lunedì 12 luglio 2021

SESSO O GENERE?

 

Diritti umani?

Per il signor Alessandro Zan e per il suo amico Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, cambiare sesso è un “diritto umano”.
“Tutti noi abbiamo un'identità di genere, la percezione del nostro genere, ma qualcuno già da bambino lo percepisce diverso da quello biologico. E' un diritto umano”. Così parlò Alessandro Zan, e Fedez è ovviamente d’accordo.
Da una parte c’è il genere, dall’altra il “sesso biologico”, quella cosuccia che differenzia fisicamente, e non solo, i maschi dalle femmine, che fa si che le donne, a differenza degli uomini, restino incinte e partoriscano, abbiano il ciclo mestruale, allattino i figli. Si tratta di particolari di scarsa rilevanza, a parere del signor Zan e del suo amico Fedez. A contare davvero non è il “sesso biologico”, è il “genere” cioè il sesso percepito. Il “genere” è costrutto culturale, scelta, ma è soprattutto un sentire, un percepire la propria sessualità. E’ possibile essere maschi ma vivere male questo essere, quindi si deve avere il diritto di modificare il proprio sesso “biologico”. Si tratta di un diritto, meglio, di un diritto fondamentale, un diritto umano, come quelli alla vita, alla liberà, alla sicurezza.
Lo dico subito, onde evitare fraintendimenti. Penso che se una persona si trova male nel suo sesso abbia diritto di cercare di cambiarlo. Chi si sente diverso ha diritto di esserlo senza dover per questo subire violenze, insulti o ingiuste discriminazioni. Se questo fosse il senso delle affermazioni del signor Zan non si potrebbe che essere d’accordo con lui. Ma il senso è ben diverso, e del tutto inaccettabile.

La prima domanda da porsi è la seguente: il diritto di cercare di cambiare il proprio sesso può esser definito diritto umano?
Non tutti i diritti si possono infatti definire “umani”. Si definiscono umani solo i diritti fondamentali, quelli da cui gli altri derivano, che informano di se gli ordinamenti giuridici ed influenzano nel profondo la vita di uomini e donne, in tutti i suoi aspetti. Il diritto alla libertà o alla sicurezza sono di questo tipo, lo è il diritto a cercare di modificate il proprio sesso? Con tutta evidenza NO. Se lo fosse dovremmo definire umani, cioè basilari, diritti come quello di scegliersi il lavoro ed il luogo di residenza, di frequentare una palestra o fare escursioni in montagna. Tutti questi sono diritti derivati, particolarizzazioni del diritto fondamentale alla libertà, definirli “diritti umani” è una mera sciocchezza. Se il diritto di cui parla Zan fosse solo quello di cercare di cambiar sesso quando non si è “soddisfatti” della propria sessualità ci troveremmo di fronte ad un diritto derivato non troppo diverso da quelli che si sono appena elencati, da tutelare ma che solo persone incredibilmente sciocche potrebbero definire “diritto umano”.
Infatti ciò di cui parla Zan NON è un diritto di questo genere. Zan e con lui i teorici del gender non mirano a tutelare i diritti di minoranze sessuali, mirano a ridefinire il concetto stesso di sesso. Non a caso non usano questa parola o se la usano le affiancano sempre l’aggettivo “biologico”, ad indicare che si tratta solo di una variante inessenziale della sessualità. Al posto della parola “sesso” che potrebbe domani fare la stessa fine di altre parole che i guru del politicamente corretto hanno espulso dal vocabolario, usano la parola “genere”. E il genere, lo si è visto, è il sesso percepito, la sensazione del sesso. Il sesso non è “quella cosa li”: una caratteristica naturale fondamentale degli esseri umani e degli animali superiori, non è collegato alla riproduzione della specie, non è componente essenziale del fisico ed in parte anche della psicologia di uomini e donne. No, il sesso è un sentire transitorio, una scelta fra le altre e, come molte altre, reversibile. Oggi sono maschio, domani femmina, dopo domani qualche altra cosa. Il sesso staccato dalla identità, dalla personalità, mero fluire eracliteo. Non si tratta di riconoscere e tutelare chi intende in questo modo la propria sessualità, si tratta di abbandonare la concezione del sesso che caratterizza da millenni il genere umano e, cosa se possibile ancora più grave, di trasformare in reato qualsiasi critica a questo concetto di sessualità. I teorici del gender si sono infatti inventati un nuovo tipo di reato: l’omofobia, in base al quale pretendono di condannare penalmente chi non condivide le loro idee. Non chi aggredisce o insulta qualcuno per le sue preferenze sessuali, questo è fuori discussione, chi ritiene che il sesso vero sia quello “biologico” e che il “genere” sia solo un costrutto culturale.

E’ chiaro che se di una ridefinizione di questo tipo si tratta, questa implica una trasformazione profonda dell’ordinamento giuridico, di usi, costumi, linguaggio, modi di rapportarsi fra loro delle persone. Non occorre trasformare il mondo per tutelare i diritti degli omosessuali e di quanti intendono modificare il proprio sesso, ma una ridefinizione del sesso nel senso indicato dai teorici del gender implica modifiche profonde e onnicomprensive.
Per fare solo alcuni esempi, i teorici del gender staccano la sessualità dalla riproduzione della specie, questo implica non solo il matrimonio e le adozioni omosessuali ma anche la legalizzazione di una pratica obbrobriosa e degradante per le donne come quella dell’utero in affitto. A sua volta questa porta a degenerazioni che è lecito definire eugenetiche. Si sceglie che tipo di bambino si intende avere: Tizio inietta il suo seme in una donna che abbia certe caratteristiche fisiche perché vuole che suo figlio abbia quelle caratteristiche e non altre. Molto spesso un’altra donna ancora porterà a termine la gravidanza. Il nascituro avrà in questo modo un padre e due madri, ma non c’è da preoccuparsi: appena nato sarà strappato a chi lo ha partorito e consegnato ai suoi felici “genitori” gender. I bambini vengono ad essere “costruiti” per assecondare i gusti degli adulti, la riproduzione diventa assai simile alla produzione; gli esseri umani diventano il risultato di una attività non troppo diversa da quella con cui si costruiscono case, automobili o televisori.
Continuiamo: se il sesso viene sostituito dal genere che fine farà mai lo sport, quello femminile soprattutto? Oggi le gare sportive si dividono in maschili e femminili e il criterio di distinzione fra queste è il sesso “biologico”, per usare la sprezzante terminologia gender. Ma se il sesso viene sostituito dalla percezione soggettiva del sesso come distinguere le competizioni maschili da quelle femminili? Sta già avvenendo: molti transgender che hanno conservato una struttura muscolare maschile partecipano a competizioni femminili e, guarda caso, vincono. Non ci vuole molto per comprendere che un simile stato di cose porterà alla fine dello sport femminile. Situazioni analoghe, a volte ridicole, altre drammatiche si presentano in molteplici aspetti della vita sociale. Carcerati maschi che “si sentono” femmine chiedono di poter scontar la pena in carceri femminili, con le conseguenze che è facile immaginare...
Conseguenze non meno gravi si hanno sul linguaggio. Oggi questo è strutturato per lo più in maschile e femminile. In una monarchia si avrà un re o una regina, a seconda del sesso di chi siede al trono. Ma questo uso del linguaggio fa riferimento al detestato “sesso biologico”. Se questo viene sostituito dal genere, cioè dalla percezione soggettiva del sesso, le cose cambiano radicalmente. Il sesso è fluido, cangiante. Oggi sono maschio, domani femmina, dopodomani… chissà… Parlare di re e di regine diventa in questo modo “discriminatorio”, “sessista”. I nomi devono diventare asessuati e per farlo li si fa terminare con un bell’asterisco. Il re diventa r* e stessa cosa capita alla regina. Il maestro diventa maestr*, la maestra idem. Qualcuno crede che con un simile linguaggio potrà continuare ad esistere una letteratura? Non scherziamo…
Infine la cosa forse più importante di tutte. Il reato di “omofobia” trasforma di fatto in crimine un sentimento, la paura, e fa si che la legge punisca con maggior severità le aggressioni di cui sono vittime le persone che hanno certe preferenze sessuali. In questo modo si viola il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, con conseguenze potenzialmente gravissime.

Non dilunghiamoci oltre: la sostituzione del genere al sesso ha conseguenze di enorme portata non solo sugli ordinamenti giuridici ma su molti e basilari aspetti della vita umana, in questo senso è simile ai fondamentali diritti umani, ma non di diritto umano si tratta. Si tratta dell’imposizione di una nuova concezione del sesso che si cerca di spacciare come difesa di un diritto. E mentre è sbagliato, non democratico ed illiberale opporsi ad un diritto è del tutto lecito, oserei dire doveroso, opporsi alla concezione del sesso che i teorici del gender cercano di imporre alle società occidentali.
Tizio ha diritto, se crede, di cercare di cambiar sesso, ma non ha il diritto di trasformare la società per adeguarla al suo modo di vivere la sessualità. Non ha diritto all’utero in affitto, né di negare ai bambini il diritto di avere un padre ed una madre e meno ancora ha il diritto di imporre ai bambini dei genitori il cui sesso varia da un anno o, chissà, da un mese all’altro. Meno che mai può spacciare per “diritto” la intollerabile violenza consistente nel bloccare lo sviluppo sessuale dei bambini di modo che questi, giunti alla maggiore età, possano “scegliere” il proprio sesso. Non ha il diritto di gareggiare in competizioni femminili pur conservando una struttura muscolare maschile, né di distruggere il linguaggio e con questo la possibilità stessa di una letteratura. Non ha il diritto di censurare o addirittura di sbattere in galera chi non concorda con la sua scelta. In una parola, non ha diritto al nichilismo, per il semplice motivo che il nichilismo non è un diritto. E’ invece un diritto, e forse anche un dovere, opporsi al nichilismo, con tutte le forze, senza se e senza ma.

