mercoledì 10 dicembre 2014

SUL MATERIALISMO STORICO E LA, PRESUNTA, ASSOLUTA CENTRALITA' DELL'ECONOMIA



Che alla base di tutti gli aspetti della vita umana ci sia l'economia è una vecchia idea marxista che la crisi del marxismo ha, almeno in parte, risparmiato. Ultimamente questa idea si è diffusa e rinforzata e, val la pensa di rilevarlo, ha subito, rispetto alla originaria impostazione marxiana, un notevole processo di banalizzazione. Ad essere basilare era per Marx la produzione dei beni che consentono la esistenza materiale degli esseri umani, il livello di sviluppo delle forze produttive sociali ed i corrispondenti rapporti di produzione. Nelle teorizzazioni degli attuali emuli e banalizzatori del marxismo la complessa dialettica marxiana viene ridotta agli “interessi delle multinazionali” ed alle loro relative “manovre oscure”.
Ma, banalizzazioni a parte, è proprio vero che l'economia sia sempre e comunque la base di tutto? Val la pena di approfondire il problema perché è denso di risvolti assai importanti ed attuali.


SULLA CENTRALITA' DELL'ECONOMIA

Cosa è “economico”?
Innanzitutto una precisazione, piuttosto importante. Molti confondono attività economica con attività produttiva. Si tratta però di cose diverse. Se io costruisco una sedia non è detto che la mia attività produttiva sia ipso facto anche una attività economica. Potrei dedicarmi alla costruzione della sedia perché la cosa mi diverte o mi aiuta a passare il tempo. Produrre una sedia, o qualsiasi altra cosa, diventa attività economica quando entra nel calcolo costi benefici. Produco quella sedia perché mi è utile e la sua utilità mi procura vantaggi che superano i costi (in questo caso il dispendio di tempo e di energia) connessi alla sua produzione.
Il grande economista austriaco Ludwig Von Mises, contesta questa impostazione. Per Von Mises l'attività umana è, in senso lato, sempre economica. Se costruisco una sedia per gioco svolgo una attività economica: godo del piacere del gioco senza dover sostenere alcun costo. Il calcolo costi benefici è sotteso in tutte le attività umane. Il ragazzo disposto ad acquistare ad un prezzo spropositato un paio di scarpe solo perché queste sono reclamizzate da un grande calciatore non compie un'azione anti economica: per lui il piacere che gli procura indossare quelle scarpe compensa il disagio derivante dal dover pagare un prezzo più alto.
C'è molto di vero nell'analisi di Von Mises che, tra le altre cose, sembra fatta apposta per confutare le stucchevoli teorie sui “bisogni falsi o indotti” che ciclicamente conoscono in occidente i loro momenti di fortuna. Non esistono falsi bisogni per il semplicissimo motivo che i bisogni sono, sempre, soggettivi. Quale che sia l'origine di un bisogno questo, per il solo fatto di manifestarsi, è un bisogno autentico. Quanto al fatto che sia “indotto”, si può solo dire che la stragrande maggioranza dei bisogni umani sono “indotti”. Siamo sempre inseriti in qualche contesto, sociale o naturale, e questo induce in noi dei bisogni. Un uomo che viva in uno sperduto paesino di montagna, senza aver mai visto il mare, non sentirà il bisogno di farsi una bella nuotata in acque cristalline. Questo però può sorgere in lui se per caso vede la foto di una spiaggia, o se qualcuno gli parla di quella cosa che si chiama “mare”.
La posizione di Von Mises è quindi, per molti aspetti, condivisibile, però può indurre in gravi errori. Definire sempre e tutta “economica” l'azione umana porta infatti al risultato paradossale di non poter più fare distinzioni fra le azioni umane. E' economico cercare di investire nella maniera più redditizia una somma di denaro come struggersi d'amore, vendere un immobile come meditare vendetta per un affronto subito. Estendere a dismisura il concetto di “economico” porta a fargli perdere molto del suo significato, con la conseguenza di renderlo praticamente inservibile. Lo stesso Mises sente la difficoltà e distingue infatti ciò che sarebbe economico in senso lato da ciò che lo sarebbe in senso stretto.
Non è il caso di dedicare troppo spazio a questioni terminologiche. Penso che si possano definire economiche in senso stretto, o economiche tout court, le azioni umane che possano essere valutate in termini di calcolo costi – benefici, economiche in senso lato, o, semplicemente extra economiche, le altre. Si presta al calcolo costi benefici, quindi è economica, la vendita di un immobile, non si presta a questo calcolo il desiderio di vendicare un'offesa. Calcolo è sempre qualcosa di esprimibile in termini quantitativi, numerici. Chi uccide colui che lo ha offeso compie un delitto “passionale”, non agisce dopo aver ponderato attentamente i vantaggi e gli svantaggi del suo gesto. Se lo avesse fatto avrebbe rinunciato, con tutta probabilità, alla vendetta.

