martedì 28 maggio 2013

LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE E DELLO SFRUTTAMENTO



Sfruttamento e teoria del valore

Lo sfruttamento è sempre esistito nella storia umana, ed esiste anche oggi. Gli schiavi dell'antichità erano senza dubbio sfruttati come lo erano i servi della gleba nel medio-evo. Erano sfruttati i neri che lavoravano come schiavi nelle piantagioni della Virginia e della Florida, erano sfruttati, ed in maniera durissima, gli innumerevoli ospiti dei gulag, usati nella Russia staliniana come mano d'opera d'infimo costo. Sono sfruttate oggi milioni di persone che subiscono forme più o meno mascherate di lavoro forzato.
Lo sfruttamento si basa in tutti questi casi sulla violenza. Lo schiavo, il servo della gleba, il condannato ai lavori forzati non possono scegliere, non possono decidere se scambiare o meno il loro lavoro con una certa quantità di denaro. Devono lavorare perché vi sono costretti. La remunerazione e le condizioni di lavoro sono loro imposte da chi ha il potere e la forza per farlo. Lo sfruttamento è qui negazione dello scambio e della libertà di scambio.
Marx conosceva queste forme di sfruttamento (ad eccezione naturalmente di quelle che sarebbero state messe in atto dai suoi discepoli) ma non concentra su di esse la sua critica. Il nemico di Marx è il capitalismo e capitalismo significa mercato, scambio, libertà di contratto. Nel capitalismo lo stato si limita a porre regole generali uguali per tutti, all'interno di queste regole ognuno è libero di scambiare con chi vuole il prodotto del suo lavoro o il suo stesso lavoro. Lo "sfruttamento capitalistico" non si basa sulla violenza, sulla limitazione della libertà di contratto, questo Marx lo riconosce senza esitazioni.
L'essenza del capitalismo è lo scambio di equivalenti, di merci aventi valore eguale. Nella sua analisi Marx non prende neppure in esame il caso di merci vendute al di sotto del loro valore da proprietari assillati da particolari necessità o minacciati da pressioni e violenze. Marx non si interessa di queste eccezioni alla regola aurea del capitalismo: lo scambio di equivalenti. Per Marx lo sfruttamento nasce proprio dallo scambio di equivalenti.

La teoria dello sfruttamento è legata in Marx alla teoria del valore-lavoro. Ogni merce non è che lavoro umano cristallizzato, generica capacità lavorativa umana che assume la forma di abiti o mobili, libri o generi alimentari. Il valore di scambio di tutte le merci presenti sul mercato è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle. Se un abito vale quanto due paia di scarpe ciò significa che il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre un abito è doppio rispetto a quello occorrente per produrre un paio di scarpe. Ciò che si scambia nella compra-vendita è in realtà generico lavoro umano, lavoro astratto che assume via via le forme fenomeniche più disparate.
Ma se è il lavoro a costituire l'essenza del valore qual'è il valore del lavoro? Marx risponde in maniera molto netta a questa domanda cruciale. Il valore altro non è che lavoro, proprio per questo il lavoro in quanto tale non ha valore. Quando un capitalista paga un certo salario ai "suoi" operai egli non compra il loro lavoro, ciò che egli compra è la loro forza-lavoro. La forza-lavoro altro non è che la generica capacità dell'operaio di svolgere un determinato lavoro. Il valore della forza-lavoro è dato a sua volta dal valore delle merci che permettono la vita e la riproduzione della classe operaia. Si tratta della famosa teoria del "minimo vitale": il capitalista paga agli operai ciò che serve a conservare e a riprodurre la "razza" degli operai, non un centesimo in più o in meno. Il capitalista non viola in questo modo la legge dello scambio di equivalenti, paga la forza lavoro al suo "giusto" prezzo, non compie alcuna violenza contro gli operai.
Una volta acquistata la forza-lavoro il capitalista la può usare come gli pare e per tutto il tempo che gli pare, così come chi acquista una zappa o un televisore può farne l'uso che crede. Ma la forza-lavoro è una merce particolare: il suo uso crea valore. In un primo momento l'uso della forza-lavoro riproduce il valore del salario pagato dal capitalista all'operaio, in seguito crea nuovo valore che non va all'operaio ma al capitalista: il plusvalore. Se una giornata lavorativa dura 8 ore nelle prime 4 il lavoro degli operai riproduce il valore dei loro salari, nelle altre 4 crea plusvalore che resta al capitalista. Dal libero contratto nasce in questo modo lo sfruttamento, lo scambio di equivalenti si trasforma in scambio ineguale, il rapporto fra individui formalmente liberi ed eguali si tramuta in un rapporto di spoliazione.

La teoria del plusvalore e dello sfruttamento, appena esposta in termini telegrafici, si basa su due cardini: la teoria del valore-lavoro e quella del minimo vitale. Nessuno di questi regge tuttavia ad un minimo di analisi critica e al confronto con i fatti.
Abbiamo visto come Marx risponde alla domanda: "se il valore è dato dal lavoro qual'é il valore del lavoro?". In quanto tale il lavoro non ha valore perché esso è valore risponde Marx. Tutte le merci altro non sono che lavoro in forma fenomenica modificata. Chiedere qual'é il valore del lavoro equivale a chiedere qual'é la lunghezza di un metro. Valore e lavoro corrispondono.
La risposta di Marx non spiega però proprio nulla. Marx instaura due tipi diversi di equivalenza. Da un lato afferma che tutte le merci altro non sono che lavoro cristallizzato, generico dispendio di forza lavorativa umana che assume la forma fenomenica di questo o quell’oggetto. D’altro lato Marx eguaglia valore e lavoro. Libri e televisori, auto e bistecche, giocattoli e personal computers sono lavoro umano in forma di merce, manifestazioni fenomeniche dell’essenza “lavoro”. Questa essenza dal canto suo è ciò che conferisce a televisori, giocattoli e bistecche il loro valore di scambio. Ma è corretta questa duplice riduzione che Marx effettua? A questa domanda non si può che rispondere: no.

Tutte le merci sono lavoro cristallizzato afferma Marx; con la stessa ragione si potrebbe però dire che tutte le merci sono natura modificata, materia prima in forme modificate. L’essenza della merce, che Marx individua nel lavoro, potrebbe benissimo essere individuata in altre componenti di ciò che si compra e si vende sul mercato. Se in ogni merce è compreso del lavoro (e già questa è una affermazione discutibile) in ogni merce, è compresa una materia prima (anche questa affermazione è discutibile ma di certo non più della precedente..). A parte queste considerazioni il punto davvero importante però è che l’impostazione generale del discorso marxiano, volto a stabilire quale sia l’essenza della merce che si nasconde dietro il suo apparire fenomenico, non fa fare un solo passo avanti verso la soluzione del problema del valore. Si ammetta pure che tutte le merci altro non siano che lavoro, ebbene, perché quel lavoro ha valore? Rispondere a tale domanda affermando che lavoro e valore coincidono è un volgare truismo, equivale a dire che il lavoro ha valore perché il valore.. è lavoro. Simili affermazioni danno per risolto il problema prima ancora di affrontarlo.
In realtà valore e lavoro non coincidono. Se io lavoro anni per costruire qualcosa che non interessa a nessuno e che nessuno vuole il mio lavoro non ha alcun valore. Se lavoro poche ore per costruire qualcosa che tutti vogliono e sono disposti a pagare a prezzo altissimo il mio lavoro ha moltissimo valore. Marx stesso si rende conto dell’obiezione e cerca di rispondere ad essa con la teoria del lavoro socialmente necessario.
Questa nasce da una semplice obiezione alla teoria del valore: se il valore deriva dal lavoro incorporato nelle merci se ne dovrebbe dedurre che un paio di scarpe prodotte in otto ore da un calzolaio poco abile abbiano valore doppio di un paio di scarpe prodotte in quattro ore da un calzolaio più abile e veloce, e la cosa è profondamente anti intuitiva.
Il lavoro che conferisce valore alle merci è, replica Marx, quello necessario in una certa società, ad un certo livello di sviluppo della tecnologia e delle forze produttive. Se in un certo momento per produrre un paio di scarpe bastano in media quattro ore di lavoro, chi le produce in otto spreca lavoro.
La risposta di Marx non risolve però il problema. Poniamo esista una macchina che consenta di produrre nello stesso tempo una quantità doppia di scarpe. Il proprietario di un calzaturificio deciderà di comprare questa macchina solo se valuterà, a torto o a ragione, che sul mercato esiste o può esistere una domanda di scarpe che permetta l'assorbimento della maggior produzione. Ad essere fondamentale come fonte del valore non è tanto il lavoro tecnologicamente necessario quanto la attitudine dei suoi prodotti a soddisfare determinate esigenze che si manifestano sul mercato. Se io utilizzo molto lavoro per produrre qualcosa che solo pochi richiedono il mio non è lavoro socialmente necessario. E visto che non è socialmente necessario la tecnologia in esso impiegata sarà socialmente priva di valore, un puro spreco.

Lo ha evidenziato molto bene Robert Nozick in “Anarchia, stato e utopia”: la teoria del valore marxiana è circolare. Da un lato il lavoro è valore, dall'altra questo valore dipende dalle caratteristiche delle merci e dal variare dei gusti degli acquirenti.  Un certo prodotto dovrebbe valere perché in esso è incorporata una certa quantità di lavoro sociale, il valore del lavoro sociale però dipende a sua volta dal valore di quel certo prodotto. L’essenza lavoro dovrebbe determinare il valore del fenomeno merce, invece è il valore di questo a determinare il valore di quella. Si eliminino termini come lavoro sociale, lavoro astratto, lavoro socialmente necessario e si vedrà che lo stesso Marx è obbligato a fare notevoli concessioni alla teoria secondo cui il valore è determinato sul mercato dal punto di incontro fra domanda ed offerta dei beni.