Il rifiuto del dato, uomo e natura

La pretesa di contrapporre il genere a quello che si definisce “sesso biologico”, in realtà il sesso tout court, l’idea cioè che il sesso, ridenominato “genere”, sia qualcosa di fluido, malleabile all’infinito altro non è che la riproposizione in chiave politicamente corretta di una aspirazione da tempo presente nel pensiero occidentale: il rifiuto del dato.
Il dato è ciò di cui si può solo dire: è così e così. Non lo si può dimostrare perché è il presupposto di ogni dimostrazione, non è il risultato della nostra azione, non si adegua al nostro volere. C’è, esiste ed esistendo ci condiziona profondamente, e basta.
Noi tutti siamo esseri dati. Io sono nato in un certo paese, in una certa epoca storica, con certe caratteristiche, sono un essere dato
. Ed è dato il mondo che mi circonda e le leggi che lo regolano. Certo, posso cambiare alcuni aspetti dati del mondo ed anche di me stesso, ma solo partendo da altri, che devo accettare come dati. Non mi auto costruisco, non sono causa di me stesso, non posso esserlo.
L’idea di un ente che crea se stesso prima ancora di essere di impossibile applicazione empirica si rivela logicamente contraddittoria. Per poter essere causa di se stesso un ente dove già esistere, ma la sua esistenza dipende dalla capacità di autocrearsi; il concetto di esistenza rimanda a quello di causa e questo rimanda a quello: il tipico circolo vizioso. Non a caso di un solo ente si dice che è “causa sui”: Dio, ma è proprio questa caratteristica della divinità a risultare incomprensibile per l’umana ragione. Si può credere per fede, non comprendere razionalmente che Dio sia “causa sui”. In ogni caso una simile caratteristica riguarda solo Dio. L’uomo di certo non si crea da solo, è, inesorabilmente, un essere dato.
I riformatori radicali del mondo però non amano il dato, lo considerano un limite insopportabile alla libertà. Non alla libertà liberale, alla libertà assoluta, priva di condizionamenti cui gli ultra radicali aspirano.
La libertà liberale non ha nulla a che vedere con la l’idea faustiana dell’uomo che crea se stesso. Per il liberalismo la libertà è sempre libertà di uomini empirici, dati, che vivono in un mondo dato che li limita. Proprio per questo i riformatori radicali, i rivoluzionari, disprezzano la libertà liberale, sognano una trasfigurazione totale del mondo e dell’uomo, l’assolutamente nuovo che faccia piazza pulita di tutto il passato. Questa aspirazione alla palingenesi rivoluzionaria, l’evento traumatico che creerà l’uomo nuovo e la società perfetta è precisamente una rivolta contro il dato. Il dato ci ricorda che la perfezione è fuori dalla nostra portata, che il nostro potere di modificare noi stessi ed il mondo è sempre limitato, parziale, spesso molto parziale. Tanto basta ai fanatici dell’assoluto per odiarlo.

Malgrado gli strilli e le proteste dei fanatici tener conto del dato è l’unico modo concesso all’uomo per agire in maniera positiva, progredire sul serio. L’uomo non può creare la natura, meno che mai
può creare se stesso. Può modificare la natura, compresa, in piccola parte, la propria, solo obbedendo alle leggi che la regolano.
Solo per esemplificare, l’uomo per vivere deve mangiare, questo è vero oggi come tremila anni fa. La differenza fra la situazione di oggi e quella di tremila anni fa sta nella abbondanza di cibo oggi a disposizione di una parte consistente del genere umano, nella sua qualità, nel fatto che le diete di oggi sono molto più salubri, equilibrate e gustose di quelle di tre millenni fa. In questo c’è stato un grande progresso nel campo dell’alimentazione. A nessuno è però mai venuta in mente l’idea di modificare la natura umana in maniera tale che gli uomini non siano più condizionati dall’istinto della fame. Quello che accade per il cibo accade in tutti i campi dello sviluppo. Per millenni gli uomini non hanno potuto volare, oggi possono farlo non perché siano stati capaci di modificare la loro natura, “autocostruirsi” e munirsi di ali, ma perché sfruttando le leggi naturali hanno costruito macchine in grado di levarsi in volo. Considerazioni simili possono farsi per un numero elevatissimo di attività umane. Sempre, in tutti i campi quando agisce positivamente e modifica in positivo il mondo l’uomo tiene conto del dato, rispetta ed usa le leggi di natura. Quando cerca di ignorarle, o peggio di rivoltarglisi contro, provoca solo disastri.
Nulla del nostro essere dati è tanto importante quanto la nostra identità sessuale. Quando nasciamo possiamo essere o non essere sani, belli o robusti, ma di certo, a parte un numero minimo di eccezioni che restano tali, nasciamo maschi o femmine. Se non affetti da gravi patologie nasciamo col nostro sesso, l’apparato riproduttivo è parte integrante de nostro corpo, come lo sono quello respiratorio o digerente. Piaccia o non piaccia ai teorici del gender non esiste la “sessualità biologica”, esiste la sessualità e basta. E basta guardare il corpo di un uomo e quello di una donna per constatare quanto questa sia rilevante nel determinare la nostra identità.

I filosofi del gender cercano di svalorizzare quella che definiscono “sessualità biologica”, cioè la sessualità reale degli esseri umani, quella caratterizzata dalla polarità “maschio – femmina”, e cercano di contrapporre a questa la fluidità del “genere”, la sessualità percepita. Però... però anche gli omosessuali, i trans ed i cosiddetti “non binari”, coloro cioè che oscillano di continuo fra un sesso e l’altro, non escono da quello che i gender definiscono “sesso biologico”. Un omosessuale è una persona che prova attrazione per persone del suo stesso sesso, un trans o un “non binario” sono persone che, non soddisfatte del proprio sesso, vorrebbero cambiarlo; tutte restano di fatto all’interno della polarità “maschio – femmina”, semplicemente assumono nei confronti di questa polarità una posizione diversa da quella largamente maggioritaria fra gli esseri umani. Dalla sessualità non si esce, non si può uscire perché su tratta di un dato naturale originario. Non esiste il genere, il sesso come “percezione”, esiste il sesso che alcuni di noi possono percepire diversamente da altri.
I teorici del gender invece ritengono che il sesso, da loro definito “biologico” sia qualcosa di inessenziale, un mero momento del fluire del sesso percepito. Per loro una eventuale tensione fra la fisicità del sesso e il modo in cui questa viene vissuta non è
sintomo di un conflitto interno da cercare di superare, magari, al limite, con procedure di cambiamento di sesso, no, per loro questa è la sessualità “normale”, autentica, talmente normale ed autentica che si può cercare di “spiegarla”, di fatto ad imporla, anche ai bambini; c’è chi giunge addirittura a proporre che lo sviluppo sessuale di questi venga bloccato in attesa che, divenuti maggiorenni, possano scegliere il proprio sesso. Qui, con tutta evidenza, non siamo di fronte al riconoscimento di rispettabili tensioni e differenze nella sessualità, siamo di fronte a qualcosa di radicalmente diverso: al tentativo di eliminare il dato della sessualità, a fare del sesso un momento dell’autocrearsi dell’uomo. La solita, vecchia, tragica distopia faustiana.

Dal dato non si può uscire, e non solo per evidenti ragioni logiche. Non lo si può fare perché la natura, natura umana compresa, non è plastilina plasmabile all’infinito, è qualcosa di solido, retto da leggi che non è in nostro potere modificare. C’è chi ha cercato di eliminare il dato dal mondo, non c’è riuscito, ovviamente, ma non per questo la sua azione è stata priva di conseguenze, si è limitata ad un innocuo vaneggiamento utopico. I riformatori radicali del mondo non hanno costruito la società e l’uomo perfetti, l’assolutamente nuovo è rimasto fuori dalla loro portata, ma qualcosa di radicalmente nuovo la hanno costruita: le più mostruose tirannidi totalitarie della storia e montagne di cadaveri, un nuovo, terrificante “dato” nel mondo.
I filosofi del “gender” non sembrano in grado di arrivare a tanto, ma di certo la loro pretesa di eliminare dal mondo il dato della sessualita è gravid
a di conseguenze. Ben lungi dal limitarsi a chiedere tutele e rispetto nei confronti delle forme diverse di sessualità, cosa del tutto giusta, costoro pretendono, val la pena di ripeterlo, di ridefinire il sesso e di trasformare la società intera per adeguarla a questa ridefinizione. Le conseguenze di una simile pretesa toccano un po’ tutto: gli ordinamenti legislativi, la scuola, lo sport, i rapporti genitori - figli, il ruolo della scienza, la religione, il linguaggio. E sono tutte conseguenze gravemente negative. La scuola si trasforma in strumento di propaganda gender, la famiglia viene di fatto esautorata da funzioni che in ogni democrazia devono restare di sua competenza, la follia del blocco dello sviluppo sessuale dei bambini colpisce, oltre agli innocenti pargoli, i genitori in quanto questi hanno di più importante. Lo sport femminile di fatto scompare. Il linguaggio viene pervertito in maniera talmente profonda da eliminare la possibilità stessa di una letteratura. Parti fondamentali della dottrina cattolica vengono criminalizzate come “omofobe”. Viene abbandonato il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. La scienza viene spinta ad impegnarsi in imprese che ricordano più le distopie di Huxley che il serio, paziente, lavoro di ricerca. In fondo l’unico modo per mondare il mondo dal dato della sessualità sarebbe quello di “costruire” integralmente, facendo leva su alcuni dati della natura, i bambini in laboratorio, magari liberi dall’infamia originaria del sesso. Chissà, forse un giorno qualcosa di simile potrebbe essere possibile, ma dovrebbe fare i conti con un altro dato, non naturale stavolta. Con quel dato della ragion pratica che Kant chiamava legge morale. Non so se questo interessi ai teorici del gender, di certo riguarda, e molto da vicino, gli esseri umani.
Al di la delle fantasie fantascientifiche, la filosofia gender
contribuisce oggi ad aggravare la crisi di identità dell’occidente, E’ un momento, e certo non di secondaria importanza, della perdita di coesione della nostra civiltà, del trasformarsi dell’occidente in civiltà gassosa, priva di un centro unificante, di valori davvero condivisi. In una parola è il sintomo del crescere del nichilismo. Per questo occorre combatterla, senza il timore di esser considerati “sessisti”. E’ sessista chi incentra sul sesso tutta la propria esistenza, esattamente come è razzista chi fa del colore della pelle la discriminante fra il bene ed il male. In questo senso nessuno è tanto sessista quanto i teorici del gender. Motivo in più per contrastarli, con serietà, senza insulti e violenze, ma con la massima determinazione.

