessa democrazia liberale. Però, Marx è un filosofo hegeliano, non vuole limitarsi ad inveire contro il reale, vuole “dimostrare” che il reale “realizza” in se il razionale.
Il capitalismo rappresenta per Marx la forma più perfezionata della umana alienazione. Nella società di mercato l'uomo si separa dalla sua essenza, diventa una merce e riduce i suoi rapporti con gli altri uomini a puri rapporti quantitativi, essenzialmente non umani. Non ci vuole molto per rendersi conto di quanto questa concezione sia intrisa di quell'autentico terrore per la separazione che caratterizza una parte importante della cultura occidentale. Una società non organica, in cui gli individui si rapportino gli uni agli altri in quanto singoli, dotati ognuno della propria essenziale unicità, è per Marx il regno della perdita, la valle di lacrime in cui dei non uomini vagano senza meta, governati da forze impersonali, potenti ed ostili.
Però, attraversare questo autentico inferno è per Marx una tappa obbligatoria del cammino che porta l'umanità alla redenzione terrena. L'integrale liberazione dell'uomo, meglio, la sua totale trasfigurazione, non si realizza per Marx con il ritorno ad una innocente ed incontaminata natura, al contrario, è resa insieme necessaria e possibile da tutto lo sviluppo storico, soprattutto dal formidabile sviluppo delle forze produttive sociali che il capitalismo ha realizzato, e che costituisce insieme la sua funzione ed il suo merito.

Nella celebre prefazione del 1857 a “per la critica dell'economia politica” Marx scrive:
“A grandi linee i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale (…) ma le forze produttive che si sviluppano in seno alla società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si conclude dunque la preistoria della società umana”.
Finora l'umanità è vissuta nella preistoria, ma questa lunga fase di lacrime e sangue, sfruttamento ed alienazione era necessaria alla liberazione. Da buon hegeliano Marx propone una versione materialistica della “astuzia della ragione”. Sviluppando senza posa le forze produttive sociali l'inferno capitalista prepara l'avvento del paradiso comunista. Molti hanno sottolineato il carattere sostanzialmente mitico di una simile concezione, l'assenza in essa, malgrado le pesanti bardature scientiste, di spirito scientifico autentico. Altri hanno messo in rilievo gli irrisolti problemi etici che essa pone. Se il male è necessario per far trionfare il bene, esiste ancora una differenza fra male e bene? E se una tale differenza non esiste, come possiamo definire “bene” il paradiso comunista che ci attende? Ed ancora, chi consolerà coloro che hanno avuto il “torto” di nascere nel momento sbagliato della storia, quando l'avvento del paradiso era ancora lontano? Ha un qualche senso etico, meglio, un senso tout court, dire ad un innocente che si avvia al supplizio che la sua morte ingiusta serve a rendere assolutamente felici coloro che vivranno fra mille anni?
Non sono però questi aspetti del marxismo che ci interessano in questa sede. Quel che qui preme sottolineare è che per Marx la liberazione è un processo che parte da, ed ha il suo fulcro ne, l'occidente capitalistico. Il capitalismo è nato in Europa, è figlio della rivoluzione scientifica e di quella industriale, dell'illuminismo e della rivoluzione francese. Il comunismo libererà, e trasfigurerà, l'umanità intera e il processo che rende possibile e porta al comunismo ha in Europa, in occidente il suo centro propulsivo. Anche se in alcuni scritti dedicati alle economie pre capitalistiche Marx, e più di lui Engels, assume posizioni meno perentorie, il centro del suo pensiero resta immutato sino alla fine: il soggetto rivoluzionario decisivo è la classe operaia dei paesi capitalisticamente avanzati. La partita decisiva per la assoluta liberazione si gioca in occidente. Chi accusa Marx di essere eurocentrico non sbaglia, in fondo. Per Marx non c'era nulla di male nell'essere “eurocentrici”.