Astratto e concreto

L'incongruenza appena esaminata della teoria del valore è parte di, e deriva da, una più generale incongruenza del discorso marxiano. Per Marx, lo abbiamo visto, le merci altro non sono che lavoro umano cristallizzato, generico dispendio di attività lavorativa umana, “gelatina” di lavoro umano. Non è un caso che Marx usi tante espressioni diverse per cercare rendere l’idea dell’essenza lavoro che si manifesta nel fenomeno merce. Un destino simile tocca a tutti i tentativi di rendere comprensibili concetti profondamente anti intuitivi. Cediamogli comunque la parola.
“Il valore di una merce, per esempio della tela, è ora espresso in infiniti altri elementi del mondo delle merci. Ogni altro corpo di merci diviene specchio del valore della tela. Questo stesso valore appare così per la prima volta, in verità, come gelatina di lavoro umano indifferenziato. Infatti il lavoro che lo costituisce è presentato adesso esplicitamente come lavoro equivalente ad ogni altro lavoro umano, qualunque forma naturale possa avere, e sia che esso si oggettivi nell’abito o nel grano, o nel ferro o nell’oro ecc.” (1)
I lavori del tessitore, del contadino o del sarto sono diversi, sono differenti lavori concreti che producono merci concretamente diverse. Queste diverse merci tuttavia si scambiano fra loro in base alla quantità di lavoro astratto in esse contenuta e questo perché tali merci altro non sono che lavoro, lavoro astratto che si presenta in numerose forme fenomeniche. Lasciamo di nuovo la parola a Marx: “non è lo scambio a determinare la grandezza di valore delle merci ma viceversa è la grandezza di valore della una merce che regola i suoi rapporti di scambio. (…) E così anche i vari generi di lavoro determinato, concreto, utile racchiusi nei diversi corpi di merce contano come altrettante forme particolari di realizzazione o di manifestazione di lavoro umano puro e semplice” (2)
Malgrado lo stile un po’ esoterico il concetto non è difficile. Le merci sono modi di apparire, fenomeni di un’unica essenza: il lavoro umano. Non ovviamente il lavoro umano concreto, particolare. Il lavoro del sarto è cosa del tutto diversa dal lavoro del fabbro o dell’elettricista così come tre metri di tela sono del tutto diversi da un quintale di grano o da un televisore. Il lavoro che si manifesta, che appare nelle singole merci è lavoro umano generico, indifferenziato, “gelatina” o “cristallo” di lavoro, come lo chiama Marx. E’ questo lavoro indifferenziato l’essenza di cui le merci concrete sono la manifestazione fenomenica, è questa gelatina di lavoro ciò che è comune alle varie merci e permette che esse possano scambiarsi fra loro.

Ma è fin troppo chiaro che questo discorso si scontra con una difficoltà insormontabile. Come può il lavoro concreto, particolare diventare lavoro generico? Come possono i lavori del fabbro, del muratore e del contadino trasformarsi in “gelatina” di lavoro? Come possono diventare lavoro genericamente umano e quindi scambiarsi fra loro? All’interno dell’impostazione di Marx non ci può essere risposta questo interrogativo. Se, come afferma Marx, è il valore a determinare lo scambio e non viceversa il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto resta un mistero. Se si esce da tale impostazione la risposta invece è semplicissima. Il passaggio dal concreto all’astratto, dal particolare all’universale avviene nello scambio e grazie allo scambio. Se io scambio due paia di scarpe, prodotto del lavoro del calzolaio, con un abito, prodotto del lavoro del sarto, eguaglio il valore dell’abito a quello di due paia di scarpe, essi entrano in un rapporto che è solo quantitativo. Alla base di questo rapporto quantitativo c’è però la valutazione dei consumatori che ritengono profittevole scambiare un abito con due paia di scarpe e viceversa. In una parola: il lavoro concreto diventa lavoro astratto, generico lavoro umano, nel mercato in seguito agli scambi fra produttori e consumatori. Non è l’esistenza del lavoro astratto a rendere possibile lo scambio, è lo scambio che rende possibile il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto. Le merci non si scambiano sulla base del lavoro sociale in esse contenuto, al contrario è il lavoro contenuto nelle merci che diventa sociale nello e grazie allo scambio. Marx in effetti si avvicina più di una volta ad una simile conclusione, specie quando parla del rapporto fra prezzi e valori, ma non la fa mai propria esplicitamente perché essa scalza dalle fondamenta tutta la sua concezione del valore.
Non appena si esamini il processo che sul mercato trasforma il lavoro concreto in lavoro astratto, cioè, per Marx, in valore di scambio, emerge del resto una ulteriore incongruenza della teoria del valore. Ogni merce rappresenta per Marx una certa cristallizzazione di tempo di lavoro astratto. Ma in una merce è compreso sia il lavoro vivo, quello degli operai che hanno contribuito a produrla, che il lavoro morto, quello cioè “cristallizzato” nei mezzi di produzione. Poniamo che per produrre una certa merce, un tavolo ad esempio, occorrano 5 ore di lavoro. Nel valore del tavolo però non sono comprese solo le 5 ore necessarie a produrlo, in quel valore confluisce anche il valore dei mezzi di produzione usati dal costruttore di tavoli. Poniamo che il tempo di lavoro necessario a produrre questi sia pari a 7 ore; nel tavolo è compreso quindi tempo di lavoro pari a 12 ore. Sul mercato quel lavoro concreto diventa, come si è visto, lavoro astratto. Ma, le 7 ore comprese nei mezzi di produzione sono, o dovrebbero essere seguendo la teoria marxiana del valore, già lavoro astratto, gelatina di lavoro umano. Lo sono già perché sono già passate nella trafila che sul mercato trasforma il lavoro concreto in lavoro astratto. Cosa succede allora al nostro tavolo? Solo le 5 ore di lavoro vivo in esso contenute passano dal concreto all'astratto? E come fare a distinguere quelle 5 ore dalle altre 7? Oppure dobbiamo ritenere che le 7 ore subiscano un nuovo processo di passaggio dal concreto all'astratto? Ma come è possibile una cosa simile se il valore 7 è già dall'inizio della produzione valore astratto, cristallizzazione di generico lavoro umano? E come distinguere nel tavolo in legno e chiodi le 7 ore di lavoro “morto” dalle 5 di lavoro “vivo”?
Più ci si addentra nei meandri della teoria del valore più ci si avvolge in insolubili difficoltà. E più ci si allontana da qualsivoglia possibilità di trovare per la stessa uno straccio di conferma empirica. Nessuna verifica empirica può confermare o smentire la teoria marxiana del valore perché il famoso valore lavoro inteso come astratta “gelatina di lavoro umano” è una essenza priva di legami col mondo dei fenomeni.

Lavoro diretto ed indiretto

Nel saggio “impariamo l'economia” l'economista italiano Sergio Ricossa muove alla teoria del valore lavoro un'altra obiezione per vari aspetti decisiva. “Da un lato” afferma Ricossa, “la distinzione che Marx faceva fra lavoro di sussistenza e pluslavoro tendeva storicamente a svanire, dall'altro lato assumeva sempre più rilevanza la distinzione, che invece Marx accantonava, fra lavoro diretto e lavoro indiretto. Infatti la pratica capitalistica dimostrava di dare importanza, nel calcolare i costi e i ricavi, non solamente al totale delle ore lavorate e incorporate nei prodotti, bensì pure a come il totale si ripartiva secondo la data o l'epoca in cui le ore erano state lavorate: perché, ovviamente, il lavoro indiretto era stato prestato prima del lavoro diretto.” (3)

Lavorando per produrre una sedia io uso una sega, un martello, dei chiodi ed altri attrezzi, ed in tutti questi attrezzi è contenuto lavoro umano; e lavoro umano è contenuto negli attrezzi che sono serviti a produrre gli attrezzi che sto usando ora, e così via, in un processo a ritroso nel tempo di cui è molto difficile, se non impossibile, determinare l'inizio. Marx, come Ricardo, non tiene conto di questi diversi tipi di lavoro incorporati nelle merci, essi sono invece essenziali nella pratica degli affari. “Supponiamo”, afferma Ricossa, “che un certo prodotto sia ottenibile in due modi alternativi, i quali non differiscano per il totale di ore lavoro necessarie ma esclusivamente per la loro distribuzione nel tempo: un modo richieda più lavoro indiretto o anticipato dell'altro, e meno lavoro diretto. Ebbene, i due modi sarebbero indifferenti ed equivalenti stando alla teoria del valore lavoro, però non lo sono affatto nella pratica degli affari” (4)
E' meglio produrre una sedia usando un metodo che preveda lavoro anticipato, cioè lavoro prestato in epoche antecedenti, cioè, per essere ancora più chiari, attrezzi, impianti, macchinari, pari a 100, o un altro che richieda lavoro anticipato pari a 80? Marx non prende neppure in considerazione un simile dilemma: se entrambi i metodi danno un plusvalore uguale questi sono equivalenti. Il capitalista si pone invece il problema e dà ad esso una risposta molto semplice: preferirà il metodo che richiede meno lavoro anticipato. Per lui non è importante solo la quantità totale di lavoro ma anche e soprattutto la considerazione della data in cui il lavoro è stato prestato. Ogni anticipazione è un rischio e il rischio deve essere minimizzato e compensato. Investire in attrezzi e macchine è più rischioso che investire in salari perché macchine ed attrezzi sono molto meno adattabili al variare delle situazioni di mercato. Per Marx il capitalista anticipa 100, di cui 60 sono attrezzi e macchinari e 40 salari; se gli operai lavorano producendo 50, nel corso del processo si produce valore per 110 e il capitalista ottiene un profitto pari a 10. Ma in realtà le cose vanno diversamente. Il capitalista spera in un profitto futuro di 10 ed in base a questa previsione decide quanto investire in attrezzi, macchinari e salari. Il 100 investito è il valore attuale del 110 che si spera, ma non si è certi, di realizzare al termine del processo produttivo. “Il mondo degli affari è pieno di sconti, che sono poi interessi o profitti (…) nel mercato nessuno regala niente agli altri: chi ottiene profitto l'ottiene come corrispettivo di una anticipazione a beneficio di altri” (5). La differenza fra lavoro diretto e lavoro indiretto è quindi essenziale nella pratica degli affari. E' in base a questa distinzione che si calcola il rischio dell'investimento e che si stabilisce l'ammontare del profitto sperato, di quel profitto cioè che si ritiene adeguato a compensare l'imprenditore per il rischio che si assume. E' di conseguenza in base a questa distinzione che si decide la dimensione dello stesso investimento. L'economista Piero Sraffa, amico di Gramsci, ricorda Ricossa, mise in evidenza questa debolezza delle teoria marxiana dello sfruttamento che colpiva al cuore la costruzione teorica del valore lavoro. Pochi però, fra i marxisti hanno seguito le sue indicazioni teoriche.