domenica 14 febbraio 2021

SCIENZA E MISTICISMO ECOLOGICO




Dalla critica ideologica alla esaltazione acritica


Chi è, come chi scrive, “diversamente giovane” lo ricorda abbastanza bene. Per almeno un paio di decenni dello scorso secolo la scienza è stata costantemente sul banco degli imputati. Lo era in realtà da molto più tempo: la reazione irrazionalistica contro la scienza inizia col romanticismo e caratterizza, con alcune importanti eccezioni, la filosofia dell’Europa continentale sino ai giorni nostri. Col movimento del ‘68 però quella che era una disputa colta, relativamente lontana dagli interessi delle persone comuni, diventa movimento di massa. Il valore euristico della ricerca scientifica viene contestato non in ristrette dispute filosofiche ma in affollate assemblee studentesche. La scienza non è ricerca del vero ma espressione teorica della alienazione umana. Il capitalismo riduce tutto a quantità, numero, rapporto di scambio. La scienza moderna, la fisica matematica soprattutto, fa la stessa cosa. Costringe la multicolore realtà del mondo in un universo di freddi numeri, aliena la natura da se stessa, esattamente come l’economia di mercato aliena da se stessi gli esseri umani. Tutto è quantità, rapporto di equivalenti. Un mondo a testa in giù caratterizzato, per dirla con Marx, da rapporti “cosali” fra gli uomini e rapporti sociali fra cose.
Marx, a dire il vero, aveva conservato un atteggiamento positivo verso la scienza. Lo sviluppo delle forze produttive che la applicazione della scienza alla tecnica rende possibile dovrebbe assicurare alla futura, perfetta, società comunista la sua indispensabile base materiale. I contestatori degli anni 70 dello scorso secolo rifiutarono simili concezioni. La tecnologia e la scienza su cui questa si basa sono un aspetto del mondo alienato. Dietro agli slogan dei contestatori stavano le teorizzazioni della scuola di Francoforte e quelle di colui che di molti francofortesi fu maestro: Martin Heidegger, che, ironia della sorte, avrebbe aderito al nazismo dal 1933 al 1945. La scienza è alienazione, allontanamento dall’essere, deiezione, tutto meno che cosa positiva, almeno potenzialmente liberatoria.
Gran parte degli attacchi irrazionalistici alla scienza non erano, in realtà, che mistificazioni o svolazzi retorici. L’accusa di ridurre tutto a rapporto quantitativo si basa sulla incomprensione della natura della ricerca scientifica, o sulla confusione fra scienza e scientismo, che è filosofia, non scienza. A parte il fatto che non tutte le scienze sono matematizzate come la fisica, non lo è la medicina, ad esempio, a parte questo “dettaglio”, la scienza matematica getta sul mondo una griglia di relazioni numeriche che ci consentono di meglio comprenderlo, senza annullare per questo il valore, umano prima di tutto, delle qualità sensibili. Il fatto che il suono sia costituito da onde non riduce la “nona” di Beethoven ad insieme di formule matematiche esattamente come la teoria newtoniana dei colori non riduce a corpuscoli la “gioconda”. Allo stesso modo le relazioni quantitative in essere sul mercato non danno vita a “rapporti sociali fra cose e cosali fra uomini”. Dietro alla relazione quantitativa che si esprime nel prezzo stanno i bisogni degli esseri umani. Se Tizio scambia due paia di scarpe con un abito non per questo trasforma abito e scarpe nel numero “due”. Dietro a quel “due” c’è il grado marginale di utilità che per Tizio hanno scarpe ed abito, e questo, il grado marginale di utilità, è un fatto squisitamente umano, riguarda Tizio, i suoi bisogni, la soggettiva scala di valore che egli attribuisce alle cose.
Alla base dell’attacco alla scienza stava quindi il rifiuto romantico di quantità, rigore logico, verifica sperimentale, e stava la pretesa di cogliere l’essenza ultima della realtà col strumenti che poco hanno a che vedere con la faticosa, e sempre soggetta ad errore, ricerca razionale ed empirica. Un’illusione.

Col passare del tempo questa illusione doveva subire un accentuato processo di interna involuzione. La scienza smetteva di essere espressione teorica di un mondo rovesciato per diventare, più prosaicamente, arma ideologica nelle mani della borghesia, poi, in un crescendo di banalizzazione propagandistica, strumento di profitto non tanto della borghesia genericamente intesa quanto delle grandi case farmaceutiche o dell’industria bellica. Nelle teorizzazioni di Beppe Grillo e dei suoi poco intelligenti seguaci gli scienziati diventano i complici di coloro che non esitano a rovinare ambiente e salute degli esseri umani pur di conseguire illimitati profitti. La critica alla scienza perdeva ogni dignità filosofica per diventare propaganda del peggior tipo, se non pura e semplice sequela di idiozie.
Eppure, paradosso dei paradossi, le stesse persone che ieri dicevano simili idiozie, o i figli ed i nipotini teorici di queste, cercano di presentarsi oggi come i più strenui difensori della scienza. Gli stessi che vedevano fino a poco tempo fa nel farmacista un potenziale avvelenatore ora si inchinano di fronte a faraonici comitati tecnico-scientifici. L’oggettività scientifica, fino a ieri irrisa e negata, si trasforma oggi in ridicola certezza.
Nulla di male, si potrebbe dire: è lecito cambiare idea. Certo, è lecito cambiare idea, a condizione che si sottopongano le idee di ieri ad una critica teorica onesta e senza reticenze. Esattamente ciò che certi personaggi si guardano bene dal fare. Fanno invece il contrario. Nel momento stesso in cui confondono verità scientifica e certezza si prostrano di fronte a personaggi che con la scienza non hanno nulla a che vedere. La piccola Greta diventa l’icona di tanti nuovi sedicenti “amici della scienza”. Dietro all’apparente entusiasmo per la scienza si nascondono nuove fughe ideologiche. Per cercare di smascherarne le fallacie val la pena di fare qualche considerazione, ovviamente di modesta portata, su ciò che realmente è la scienza.

La scienza non è democratica… ma è libera

Lo dice spesso e volentieri il professor Roberto Burioni: la scienza non è democratica.
Non dubito della competenza scientifica del professor Burioni
e non mi permetterei mai di discutere con lui di argomenti medico scientifici. La affermazione della non democraticità della scienza non è però essa stessa una affermazione scientifica. I discorsi sulla scienza, il suo status e lo status delle sue teorie non sono a loro volta discorsi scientifici. Li può quindi affrontare anche chi, come me, ha conoscenze scientifiche modeste.
La scienza in effetti non è democratica: non si può che concordare con quanto dice il professor Burioni. Peccato però che si tratti di una affermazione abbastanza ovvia, quasi banale. La scienza non è democratica come non sono democratiche arte e filosofia, tecnologia, musica e letteratura. La scienza non è democratica per il semplice motivo che le teorie scientifiche non si mettono ai voti, mai. Riusciamo ad immaginare una votazione che debba decidere quale fra la teoria della gravitazione di Newton e quella di Einstein sia corretta? O se il sistema di Platone sia da preferire a quello di Aristotele? O se Mozart sia meglio o peggio di Beethoven? Le teorie scientifiche si affermano nelle discussioni razionali e nelle verifiche sperimentali, non nelle campagne elettorali. Volere una scienza “democratica” vuol dire non aver capito cosa sia la scienza e, parimenti, vuol dire non aver capito cosa sia la democrazia. Nelle campagne elettorali si dicono alcune verità e, spesso, molte menzogne, ma non sono in gioco la verità o la falsità, i torti e le ragioni. Non è detto che chi vince le elezioni abbia ragione o che le sue concezioni politiche, la sua visione del mondo siano vere. Le elezioni devono decidere solo chi ha diritto di governare, per un certo periodo di tempo e secondo determinate modalità. Obiettivo di grande importanza, certo, ma che con il vero ed il falso di cui la scienza si occupa non ha praticamente relazione alcuna.
Eppure, nuovo paradosso, i tardivi scopritori del valore della scienza, quelli che ripetono spesso e volentieri che questa “non è democratica”, sono gli stessi che hanno organizzato a suo tempo , e sarebbero pronti ad organizzare ancora, un bel referendum sul nucleare, che partecipano a marce e scioperi contro “l’ingiustizia climatica” o a veglie di preghiera per la salute del ghiacciaio di Planpincieux. Insomma, la scienza non è democratica ma si può decidere ai voti se le centrali nucleari sono sicure o se i problemi ambientali hanno “ingiuste” cause antropiche…

La scienza non è democratica, non può esserlo ed è bene che non lo sia, ma la scienza è libera. Le verità scientifiche si affermano dentro e grazie alla libera discussione razionale, priva di veti, proibizioni e censure. Chiunque ha diritto di elaborare una teoria, anche in netta contraddizione con altre più affermate e nessuno ha diritto di impedire che una simile teoria venga esposta e discussa. Questo non vuol dire, ovviamente, che tutte le teorie scientifiche o presunte tali siano sullo stesso piano, non dà a nessuno il diritto di dire: “c’è libertà di ricerca quindi ciò che dico io, dilettante allo sbaraglio, ha lo stesso valore di ciò che dici tu, nobel per la fisica”. Chi elabora una nuova teoria non può difenderla con lo pseudo argomento secondo cui, siccome c’è libertà di ricerca ogni teoria vale quanto le altre. Deve al contrario portare a sostegno della sua teoria argomentazioni razionali e verifiche sperimentali. Allo stesso modo però chi difende una teoria vecchia ed affermata non può limitarsi a dire: “la mia teoria è vecchia di anni ed ha alle spalle l’approvazione di fior di scienziati, quindi è giusta”. No, chi difende da nuove contestazioni una teoria già affermata deve usare argomenti razionali e, se occorre, nuove verifiche sperimentali per neutralizzarle. Nella scienza il principio di autorità ha la sua importanza ovviamente: non a caso, ad esempio, è vietato l’esercizio abusivo la professione medica, ma non è mai il criterio decisivo per valutare la validità di ipotesi e teorie. Nella scienza non tutto è sullo stesso piano, ma non è l’autorità a stabilire cosa, in ultima istanza, sia accettabile e cosa no. L’ultima parola spetta sempre, per dirla con Galileo, alle “sensate esperienze ed ai corretti ragionamenti”. Né anarchia né dogmatismo quindi, solo libera discussione razionale.