Marx ed Engels pensavano che la rivoluzione comunista fosse prossima. I fatti dovevano dar loro torto. La cosa che più di ogni altra probabilmente stupì i due amici, in particolare Engels che morì 12 anni dopo l'amico, fu che l'odiato capitalismo riusciva a sopravvivere non tanto grazie a forme sempre più violente di repressione, ma garantendo l'estensione di un certo benessere e lo sviluppo di forme via via più estese di democrazia. Nel “manifesto” Marx aveva affermato che in una rivoluzione i proletari non avevano altro da perdere che le loro catene. Lo stesso Engels fu costretto ad ammettere che una simile profezia si rivelava ogni giorno più errata. Il capitalismo restava il regno dello sfruttamento e della alienazione, ma garantiva comunque a strati crescenti di lavoratori salari relativamente decenti, riduzione dell'orario di lavoro, le prime embrionali forme di legislazione sociale. Alla morte di Engels, nel 1895, non solo la rivoluzione appariva lontana, ma lo stesso movimento operaio, malgrado continuasse ad usare una fraseologia rivoluzionaria, limitava la sua azione in un orizzonte riformistico. Il leader massimo della socialdemocrazia europea: Karl Kautsky disse chiaramente che la socialdemocrazia era un partito rivoluzionario, ma non un partito che fa le rivoluzioni. Alla rivoluzione ci avrebbe pensato “la storia”, in un domani imprecisato. I partiti “rivoluzionari” pensavano intanto alle riforme.
Nel 1914 la socialdemocrazia tedesca vota i crediti di guerra. Lenin rompe con Kautsky, che aveva erroneamente considerato fino a quel momento un vero leader rivoluzionario. Kautsky diventa, nella prosa violenta di Lenin, un “rinnegato”, destinato prima o poi a pagare per il suo “tradimento”. Tuttavia il leader bolscevico deve cercare di rispondere ad un quesito: come mai un buon numero di operai segue questo “rinnegato”? Si può dire che la risposta di Lenin segni il sorgere, nel marxismo, del terzomondismo.



Ne “L'imperialismo, fase suprema del capitalismo” Lenin scrive:
“L'imperialismo, (…) che significa alti profitti monopolistici a beneficio di un piccolo gruppo di paesi più ricchi, crea la possibilità economica di
corrompere gli strati superiori del proletariato, e, in tal guisa, di alimentare, foggiare e rafforzare l'opportunismo”.
Parlando dell'Inghilterra e citando, come era solito fare, Engels, Lenin aggiunge:
“Lo sfruttamento del mondo intero ad opera di un determinato paese, la sua posizione di monopolio sul mercato mondiale, il suo monopolio coloniale” sono le cause che hanno portato ai seguenti effetti: “1) imborghesimento di una parte del proletariato inglese, 2) una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno pagati dalla borghesia.”.
Quello che era all'inizio un processo solo inglese è diventato qualcosa che riguarda tutto l'occidente capitalistico, infatti, prosegue Lenin, “l'imperialismo dell'inizio del ventesimo secolo ha ultimato la spartizione del mondo tra un piccolo pugno di stati ciascuno dei quali sfrutta attualmente (nel senso di spremere sopraprofitti) una parte del mondo quasi altrettanto vasta che quella dell'Inghilterra nel 1858”.
Il discorso è molto chiaro, come si vede. Il riformismo, nell'analisi di Lenin,
non è una componente del movimento operaio, rappresenta al contrario la ideologia e gli interessi borghesi nel movimento operaio; il suo successo è reso possibile dall'imborghesimento del proletariato foraggiato dai sovraprofitti imperialistici. Posto di fronte al fatto inquietante che la classe operaia pare non avere alcun desiderio di fare la rivoluzione Lenin reagisce mettendo sotto accusa, insieme ai riformisti rinnegati, la classe operaia stessa. Gli operai dei paesi capitalisticamente avanzati si sono fatti “corrompere” dai propri padroni, partecipano, sia pure in posizione subordinata, al banchetto imperialista.
La tesi leninista che lega l'imborghesimento del proletariato allo sviluppo dei possedimenti coloniali non regge, ovviamente, ad un minimo di analisi. Anche ai tempi di Lenin il proletariato più “integrato” di tutti era quello dell'unico paese occidentale privo di possedimenti coloniali, gli Stati Uniti d'America. Restando in Europa, i proletariati tedesco ed inglese erano, nel 1914, “imborghesiti” quasi in pari misura, eppure i possedimenti coloniali della Gran Bretagna erano enormemente superiori a quelli della Germania. Anche a prescindere da queste considerazioni, l'integrazione della classe operaia nel “sistema capitalistico” è proseguita e si è accentuata proprio nel periodo in cui questo perdeva praticamente tutto il suo impero coloniale.