Lavoro, valore ed accumulazione


 L'impostazione essenzialista della teoria marxiana del valore, se coerentemente sviluppata, rende inoltre del tutto misterioso un fenomeno cui Marx dedica molta attenzione e di cui dà una valutazione largamente positiva. Mi riferisco al fenomeno della accumulazione allargata del capitale, dello sviluppo delle forze produttive sociali. Per Marx, se ne è già accennato, il lavoro cristallizzato nello strumento di produzione, nelle macchine, non conferisce nuovo valore ai prodotti, riproduce solo se stesso. Se il capitalista investe 100, di cui 80 è costituito da materie prime e macchinari e 20 da forza lavorativa umana è solo quel 20 a creare nuovo valore, il plusvalore. Questa impostazione però ha conseguenze fortemente anti intuitive. La creazione di valore sarebbe maggiore in una economia  non meccanizzata che non in una fortemente meccanizzata ed automatizzata. Il capitalista Tizio investe 100 di cui 50 sia forza lavoro. Al termine del processo produttivo avrà, se gli operai pagati 50 producono 100, un plusvalore di 50 ed un valore totale di 150. Il capitalista Caio invece investe 100 di cui 80 è costituito da macchine e materie prime e 20 da forza lavoro. Se il tasso di sfruttamento della forza lavoro è, come nel primo caso, del 100%, il suo plusvalore sarà pari a 20 ed il valore totale a 120. Però, il valore prodotto dal capitalista Tizio sarà rappresentato, poniamo, da 1000 unità del tal prodotto, quello del capitalista Caio da 10.000 unità dello stesso prodotto. Per Marx è decisivo il valore, ma ogni capitalista mira a rendere massima la produttività del lavoro, a far si ciò che si produca la maggior quantità possibile di beni nel più breve tempo possibile di lavoro, e per far questo sono decisive le macchine, quelle che per Marx non creano alcun nuovo valore. La accumulazione del capitale marcia di pari passo non con l'aumento dell'essenza valore ma con l'incremento dei beni prodotti. Non è decisivo stabilire quanta quota parte del lavoro sociale sia contenuta in un paio di scarpe, ma quante paia di scarpe è possibile produrre in una giornata di lavoro. Gli investimenti dei capitalisti avrebbero per Marx la conseguenza di ridurre costantemente il plusvalore, ed i profitti; il pensatore di Treviri lo afferma esplicitamente nella famosa teoria della caduta tendenziale del tasso di profitto. Però, tutta la storia del modo di produzione capitalistico smentisce questa teoria.  
Ma non solo di questo si tratta. Nella tal macchina è contenuto, dice Marx, un tot di tempo di lavoro, poniamo, pari a 80, e questo 80 si trasferisce nei prodotti. Ma, come possiamo stabilirlo? La macchina è stata costruita da operai che hanno "cristallizzato" in essa il loro valore-lavoro, ma questi operai hanno usato altre macchine nelle quali è "cristallizzato" altro lavoro e così via, in un processo che si perde nella notte dei tempi. In una macchina che serve oggi a produrre scarpe c'è un frammento di lavoro umano che risale forse ai tempi dell'antica Roma. Nella macchina del nostro capitalista non c'è valore-lavoro pari a 80, ma molto di più: per produrre quella macchina sono state necessarie macchine in cui erano incorporate non 80 ma 100 ore di lavoro ed altre ancora che per essere prodotte richiedevano 150 ore di lavoro. Più si va indietro nel tempo più aumenta la quantità di ore lavoro necessarie per produrre una macchina, e tutte queste, secondo la teoria marxiana, dovrebbero trasferirsi nelle macchine successivamente prodotte. Considerazioni analoghe possono farsi per lo spazio. In una macchina che viene usata in Italia c'è a volte lavoro di operai cinesi che usano macchine in cui sono incorporate quantità molto maggiori di ore lavoro che non quelle necessarie in Italia. In breve, la quota parte globale del capitale fisso su quella del capitale variabile, delle macchine sulla forza lavoro, si accresce continuamente nel corso della storia perché incorpora in se il lavoro di svariate generazioni e di operai di parti del mondo sempre più lontane. Il peso del valore-lavoro e del plusvalore nel capitale complessivo diventa in questo modo sempre minore fino a ridursi a dimensioni insignificanti. Come possa, date queste premesse, essere il plusvalore il protagonista della accumulazione resta un mistero.



Essenzialismo

Marx non vede o sottovaluta queste contraddizioni della sua dottrina perché con la sua analisi non mira tanto a stabilire come si determini empiricamente l'accumulazione e l'ammontare dei profitti quanto a cercare l’essenza oggettiva del valore che si nasconde dietro il fenomenico scambiarsi delle merci a determinati prezzi. Certo, Marx parla anche di prezzi, di profitti e di saggio di profitto, e ne profetizza, lo abbiamo visto, una caduta tendenziale nel lungo periodo, ma fonda tutto il suo discorso economico sull'analisi del valore inteso come lavoro astratto, essenza umana reificata.

Per Marx i prezzi sono scostamenti dal valore delle merci. Il valore è determinato dal lavoro astratto socialmente necessario cristallizzato nelle merci, il prezzo è la forma fenomenica, empirica di tale valore, determinata dal variare della domanda e dell'offerta. In questo modo però il valore non riesce ad avere neppure una espressione puramente astratta, quantitativa. Se il prezzo di un certo bene è 100 questo prezzo ne esprime il valore d'uso in forma astrattamente quantitativa, ma in quale quantità si esprime il valore che starebbe sotto tale prezzo? Quale cifra, quale rapporto rappresenta il "valore essenza" che sta sotto al "prezzo fenomeno"? Mistero. L'essenza valore si dilegua letteralmente sotto ai nostri occhi ogni qual volta cerchiamo di afferrarla.
Nonè casuale un simile dileguarsi, deriva direttamente dal tentativo di risolvere in termini essenzialisti il problema del valore. E' l'impostazione essenzialista ad essere radicalmente errata.  Il valore non è un’essenza oggettiva, è al contrario sempre qualcosa di soggettivo, è dato dalla capacità di un certo bene di soddisfare determinati bisogni umani, di poter far fronte ad una domanda da un lato, e dalla quantità di quel bene disponibile sul mercato dall’altro.
Il valore di scambio altro non è che il prezzo a cui le merci sono scambiate sul mercato, si tratta di qualcosa di relativo, non di assoluto. Non esiste il valore della totalità delle merci prodotte, meno che mai esiste come inafferrabile "essenza oggettiva" che starebbe sotto ai prezzi. Esiste il sistema dei prezzi, l’insieme cioè dei rapporti di scambio fra le varie merci espressi in forma monetaria. Cercare l'essenza del valore e credere di averla scoperta nel lavoro ci impedisce di vedere e di capire ciò che è sotto i nostri occhi.

Il minimo vitale relativo

Se la teoria del valore-lavoro non regge ad un minimo di analisi critica (tant'è vero che anche i marxisti l'hanno armai abbandonata) la teoria del minimo vitale è stata invece clamorosamente smentita dai fatti.

La affermazione marxiana secondo cui il capitalista una volta acquistata la forza lavoro è libero di usarla  quanto e come meglio crede è in fondo solo una indebita generalizzazione di deplorevoli, ma non definitivi, fenomeni empirici. In realtà nessuno è libero di usare come vuole nessuna merce che acquista. Se compro una casa non posso usarla come albergo od esercizio commerciale, meno che mai posso piazzare delle batterie di artiglieria in giardino. Nelle moderne società di mercato le transazioni sono regolare dalla legge e questo riguarda anche le modalità d'uso delle merci che si acquistano. Vale a maggior ragione per quella “merce” particolarissima che è il lavoro umano, o, per seguire Marx, la umana forza lavoro. L'utilizzo di questa non è affatto “libero” ma regolamentato da leggi, normative, contratti. E questi si sono dimostrati in grado di migliorare le condizioni dei lavoratori.
I salari operai in realtà non si sono fermati al livello del minimo vitale; la classe operaia è stata coinvolta, come tutti gli strati sociali, nel processo di progressivo accrescimento della ricchezza sociale. Anche se a malincuore i marxisti (anzi, già lo stesso Marx e più di lui il suo amico Engels) sono stati alla fine costretti a riconoscere questo dato di fatto ma si sono ben guardati dall'abbandonare la teoria dello sfruttamento. Il minimo vitale non è qualcosa di naturale, non sta ad indicare una soglia minima di sopravvivenza materiale. Il minimo vitale è qualcosa di socialmente e storicamente determinato. In società prospere il minimo vitale comprende l'auto e la settimana bianca, l'università per i figli e la casa di proprietà. E' questa la teoria marxista del "minimo vitale sociale o relativo" con cui lo stesso Marx e dopo di lui i marxisti ortodossi hanno cercato di spiegare il mancato impoverimento progressivo della classe operaia. Si tratta di una ingegnosa teoria che permette di teorizzare lo sfruttamento quali che siano le condizioni di vita e di lavoro degli sfruttati. Grazie alla teoria del "minimo vitale relativo" o "socialmente determinato" il concetto stesso di sfruttamento perde qualsiasi determinazione positiva. Si è sfruttati sia che si lavori 8 o 12 ore al giorno, sia che si guadagni 100 o 1.000, sia che si viva in un tugurio o in un villino.
L'originaria teoria del minimo vitale aveva almeno una sua coerenza. Il benessere della società si basa sul lavoro di una classe esclusa dal benessere e dai frutti del progresso. L'aumento della produttività del lavoro e della ricchezza non significa miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia precisamente perché la spoliazione della classe operaia è la condizione di ogni incremento di ricchezza: la miseria per moltissimi sventurati è condizione del benessere di pochi privilegiati. Una volta constatato però che la classe operaia condivide i frutti dell'incremento della ricchezza sociale i teorici dello sfruttamento si sono limitati a dire che il suo tenore di vita rappresenta comunque il "minimo vitale relativo o socialmente determinato". Naturalmente quale sia il livello di questo minimo e come lo si possa determinare restano un mistero. Se grazie ad uno sciopero vittorioso i lavoratori vedono innalzarsi i loro redditi le cose non cambiano: la loro posizione sociale si situa dopo lo sciopero esattamente come prima al livello di sussistenza “socialmente determinato”.
Il problema in realtà è proprio questo: ha senso parlare dello sfruttamento come meccanismo basilare di una società che coinvolge gli sfruttati nel processo di sviluppo della ricchezza sociale? Si ammetta pure che il salario operaio di oggi si situi al livello del "minimo vitale socialmente determinato", resta sempre da risolvere il problema del perché una società basata sulla spoliazione faccia crescere questo "minimo vitale". Se lo sfruttamento è la molla dello sviluppo economico non si vede perché questo debba coinvolgere gli sfruttati anziché tradursi in un aumento vertiginoso della ricchezza per pochi e della miseria per molti. Schiavi, servi della gleba e ospiti dei gulag non sono mai stati coinvolti in alcun processo di sviluppo della ricchezza sociale.
Avvolta nella più totale indeterminatezza la teoria del “minimo vitale socialmente determinato o relativo” non può ovviamente essere in alcun modo provata né in realtà prova o dimostra alcunché. Come si può dimostrare che un certo livello di reddito rappresenta, in un certo periodo storico, il “minimo vitale relativo o socialmente determinato”? la risposta a questa domanda, quando è stata formulata, si è rivelata una misera tautologia. Un certo livello di reddito rappresenta il "minimo vitale relativo o socialmente determinato" perché, quale  che sia il loro reddito, gli operai sono comunque sfruttati. E perché gli operai sono comunque sfruttati? Perché il loro reddito, quale che sia, si colloca al livello del "minimo vitale relativo o socialmente determinato".  Il minimo vitale relativo che doveva provare lo sfruttamento è in questo modo provato dalla conclamata esistenza dello stesso! Cercando di dimostrare l'indimostrabile ci si avvolge sempre in circoli viziosi.