Uno schema
L'uomo è un essere limitato, finito. E' penosamente dipendente dall'ambiente circostante che ha bisogno di modificare per migliorare la propria condizione, ma anche solo per sopravvivere. Il lavoro è il prezzo, duro prezzo, che dobbiamo pagare per cercare di rendere un po' migliore la nostra esistenza. L'economia è figlia dell'umana limitatezza e, nel contempo, della capacità umana di operare per rendere tale limitatezza il meno penosa possibile. Non esiste economia in paradiso, e neppure all'inferno. L'economia riguarda l'uomo ed il suo mondo.
Il lavoro è un mezzo, una attività spesso sgradevole che si mette in atto in vista del raggiungimento di un fine. Nelle moderne società basate sullo scambio lo schema è: lavoro – conseguimento di una certa quantità di strumenti finanziari – possesso di beni o godimento di servizi che soddisfano alcune nostre esigenze. Si va dalla penosità del lavoro al soddisfacimento di alcuni bisogni passando per l'intermediazione del denaro e dello scambio.

Questo schema riguarda la vita di praticamente tutti gli esseri umani e la riguarda in maniera preponderante per moltissimi di loro. Anche chi vive di rendita gli è comunque debitore. Chi vive di rendita vive del lavoro altrui (ad esempio, dei genitori che gli hanno lasciato una ricca eredità) o del proprio passato lavoro: in questo mondo non ci sono pasti gratis, qualcuno deve produrre ciò che consumiamo.
Questo schema non dice nulla sul tipo di fini che gli esseri umani vogliono conseguire col loro lavoro. Certo, alcuni di questi sono determinati dalla conformazione naturale dell'animale uomo: tutti dobbiamo mangiare, vestirci, ripararci dalle intemperie, ma lo schema vale per qualsiasi fine l'uomo si ponga. Col denaro guadagnato lavorando si può acquistare il pane come un libro, comprare una casa o fare un viaggio, seguire un corso di meditazione trascendentale o sbronzarsi. Si possono realizzare fini egoistici o altruistici, spirituali o volgarmente materiali, le cose non cambiano: si va sempre dal lavoro, inteso come mezzo, al soddisfacimento di un bisogno, quale che questo sia. Ad essere decisivi, in questo schema, non sono i fini particolari degli esseri umani ma il generico incremento di denaro e di beni in grado di soddisfare una quantità crescente di fini. Per dirla in parole povere: gli esseri umani mirano a diventare ricchi o ad evitare di diventare poveri. In cosa poi consista la loro ricchezza è di scarsa rilevanza.
Parimenti, in questo schema il lavoro non deve necessariamente accordarsi con le aspirazioni ed i desideri degli esseri umani. Certo, tutti preferiscono fare un lavoro che in qualche modo a loro piaccia, o per il quale si sentono più portati, ma se il lavoro è un mezzo, il fatto che possa o meno piacerci o corrispondere alle nostre aspirazioni è secondario. Chiunque cercherà il mezzo meno faticoso, la attività meno stressante o più in linea con le proprie aspirazioni e capacità: questo fa parte del calcolo economico, mira a ridurre la componente “costi” di tale calcolo. Ma, appunto, della componente “costi” si tratta. Nessuno lavorerebbe gratis o pagherebbe il suo datore di lavoro per avere il “piacere” di lavorare per lui. Il lavoro inteso come mezzo, cioè il lavoro vero e proprio, non si identifica con la realizzazione delle nostre aspirazioni.