L'analisi rabbiosa di Lenin evidenzia però un problema gravissimo latente nella stessa opera di Marx. Per Marx il processo storico avrebbe inevitabilmente portato al trionfo del comunismo. Il capitalismo segna la fase della alienazione ed è
razionale che questa fase venga superata. Fiducioso nelle leggi “dialettiche” della storia Marx neppure si pone l'interrogativo che invece Lenin è costretto a porsi: che fare se il processo storico non marcia in quella direzione? Per Lenin, esattamente come per Marx, il comunismo è il bene assoluto, il fine ultimo della storia, qualcosa cui non si può di certo rinunciare in nome di salari un po' più alti o di orari di lavoro un po' meno lunghi. Se la storia non marcia verso il comunismo sarà possibile forzarla, la storia. Lenin opta per il volontarismo, ma,da buon marxista, cerca di supportarlo con l'analisi socio economica. Le sue conclusioni sono sconcertanti: la stessa classe operaia è complice, in una certa misura, dello sfruttamento imperialista. Lenin non arriva a teorizzare che la classe operaia occidentale sia “persa” per la rivoluzione, continua a presentare “l'aristocrazia operaia” come uno strato ristretto di proletariato, che è possibile isolare e sconfiggere. Malgrado tutto Lenin resta “eurocentrico”, come Marx. Ma ribolle di rabbia nei confronti degli operai imborghesiti dell'occidente europeo. Altri porteranno i suoi spunti a ben più radicali conclusioni.

Nel 1949 la rivoluzione trionfa in Cina, fra l'esultanza dei comunisti e le paure di tutti gli altri. Se osservata con occhio attento la rivoluzione cinese presenta però una novità importante rispetto a quelle che la hanno preceduta.
In Francia nel 1789 Parigi era stata il cuore del movimento rivoluzionario, e nell'Ottobre del 1917 lo scontro fra Lenin e Kerenskij si era risolto a Pietrogrado. Sia in Francia che in Russia erano state le città ad essere protagoniste. Il caso della Cina è completamente diverso. Qui a dominare era stata la campagna. L'esercito di Mao si era impadronito di vaste aree rurali e da quelle aveva sferrato l'attacco alle città. In Cina la rivoluzione si era estesa non dal centro alla periferia ma, al contrario, dalla periferia al centro. Le campagne avevano accerchiato le città fino a sommergerle.
Nel 1965 Lin Piao, allora “il più fido luogotenente del presidente Mao” indicava la strategia dei comunisti cinesi come valida a livello mondiale.
“Se si esamina il mondo nel suo complesso” scriveva Lin Piao nel saggio “
Viva la vittoria della guerra popolare” “l'America del nord e l'Europa occidentale possono essere considerate le città e l'Asia, l'Africa, l'America latina la campagna (…) In un certo senso la rivoluzione mondiale conosce oggi una situazione che vede le città accerchiate dalla campagna. E' dalla lotta rivoluzionaria dei popoli dell'Asia, dell'Africa e dell'America latina, ove vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, che dipende la causa della rivoluzione mondiale”.
La schema marxista classico era, come si vede, completamente stravolto.
Le parole di Lin Piao trovarono schiere di entusiasti sostenitori in occidente. Dai marxisti americani della “
Monthly Rewiev” ai freudo marxisti della scuola di Francoforte fu un uragano di applausi. La classe operaia occidentale era sempre più integrata nel sistema, ma questo non spegneva la speranza di assoluto dei chierici laici. La salvezza era ancora possibile, malgrado tutto, e sarebbero stati i popoli affamati del terzo mondo a portarla.
Lo schema marxiano classico fu oggetto di attacchi sempre più serrati. Per Marx “i paesi avanzati mostravano a quelli arretrati il loro futuro”, per gli entusiasti del terzomondismo questo non era vero. La miseria del terzo mondo non era la risultante di una mancanza di sviluppo capitalistico, era al contrario, “funzionale” a questo. Lo sfruttamento della classe operaia non era più la molla della accumulazione capitalistica, questa al contrario si basava sulla spoliazione di popoli dei paesi arretrati. La “contraddizione” fra “imperialismo e popoli oppressi sostituiva quella classica fra borghesia e proletariato.



Ma non solo di questo si trattava. Se davvero i popoli del terzo mondo erano diventati i protagonisti della rivoluzione, questa poteva conservare le caratteristiche che Marx le aveva assegnato? Per Marx il comunismo si basa sul massimo sviluppo delle forze produttive sociali, sulla ricchezza generalizzata. Ora, è fin troppo chiaro che una simile prospettiva diventa radicalmente irrealistica se sono i “popoli del terzo mondo” la guida del processo rivoluzionario. Questo però non spaventò i nuovi super radicali occidentali. Chi ha detto che il comunismo si deve basare sul benessere? Benessere è sinonimo di mercato, scambio, finanza. E' grazie al “benessere” che la classe operaia occidentale è stata trasformata in un aggregato informe di individui che pensano solo a consumare. Quello che è davvero importante non è la ricchezza ma la trasformazione dell'uomo, del suo modo di pensare, agire, amare, in una parola, vivere. La tecnica e la scienza dal canto loro non sono “neutrali”, non possono servire da base per la costruzione di una società nuova, vanno interamente rovesciate, nessuno, ovviamente, era in grado di indicare “come”.