Il nemico di Marx era il capitalismo, il capitalismo allo stato “puro”. Marx non cerca di fare facile propaganda parlando di capitalisti cattivi, imbroglioni o disonesti, non cerca di pescare nel torbido, non ammucchia esempi su esempi di contratti truffaldini o firmati sotto la pressione di minacce. Marx non critica il capitalismo perché nella società capitalista la libertà di contratto non è piena, i diritti degli individui sono spesso tutelati in maniera ineguale, la legge non è sempre uguale per tutti. No, Marx afferma chiaramente che lo sfruttamento capitalistico nasce dai diritti eguali, dalla libertà di contratto, dall’onesto scambio di equivalenti. L’eguaglianza liberale, la libertà di contratto, lo scambio libero, la legge uguale per tutti sono alla base del processo che porta alla spoliazione della classe operaia che vive nelle metropoli capitaliste.
Come tutti i pensatori importanti Marx punta al cuore del problema e questo lo rende enormemente più profondo dei suoi tardi epigoni. Il suo tentativo però è nella sostanza fallito. Non a caso i suoi odierni seguaci o non ne usano le categorie (spesso non le conoscono neppure) o scimmiottano in maniera ridicola il loro maestro. Il nemico degli odierni “marxisti” non è il capitalismo, sono alcuni capitalisti particolarmente cattivi, o le multinazionali, o i petrolieri, spesso è un uomo, un solo uomo (chissà chi...). Dopo il dramma del comunismo reale ci tocca assistere alla farsa del radicalismo da salotto. Chiunque sappia pensare oggi deve saper coltivare la grande virtù della pazienza.














Note

1) Karl. Marx: Il Capitale. Avanzino e Torraca editori 1965 pag. 58. Sottolineature di Marx

2) Ibidem pag. 59. Sottolineature di Marx

3) Sergio Ricossa: Impariamo l'economia. Rizzoli 1988 pag. 118

4) Ibidem pag. 118

5) Ibidem pag. 121










lunedì 27 maggio 2013

MARXISMO E TOTALITARISMO



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Si è discusso e si discute molto sui rapporti fra il marxismo e l’esperienza del cosiddetto comunismo “reale”. Gli innumerevoli lutti che questa esperienza è costata al genere umano possono in qualche modo esser fatti risalire al marxismo? Oppure fra questo e quelli non esiste alcun rapporto? Marx è il padre del comunismo moderno, porsi il problema dei rapporti fra il marxismo e l’esperienza storica del comunismo equivale ad affrontare il problema del rapporto fra comunismo “ideale” e comunismo “reale”, fra la teoria e la prassi comuniste.
E’ certo che Marx non è Stalin, ed è almeno assai probabile che Marx sarebbe inorridito di fronte all’ampiezza ed alla efferatezza dei crimini staliniani. Da questo punto di vista fra Marx e l’esperienza storica del comunismo esiste una cesura netta. Il problema però non è questo. Il problema è di capire se esistono nell’impianto complessivo del marxismo concezioni, teorie, modi di vedere l'uomo e la storia che, messe in pratica, hanno portato, sempre ed ovunque, alle conseguenze che conosciamo. Marx non ha mai teorizzato i gulag ma questo non basta a recidere ogni legame fra i gulag ed il marxismo. Occorre invece cercare di capire perché persone che si richiamavano a Marx e che conoscevano benissimo la sua opera hanno potuto costruire i gulag. I gulag sono stati costruiti in nome di Marx. Si tratta di un fraintendimento? Anche ammettendolo resta da spiegare perché il pensiero di Marx si è prestato ad essere frainteso in maniera così radicale, perché ad essere frainteso non è stato il pensiero di Kant , Hume o Locke.
E’ un problema simile a quello che si pone per Nietzsche. Accusare Nietzsche di nazismo sarebbe una sciocchezza, tra l'altro Nietzsche non è mai stato antisemita, ma è davvero solo un caso che molti ufficiali delle SS portassero “Così parlò Zarathustra” nello zaino? Di nuovo, perché è stato Nietzsche e non, per fare un altro esempio, John Stuart Mill ad essere frainteso dai seguaci di Adolf Hitler? Se un autore viene frainteso troppo e in maniera troppo profonda la colpa non è mai solo di chi lo fraintende.

Per almeno alcuni di coloro che ancora oggi si richiamano al comunismo esisterebbe una cesura netta fra l’esperienza storica del comunismo reale e l’idea comunista. Dico “alcuni” non a caso. Molti che ancora oggi si definiscono “comunisti” mantengono un solido legame con quella esperienza. Certo, anche questi “criticano” l’esperienza staliniana ma si tratta di "critiche" che sembrano fatte apposta per assolvere, non per condannare. Lo stalinismo è stato tanto brutto ma... bisogna considerare il momento storico, l’arretratezza economica, le provocazioni dell’imperialismo eccetera eccetera. Ragionando in questi termini si potrebbe dire che il nazismo è stato orribile ma... bisogna considerare il trattato di Versailles, la crisi economica, i timori suscitati dall’Unione Sovietica eccetera eccetera.

Ed anche coloro che criticano in maniera senza dubbio severa l’esperienza storica del comunismo si lasciano spesso prendere da strane amnesie ed emettono, a volte, giudizi sorprendenti. Ad esempio, si condanna senza riserve lo stalinismo ma si continua a considerare con un rispetto davvero eccessivo la figura di Palmiro Togliatti che di Stalin fu stretto collaboratore o si vede ancora in Fidel Castro un campione della causa degli oppressi. Questi però in fondo sono dettagli, anche se di una certa importanza. A parte tutte le amnesie e le reticenze occorre affrontare, una volta per tutte, il problema del del rapporto fra l’idea comunista ed il comunismo reale, fra la liberazione integrale dell’uomo ed i gulag, l’autogoverno dei lavoratori e la dittatura totalitaria sulla società tutta, lavoratori compresi.

Dal punto di vista marxista il paragone fra l’idea comunista ed il comunismo reale è qualcosa di assurdo. Marx non ha mai contrapposto “idea” e “storia”, realtà ed idealità del comunismo: “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (1). Il comunismo non è un ideale da realizzare, è il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente. Il comunismo è quel movimento reale, quello lì, diverso dalle utopie comuniste sempre fiorite nel corso della storia. E’ il movimento che nasce con Marx e la prima internazionale, prosegue con la seconda, con la rivoluzione d’Ottobre e la terza internazionale, con Lenin, Stalin, Mao. E’ quello il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente, ed ha in effetti abolito molti stati di cose esistenti. Eliminare dalla storia questo movimento reale, farne un semplice “fraintendimento”, o magari anche “tradimento” dell’idea comunista significa essere assai poco marxisti, trasforma i robusti seguaci del materialismo storico in idealisti platonici. Tutto questo dovrebbe preoccupare chi in nome del marxismo “puro” della “pura” idea comunista, condanna o critica il movimento comunista reale. Non preoccupa affatto chi invece, come chi scrive, non è marxista. Personalmente ritengo che le idee abbiano una grande importanza nella storia e penso che valga davvero la pena di vedere se nel marxismo esistono almeno alcuni presupposti teorici in grado di farci capire perché la totale liberazione dell’uomo si sia tradotta in forme mostruose di dittatura totalitaria.