Per Marx questo schema costituisce la chiave per comprendere l'intero corso della storia umana. Produzione delle condizioni materiali di esistenza, sviluppo delle forze produttive sociali, divisione del lavoro, formazione delle classi e lotta fra le classi, tutto questo forma la struttura, il nucleo essenziale delle società, del loro sviluppo e delle loro crisi. Tutto il resto, istituzioni politiche e giuridiche, arte e scienza, religione e filosofia sono una mera determinazione della “struttura”, una “sovrastruttura” che, anche laddove goda di una sua parziale autonomia, influisce solo marginalmente sul corso della storia, il cui andamento si può prevedere con scientifica precisione. Dal lungo percorso di sviluppo e crisi delle società , esito finale della lotta fra le classi, sorgerà alla fine una comunità, in cui il lavoro cesserà di essere un mezzo per diventare, a sua volta, un fine, il più gratificante, liberatorio ed umano dei fini.
Sarebbe relativamente facile dimostrare come questa concezione si dimostri, nella migliore delle ipotesi, inadeguata ad interpretare moltissimi eventi della storia. Quello che ci preme evidenziare è che non regge neppure ad una analisi approfondita dello schema economico di cui sì è parlato.

Modifiche e rovesciamento dello schema
Quasi tutti i bisogni umani, per essere soddisfatti, necessitano di beni materiali. Occorrono beni materiali, ed il denaro necessario ad acquistarli, per soddisfare i bisogni più immediatamente corporali dell'uomo, ma anche, in larga misura, quelli più "spirituali”.
Tutti gli esseri umani devono soddisfare bisogni primari. Cibo, vestiti ed una casa interessano a tutti. Lo ha detto Aristotele oltre due millenni prima di Marx: anche l'uomo che si dedica alla pura attività speculativa ha bisogno di una certa quantità di beni materiali, se vuole continuare a vivere, anche lui è interessato allo schema economico che si è esaminato nel punto precedente.
Ma anche il soddisfacimento dei bisogni più spirituali dell'uomo è legato alla presenza di alcuni beni materiali. Un poeta ed un filosofo hanno bisogno quanto meno di penna e carta, oggi del PC e di un programma di videoscrittura. Al musicista occorrono quelle cose spesso assai costose che sono gli strumenti musicali. Lo scienziato poi ha bisogno di apparecchiature il cui prezzo è insostenibile per la maggioranza degli esseri umani, non a caso sono gli stati o grandi istituzioni private a fornirgliele. Qualsiasi predica contro il “Dio denaro”, qualsiasi sottovalutazione dell'importanza dei beni materiali nella vita umana è, appunto, solo una predica, una sterile, e sbagliata, invettiva moralistica.