Il principio di autorità, val la pena di ripeterlo, è importante ma non decisivo nella scienza, una teoria non può essere difesa esclusivamente con l’argomento che la comunità scientifica la accetta. Questo però avviene oggi con la teoria del riscaldamento globale di origine antropica. La totalità degli scienziati è d’accordo con questa teoria, affermano spesso molti. Questo argomento però non è corretto. In primo luogo non è vero che tutta o quasi la comunità scientifica accetti la teoria del riscaldamento globale. Praticamente tutti gli scienziati concordano sul fatto che le attività umane hanno, o possono avere, conseguenze negative sull’ambiente, ma questo non vuol dire che concordino con la teoria del riscaldamento globale. L’inquinamento è cosa grave indipendentemente dal fatto che provochi un aumento insostenibile delle temperature. Molti scienziati, per l’Italia valgano i nomi di Zicchicci e Rubbia, non sono affatto d’accordo con i teorici del riscaldamento globale, ma le loro obiezioni non sono quasi mai propagandate dai media. In occasione di un vertice ONU sul clima 500 scienziati hanno inviato una lettera in cui mettevano in guardia dai pericoli del catastrofismo climatico, ma i media non hanno dedicato loro una parola. Inoltre, anche fra i favorevoli alle teorie del riscaldamento globale antropico le posizioni non sono affatto univoche. Quasi nessuno scienziato condivide ad esempio l’ isterismo climatico della piccola Greta, di fronte a cui si prostrano invece i politici; molti ammettono che le attività umane hanno effetti negativi sul clima ma si dividono sulla quantificazione degli stessi. Il quadro insomma è assai più complesso di quanto si cerchi di fare apparire.
Indipendentemente da tutto questo il fatto che la comunità scientifica accetti o meno una teoria non costituisce, in se, una dimostrazione della
sua correttezza. Quando Galileo scrisse il “dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” la maggior parte della comunità scientifica di allora accettava la fisica aristotelica ed il sistema tolemaico. Alcuni, come il grande astronomo danese Tycho Brahe cercavano un compromesso fra geocentrismo ed eliocentrismo, altri, come l’accusatore di Galileo, il cardinale Bellarmino, erano disposti ad accettare l’eliocentrismo solo quale utile espediente per far quadrare i calcoli. Non erano affatto persone rozze ed ignoranti: si trattava di fior di intellettuali amanti della scienza e della filosofia. Erano loro la comunità scientifica. Ma avevano torto.

S
cienza e misticismo ecologico

Possiamo provare, tenendo conto di quanto sinora si è detto, a riassumere in maniera ultra telegrafica quelle che devono essere le caratteristiche basilari di una teoria scientifica.
Per essere considerata scientifica una teoria deve:

1) Essere logicamente coerente,
non deve cioè contenere contraddizioni.
2) Essere empiricamente controllabile.
3)
Fare previsioni che la possano confermare o falsificare. Una teoria scientifica deve dire quali fenomeni devono verificarsi e quali no se essa è vera. Una teoria che risulti vera qualsiasi cosa accada non è scientifica.
4) Essere relativamente semplice. Deve cioè spiegare il maggior numero possibile di fenomeni partendo dal minor numero possibile di presupposti.

La scienza, questo è il senso di quanto appena detto, non arriva mai a conclusioni assolutamente certe. Le verità scientifiche sono tali sino a prova contraria. Nuovi dati empirici, razionalmente discussi ed esaminati, possono mettere in crisi teorie apparentemente “a prova di bomba” o riabilitarne altre che sembravano irrimediabilmente obsolete. La scienza ha a che fare col dato, qualcosa che sta oltre il pensiero e con cui il pensiero deve misurarsi. E ciò che è dato può contraddire qualsiasi raffinatissima costruzione teorica. Se la cosa dispiace a qualcuno non possiamo che dolerci del suo dispiacere.

Val la pena, penso, di usare i 4 punti telegraficamente sopra esposti per valutare la scientificità di alcune mode dei nostri giorni. Tengo a sottolineare la parola mode. Non intendo negare la validità delle problematiche ambientaliste. Nessuna persona ragionevole può essere contraria alla difesa di un bene prezioso come l’ambiente, ciò che è inaccettabile è il misticismo ecologico, cioè la degenerazione ideologica del sano ambientalismo.
Ed ancora, p
arlando di misticismo ecologico non intendo riferirmi alle argomentazioni che gli scienziati fanno sulle problematiche ambientali, ma al modo in cui queste vengono propagandate dai media. Non si tratta un lavoro inutile o di una polemica contro avversari “facili”: il tema principe del misticismo ecologico, quello dei mutamenti climatici di origine antropica, è oggi al centro di una propaganda martellante e su di esso si giocano fondamentali battaglie economiche e politiche. Vedere se il modo in cui questo tema viene presentato alla pubblica opinione ha un qualche legame con la scienza non è perciò una perdita di tempo, al contrario.

Veniamo al punto uno.
E’ assai difficile trovare contraddizioni nelle varie teorie del riscaldamento globale per il semplice motivo che tali teorie, quando vengono presentate alla pubblica opinione, non vengono mai formulate in termini scientificamente rigorosi. Non esiste una legge del riscaldamento globale formulata come la legge di Galileo sulla caduta dei gravi o quella della gravitazione di Newton. Non esistono contraddizioni, o per lo meno io non ne conosco, nelle formulazioni scientifiche relative al riscaldamento globale di origine antropi
ca, ma ne esistono molte nel modo in cui questo viene presentato alla pubblica opinione. Faccio solo un esempio. “Siamo sull’orlo del baratro”, si sente strillare di continuo dai teleschermi. La piccola Greta, sommersa dagli applausi dei politici, ci ha detto che stiamo ormai precipitando nell’abisso. La casa brucia, siamo rovinati. Questo il senso di tanti, continui appelli catastrofistici. E poi, dopo gli strilli, l’indicazione della cura: “dobbiamo a azzerare le emissioni di CO2 in meno di 10 anni”. Che bello! Che sublime coerenza!
Se viaggio in auto a 100 chilometri orari e mi trovo a dieci metri da un burrone, posso dire che eviterò il pericolo fermandomi fra 100 metri? O riducendo la velocità da 100 a 40 chilometri orari? No ovviamente, eppure proprio questo affermano i seguaci della piccola Greta (e si tratta di leader di partito, capi di stato). Se davvero siamo ad un centimetro dall’abisso dobbiamo azzerare le emissioni subito,
dall’oggi al domani, ogni altra soluzione è del tutto inutile! Anzi, se davvero stessero così le cose nulla, ma proprio nulla ci salverebbe: anche se azzerassimo le emissioni dall’oggi al domani basterebbe l’attività vulcanica a rovinarci. E non pare che la piccola Greta sia in grado di bloccarla...
La coerenza logica manca del tutto in tante idiozie catastrofiste.

Passiamo ai punti due e tre.
La teoria del riscaldamento globale di origine antropica è sottoposta a numerose verifiche empiriche. I media non fanno altro che portare all’attenzione del grande pubblico fenomeni che confermano, tutti, tale teoria. Ma… che validità hanno queste “conferme”? Decisamente poca. Il trucco sta nel presentare come “conferma” della, o delle, teorie del riscaldamento globale antropico fenomeni che sono sempre esistiti e che vengono oggi, tutti, attribuiti a tale riscaldamento. Da sempre esistono uragani, siccità, alluvioni, oggi tutti questi fenomeni vengono invariabilmente attribuiti dai media al “riscaldamento globale”. I più accorti ricordano al popolo bue che il riscaldamento sarebbe non tanto la causa di questi fenomeni quanto di una loro  intensificazione geometrica, ma le cifre portate dai media a sostegno di tali ipotesi sono quanto meno assai  discutibili. Ad esempio, è scorretto parlare di intensificazione di fenomeni estremi come gli uragani facendo riferimento all’ammontare delle distruzioni che questi arrecano alle popolazioni. Un uragano che colpisce oggi zone densamente popolate è più distruttivo di uno che colpiva ieri zone semi desertiche... se nessuno nascesse nessuno morirebbe…
La conseguenza di tanta superficialità è che le varie teorie del riscaldamento globale antropico hanno la curiosa caratteristica di esser vere qualsiasi cosa accada. La teoria del riscaldamento globale antropico è confermata dalle alluvioni come dalla siccità, dal gran caldo come dal freddo gelido. In questo modo decade a mera tautologia: esattamente ciò che Popper, e non solo lui ritenevano inaccettabile in una teoria scientifica.
Non a caso i teorici del riscaldamento globale antropico sono piuttosto restii a fare previsioni precise, empiricamente controllabili. Prevedono come saranno le temperature fra un secolo ma non fra sei mesi. E quando le fanno, le previsioni, quasi mai c'è qualcuno che si preoccupa di verificarne l’esattezza, e se, raramente, la verifica c’è, ed è negativa, nessuno si permette di dire che la teoria forse andrebbe rivista. La piccola Greta ha stabilito anno, mese, giorno ed ora della fine del mondo, ma dubito che fra otto, nove anni (mi scuso, non ricordo la data precisa della nostra fine) qualcuno si darà la pena di verificare la correttezza della sua profezia.
Beppe Grillo un po’ di anni fa aveva predetto che il livello degli oceani si sarebbe alzato di una decina di metri in seguito allo scioglimento dei ghiacci artici. Lo sa questo buffone che i ghiacci artici sono in larga misura marini e che lo scioglimento dei ghiacci marini non provoca aumento alcuno del livello del mare? Lasciamo perdere… in ogni caso nessuno gli ha rinfacciato il fatto empiricamente controllabile da tutti che un simile disastroso aumento non c’è stato e che Venezia, data per spacciata dal comico, è ancora al suo posto.
Parlando di cose serie, il club di Roma,
una associazione di scienziati, gente seria, non dei Grillo e delle Greta qualsiasi, pubblicò nel 1972 il libro “i limiti dello sviluppo”. In quest’opera si prevedeva che entro il 2000 si sarebbero esaurite tutte le principali materie prime del pianeta, a cominciare dal petrolio. Non sembra che la previsione, formulata stavolta in termini scientificamente seri, sia stata confermata. Qualsiasi teoria scientifica che si fosse vista contraddetta in maniera tanto clamorosa dai fatti sarebbe stata quanto meno riesaminata, corretta. Non so se gli scienziati abbiano fatto qualcosa di simile a proposito della teoria del riscaldamento antropico, di certo i media nulla hanno detto in proposito. Tutti hanno continuato a parlare della fine del mondo prossima ventura come se niente fosse. Il riscaldamento globale antropico è un dato che si deve accettare, qualsiasi cosa accada, quale che sia l’esito di verifiche e controlli. Un “dato” simile in realtà non è un dato, è una proclamazione di fede, un dogma. L’esatto contrario delle scienza.