Solo nel comunismo si realizza pienamente l’umana libertà. L’uomo comunista è un uomo ricco di bisogni ed è in grado di soddisfarli tutti senza essere costretto alla fatica del lavoro. Nella società comunista il lavoro non è un mezzo per soddisfare un bisogno me è esso stesso bisogno, bisogno umano. “Nella società comunista, in cui ciascuno di noi non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così, come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né allevatore né critico” (2). Sono parole di Karl Marx.
Lev Davidovic Trockij si spinge ancora oltre nell’immaginare quanto l’avvento del paradiso comunista trasformerà l’uomo: “L’uomo diventerà infinitamente più forte, più intelligente, più raffinato; il suo corpo più armonioso, i suoi movimenti più ritmici, la sua voce più musicale. Le forme della vita quotidiana acquisteranno una teatralità dinamica,. Il tipo umano medio si eleverà al livello di Aristotele, Goethe, Marx. Su questo crinale si eleveranno nuove cime” (3). Come può una simile prospettiva aver portato al terrorismo ed alle deportazioni di massa? Nell’idea comunista ci saranno forti elementi utopici, ma come la si può confondere con la pratica dello sterminio messa in atto da Stalin, Mao e Pol Pot?
Eppure il legame esiste, ed è anche piuttosto evidente. La libertà comunista si basa, dovrebbe essere abbastanza chiaro, su una totale trasfigurazione dell’uomo, della natura, della società. E’ un rovesciamento globale del mondo che porta il genere umano in una dimensione assolutamente nuova, una autentica redenzione terrena. Cosa conta di fronte a questa prospettiva l’uomo di oggi? Cosa può valere l’uomo deforme, alienato, miserabile che secoli di società di classe hanno prodotto? E’ giusto sacrificarlo in nome di un futuro di assoluta libertà? Per Marx il problema non si pone. Per lui non si deve scegliere fra presente e futuro perché il paradiso futuro nasce inevitabilmente dal presente. Il capitalismo va incontro a crisi sempre più gravi, i problemi dell’uomo, dell’uomo di oggi, non del superuomo comunista di domani, si dimostreranno insolubili nell’ambito dei vecchi rapporti di produzione, gli eventi economico sociali spingeranno gli esseri umani verso il comunismo. La concezione hegeliana del corso storico, e la convinzione di aver scoperto con precisione scientifica le leggi che determineranno la crisi del sistema capitalistico, salvano Marx dal terrorismo volontarista. Ma che succede se gli eventi reali della storia marciano in direzione diversa? Se gli operai non vanno oltre l’orizzonte riformista, se il capitalismo non entra in crisi o se comunque si dimostra in grado di superare le sue crisi, se la democrazia si allarga e coinvolge nei suoi meccanismi strati sempre più ampi di ceti e classi popolari, che fare? Il determinismo marxista si tramuta in questo caso in volontarismo assoluto. Se la storia non marcia verso il comunismo la si può forzare in tal senso, lo si può fare perché il comunismo è il fine assoluto, la redenzione totale, l’unica prospettiva di salvezza per il genere umano. La bellezza del fine comunista non è affatto in contrasto con la spietatezza della politica comunista, al contrario, è proprio tale bellezza a rendere per i comunisti del tutto giustificabili i peggiori arbitri, i crimini più orrendi.

Ma esiste un altro aspetto del marxismo che aiuta a comprendere perché esso si sia con tanta regolarità tradotto in una prassi terroristica. Si tratta della concezione che il marxismo ha di se stesso.
Hegel non considerava la sua una delle tante filosofie, un tentativo, magari l’unico giusto, di interpretare razionalmente il mondo e l’uomo. Per Hegel la sua filosofia rappresenta la piena autocoscienza dell’assoluto. Nella filosofia di Hegel l’idea assoluta conosce finalmente se stessa, espone sé a sé stessa in maniera totale e auto trasparente. Considerazioni simili possono farsi per il marxismo. Il marxismo non è una teoria sociale come le altre, una interpretazione dei fatti economici, storici e sociali che l’esperienza può dimostrare giusta o sbagliata. Il marxismo non guarda alla storia da un certo punto di vista, assunto come dato. Il marxismo è l’autocoscienza del corso storico, meglio, è l’autocoscienza della storia che si esprime come autocoscienza della classe operaia. Nella teoria marxista la storia diventa trasparente a sé stessa, scopre ed espone il fine ad essa immanente, rivela a sé il suo segreto. Il reale andamento degli eventi storici non può smentire il marxismo perché il marxismo rappresenta ciò che dà senso a quegli eventi. Il marxismo è il prodotto teorico-pratico più alto della storia, la condizione che consente al suo fine immanente di emergere e trionfare.
Cediamo di nuovo la parola a Marx: “I comunisti sono la parte più progressiva, più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato di comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario (..) Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi” (4). I comunisti con la loro azione traducono in pratica ciò che è già l’espressione generale di un movimento storico in atto, possono farlo perché comprendono le condizioni, l’andamento ed i risultati generali del movimento proletario. La teoria comunista svela alla classe operaia quelli che sono i suoi interessi “oggettivi”, rivela ai lavoratori quello che essi “realmente” sono, il senso e l’indirizzo delle loro lotte. Un operaio può anche pensare che sciopera solo per un aumento di salario, i comunisti sanno bene che non è questo il senso “oggettivo” della sua azione.

Se il comunismo marxista rappresenta l’autocoscienza che la classe operaia e la storia hanno di se, quale potrà essere il rapporto fra comunismo marxista e tutto ciò che comunismo marxista non è?
Anche i non o gli anti marxisti fanno parte ella storia. A differenza dei marxisti però coloro che avversano o anche solo non condividono il marxismo sono il peso morto della storia, rappresentano quanto in essa esiste di regressivo e di frenante. I nemici o i rivali del comunismo marxista sono attori di un dramma storico che ha nel marxismo il suo epilogo trionfante. Costoro non possono avere ragione nei confronti del marxismo, non possono averla perché la loro stessa esistenza è funzionale allo sviluppo ed al trionfo del comunismo marxiano. Stabilire chi ha ragione fra un comunista marxista e, ad esempio, un economista “borghese” non ha senso: l’economista borghese è il rappresentate teorico di forze regressive che lo sviluppo della storia, di cui il marxismo rappresenta l’autocoscienza, spazzerà via. E ciò che vale per l’economista “borghese” vale per il filosofo neopositivista, il politico liberale o il sindacalista social democratico. Tutti costoro hanno un ruolo nel dramma storico, ma si tratta di un ruolo transitorio e subordinato. Che partendo da simili posizioni si sia giunti ad abolire ogni libertà verso chiunque non fosse comunista non è per nulla casuale. Né lo è che l’eliminazione di ogni libertà abbia finito poi per colpire gli stessi comunisti. Come il liberale, come il socialdemocratico anche il comunista dissidente è un peso morto della storia, uno che “fa il gioco del nemico”, che “veicola idee borghesi” in seno alle classi rivoluzionarie. Trotckij disse di Martov, prestigioso esponente della socialdemocrazia russa, che andava gettato nella "pattumiera della storia". Di li a poco sarebbe stato lui ad essere gettato in quella pattumiera, in realtà una delle più poderose macchine tritacarne di tutti i tempi.
Presentando se stesso come autocoscienza del corso storico, depositario del senso oggettivo del suo divenire, il marxismo si preclude ogni possibilità di dialogo con altre correnti filosofiche e politiche ed anche ogni possibilità di dialogo interno. Non è un caso che non esistano praticamente esempi di reale dibattito teorico fra comunismo marxiano ed altri correnti di pensiero. Parimenti non è un caso che ogni dibattito interno al comunismo si sia trasformato in una lotta a coltello per la sopravvivenza, intesa assai spesso in senso fisico. Kautsky era un rinnegato, Trotckij un traditore al soldo dei Hitler, Liu Chao Chi un revisionista borghese. L’autocoscienza della storia produce continuamente traditori della causa.

Se si tiene conto di queste considerazioni cessa di apparire sorprendente il fatto, a prima vista paradossale, che il marxismo abbia spesso abbandonato la sua armatura scientista venata di determinismo per abbracciare teorie e pratiche fortemente volontariste. Se nella teoria e nella prassi del partito rivoluzionario si esprime l’autocoscienza della storia e si realizza il suo fine, allora la teoria e la prassi di tale partito sono giuste per definizione. Un normale partito politico compie delle scelte e le sottopone al vaglio degli elettori o comunque di quelli che sono i suoi referenti sociali. Una normale teoria politica rappresenta un punto di vista sulla società che gli eventi sociali si incaricheranno di confermare o smentire. Ma se la teoria e la prassi di un partito rappresentano la coscienza “autentica” di certe forze sociali, rendono palese e mettono in atto ciò che la società è e vuole “realmente”, nessuna confutazione di questa teoria è possibile. I comunisti sono l’avanguardia del proletariato che a sua volta ha il compito storico di condurre l’umanità dal regno della necessità a quello della libertà. Ebbene, quale miglior prova si può addurre a favore del fatto che il mondo si avvia verso la perfezione comunista se non quella che realmente i comunisti esistono, pensano ed agiscono? I socialdemocratici rimproverarono a suo tempo i bolscevichi per aver fatto una rivoluzione proletaria in un paese “immaturo” per il socialismo. Dal punto di vista del comunismo marxiano tale rimprovero era del tutto infondato. Quale miglior prova si può addurre a favore della maturità della rivoluzione se non il fatto che la rivoluzione ha vinto? Come autocoscienza del proletariato e della storia il marxismo diventa fatalmente autoreferenziale: per il solo fatto di esistere “dimostra” che ciò che profetizza è vero. In questo modo però è costretto a gettare alle ortiche le sue pretese scientifiche per aprire le porte ad ogni delirio volontarista. All’analisi socio economica si sostituiscono le scelte dei capi che naturalmente si identificano con gli interessi “veri” di classi, popoli e nazioni. Stalin rappresentava il proletariato mondiale, Mao le masse oppresse di tutto il mondo. Non potevano esistere dubbi su questa identificazione, essa era vera, vera al di la di ogni verifica, vera quali che fossero i pensieri, le aspirazioni, i comportamenti dei proletari autentici, degli esseri umani in carne ed ossa che formano le “masse”. E’ stata la storia, quella vera, non quella che si esprime in presunte “autocoscienze”, a mettere a nudo il carattere mistificatorio ed arrogante di tali pretese. Eppure anche oggi chi si dice ancora comunista si rifiuta di imparare dai fatti, non guarda alla storia autentica, preferisce crogiolarsi nella convinzione che nelle sue parole si esprime la coscienza autentica del mondo. Buon pro gli faccia.