Il fatto che siano necessari beni materiali per soddisfare anche i bisogni superiori dell'uomo, quelli che con una certa approssimazione abbiamo definito “spirituali”, sembrerebbe confermare lo schema che è stato esposto al punto precedente, ma stanno davvero così le cose?
Una caratteristica di quello schema è l'indifferenza verso ciò che si produce. Gli esseri umani mirano ad avere una quantità il maggiore possibile di denaro con cui acquistare beni e servizi in grado di soddisfare bisogni crescenti e differenziati. Quali che siano questi beni e servizi e questi bisogni è, da questo punto di vista, secondario. Si tratta di uno schema che non è certamente campato in aria e che è, in misura più o meno accentuata, presente nella vita di molti, forse di tutti gli esseri umani. Ma si tratta di uno schema che vale sempre? Vale per tutti gli uomini e determina la totalità del loro agire? E vale in relazione a tutti i loro bisogni? Anticipo la risposta: NO.
Prendiamo in esame il caso di un grande, autentico musicista. Anche lui deve mangiare e vestirsi, anche lui sarà quindi interessato ad avere una certa quantità di denaro che gli serva a questi fini. Inoltre per comporre musica gli occorrono certi beni materiali e quindi, di nuovo, una certa quantità di denaro. Il musicista non si limita a mangiare, vestirsi e ad avere un rifugio. Suona strumenti musicali, frequenta scuole di musica, incontra altri musicisti, viaggia. Anche per comporre sinfonie occorre denaro dunque, ma possiamo dire che un musicista, un musicista vero, compone sinfonie per guadagnare del denaro o non piuttosto che cerca (anche) di guadagnare del denaro per comporre sinfonie? Porre la domanda in questi termini significa avere già la risposta.
E quello che vale per il musicista può valere in moltissimi altri casi. Un grande alpinista può diventare ricco scalando vette inaccessibili, ma non è questo il fine delle sue scalate, al contrario, la ricchezza guadagnata gli serve per tentare, senza assilli economici, nuove imprese. Ed un vero scrittore non scrive per guadagnare, ma semmai guadagna per scrivere e lo stesso si può dire di un filosofo, o di un pittore. Un artista, uno scrittore o uno scienziato non accetterebbero mai di scambiare la loro attività con un'altra solo perché questa consente loro maggiori guadagni. Spesso artisti e scrittori, filosofi e scienziati hanno rinunciato a grandi ricchezze, a volte anche alla vita, per poter scrivere, dipingere, o pensare.
Si tratta di casi particolari, si potrebbe dire, che non riguardano la vita e gli interessi della gran maggioranza degli esseri umani. Ma non è esatto. Considerazioni in parte simili si possono fare riguardo a molte figure sociali, compresa una pienamente inserita nel “comune” ciclo economico: l'imprenditore. Solo persone superficiali possono pensare che un grande, autentico, imprenditore lavori per guadagnare il più possibile e accumulare senza fine beni materiali. Certo, i grandi imprenditori sono molto ricchi, ma investono il grosso della loro ricchezza in sempre nuove iniziative imprenditoriali. L'imprenditore fa soldi per lavorare, non lavora per far soldi. Conquistare nuovi mercati, lanciare nuovi prodotti, sperimentare nuovi modi di produzione sono i suoi fini più autentici, molto più importanti che non accumulare auto di gran cilindrata o ville in Costa Smeralda. E di certo l'attività imprenditoriale riguarda da vicino la vita di milioni di esseri umani.
Soprattutto, le considerazioni fatte riguardo a scrittori, filosofi ed artisti valgono nei confronti di due categorie di esseri umani molto vicini, nel bene o nel male, alla vita ed agli interessi di milioni di persone: i religiosi ed i politici.
L'opera di evangelizzazione è molto costosa come lo sono le campagne elettorali e l'attività politica in genere. Un vero religioso ed un politico degno di questo nome però non hanno come fine il lucro. Le opere di evangelizzazione non servono a far soldi, sono i soldi che semmai servono ad evangelizzare. Allo stesso modo per un politico che non sia un furfante sono i soldi che devono servire alla politica, non la politica a far soldi.

Gli esempi potrebbero continuare a lungo, ma non credo valga la pena di dilungarsi ancora. Lo schema da cui eravamo partiti negava importanza ai fini dell'attività produttiva, ad essere importante era una generica massimizzazione del denaro e dei beni materiali. Approfondendo la questione ci siamo accorti che in molti casi è il fine di una certa attività ad essere davvero importante, tanto che l'acquisizione di denaro e mezzi materiali diventa un puro e semplice mezzo per realizzare tale fine. Nelle concezione materialistica della storia, politica e religione, arte e filosofia, e tante altre cose ancora, sono ridotte al rango di “sovrastrutture” determinate dalla struttura economica. Le idee, i programmi politici, le tendenze artistiche e filosofiche sarebbero, in ultima istanza, lo specchio di interessi che nascono all'interno della struttura economica, in quel campo in cui è fondamentale la produzione di bei e servizi. Approfondendo l'analisi ci imbattiamo però nel fatto che a volte è la produzione di beni e servizi ad essere finalizzata alla realizzazione di certe idee, o di certi programmi politici, o alla propaganda di una certa fede religiosa. Se milioni di persone sono disposte a rinunciare ad un quarto del loro stipendio per finanziare un partito politico o la costruzione di un tempio, un simile fenomeno è spiegabile in termini di materialismo storico? Si, solo se il materialismo storico viene ridotto alla volgare banalità secondo cui anche l'attività politica o la pratica della fede hanno bisogno di beni materiali. Ma questo nessuno lo ha mai negato.