Per concludere passiamo al punto 4.
E’ bene che una teoria scientifica sia relativamente semplice, spieghi cioè il maggior numero possibile di fenomeni partendo dal minor numero possibile di presupposti. Rispettano le varie teorie del riscaldamento antropico un simile requisito?
NO.
Queste teorie in effetti cercano di spiegare un numero enorme di fenomeni climatici partendo da un unico presupposto: quello del riscaldamento globale
antropico. Però, per ottenere questa spiegazione sono costrette ad aumentare a dismisura le ipotesi di partenza. Cerco di spiegarmi con un esempio. Il riscaldamento globale, lo dice lo stesso nome, dovrebbe portare ovunque un gran caldo. Però, spesso e volentieri ci sono zone del mondo oppresse non dal caldo equatoriale ma dal gelo polare. Anche il gelo però è spiegabile con il riscaldamento globale ci ammoniscono dai teleschermi valenti giornalisti. Come? Semplice: i ghiacci si sciolgono, questo provoca negli oceani un aumento delle correnti fredde, queste a loro volta fanno deviare le correnti calde e da tutto ciò deriva in certe zone del mondo un gran freddo. Altro che semplicità! L’ipotesi di partenza si “arricchisce” di sempre nuove ipotesi supplementari senza naturalmente che queste vengano accompagnate dallo straccio di una previsione, per lo meno, senza che lo straccio di una previsione sia comunicato al popolo bue, oggetto di una propaganda martellante. Nessuno ci viene a dire, prima, che la corrente del golfo sarà deviata da correnti fredde di origine artica e questo porterà in Europa un gran freddo nella prossima estate. Al massimo qualcuno ci ammonisce di non confondere il clima con il meteo, come se non fossero proprio i seguaci della piccola Greta a trasformare ogni evento meteorologico in una “prova” della prossima fine del mondo. Soprattutto, senza chiarire dove finisce il meteo e comincia il clima, senza fare previsione alcuna, climatica, non meteorologica, su come sarà il clima non fra un secolo ma fra un anno.
Ricordava sempre Popper che la scienza deve fare un uso oculato delle ipotesi ad hoc,
quelle che possono salvare una teoria dalla falsificazione empirica. I teorici del riscaldamento di origine antropica ne fanno invece un uso smodato. Basterebbe questo per dubitare dello status scientifico di molte loro affermazioni.

La attendibilità scientifica di varie teorizzazioni sul riscaldamento globale antropico può essere facilmente verificata confrontandole con l’atteggiamento della comunità scientifica riguardo ai vaccini.
La validità dei vaccini ha ricevuto innumerevoli conferme empiriche. I vaccini hanno contribuito in maniera decisiva a debellare malattie che fino a
ieri mietevano vittime a milioni. Gli effetti collaterali , quasi sempre previsti, sono stati contenuti, quelli davvero gravi rappresentano percentuali statistiche minime. Soprattutto, chi ha scoperto vaccini di vario tipo non ha mai presentato le sue teorie sugli stessi in maniera tale da immunizzarle dalle verifiche empiriche. Nessun vaccino è valido qualsiasi cosa accada, se non è efficace viene semplicemente ritirato dalla circolazione. Non occorre fare troppe elucubrazioni per capire che tutto questo non avviene con le teorie del riscaldamento globale antropico. Se la previsione del valore terapeutico di un qualsiasi vaccino avesse ricevuto smentite empiriche anche lontanamente paragonabili a quelle subite dalle previsioni del club di Roma lo scopritore sarebbe stato radiato dall’ordine dei medici. E tanto basta, direi.

Transizione? E di che tipo?

Vorrei fare una precisazione, per non essere frainteso. Considero di vitale importanza la difesa dell’ambiente e sono sinceramente convinto della importanza delle tematiche ecologiche. Non credo, come i mistici ecologici sembrano credere, che esista una sorta di armonia prestabilita fra uomo e natura, un paradiso perduto che basta ritrovare per vivere felici. L’uomo non può essere semplice componete di qualche ecosistema, deve modificare l’ambiente circostante anche solo per sopravvivere, questa è la sua natura. Ma le modifiche che l’uomo apporta all’ambiente sono sempre, almeno potenzialmente, gravide di pericoli. Dobbiamo modificare l’ambiente, ma questa modifica si rivela spesso un’arma a doppio taglio. Abbiamo bisogno di case, auto ed aerei, ma anche di aria pulita e mare limpido. Queste diverse esigenze non sono destinate ad armonizzarsi automaticamente, spetta a noi, alla nostra intelligenza operare per armonizzarle, non una volta per tutte, ma di volta in volta, con sano realismo pragmatico.

La difesa dell’ambiente può anche essere una ottima occasione di sviluppo economico. Costruire termovaloriz
zatori e rigasificatori, provvedere alla raccolta differenziata dei rifiuti ed la loro smaltimento il meno inquinante possibile, mettere in sicurezza il territorio non solo preserva l’ambiente ma favorisce occupazione e sviluppo, con buona pace dei teorici della decrescita felice. Non dobbiamo però commettere l’errore di credere che se intorno a tematiche ambientali si sviluppa un notevole giro d’affari queste tematiche sono necessariamente corrette. Il fatto che la produzione e la vendita di una certa merce costituiscano un buon affare dice poco o nulla sulla qualità o sulla bontà delle merce stessa. Quando si entra in una libreria si notano sugli scaffali principali molti libri spazzatura. Probabilmente è grazie a questi che editori e, a volte, librai conseguono degli utili, ma sempre di libri spazzatura si tratta. I pannelli fotovoltaici rappresentano oggi un buon affare, ma questo non dimostra che siano davvero utili per produrre energia, meno che mai che possano sostituire in misura significativa altre forme di produzione energetica. Questo è ancora più vero se si pensa che i pannelli sono convenienti anche e soprattutto grazie ad incentivi statali pagati anche da chi non li compra. Se tutti munissero le loro case di pannelli solari la loro pretesa convenienza verrebbe meno...
Nel mondo la quasi totalità dell’energia è prodotta con petrolio, carbone e nucleare. Il peso delle cosiddette “rinnovabili” è puramente residuale . Questi sono i dati che contano per valutare se abbiano o meno ragione coloro che sostengono certe non meglio definite “transizioni ecologiche”. Anche dando per scontato che le politiche di “transizione ecologica” incrementino, per un certo periodo di tempo, determinate aree di business non è da questo che va giudicata la loro convenienza economica. L’economicità di certe scelte produttive si misura in ultima istanza non coi temporanei profitti monetari che permettono di conseguire ma con la loro capacità di produrre beni e servizi, quindi di incrementare stabilmente il PIL. Se si decide di produrre energia con il solare occorre vedere quanta, e di che qualità, energia si produce con una simile tecnologia. Se l’energia prodotta è scarsa e di cattiva qualità i profitti inizialmente conseguiti si riveleranno puramente nominali, una mera illusione monetaria.