Ma l’errore forse più grave di Marx è un altro e non a caso deriva anch’esso dalla sua concezione aprioristica della storia. Per Marx la tendenza dell’uomo a possedere privatamente beni materiali, allo scambio ed al commercio rappresenta una sorta di pervertimento della natura umana causato dalla società di classe. Certo, Marx riconosce l’enorme valore progressivo che hanno avuto la proprietà capitalistica, gli scambi ed il commercio internazionale. In questo come in molte altre cose egli è enormemente superiore non solo ai suoi tardi epigoni ma anche a molti odierni difensori dell’economia di mercato. Tuttavia egli ritiene che queste tendenze alienino l’uomo da se stesso, ne facciano un essere nella sostanza non davvero umano e siano perciò destinate a sparire nella società armonica che segnerà la fine della storia, o meglio, della preistoria, del genere umano.
Si tratta di un errore fondamentale. Gli scambi ed il commercio sono esistiti in praticamente tutte le società umane, sotto tutte le latitudini. Forme rudimentali di mercato hanno continuato ad esistere nella stessa Russia sovietica ed il governo comunista è stato costretto in qualche misura a tollerarle perché è solo grazie ad esse che in certi momenti è stato possibile assicurare alle città un minimo di derrate alimentari nel disastro della collettivizzazione dell’agricoltura. Per Marx la tendenza dell’uomo ai commerci e agli scambi è destinata ad estinguersi una volta che si sia instaurata la comunanza dei mezzi di produzione, per questo motivo può teorizzare insieme tale comunanza e la libertà individuale. Le cose sono tuttavia ben diverse. Se si lascia un minimo di libertà agli esseri umani la tendenza alla acquisizione privata dei beni, al commercio ed allo scambio inevitabilmente rinasce. Poniamo che la ricchezza sociale sia distribuita in maniera del tutto egualitaria fra A, B e C. Se A, B e C possono usare come meglio credono i beni che hanno ricevuto e possono fare nel tempo libero ciò che loro aggrada, i rapporti commerciali e quindi le disuguaglianze sono destinati a rinascere. A consumerà tutto, B risparmierà una parte del suo reddito e concederà dei prestiti ad A, esigendo per questo una ricompensa, C proporrà ad A e a B di fare per loro certi lavori nel tempo libero. A e B accetteranno e cederanno parte dei loro beni a C in cambio dei suoi servigi e del suo lavoro. La spirale perversa del commercio e degli scambi comincia di nuovo.

I rapporti “borghesi” fra gli esseri umani non sono loro imposti da qualche onnipotente sfruttatore, nascono dallo sviluppo spontaneo della società, si sviluppano molecolarmente dal basso. Di questo si resero subito conto i dirigenti bolscevichi che non a caso individuarono nella piccola proprietà contadina un nemico mortale da battere. A parte la parentesi della NEP, resa necessaria dalla situazione alimentare insostenibile cui la prassi del “comunismo di guerra” aveva cacciato il paese, la storia della Russia sovietica è in effetti una storia di guerra contro i contadini, guerra che alla fine Stalin vinse con i mezzi che si conoscono, e che rappresenta uno dei più colossali (e meno pubblicizzati dai media) stermini di massa della storia. Non si tratta di eventi casuali. La tendenza al rinascere di rapporti mercantili fra gli esseri umani può essere repressa solo da una dittatura totalitaria ferrea che controlli tutta la vita sociale, elimini ogni sfera di privatezza dalla vita degli esseri umani, controlli non solo le loro idee ma anche i loro sentimenti, i loro desideri, le loro pulsioni. E’ quello che è avvenuto, in Russia come in Cina, in Corea del nord come in Cambogia, sempre e ovunque con implacabile, mostruosa monotonia.
La trasfigurazione dell’uomo, l’egualitarismo radicale, la società armonica e priva di contrasti, insomma, tutto ciò che rende ancora "attraente" a molti l’utopia marxiana sono, appunto, una utopia. Ma non una utopia “innocente”, l’innocua speranza in un mondo migliore. Malgrado le intenzioni di Marx questa utopia si è rivelata per quello che era e non poteva non essere: una utopia assassina. La storia, si, proprio la storia che Marx tanto amava non consente più a nessuno di dire “credevo.. l’idea è tanto bella…”. Dobbiamo essere abbastanza adulti per farla finita con ciò che si presenta come troppo bello.










Note

1) K. Marx F . Engels: L’ideologia tedesca. Editori riuniti 1972 pag. 25. Sottolineatura di Marx.

2) K. Marx F. Engels: opera citata pag. 24

3) L. Trotckji: Letteratura e rivoluzione. Einaudi 1973 pag. 266

4) K. Marx F. Engels: manifesto del partito comunista. Einaudi 1966. pag. 147 148





sabato 25 maggio 2013

LA DIALETTICA IN MARX




La dialettica in Hegel oscilla continuamente fra quelli che potremmo definire il momento logico ed il momento del divenire temporale. Da un lato ogni concetto si definisce tramite l’altro e nella sua relazione con l’altro, si rispecchia nell’altro e trapassa nell’altro. Questo definirsi, rispecchiarsi e trapassare sono però relazioni logiche fra concetti, non momenti di un divenire temporale. D’altro canto l’idea nella forma dell’altro da se è natura e come natura è sottoposta al divenire. Ed opera egualmente nella temporalità lo spirito che esplicita ed espone se stesso nella storia. Momento logico e momento temporale convivono in Hegel e non a caso. L’assoluto hegeliano deve contenere tutto, compresa l’estrinsecità spazio temporale della natura, compreso il divenire storico, anzi, è precisamente nel divenire storico che si realizza la riconciliazione dell’idea con se stessa. Che una simile convivenza di momento storico-temporale e di momento logico sia foriera di contraddizioni inestricabili è sin troppo ovvio. L’assoluto è sempre assoluto nella forma dell’altro da se? Come può l’auto esposizione puramente logica dell’assoluto convivere e compenetrasi con la sua auto esposizione storico temporale? Di nuovo la chiave di tutto è il “superamento” hegeliano del principio di non contraddizione.

Nella sinistra hegeliana ed in particolare in Marx il momento del divenire storico temporale prende tuttavia nettamente il sopravvento sul momento logico. In Hegel la storia è un momento, sia pure di enorme importanza, dell’auto esposizione dell’assoluto, in Marx diventa il terreno assolutamente privilegiato, se non unico, di applicazione del “metodo” dialettico. Ma la differenza forse più importante fra Marx ed Hegel è un’altra. In Hegel la filosofia è una ricapitolazione razionale del reale, ne evidenzia la necessità. Riferita alla storia la filosofia mostra la razionalità e la necessità di ciò che è accaduto. Come la nottola di minerva la speculazione filosofica prende il volo quando si fa sera, svolge la sua funzione chiarificatrice al termine di un periodo storico, illumina razionalmente il passato. La posizione di Marx da questo punto di vista è diametralmente opposta. Ben lungi dal limitarsi ad illuminare il passato la filosofia (che diventa in Marx teoria rivoluzionaria) deve indicare la via del futuro. Il marxismo non è ricapitolazione razionale di ciò che è avvenuto ma tensione al futuro, volontà di rivoluzionare il mondo. Questa tensione tuttavia non si riduce a puro volontarismo. La tensione al rivoluzionamento della realtà parte da e si giustifica con una visione complessiva del corso storico. In Marx la dialettica diventa interpretazione della storia e previsione “scientifica” del suo andamento futuro. La coincidenza hegeliana di razionale e reale viene a coincidere in Marx con la razionalizzazione del corso storico. La storia passata è stata così perché doveva essere così, il futuro sarà così perché così deve essere.

Marx offre un riassunto molto chiaro ed incisivo della sua concezione della storia nella celebre prefazione del ‘57 a “Per la critica dell’economia politica”. Cediamogli la parola.
“Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale. (…) Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma e, al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (..) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. (…) E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.” (1)
E, più avanti: “A grandi linee i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale (…) ma le forze produttive che si sviluppano in seno alla società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si conclude dunque la preistoria della società umana” (2)
Il discorso come si vede è molto chiaro. La successione delle diverse epoche storiche, segnate dai diversi modi di produzione, prepara e rende possibile la conclusione comunista del divenire storico, la definitiva uscita dalla “preistoria” del genere umano. E’ interessante notare che in tale schema esiste una (notevole) sbavatura: il modo di produzione asiatico, contrariamente a quanto si evince dal testo marxiano, non precede affatto gli altri modi di produzione ma si sviluppa parallelamente ad essi. Non a caso il concetto stesso di modo di produzione asiatico è stato oggetto di una polemica durissima nel marxismo che si è conclusa con la cancellazione staliniana di questo concetto dal vocabolario marxista e con l’assimilazione del modo di produzione asiatico a quello feudale. Questo però è secondario nell'economia del presente scritto. Ciò che vale la pena di sottolineare è la razionalizzazione hegeliana che Marx compie della storia. La storia ha un inizio, uno svolgimento razionale ed una fine. L’avventura terrena dell’uomo, cosparsa di tanti lutti, lacrime e sangue si concluderà con la salvezza. L’uscita dalla preistoria aprirà le porte del paradiso.