I due schemi su cui ci siamo dilungati non sono, in fondo, tanto contrapposti fra loro come a prima vista si potrebbe pensare. Qualsiasi attività produttiva è volta al soddisfacimento di certi fini o bisogni umani, d'altra parte, qualsiasi fine umano può realizzarsi solo per il tramite di certi beni o servizi materiali. La differenza fra i due schemi si riduce a in fondo a tre punti.
Nel primo i fini e gli obiettivi degli esseri umani non entrano in contraddizione con l'obiettivo generico di accrescere, o conservare, o difendere, il proprio livello di benessere materiale, nel secondo invece questa contraddizione può sorgere. Se Tizio desidera auto di lusso e ville al mare, viaggi e quadri d'autore questi suoi fini non contraddicono il desiderio di accrescere o difendere il proprio benessere, al contrario, si identificano con questo. Se Tizio invece mira al trionfo di un certo programma politico potrebbe essere costretto a sacrificare a questo fine il proprio benessere materiale.
Nel primo schema i rapporti sociali e politici fra gli esseri umani sorgono direttamente dai rapporti di produzione e di scambio, a prescindere dal tipo di fini che si pone chi scambia e produce. Lavoro, guadagno e compro degli oggetti. I rapporti sociali che nascono da tutto questo sono quelli fra me ed il mio datore di lavoro, fra me ed i venditori delle merci che acquisto. Il concreto utilizzo che posso fare di un'auto o una casa riguarda l'ambito della mia vita  privata. Nel secondo schema invece è da questo concreto utilizzo che nascono importantissimi rapporti sociali e politici. Se utilizzo i soldi che guadagno per finanziare una compagna elettorale è la particolarità di questo utilizzo a far nascere fondamentali rapporti politici e sociali fra me ed altri esseri umani. 
Infine, nel primo schema il lavoro è puramente e semplicemente un mezzo in vista di un fine, nel secondo è esso stesso un fine o è comunque inestricabilmente legato al fine che si intende raggiungere. Si possono ottenere beni materiali lavorando in banca come in una impresa industriale, ma per far trionfare un programma politico occorre fare il politico.
Nel primo schema, per concludere, il benessere è un fine, indipendentemente dalle forme che può assumere, nel secondo i beni materiali, quindi un certo livello di benessere, sono un mezzo per realizzare certe idee, o assecondare certe passioni o certe attitudini. Nel primo schema, di conseguenza, il lavoro è un mezzo finalizzato alla realizzazione o alla conservazione del benessere, nel secondo un fine.


LA DIVISIONE DEL LAVORO

La concezione marxiana

Secondo il materialismo storico alla base dell'evoluzione della storia stanno i conflitti fra diverse classi sociali.
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.” afferma Marx nel celeberrimo “manifesto del partito comunista” e prosegue:
“Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.”
Di nuovo, sarebbe fin troppo facile dimostrare che una simile impostazione non spiega moltissimi eventi storici, anzi, la gran maggioranza di essi. Interpretare come lotta fra “oppressi ed oppressori” lo scontro fra papato ed impero, o quello fra Islam e cristianità, o ancora le guerre fra Roma e Cartagine è impossibile, a meno di non fare ricorso a colossali mistificazioni. Lo steso Marx deve essersi reso conto di aver troppo semplificato le cose se nello stesso “manifesto”, più avanti, ricorda che le precedenti rivoluzioni sono state tutte condotte da “minoranze o nell'interesse di minoranze”, cosa che francamente quadra poco con la pretesa che sinora sia stata la lotta fra “oppressori ed oppressi” la molla della storia.
Una delle radici dell'errore di Marx sta, a mio parere, nella sua concezione di divisione del lavoro e nella concezione di “classe sociale” da questa derivante. Val la pena di dedicargli un po' di attenzione.

La divisione del lavoro è con tutta probabilità sempre esistita, nessuna organizzazione sociale ne ha mai fatto a meno; una rudimentale divisione del lavoro è esistita anche nella fase tribale dello sviluppo umano. Non è stato di certo Marx a scoprire l'importanza della divisione sociale del lavoro, basti pensare a Smith e, prima di lui, addirittura a Platone. Né è stato Marx l'unico ad avere vagheggiato una futura società in cui la divisione del lavoro venisse “superata”. La peculiarità di Marx è forse un'altra: dalla divisione del lavoro nascono classi sociali con interessi irrimediabilmente contrastanti e lo scontro dei loro interessi costituisce il motore che fa muovere la storia. E' evidente il legame fra questa concezione e l'altra, di cui si è parlato, che fa dell'economia il cuore essenziale delle varie formazioni sociali. L'economia è la base di qualsiasi organizzazione sociale; le classi che sorgono nel mondo dell'economia, legate alla proprietà, od alla esclusione dalla proprietà, della terra e dei mezzi di produzione, costituiscono i fondamentali soggetti sociali, lo scontro di interessi fra questi soggetti è la molla dello sviluppo storico.