Le rivoluzioni economiche ed industriali  sono state finora la conseguenza di innovazioni tecnologiche, scoperte geografiche, scoperta di nuove fonti di energia o della composizione di questi tre fattori. La “transizione ecologica” di cui oggi parlano in tanti sembra invece essere, insieme, la conseguenza di una deriva ideologica, delle aspirazioni mondialiste di enormi gruppi multinazionali e del tentativo di alcuni stati, la Cina in primo luogo, di assurgere al rango di incontrastate super potenze mondiali. Tutte cose che, come si vede, hanno poco a che vedere con la tutela dell’ambiente e con uno sviluppo economico insieme sostenuto ed attento alle ricadute ecologiche.
A differenza di precedenti rivoluzioni industriali la attuale “transizione ecologica” contrasta inoltre con lo sviluppo tecnologico, non a caso i suoi più convinti sostenitori sono i teorici della “decrescita felice”, i figli ed i nipotini di coloro che una trentina di anni fa bollavano scienza e tecnologia come “strumenti del potere borghese” e che oggi, superata la vulgata marxista,
le definiscono risultato di una insana “volontà di potenza” dell’uomo.
I seguaci di Beppe Grillo quelli che hanno fatto della “transazione ecologica” la loro bandiera, sono contrari alle acciaierie, all’alta velocità, ai termovalorizzatori ed ai rigasificatori, alle auto ed alle autostrade, contrastano tutte le opere pubbliche, dai ponti alle tratte ferroviarie. Sono coloro che tengono bloccati da decenni i lavori della TAV e da anni quelli del terzo valico. Soprattutto, sono contrari alla plastica, al nucleare, al carbone ed al petrolio. Basta guardarsi intorno per rendersi
conto di quanto simili programmi siano demenziali. Si elimini dal mondo la plastica e tutte le economie collassano nel giro di pochi mesi, forse poche settimane. Si cerchi di produrre con le sole “rinnovabili” non dico tutta, ma una porzione significativa dell’energia di cui abbiamo bisogno ed il mondo piomba nella più assoluta povertà e nel caos, con centinaia di milioni di disoccupati e, probabilmente, nuove guerre.
Non solo, simili demenziali proposte sono anche profondamente antiecologiche. Per produrre quantità appena discrete di energia con eolico e solare occorrerebbe riempire di pale e pannelli aree sterminate, con conseguenze disastrose su ambiente, fauna e flora selvatiche, e ci sarebbe sempre il problema enorme dello smaltimento di questi “ecologici” strumenti di produzione di energia una volta giunti al termine del loro ciclo produttivo. Non a caso la proposta
vera dei mistici dell’ecologia è la drastica riduzione dei consumi: meno consumi, meno produzione, meno energia: il ritorno al “buon tempo antico”, quando la vita media non superava i 30, al massimo i 40 anni e gran parte della energia di cui comunque si aveva bisogno era costituita dalla forza muscolare animale e umana. L’epoca in cui esistevano lo schiavismo e la servitù della gleba. Una meraviglia!
Qualcuno potrebbe
obbiettare che queste sono solo farneticazioni di pochi fanatici, ma, a parte il fatto che questi fanatici oggi governano l’Italia, non solo di loro si tratta. La piccola Greta fa proposte ancora più radicali di quelle di Grillo e di fronte a lei si prosternano fior di uomini di stato. L’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni di CO2 in meno di 10 anni non è del solo Grillo ma anche dei principali Leader del PD e della UE. Nella sua enciclica “Laudato si” Bergoglio ha fatto discorsi del tutto simili. Insomma, non vorrei essere troppo pessimista, ma non siamo di fronte a poche farneticazioni ma ad una ideologia molto diffusa, intrecciata con interessi economici e politici molto potenti.
Il misticismo ecologico è una pericolosissima forma di nichilismo, particolarmente insidiosa perché riguarda tematiche che non possono non interessare ogni persona ragionevole. E che spesso inibiscono alle persone ragionevoli la capacità di sottoporre a critica severa le idiozie. Perché sotto sotto hanno paura, le persone ragionevoli, di apparire contrarie ad una giusta causa come quella delle difesa ambientale.
Occorre invece superare ogni timidezza. Il nichilismo antiscientifico va combattuto, senza se e senza ma, anche se riveste i panni rassicuranti dell’amico della scienza, e si fa bello con amorevoli richiami a vette immacolate e mari cristallini.

 

venerdì 29 gennaio 2021

IL GRANDE RESET: COMPLOTTO, DESTNO O SCELTA POLITICA?

 

Si sente spesso parlare da un po' di tempo a questa parte di “grande reset”. Si tratterebbe di un disegno tendente ad imporre un po' ovunque una sorta di ibrido comunista capitalista. Una economia mondiale totalmente dominata da enormi imprese multinazionali strettamente alleate con il potere politico. Per imporsi questo modello dovrebbe distruggere, o quanto meno ridimensionare drasticamente il tessuto delle piccole e medie imprese, colpire il ceto medio, eliminare o rendere totalmente marginali gli stati nazionali ed i parlamenti che su base nazionale sono eletti. Al mercato ed alla democrazia pluralista si sostituirebbe una sorta di pianificazione sovranazionale di tipo burocratico – monopolista. Per farla breve, si tratterebbe di una estensione a tutto il mondo del “modello cinese”. Un ibrido, appunto fra capitalismo ultra centralizzato e potere politico comunista. Qualcosa di mai visti prima nella storia.
Di cosa è risultante questo ibrido? Si tratta di un complotto? O della conseguenza di scelte politiche non necessarie? O di un destino fatale?
I processi spontanei in atto a livello economico e sociale vanno in questa direzione? E' davvero in corso, ed è irresistibile, una tendenza alla centralizzazione economica che spazzi via le piccole e medie imprese, distrugga il ceto medio, renda marginali gli stati nazionali? O si tratta invece di forzature politiche che intervengono su alcune, non le uniche, tendenze in atto?
Non si tratta di domande nuove, sono anzi estremamente vecchie.

Marx e la piccola impresa.

La previsione della fine delle piccole e medie imprese non è affatto una novità. L'idea di una centralizzazione burocratica e sovranazionale dell'economia che distrugge la piccola e media impresa risale al socialismo pre marxiano ed è stata formulata con la massima precisione proprio da Karl Marx.
Nelle fasi iniziali del suo dominio la borghesia, afferma Marx, distrugge la proprietà privata basata sul lavoro personale. Questa viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica, basata sul lavoro salariato. Questo però è solo il primo passo di un processo ampio e tormentato. Man mano che il modo di produzione capitalistico si afferma i processi di espropriazione assumono forma nuova: “a questo punto”, scrive Marx nel
Capitale, “non è più il lavoratore indipendente che lavora per se quello che deve essere espropriato, bensì il capitalista che sfrutta molti operai. Questa espropriazione si attua mediante il meccanismo delle leggi immanenti della produzione capitalistica stessa, mediante la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne getta giù molti altri”. (1)
Il borghese capitalista espropria il piccolo produttore individuale, l'artigiano, il contadino parcellare, ma i meccanismi della accumulazione capitalistica fanno si che i capitalisti più forti mettano fuori mercato i più deboli. Il processo di concentrazione e socializzazione dell'economia procede implacabile:
“Parallelamente (…) all'espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi si sviluppano in maniera sempre più ampia la forma cooperativa del processo di lavoro (… ) la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro da adoperarsi solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione tramite il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato...” (2)
Il meccanismo della concorrenza rende sempre più concentrata l'economia. Le imprese diventano sempre più grandi, l'uso dei mezzi di produzione assume sempre più un carattere immediatamente sociale.
Questo processo ha carattere internazionale. Gli stati nazionali sono destinati a perdere sempre più importanza in seguito al processo di concentrazione sovranazionale delle economie capitaliste. “Con lo sfruttamento del mercato mondiale” afferma Marx nel celeberrimo
Manifesto del partito comunista “la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione ed al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari” (3)
La borghesia è una classe internazionale e lo è, ancora di più il suo antagonista storico: il proletariato:
“Gli operai non hanno patria. (…) Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale delle corrispondenti condizioni d'esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più”. (4)
Il discorso di Marx è coerente. Lo sviluppo della concorrenza porta ad una crescente centralizzazione dell'economia che è destinata ad abbattere le stesse frontiere nazionali. I processi di concentrazione hanno come risultato una radicale semplificazione della società. Il pluralismo cede il passo ad una polarizzazione che vede contrapposti un pugno di grandissimi capitalisti ad una massa enorme di proletari. A livello internazionale i contrasti di nazionalità vengono soppiantati dai contrasti di classe.  Non a caso
il Manifesto termina con la celebre esortazione: “proletari di tutti i paesi unitevi”. Nel 1914 Lenin la tradurrà in un programma politico molto preciso e radicale: “trasformare a guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria”.
In effetti il processo storico che Marx prevede non somiglia affatto al tranquillo evolversi della società borghese verso il suo “superamento” sognato dalla componente riformista del movimento operaio. Si tratta di un processo che da un lato si traduce in sfruttamento ed oppressione di masse enormi di proletari da parte di un numero sempre più esiguo di parassiti capitalisti. Ed è, dall'altro, un processo che la borghesia
non può portare a termine.
Il monopolio del capitale diventa un ostacolo al progredire del modo di produzione sorto insieme ad esso e sotto di esso. L'accentramento dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro arrivano ad un punto in cui entrano in contraddizione col loro rivestimento capitalistico. Ed esso viene infranto. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori divengono espropriati. (…) La produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la propria negazione. E' la negazione della negazione” (5)
Il contrasto fra crescente centralizzazione della produzione e proprietà capitalista altro non è che la forma specifica che assume il contrasto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione che per Marx è la molla della evoluzione storica. E la classe operaia, il cui impoverimento e le cui dimensioni sono accentuate al massimo dai processi di concentrazione, è la forza sociale destinata a risolvere questo contrasto. Non è un caso che, al termine della sua profezia, Marx riesumi la hegeliana “negazione delle negazione”. La sua è, hegelianamente, una storia a soggetto.
Deve concludersi con la riunificazione di ciò che la alienazione capitalista ha diviso.

La profezia e la storia

Marx afferma alcune cose difficilmente contestabili, coglie tendenze reali dell'evoluzione economica, tuttavia la sua analisi è viziata da alcuni errori di fondo. Faccio solo un telegrafico accenno ad uno di questi prima di passare al punto qui più importante. Marx è spinto quasi inavvertitamente a considerare “sociale” solo ciò che è frutto di una scelta collettiva intenzionale. La centralizzazione accentua il carattere sociale dell'economia, afferma a più riprese, come se i rapporti di mercato non fossero rapporti sociali e non fosse un fatto eminentemente sociale la concorrenza. Marx incorre in quella che Von Hayek definisce la superstizione del costruttivismo: solo le organizzazioni coscientemente create per conseguire determinati fini sono strutture sociali. L'ordine spontaneo non sarebbe invece qualcosa di sociale. Eppure non solo il mercato, ma anche fenomeni eminentemente sociali come il linguaggio e un certo numero di regole di condotta sono in larga misura misura prodotti da quest'ordine.

Torniamo al discorso sulla centralizzazione economica. Marx coglie in questa, val la pena di ripeterlo, un tendenza reale dell'economia di mercato, in un certo senso si dimostra addirittura profetico: oggi più che ai tempi di Marx è semplicemente impossibile negare la rilevanza del gigantismo economico. Tuttavia l'analisi di Marx è viziata, dall'inizio alla fine, da un grave difetto: l'unilinearismo estrapolazionista. Marx analizza una tendenza reale della società a lui contemporanea, ma sottovaluta, quando non ignora completamente, le tendenze diverse, a volte addirittura opposte, che pure esistono; non se ne cura neppure quando queste tendenze diverse sono alimentate dalla stessa tendenza oggetto della sua analisi. Lo sviluppo della grande industria dà vita all'indotto ed in questo prosperano moltissime medie e piccole, a volte piccolissime, imprese. Lo sviluppo capitalistico incrementa la produttività del lavoro, Marx lo riconosce senza esitazioni, ma questa favorisce sia la crescita dei salari reali che la riduzione dell'orario di lavoro, qualcosa di ben lontano dal pauperismo profetizzato da Marx. Lo sviluppo del commercio internazionale ben lungi dal decretare la fine degli stati nazionali li spinge a cercare in questo una posizione di forza o di prestigio. Marx non si cura troppo di queste controtendenze o le riduce a semplici epifenomeni della produzione e dello sfruttamento capitalistici. Soprattutto, non le ritiene in grado di ostacolare seriamente la marcia del modo di produzione capitalistico verso la propria autodistruzione. Estrapola da alcune tendenze reali le loro conseguenze senza curarsi troppo del gioco estremamente complesso di tendenze e contro tendenze.