Se si tiene conto del contributo dato al marxismo dall’opera di Engels la natura dialettica della concezione marxiana della storia diventa ancora più evidente. Engels parla infatti di una società comunista primitiva che avrebbe preceduto il sorgere della società di classe. Il dissolvimento della società comunista primitiva porta alla nascita dello sfruttamento, dell’oppressione della donna e dello stato, garante armato degli interessi della classe dominante. La originaria armonia ed unità fra gli esseri umani si spezza per dar luogo a società antagoniste. Il capitalismo rappresenta il culmine di questo antagonismo. Il capitalismo infatti non è caratterizzato solo dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel capitalismo questo sfruttamento si realizza in una società atomizzata e divisa. Le precedenti società di classe conservano, pur nel loro antagonismo, una natura in qualche modo organica, il tutto precede in esse le parti, anche se si tratta di un tutto iniquo ed oppressivo (ma, ha senso parlare di iniquità riferendosi ad una totalità organica? Il cervello è forse un “oppressore” degli arti a cui comanda?). Nel capitalismo questo legame organico fra gli esseri umani si spezza. Ogni uomo diventa un atomo, un mondo a sé i cui unici rapporti con gli altri esseri umani sono costituiti dalla egoistica ricerca del tornaconto individuale. E’ su questa base che nasce e si sviluppa lo sfruttamento capitalistico. A differenza dello sfruttamento schiavistico lo sfruttamento dell’operaio salariato si basa sullo scambio di equivalenti, sul rapporto formalmente libero fra soggetti formalmente uguali fra loro. Nel capitalismo si ha quindi contemporaneamente la frantumazione atomistica del vincolo sociale, lo sfruttamento dei proletari da parte dei borghesi e, in prospettiva, la crisi economica causata dal contrasto insanabile fra sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione borghesi.
E’ lo stesso capitalismo, afferma Marx, ad avere sviluppato e a sviluppare sempre più la concentrazione del capitale. Lo sviluppo della produzione capitalistica ha distrutto o è destinato a distruggere l’artigianato, la piccola impresa, il lavoro autonomo. Tutto questo però non può proseguire oltre certi limiti nell’ambito del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo socializza la produzione ma può farlo solo fino ad un certo punto e comunque in maniera profondamente antagonistica. “Il modo di appropriazione capitalistico che si genera dal modo di produzione capitalistico, e perciò la proprietà privata capitalistica” afferma Marx “sono la prima negazione della proprietà privata individuale, basata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la sua negazione. E’ la negazione della negazione. Essa ristabilisce non la proprietà privata, ma al contrario la proprietà individuale basata sulla conquista dell’età del capitale, sulla cooperazione e sul possesso collettivo del suolo e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stessi” (3).
All’alba della storia esiste una società armonica ma povera. Ad essa seguono varie forme di società antagonistiche che hanno il loro culmine nella società capitalistica; in essa trionfano l’atomismo individualistico e lo sfruttamento. La stessa società capitalistica sviluppa però, a modo suo, la socializzazione della produzione e la sviluppa sino ad un punto tale che essa diviene incompatibile con i rapporti di produzione capitalistici. La soluzione di questa “contraddizione” è il comunismo che ristabilisce la originaria unità ma in forma diversa; si tratta di una unità che si basa non sulla miseria e su un rapporto semi animale dell’uomo con la natura ma sulle conquiste, grandi conquiste, che il modo di produzione capitalistico lascerà in dote al genere umano, soprattutto su uno straordinario sviluppo delle forze produttive sociali. Dalla unità si torna all’unità su una base nuova e più ampia. Bastano queste poche considerazioni per rendersi conto di quanto Marx sia debitore nei confronti di Hegel.

Si sente dire, meglio, si diceva, a volte, che il marxismo è una scienza. Non è il caso di ricordare qui i molti marxisti, o presunti tali, che non sono stati o non sono d’accordo con una simile definizione (basti pensare agli esponenti della scuola di Francoforte). E’ certo tuttavia che Marx, e, ancora più di lui Engels, erano sicuri di aver edificato il loro edificio teorico-pratico sulle solide basi del sapere scientifico. E’ grazie al marxismo che il comunismo cessa di essere un utopico ideale cui da sempre aspirano gli esseri umani per diventare una necessità storica. Non a caso Engels scrisse un opuscolo intitolato appunto: “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”.
Ma è fondata tale pretesa del marxismo? La scienza, quella vera, si basa su almeno due principi fondamentali. Innanzitutto la scienza non fa profezie ma previsioni, previsioni che l’esperienza può sempre smentire. Una scienza che pretendesse di prevedere con certezza quale sarà il corso storico nei prossimi cento anni non meriterebbe il nome di scienza. Tutte le teorie scientifiche sono vere fino a prova contraria. Nelle scienze sociali poi i vincoli al potere di previsione sono ancora maggiori e questo per il semplice fatto che tali scienze devono tenere conto di quel fattore spesso imponderabile che sono le scelte degli esseri umani. La scienza economica ad esempio non dice: il futuro sarà così e così, dice: il futuro sarà così se si fa X, sarà invece diverso se si fa Y. Se le banche centrali aumentano i tassi si avranno più difficoltà per lo sviluppo di produzione ed occupazione, se li abbassano troppo potrebbero manifestarsi tensioni inflattive. Marx invece si è avventurato in previsioni che andavano ben oltre i poteri di una scienza sociale rigorosa ed il marxismo a lui successivo ha fatto anche di peggio: ha continuato a ritenere valido l’essenziale della dottrina di Marx anche dopo che essa aveva ricevuto smentite sempre più eclatanti dal reale andamento degli eventi storico sociali. Marx parlava di contrasto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione borghesi. Ne parlava nel 1857, quando non c’erano aerei e viaggi nello spazio, PC e internet, biotecnologie e trapianti di organi. Oggi qualche marxista parla negli stessi termini. Non che le conquiste scientifiche contemporanee siano prive di rischi, figuriamoci, una cosa però è discutere di questi rischi e valutarli oggettivamente, altra è cianciare di stallo nello sviluppo delle forze produttive. Tale stallo in realtà si è verificato non nei paesi capitalisticamente sviluppati me negli sventurati paesi che hanno fatto l’esperienza del comunismo reale.
In secondo luogo la scienza distingue fra fatti e valori. Se il tale fenomeno ha le tali caratteristiche esse non potranno mai essere negate solo perché non ci piacciono. Se nella natura umana esistono istinti aggressivi non si potrà dire che questo non è vero perché la cosa disturba le nostre concezioni metafisiche. Se i rapporti fra animali, e in una certa misura anche fra gli uomini, si basano sulla lotta per l’esistenza non si potrà negare questo fatto in base alla considerazione che questa sarebbe una concezione “razzista”. Certo, uno scienziato ha dei valori, e compie scelte di valore, ma non piega a queste i risultati delle sue analisi scientifiche. Lo scienziato cercherà di mettere in atto i suoi valori tenendo conto dei risultati della ricerca scientifica ma non sacrificherà a quelli il rigore di questa..
Il marxismo, con tutta evidenza non rispetta questa impostazione. Il comunismo è per Marx un valore e nel contempo il risultato inevitabile del corso storico, è un valore che emerge dal divenire dei fatti. E’ qualcosa che va perseguito in quanto tale, un “dover essere” da realizzare e nel contempo un “essere” la cui necessità va analizzata come si potrebbe analizzare un’eclissi di sole. Marx era già comunista prima di “scoprire” l’inevitabilità storica del comunismo, il Marx politico lotta per realizzare ciò che il Marx scienziato scopre essere inevitabile. Non si tratta di un problema da poco.

Ma esiste un altro aspetto della dialettica marxiana che rende molto difficile l’assimilazione di questa alla scienza. Per Marx la rottura della comunità organica e la nascita di formazioni sociali antagoniste segna anche la frattura dell’uomo con se stesso, la separazione fra l’essenza e l’esistenza umane. Nella società di classe ed in maniera particolare nella società capitalistica l’uomo esce da se stesso, si aliena. L’uomo che vive nella società di classe non è in senso autentico un uomo. E’ un uomo che ha perso le sue caratteristiche umane essenziali. Non si tratta, si badi bene, di un uomo oppresso, sfruttato. Un uomo sfruttato, oppresso, ridotto in schiavitù continua ad essere un uomo, anzi, si può ridurlo in schiavitù precisamente perché è, o è in grado di essere, un uomo libero. L’uomo alienato è altra cosa: si tratta di un essere scisso in se stesso, un ente che è altro da se, un non-uomo. Solo nel comunismo sarà possibile la ricomposizione armonica della natura umana, l’uomo si lascerà alle spalle il suo penoso stato di alienazione e tornerà ad essere davvero umano. Nei “Manoscritti economico filosofici” il giovane Marx scrive: “Il comunismo sa già di essere la reintegrazione o il ritorno dell’uomo a se stesso, la soppressione dell’autoestraneazione dell’uomo”(4) e più avanti chiarisce ancor meglio lo stesso concetto: “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per se, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi” (5).
Molti critici hanno sostenuto che le tesi esposte nei “manoscritti” del ’44 rappresentano solo una fase nella evoluzione del pensiero di Marx, una sorta di civetteria hegeliana che il Marx maturo avrebbe abbandonato. Ora, è certo che il Marx maturo, il Marx del “Capitale” per intenderci, dà, o cerca di dare, alla sua opera un carattere più marcatamente scientifico. Il Marx maturo si appassiona allo studio dell’economia politica, dedica più tempo a Smith e a Ricardo che non ad Hegel. Tuttavia la dialettica e la tematica della alienazione sono presenti anche nell’opera matura di Marx, nello stesso “Capitale”.
A questo proposito è di fondamentale importanza la lettura del celebre paragrafo del primo libro del “Capitale” intitolata: “il carattere di feticcio della merce e il suo segreto”. La produzione, sostiene Marx, è un fatto essenzialmente sociale. Gli esseri umani producono cooperando, dividendo fra loro compiti e funzioni, distribuendo ciò che hanno prodotto. In una società non conflittuale o anche in una società conflittuale di tipo non capitalistico questo carattere sociale della produzione appare immediatamente evidente. In una associazione di uomini liberi afferma Marx, “che lavorino con mezzi di produzione comuni e che impieghino con coscienza le loro molte forze lavorative individuali come un’unica forza lavorativa sociale (..) il prodotto complessivo è un prodotto sociale. Una parte a sua volta occorre come mezzo di produzione e rimane sociale, un’altra parte è consumata come mezzo di sussistenza dai componenti dell’associazione, perciò deve essere distribuita fra essi (..) I rapporti sociali degli uomini con i loro lavori e con i prodotti del loro lavoro restano qui semplici e chiari” (6).
Nella società capitalistica le cose sono radicalmente diverse. Qui ogni produttore opera per proprio conto, produce beni che scambiandosi sul mercato diventano merci che solo sul mercato troveranno (o potranno trovare) un acquirente. Il valore di scambio qui è nettamente scisso dal valore d’uso, la produzione assume carattere sociale non immediatamente ma tramite la mediazione del mercato. Sono le leggi astratte del mercato a determinare come verrà distribuita la produzione sociale, cosa, quanto e come si deve produrre. Ciò che in altre società è il risultato di scelte coscienti diventa qui la conseguenza dell’operare cieco di forze impersonali. Il prodotto del lavoro si distacca e si contrappone qui all’uomo, acquista una sua autonomia ed opera per proprio conto. Ma siccome l’uomo realizza nel lavoro la sua essenza umana questa estraniazione del prodotto del lavoro dall’uomo è estraniazione dall’uomo dell’essenza umana. La merce da prodotto del lavoro sociale umana diventa una cosa animata, un ente indipendente. Un feticcio.
“Il segreto della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l’immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose e perciò ridà anche l’immagine del rapporto sociale fra i produttori e il lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale fra oggetti che esista al di fuori di loro. I prodotti del lavoro, tramite questo quid pro quo divengono merci, cose sensibilmente soprasensibili, ossia cose sociali” (7)
Il prodotto del lavoro diventando merce, diventa una cosa sociale, autonoma e contrapposta all’uomo, una cosa che vive di vita propria “Quello che qui prende per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è solamente il determinato rapporto sociale che esiste fra gli stessi uomini (..) Questo è quel che io chiamo feticismo, che si attacca ai prodotti del lavoro quando vengono prodotti come merci e che perciò è indisgiungibile dalla produzione di merci” (8). Non si tratta, si badi bene, di una semplice illusione. Nella società capitalistica questa autonomizzazione del prodotto del lavoro dal lavoratore è un fatto reale, la società borghese è realmente il regno della alienazione, dei rapporti umani fra cose e dei rapporti cosali fra gli uomini: “I rapporti privati si manifestano in effetti come articolazioni del lavoro complessivo sociale tramite i rapporti in cui lo scambio pone i prodotti del lavoro e, per mezzo di questi, i produttori. A questi ultimi perciò le relazioni dei loro lavori privati si manifestano come quel che sono, ossia non come rapporti direttamente sociali tra persone nei loro stessi lavori ma anzi come rapporti di cose tra persone e rapporti sociali fra cose” (9).
Le conclusioni come si vede sono simili a quelle dei manoscritti del ’44. La società borghese è il regno della alienazione, della riduzione a cosa dell’uomo e dell’innalzamento a rapporto sociale dei rapporti fra cose.