Pieni di spirito “rivoluzionario” e di odio per la propria civiltà i nuovi radicali dell'occidente si trovarono così ad esaltare mostruose esperienze totalitarie. Nella “grande rivoluzione culturale proletaria” cinese così come nel genocidio del popolo cambogiano videro un meraviglioso tentativo di creare l'”uomo nuovo”. Non sbagliavano in fondo. Soltanto rivoltando come un guanto la natura umana era possibile far accettare agli uomini in carne ed ossa il comunismo della miseria che gli occidentali radicali tanto amavano (continuando però a godere delle volgari piacevolezze capitalistiche). L'uomo nuovo non nasceva, ovviamente,
non può nascere. Diventavano però sempre più alte le pile di cadaveri edificate in suo nome, ma questo, nel clamore della “contestazione globale” non infastidiva nessuno.

E oggi? La mitologia terzomondista vista in prospettiva appare un autentico cumulo di macerie, teoriche e pratiche. Dopo il crollo del comunismo gli stati che più avevano eccitato i sogni dei terzomondisti non costituiscono più modelli per nessuno, esclusi ovviamente gli inguaribili divoratori di miti. La Corea del nord esibisce senza paludamenti tutte le caratteristiche di una spietata tirannia totalitaria, Cuba, la mitica patria di Fidel e del “Che”, una volta venuti a mancare gli aiuti sovietici tira stentatamente avanti grazie ai proventi del turismo sessuale. Una ben misera fine per la fucina dell'uomo nuovo.
La Cina, abbandonata la follia della rivoluzione culturale, ha adottato, fra mille contraddizioni, essenziali riforme di tipo capitalistico che hanno consentito crescita economica e sviluppo di un relativo benessere. Le notizie che vengono dalla Cina interessano oggi gli operatori di borsa, non i radicali in cerca di esotici paradisi egualitari.
E che dire delle raffinate analisi economiche con cui per decenni gli eruditi cultori del terzomondismo hanno invaso librerie, biblioteche, e talk show televisivi? Hanno ripetuto fino alla noia che il sottosviluppo è funzionale allo sviluppo, ne costituisce l'altra faccia, e che per questo la tragica presenza della fame nel mondo è un fatto ineliminabile, fino a che sopravvivono i rapporti di produzione capitalistici. Palle! In Asia come in America latina molti gradi paesi hanno imboccato la via dello sviluppo esattamente nel momento in cui si sono aperti senza troppe riserve all'economia di mercato. In Asia la Corea del sud, Taiwan, l'India, un tempo emblema del sottosviluppo più sordido, hanno seguito le orme del Giappone. In America latina paesi come il Brasile, il Cile, la stessa Argentina sono diventati o si apprestano a diventare, grandi potenze economiche. Certo, i problemi, anche gravissimi, non mancano, ma si tratta dei problemi e delle difficoltà tipici di paesi che hanno abbandonato, o stanno abbandonando l'area del sottosviluppo. In Cina, per fare solo un esempio, il livello dell'inquinamento atmosferico assume a volte dimensioni drammatiche. Si tratta di un problema gravissimo ma qualitativamente molto differente dalla carestia di massa provocata dalla scelta maoista del “gran balzo in avanti”. Oggi come oggi il sottosviluppo attanaglia le aree ai margini dell'economia capitalista, quelle escluse dai flussi degli scambi e degli investimenti, insomma, per usare le parole dei terzomondisti, non “sfruttate” dal “capitale monopolistico”. Il continente africano, soprattutto, dominato da elites politiche corrotte e parassitarie e squassato da continue guerre tribali e religiose, e quei paesi medio orientali in mano a teocrazie islamiste. Non è un caso.

A livello teorico il terzomondismo è stata la reazione dei comunisti ad un fatto per loro estremamente sconcertante: il blocco della rivoluzione in occidente. Al contrario delle previsioni di Marx la classe operaia dei paesi avanzati ha da tempo cessato di essere, se mai lo è stata, il polo negativo della società borghese. E' diventata invece uno degli strati e dei gruppi in cui si articolano le società aperte e pluraliste. I comunisti hanno reagito a questa che era, a tutti gli effetti, una clamorosa falsificazione della fondamentale previsione marxiana, cercando affannosamente nuovi strati sociali che prendessero il posto di quella classe operaia che aveva deluso le loro aspettative.