La storia doveva dargli clamorosamente torto. Nel 1899 Eduard Bernstein, esponente di prestigio della seconda internazionale, pubblicò “
i presupposti del socialismo ed i compiti della socialdemocrazia”, in cui sottoponeva a critica radicale l'intera previsione marxiana. La centralizzazione capitalistica, che pure esisteva, non distruggeva la piccola e media impresa, né marginalizzava il ceto medio. Non era in atto un processo di impoverimento globale della classe operaia. Gli stati nazionali conservavano la loro importanza. Lo sviluppo della democrazia permetteva l'integrazione della classe operaia in una libera società pluralista. Si trattava di una revisione radicale delle fondamenta stesse del marxismo rivoluzionario, revisione che provocò una valanga di polemiche roventi. Berntein venne accusato di essere un “traditore” del socialismo ed in effetti, in un certo senso, lo era. Ma nelle linee generali la sua critica era corretta. La componente non rivoluzionaria del movimento operaio finì dopo un lungo travaglio con l'accettare le tesi fondamentali di Bernstein. Non solo, a veder bene le cose, le tesi di Bernstein vennero, in un certo senso, accettate dalla stessa componente rivoluzionaria leninista. Questa infatti si concentrò non tanto sull'analisi delle tendenze del sistema capitalistico, quanto sul ruolo che in queste doveva giocare la volontà rivoluzionaria. Oggettivamente il capitalismo non va, forse, verso l'autodistruzione, ma un partito ferreamente organizzato, capace di sfruttare la “buona occasione”, può comunque forzare la storia e condurre la società verso la realizzazione dell'ideale. La forzatura fu fatta, con i tragici risultati che tutti conoscono.

Tendenze e controtendenze economiche

Quando si parla delle tendenze di lungo periodo dell'economia di mercato si commette spesso errore abbastanza grossolano. Si considera la concorrenza come una sorta di guerra di tutti contro tutti che ogni impresa combatte senza esclusione di colpi cercando di espellere tutte le altre dal mercato o di assorbirle. Questa però è una semplificazione sostanzialmente errata. La concorrenza è lotta ma è anche cooperazione. L'impresa A è concorrente di B ma può anche essere sua fornitrice o sua cliente. Anche se producono più o meno lo stesso tipo di merci A e B non sono necessariamente in guerra. A può rivolgersi ad un segmento di clientela che a B non interessa o interessa meno. Nel centro di ogni grande città si possono trovare, a pochi metri di distanza l'uno dall'altro, il ristorante raffinatissimo, la tavola calda e la paninoteca. Tutti operano nel settore della ristorazione ma la concorrenza fra loro non è una guerra. Offrono i loro servizi a persone diverse o anche alle stesse persone, ma per soddisfare loro esigenze diverse: una cena raffinata o il panino nell'intervallo pasto, ad esempio. O mirano a soddisfare le stesse esigenze delle stesse persone in maniera diversa: Mc Donald, tavola calda, e paninoteca mirano tutti a ristorare i lavoratori nell'intervallo pasto, ma ognuno lo fa a modo suo, conquistando una propria fetta di mercato. Più si diffonde, anche in seguito ai processi di concentrazione industriale, il benessere più aumenta questa possibilità di conquistare nicchie di mercato che permettono ad imprese di piccole, spesso piccolissime dimensioni di vivere e a volte prosperare. L'esclusione dal mercato delle imprese meno competitive è sicuramente una tendenza dell'economia capitalistica, ma non è l'unica e non riguarda tutte le imprese. Né riguarda solo le piccole imprese. Si può essere piccoli ma competitivi se si è in grado di fornire merci e servizi di buona qualità a prezzi convenienti non a tutti, ma determinati target di clientela. Allo stesso modo si può essere grandi e niente affatto competitivi, se i vantaggi delle economie di scala vengono annullati da elefantiasi burocratica, con relativa incapacità di adeguare le politiche industriali alle sempre mutevoli esigenze del mercato. Alle sinergie delle grandi imprese le piccole possono contrapporre la conoscenza delle realtà locali in cui sono inserite. Una banca di dimensioni regionali come la Carige non poteva certo competere col San Paolo sul piano nazionale ed internazionale, ma la sua conoscenza e presenza capillare del mercato ligure le permetteva di resistere, livello regionale, a qualsiasi sfida concorrenziale. Questo fino a che una dirigenza mediocre, incantata dalle sirene che predicavano continui ampliamenti dimensionali, non la ha fatta entrare in crisi.
Né bisogna commettere l'errore di considerare le piccole imprese sempre impegnate in una lotta mortale, e necessariamente perdente, contro le grandi. I processi di concentrazione e di gigantismo industriale hanno come conseguenza, lo si è già detto, lo sviluppo dell'indotto e nell'indotto crescono moltissime imprese di medie e piccole dimensioni. Avviene qualcosa di simile anche nella rete. Il suo sviluppo favorisce al massimo la concentrazione dell'economia: i giganti del web hanno dimensioni mondiali e la loro potenza pone problemi non piccoli che i governi dovranno decidersi, prima o poi, ad affrontare. Ma la rete favorisce nel contempo lo sviluppo di molte attività autonome, di piccole, a volte piccolissime dimensioni. Di nuovo, le tendenze non sono univoche. Ciò che da un lato spinge verso il gigantismo favorisce dall'altro non solo la sopravvivenza, ma la proliferazione di piccole imprese.

Diamo una telegrafica occhiata alle statistiche. Nel 2016 in Italia esistevano 8,2 milioni di partite IVA, di cui 6,2 attive, 3,9 milioni riguardano persone fisiche. Sempre in Italia le imprese, comprese quelle individuali, hanno in media 4 dipendenti l'una ed esistono 66 imprese ogni 1.000 abitanti. Secondo dati della commissione europea nel 2020 le PMI in Italia ammontano a 148.531. Di queste, 123.495 sono piccole imprese e 25.036 sono medie aziende. Convenzionalmente si definisce micro impresa quella con meno di 10 addetti, è piccola quella che ne ha meno di 50 e media quella che non supera i 250.
Negli Stati Uniti, secondo un’interessante ricostruzione compiuta da AFME-Finance for Europe e da Boston Consulting le piccole e medie imprese sono 28 milioni, sei milioni più che in Europa, ed esprimono il 49 per cento dell’occupazione e il 46 per cento del valore aggiunto.
Non voglio dare soverchia importanza questi numeri, tutti facilmente controllabili in rete. So bene che se debitamente torturati i numeri possono dirci tutto ciò che vogliamo e so anche che una cosa sono i numeri relativi a piccole, medie e grandi imprese, altra cosa il loro potere economico e politico. Ma, appunto, di potere politico ed economico si tratta, non di inevitabile espulsione della piccola e media impresa dal mercato. Oggi come ai tempi di Bernstein le piccole e medie imprese mantengono posizioni chiave in tutte le economie di mercato. I grandi processi di concentrazione ed internazionalizzazione influiscono sul ruolo e l'importanza delle imprese di medie e piccole dimensioni senza tuttavia distruggerle. La tendenza alla grande concentrazione esiste, ma la previsione marxiana secondo cui questa avrebbe segnato la campana a morto delle piccole e medie imprese si è dimostrata clamorosamente errata.

Fine degli stati nazionali?

La tendenza alla internazionalizzazione delle economia esisteva già ai tempi di Marx ed è quanto mai forte e vitale ai nostri giorni. Non si tratta solo di commercio internazionale, ma anche di movimenti di capitali, spostamenti di cifre da capogiro da un'area del mondo all'altra. Negare l'importanza di simili tendenze è impossibile, e, prima ancora, profondamente stupido. La domanda non riguarda l'esistenza e l'importanza di tendenze che sono sotto gli occhi di tutti. Queste tendenze portano ad una progressiva marginalizzazione, se non addirittura alla scomparsa degli stati nazionali? Questa è la domanda corretta che dobbiamo porci. Lo stato nazionale è destinato a sparire, travolto dalla globalizzazione o, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad fenomeni complessi, all'intrecciarsi di tendenze e controtendenze che rendono il quadro assai più articolato di quanto potrebbe sembrare a prima vista?

Ai sostenitori del mondialismo piace presentarsi come coloro che “seguono la ruota della storia”. Chi considera ancora importanti gli stati nazionali, quindi ritiene non superati confini e frontiere, viene guardato con una certa aria di commiserazione. Anche quando, generosamente, non lo si definisce “razzista” lo si compatisce. Si tratta di una persona con lo sguardo rivolto all'indietro, nel migliore dei casi di un romantico incapace di stare al passo coi tempi.
E' quanto meno assai dubbio che esista una “ruota della storia”. Nella storia agiscono tendenze che è possibile favorire o contrastare, cosa ben diversa dall'inarrestabile, fatale procedere di presunte “ruote”. Specificato questo val la pena di chiedersi: è davvero scontato che simili tendenze marcino nel senso della abolizione di stati, confini e frontiere? La risposta è molto semplice:
NO.
I grandi imperi sono una caratteristica dei epoche passate più che dei tempi presenti. La storia antica è in larga misura storia di formazione e dissoluzione di imperi e forse non è un caso che i livelli di più elevato sviluppo culturale raggiunti nell'antichità riguardino la polis greca, non gli imperi persiano o macedone o lo stesso, pur assai civile, impero romano.
Il ventesimo secolo è stato caratterizzato dal crollo dell'impero austro ungarico prima, poi dal crollo degli imperi coloniali inglese e francese, infine dal crollo rovinoso dell'ultimo impero: quello comunista. Ed i crolli di questi imperi hanno tutti dato vita ad un gran numero di stati nazionali.
Oggi esistono nel mondo ben 208 stati nazionali, di cui 196 riconosciuti internazionalmente. Erano molto meno all'inizio del ventesimo secolo. In 30 anni circa, dal 1990 ad oggi, sono sorti 32 nuovi stati nazionali, più o meno uno all'anno. Forse lo stato nazionale è destinato a sparire, ma ad oggi questa sparizione sembra assai lontana. Più che sparire, gli stati a dimensione nazionale tendono a moltiplicarsi.