E' abbastanza chiaro come le concezioni appena esposte non abbiano nulla a che vedere con la scienza. Per la scienza non esistono realtà rovesciate o enti negativi. La medicina e la psicologia studiano, ad esempio, l'ente “uomo” quale positivo oggetto di analisi. Nulla è tanto estraneo ai loro procedimenti quanto l'affermazione che tale ente avrebbe “fuori di se” la propria “essenza”. E la scienza economica, per fare un altro esempio, studia come si formano i prezzi di quelle strane cose che sono le merci, ma a nessun economista verrebbe in mente di considerare "rapporti umani fra cose" il variare delle ragioni di scambio fra  automobili, tavoli e sedie.
Marx, da buon hegeliano, dimostra anche nella sua opera scientificamente più significativa di essere letteralmente ossessionato dal desiderio di riportare tutto ad unità. Certo, in una società di mercato la produzione non è immediatamente finalizzata al consumo, si produce per vendere e molto spesso (anzi, quasi sempre) non si sa a chi si venderanno i prodotti del proprio lavoro. Questo vuol dire che le merci diventano “persone” o che vivono di vita propria? No, ovviamente. Significa solo che in una società di mercato il passaggio dalla produzione al consumo è molto più mediato e complicato che non in società arcaiche in cui il carattere della produzione è immediatamente sociale, società per le quali tra l’altro Marx non ha troppe simpatie. Nelle società di mercato si producono valori di scambio ma il valore di scambio può davvero realizzarsi solo se diventa valore d’uso. E’ tramite lo scambio che le merci come valori d’uso possono raggiungere una massa enorme di consumatori e contribuire all’innalzamento del tenore di vita complessivo. Le società di mercato sono società aperte, basate sulla autonomia dei singoli. Certe società possono non piacere ma si tratta di società in cui l’uomo realizza alcune sue fondamentali aspirazioni. Farle passare per società in cui il rapporto fra le cose sostituisce il rapporto fra gli uomini è solo un gioco di prestigio dialettico.

Considerazioni simili possono farsi sulla avversione di Marx verso le leggi impersonali che regolano i rapporti sociali in una società di mercato. Queste leggi impersonali sono la conseguenza diretta del fatto che le fondamentali scelte inerenti la produzione ed il consumo in una società di mercato sono lasciate alla discrezione dei singoli. Sono io che scelgo cosa comprare, che lavoro fare, quanto consumare e quanto risparmiare, quanto ed in cosa investire. Se tutti i consumatori comprano il bene X il suo prezzo aumenterà, se tutti vogliono fare un certo lavoro e non un altro si avrà eccedenza di forza lavoro in un ramo dell’economia e deficienza in una altro, con conseguenze sul livello dei salari. Marx detesta questo stato di cose, per lui deve essere la comunità a decidere cosa si deve consumare e cosa si deve produrre, se questo non avviene si diventa schiavi delle cose e delle loro relazioni impersonali. Ma in una società in cui le scelte produttive siano sottratte ai singoli ed affidate ad una autorità pianificatoria, eventualmente anche democratica, il livello delle libertà individuali è destinato a contrarsi spaventosamente e questo porta prima o poi alla distruzione della stessa democrazia politica. Se io desidero sciare e la maggioranza dei “lavoratori associati” decide che sciare è una attività da “piccolo borghesi” e che quindi non si devono produrre sci potrò mai soddisfare il mio desiderio? E se desidero fare il poeta e la maggioranza dei “lavoratori associati” stabilisce che alla società servono ingegneri cosa farò? L’uomo può soddisfare la grande maggioranza dei propri desideri e delle proprie aspirazioni solo tramite il possesso di certi beni materiali. Chi ha il potere di decidere cosa e quanto produrre ha il potere di decidere quali devono essere i bisogni e le aspirazioni che gli esseri umani possono soddisfare e quali no. Non è affatto un caso che le teorizzazioni marxiane sulla società armonica ed integrata si siano tradotte nella pratica in forme spaventose di totalitarismo. Le leggi impersonali del mercato pongono vincoli e condizioni all’operare degli esseri umani e richiedono che la politica intervenga per porre freno a situazioni critiche che spesso possono sorgere in conseguenza del loro funzionamento spontaneo. Esse però sono compatibili con la libertà dei singoli e la democrazia politica e si sono rivelate storicamente un poderoso strumento atto ad incrementare lo sviluppo delle forze produttive ed il benessere sociale, cosa che Marx stesso riconosce. Le leggi “personali” invece, cioè la pretesa di stabilire d’imperio natura, fini ed obiettivi della produzione e del consumo sono, sia in linea teorica che pratica, in contrasto con la libertà dei singoli, la democrazia politica e lo sviluppo economico. La storia è stata su questo estremamente chiara.

In Marx convivono tre esigenze che solo faticosamente possono evitare di entrare in contraddizione. In primo luogo Marx è un politico comunista, fermamente convinto che il comunismo rappresenti la più alta forma di sviluppo dell’uomo e della sua libertà. In secondo luogo Marx è un filosofo fortemente influenzato dall’opera di Hegel. Come filosofo hegeliano Marx fa propria la concezione della storia tesa alla realizzazione di un fine ad essa immanente, fine che coincide col comunismo. Per Marx però l’essere sociale determina la coscienza degli uomini, e gli uomini vivono oggi nella società borghese. La coscienza degli esseri umani non può andare oltre l’orizzonte borghese. Gli operai in carne ed ossa non sognano il comunismo, vogliono solo vendere a caro prezzo la loro forza lavoro. Contrariamente ai suoi tardi epigoni Marx non disprezza l’uomo di oggi, l’uomo alienato, non comunista; sa che la rivoluzione può scoppiare solo se i bisogni di questo ente, di questo uomo alienato e deforme, non potranno essere soddisfatti nella società borghese. Il comunismo è la fine del lavoro salariato, non si identifica certo con più salario e meno orario, ma la rivoluzione può scoppiare solo se la società borghese si rivela incapace di garantire ai lavoratori più salario e meno orario. Per questo Marx è, o cerca di essere, anche scienziato. Studia con passione l’economia politica, esamina le possibili cause di crisi del sistema, profetizza lo scontro fra sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione capitalistici. Il Marx scienziato esamina uno specifico modo di produzione, cerca di scoprire le leggi del suo sviluppo e del suo declino, lo fa perché è convinto che solo questo declino può innescare l’esplosione rivoluzionaria. Purtroppo però il Marx politico ed il Marx filosofo hanno assai spesso la meglio sul Marx scienziato. La visione globale del corso storico e del suo fine comunista prevale su e condiziona la analisi scientifica del modo di produzione capitalistico, né potrebbe essere diversamente visto che in Marx l’analisi scientifica ha precisamente questo compito: scoprire ed analizzare le condizioni del crollo del capitalismo e quindi della affermazione del comunismo

Marx è stato un grande pensatore. Con lui il momento economico e produttivo della natura e della attività umane acquistano quella dignità che la gran parte della tradizione filosofica gli aveva negato. L’uomo di Marx non è puro pensiero, non disprezza i beni materiali, vive nella, ed è influenzato dalla, società, e la società è anche scambio, divisione del lavoro, produzione e consumo di beni economici. Partendo da queste posizioni del tutto condivisibili Marx, condizionato fortemente dalla sua impostazione hegeliana, tende però ad unificare tutto. L’indubbia importanza del momento economico-produttivo nella vita dell’uomo lo spinge a sottovalutare il pensiero e la sua autonomia rispetto all’essere sociale. L’attesa escatologica del comunismo viene incorporata nella storia come realizzazione di un fine immanente ad essa, l’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico diventa il mezzo per risolvere il problema della possibilità di fuoriuscita dallo stesso. Partito come sistema critico il marxismo si trasforma così in un sistema totalizzante ed onnicomprensivo, una sorta di religione mondana. Una religione con i suoi santi ed i suoi eretici, i suoi eroismi ed i suoi crimini, i suoi tribunali dell’inquisizione ed i suoi roghi; una religione con le sue guerre di religione e le sue vittime. Innumerevoli vittime che nessuna delle religioni intolleranti del passato ha mai prodotto. Marx merita ancora di venire letto e studiato, ma anche severamente criticato. Non certo di venire santificato.





Note

1) Karl Marx prefazione a “Per la critica dell’economia politica”. Editori Riuniti 1969. pag. 5

2) Ibidem pag. 6

3) K: Marx: Il Capitale. Libro primo, parte seconda. Avanzino e Torraca. 1965. pag. 546

4) Karl Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 110-111

5) Ibidem pag. 111

6) Karl Marx: Il Capitale. Avanzino e Torraca 1965, pag 77 sottolineature di Marx

7) K Marx. op. citata pag. 69

8) Ibidem pag. 69

9) Ibidem pag. 70. Sottolineature mie