E si sono rivolti alle masse affamate del cosiddetto terzo mondo. Ma, esattamente come nel caso della classe operaia, ad essere amate dagli intellettuali comunisti o radicalizzati non erano tanto le
vere masse contadine dei paesi periferici, quanto la loro deformazione ideologica. Gli strati rurali che avrebbero dovuto sostituire la classe operaia come nuovi soggetti rivoluzionari erano in realtà gli stessi contro cui i vari governi comunisti avevano scatenato sanguinarie politiche repressive. In Russia come in Cina, come a Cuba i contadini erano stati le principali vittime sacrificali dell'utopia comunista. Questo però non turbava i sonni degli intellettuali di estrema sinistra, da tempo avezzi a non occuparsi di quanto nel mondo non quadra con le loro fantasiose teorizzazioni.
Il terzomondismo comunista però aveva quanto meno il pregio di una certa coerenza interna. Era parte di una teoria, e di una prassi conseguente, che si proponevano di interpretare unitariamente, e di rivoltare radicalmente, il mondo.
Col crollo del comunismo il terzomondismo ha perso anche questi fattori di interna, ed ingannevole, coerenza. Il terzomondismo è oggi scisso da ogni tentativo di interpretazione unitaria non dico del mondo, ma almeno dei principali eventi socio economici. Slegato da qualsiasi teoria minimamente coerente si è trasformato in piagnisteo, lamentela, denuncia dei “complotti” delle multinazionali, o della “finanza”, magari ebraica.
Oggi sono terzomondisti, con gli ultimi nostalgici del comunismo ortodosso, i cattocomunisti che confondono il paradiso terreno di Marx con quello trascendente di Cristo, i pacifisti che si indignano della guerra solo quando è l'occidente a combatterla, i fanatici del ritorno alla natura incontaminata, gli economisti radicali, convinti che i paesi poveri siano tali perché indebitati e non viceversa, gli amici dell'Islam ed i nemici di Israele, i cooperanti che partono per paesi devastati dalla guerra con la stessa gaia trascuratezza con cui ci si avvia ad una scampagnata, i paranoici del complotto che vedono ovunque le trame oscure delle multinazionali, della Cia e del Mossad. Insomma, il terzomondismo è oggi il potente collante che tiene uniti tutti gli occidentali che, per un motivo o per l'altro, detestano la loro civiltà.
Villaggi rurali contro centri commerciali, vita semplice e naturale contro caos cittadino, povertà dignitosa contro consumismo volgare, organicismo teocratico contro società aperta. In tutto il terzomondismo non fa che contrapporre all'occidente, degradato al ruolo di nuova Gomorra, la presunta purezza di tutto ciò che
occidente non è. Per far questo i suoi teorici cadono, ovviamente, in continue contraddizioni. Trasformano in valore quella povertà la cui esistenza spesso e volentieri denunciano, difendono oscene dittature teocratiche, fingono di non vedere orrori di fronte ai quali impallidiscono molte delle porcherie di cui la storia dell'occidente è pure piena.
Per alcuni aspetti il terzomondismo è il rovesciamento del marxismo classico, basti pensare che per Marx l'occidente è giunto a dominare il mondo grazie alla sua superiorità economica e tecnologica, mentre per i terzomondisti sarebbe vero il contrario. Per altri aspetti invece il terzomondismo è figlio del marxismo, della sua ostilità per il mercato, gli scambi, il denaro, della sua avversione per tutto ciò che è individualismo e pluralismo sociale, del suo amore per l'organicismo. Nato come tentativo di salvare il marxismo dalle smentite della storia il terzomondismo è diventato oggi l'erede della sua implosione. E' un po' come se entrando in crisi verticale il comunismo marxiano abbia lasciato dietro di se solo un sentimento negativo, l'odio per l'occidente liberale, condito con un pizzico di romantica malinconia nei confronti di un mai esistito “buon selvaggio” pre industriale.
Per questo, penso, si può definire il terzomondismo come la
malattia senile del comunismo. Una malattia grave, capace di far del male non tanto ai professorini da salotto che lanciano un giorno si e l'altro pure anatemi contro quella società di cui godono i frutti, ma a tutti gli altri, a quelli che in questa società ci vivono e ci lavorano e che hanno tutto l'interesse a difenderla e salvaguardarla. Perché poche cose sono tanto pericolose per una società libera quanto il diffondersi di una sottocultura tesa ad affermare che la libertà non è una nostra faticosa conquista, ma un privilegio che si basa sul sudore e sul sangue di chi ancora libero non è. Prima ci liberiamo da questa malattia senile meglio è.