I processi di globalizzazione esistono, sono fortissimi e sono anche, in una certa misura, positivi. Il commercio esiste da quando esiste la divisione del lavoro, cioè da tempo immemorabile. Gli scambi internazionali e gli stessi movimenti internazionali di capitali esistono da quando esistono nazioni e stati. Negare simili fenomeni o cercare di sminuirne l'importanza è semplicemente stupido. Questi processi però, ben lungi dal distruggere i sentimenti di appartenenza nazionale dei vari popoli li hanno accentuati.
“L'impulso alla integrazione del mondo è reale” scrive Samuel Huntington nel celeberrimo
Lo scontro delle civiltà, “ed è esattamente questo che genera resistenza ai distinguo culturali e a una maggiore presa di coscienza della propria civiltà di appartenenza”. (6)
I popoli inseriti nel vortice della globalizzazione non intendono tanto ritagliarsi impossibili isole autarchiche quanto affermare, dentro questo vortice, il valore della propria identità. Questa, oltre che nazionale, tende ad essere culturale. Le identità nazionali, pur restando tali, tendono a raggrupparsi secondo linee culturali.
“Gli stati nazionali sono e resteranno i protagonisti della politica internazionale, ma i loro interessi, legami e conflitti vengono determinati in misura sempre maggiore da fattori inerenti alla loro cultura e civiltà di appartenenza”. (7) Globalizzazione da un lato e riscoperta dall'altro del valore delle proprie identità, sia più ristrette, nazioni, che più larghe, civiltà. Un processo ben più articolato e complesso di quello immaginato da molti.
Il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda avevano invece determinato in molti l'illusione di una unificazione liberal democratica del globo, spinta dal vento della globalizzazione. Il libro di un nippo americano: Francis Fukuiama: “
la fine della storia e l'ultimo uomo” aveva espresso in termini teoricamente dignitosi questa speranza. Che però doveva rivelarsi una mera illusione: “il modello di un unico mondo armonioso appare palesemente troppo distante dalla realtà per poter fungere da utile guida del mondo post guerra fredda” (8). E' difficile non condividere questo giudizio di Huntington.
Val la pena di aggiungere che la profezia di Fukuyama non solo si sarebbe rivelata illusoria, ma avrebbe subito una sorta di degenerazione interna. Il mondo preconizzato dal saggista nippo americano non era  brutto: si trattava di un mondo unificato che conservava però, nell'unificazione, alcune delle sue particolarità positive. Il mondialismo politicamente corretto doveva però trasformare l'utopia di Fukluyama nella distopia di un mondo privo di differenze. Una enorme area grigia senza confini e nazioni, culture e civiltà, senza sessi e senza storia. Il mondo di quello che oggi molti definiscono “il grande reset”.

Destino, complotto o scelte politiche?

Il grande reset è scritto a lettere cubitali nel libro del destino? Molti lo pensano. Il nostro futuro è segnato, andiamo verso il “capitalismo di relazione” o l'ibrido comunista capitalista. Il mondo sarà dominato da alcune enormi concentrazioni economiche, alleate col potere politico. La piccola e media impresa non hanno futuro, il ceto medio è destinato a contrarsi e a perdere rilevanza. Gli stati nazionali saranno marginalizzati, i confini perderanno senso. Gli spostamenti di popolazioni da un paese e da un continente all'altro diventeranno la norma ancor più di quanto già oggi non siano. Chi cerca di opporsi a tutto questo è un “sovranista razzista” o, nella migliore delle ipotesi, uno stupido che non capisce il corso ed il senso della storia.
In realtà le cose
NON stanno così. Certo, esistono forti tendenze che vanno in questo senso, ma non sono le uniche né sono fatalmente destinate ad affermarsi. E non sono neppure tanto generalizzate quanto i loro entusiasti sostenitori cercano di far credere. La fine di confini e frontiere ad esempio, riguarda solo gli stati occidentali, come solo la cultura occidentale è fatta oggetto di continui attacchi nichilistici. La marginalizzazione degli stati nazionali dal canto suo non colpisce nella stessa misura tutti gli stati. Riguarda l'Italia o la Grecia, molto meno gli USA o la Germania, non riguarda affatto la Cina.
Esistono forti tendenze verso il “grande reset”, ma non si tratta del fatale e generalizzato procedere di una presunta “ruota della storia”. Se il mondo sembra muoversi verso il “modello cinese” o “capitalismo di relazione” questo avviene
non per destino ma per determinate, e non obbligate, scelte politiche.
Ci tengo a sottolinearlo con la massima chiarezza:
si tratta di scelte politiche, non di complotti. I grandi flussi migratori, la centralizzazione e globalizzazione delle economie, il diffondersi in occidente di mode culturali nichiliste non sono una invenzione di un pugno di avidi finanzieri: si tratta di tendenze oggettive che riguardano decine, centinaia di milioni di esseri umani. Non sono però né le uniche né sempre e necessariamente in radicale contrasto con altre, pure assai forti, né, meno che mai, fatalmente destinate ad affermarsi. I governi intervengono sulle tendenze in atto privilegiandone alcune a scapito di altre, favorendo determinate forze sociali, politiche e culturali ed ostacolandone, spesso con mezzi ignobili, altre. E lo fanno in maniera differenziata, scontrandosi ognuno con ostacoli e difficoltà. Negli USA i mondialisti si sono dovuti sorbire quattro anni di presidenza Trump, un incubo per loro, poi sono riusciti ad impedire la rielezione del “mostro” solo grazie ai brogli, rischiando di una acutizzazione senza precedenti dello scontro politico e sociale.
Nella vecchia Europa i fanatici della UE hanno alla fine dovuto accettare la brexit, in Italia questi stessi fanatici vanno avanti a tentoni, imponendo al popolo governi che suscitano la nausea di un numero sempre crescente di persone, i paesi dell'est, dal canto loro, non hanno la minima intenzione di aprirsi ai “migranti”.

Dietro al reset non ci sono complotti né destini, solo scelte politiche. Scelte politiche talmente impopolari che spesso chi le sostiene deve, per cercare di farle digerire a recalcitranti opinioni pubbliche, fare un uso sfacciato di vere o presunte emergenze.
Le fondamentali sono ad oggi due, una autentica ed una in larga misura fasulla. Si tratta, è chiaro, della pandemia Covid e dei “mutamenti climatici”.
Il Covid esiste e rappresenta una minaccia grave per tutti noi, però è molto evidente che molti cercano di usarlo per spingere il mondo in una certa direzione. Grazie al Covid la Cina, da cui tutto ha avuto origine, sta diventando la prima potenza economica del mondo. In occidente il covid diventa pretesto per chiedere più centralizzazione, più cessioni di sovranità dagli stati nazionali a grandi organizzazioni burocratiche sovranazionali. Queste, lo si è visto benissimo nel corso della pandemia, non sono affatto più efficienti nella lotta alla malattia. Che la centralizzazione significhi sempre e comunque più efficienza è solo un mito, la tragica esperienza del comunismo sta lì a dimostrarlo. Ma questo interessa poco ai fanatici del mondialismo.
I mutamenti climatici di origine antropica sono invece una emergenza fasulla. Certo, esiste ed è giustamente sentita da molti l'esigenza di salvaguardare l'ambiente dagli affetti a volte distruttivi delle attività umane, ma nessuno oggi pensa
davvero che fra otto o nove anni ci sarà la fine del mondo, come profetizzato dalla piccola Greta; probabilmente nessuno si accorgerebbe della “emergenza” climatica se non fosse per la propaganda continua, martellante dei media. I mutamenti climatici ovviamente esistono, sono sempre esistiti, probabilmente le attività umane hanno contribuito negli ultimi due secoli ad aggravarli, anche se in misura limitata, ma tutto questo dista anni luce dall'allarmismo isterico che sui mutamenti climatici è stato innestato. E su cui giocano i sostenitori del mondialismo. Le attività umane portano alla fine del mondo, quindi bisogna lottare centralmente contro i mutamenti climatici di origine antropica, occorre che a decidere non siano i parlamenti degli stati nazionali, eletti dai popoli, ma la commissione europea, L'ONU, o qualche organismo mondiale posto a difesa del clima (come se il clima potesse essere “difeso” da quattro burocrati). La strada è sempre quella.

Non è il caso di rendere ancora più lungo uno scritto certo non breve. Il grande reset non è né un complotto né un destino che dovremo obbligatoriamente subire. Si tratta della risultante, ancora in divenire, di scelte politiche volte a favorire certe tendenze a scapito di altre, a far diventare uniche tendenze che invece avanzano spesso strettamente intrecciate ad altre.

Contrapporre ai processi di concentrazione, digitalizzazione ed internazionalizzazione delle economie chiusure autarchiche o l'ideologia della “decrescita felice” è una idiozia criminosa. Ma è altrettanto idiota e criminoso ignorare o sottovalutare i pericoli di cui è gravida la distopia mondialista politicamente corretta. Tanto più che, paradosso dei paradossi, le due distopie, quella della decrescita e quella mondialista, sono spesso sostenute dalle stesse persone.
Ad essere centrale in questa fase è la capacità di governare i processi in atto, in tutta la loro complessità. Oggi torna ad essere centrale la politica. Intesa intesa in senso nobile, al di fuori degli spettacoli degradanti cui questa ci sta abituando. Dentro e fuori dall'Italia.