Limiti ed errori della concezione marxiana
Anche ad uno sguardo distratto questa concezione appare riduttiva e parziale. Legare tutte le classi al mondo della produzione e dello scambio trascura, molto semplicemente, il fatto che non tutti, in qualsiasi società, operano in quel mondo. In una società ci sono operai e tecnici, banchieri e mercanti, ma ci sono anche politici, magistrati, sacerdoti, intellettuali. La divisione del lavoro non riguarda solo il mondo dell'economia, né sorge solo dentro quel mondo, riguarda la società nel suo complesso. Si può dire che la fondamentale divisione del lavoro è quella che divide la società in diverse macrosfere. Una macrosfera economica, una politica, una religiosa, una intellettuale e così via. La divisione fra governanti e governati, re e sudditi, sacerdoti e fedeli precede la divisione del lavoro interna all'area della produzione e dello scambio. Marx si rende conto, probabilmente, di tutto questo ed infatti parla a volte di divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, e considera la divisione del lavoro fra i sessi come quella più antica e più duratura. Non trae però da queste intuizioni le dovute conseguenze.
O meglio, le trae, ma solo per sminuire radicalmente l'autonomia, il peso e l'importanza di ceti e classi che si collocano fuori dalla divisione del lavoro di tipo strettamente economico. Politici e magistrati, clero ed aristocrazia, intellettuali ed artisti sono collocati da Marx nell'area della “sovrastruttura”, la loro azione ed il loro pensiero non fanno altro che rispecchiare gli interessi e le aspirazioni delle classi economicamente dominanti. La politica, per fare solo un esempio, non ha una sua autonomia, le posizioni dei vari partiti non fanno altro che riflettere gli interessi e le aspirazioni delle classi economicamente dominanti. Quella che abbiamo definito divisione della società in macrosfere non sarebbe altro che il prodotto della divisione del lavoro che sorge in ambito strettamente economico.


Ma sono chiari i limiti e le incongruenze di una simile concezione riduttiva di tutto ciò che non è  economico. Perché la divisione del lavoro che sorge in ambito strettamente economico-produttivo dovrebbe sempre e comunque essere più importante di quella che assegna alla stessa attività economica il suo spazio ed il suo ruolo? E' vero che senza attività produttiva gli esseri umani non potrebbero vivere, ma è anche vero che l'esistenza di un potere politico, di magistrati, sacerdoti ed intellettuali è vitale per quella stessa attività. E perché re e principi, magistrati, sacerdoti ed intellettuali non dovrebbero avere interessi propri, proprie visioni del mondo ma dovrebbero puramente riflettere e tutelare gli interessi delle classi più direttamente economiche? Non c'è contraddizione nel dire che un re tutela, regnando, gli interessi dei banchieri e dei mercanti, ma non ce n'è alcuna anche nel dire che, regnando, il re piega ai propri interessi l'attività di banchieri e mercanti. Questa seconda affermazione è anzi storicamente molto più corretta.
Qualcuno potrebbe obiettare che in certi periodi storici, ad esempio, nel feudalesimo, l'essere signore feudale si identificava con l'essere proprietario terriero, le funzioni politica ed economica venivano quindi a coincidere. Ma questo è vero solo per alcune epoche storiche, ed anche per queste in maniera solo parziale. Inoltre una simile obiezione non risponde al quesito fondamentale: anche ammettendo la coincidenza fra funzione politica e funzione economica, quale delle due è la prevalente? Il signore feudale era tale perché proprietario terriero o non valeva piuttosto l'inverso? Era il rapporto fiduciario con l'imperatore a trasformare un aristocratico in signore feudale possessore prima, poi, in certi casi, proprietario di terre. Ad essere decisivo era il momento
politico, non quello economico.
E, come spiegare in termini di rigoroso materialismo storico l'importanza enorme che ha avuto nella storia un ceto come il clero cattolico? Un ceto
non legato alla proprietà privata dei mezzi di produzione, anzi, neppure proprietario dei beni di cui godeva il possesso, composto da uomini che non potevano sposarsi e quindi lasciare in eredità ai figli i propri beni ed i propri privilegi. Una non classe in senso marxiano. Una non–classe però con propri specifici interessi, una propria, importantissima visione del mondo, un peso politico, sociale, culturale ed anche economico rilevantissimo, per secoli. Di nuovo, solo a prezzo di colossali semplificazioni è possibile ridurre il ruolo di questa importantissima non-classe negli schemi precostituiti del materialismo storico.

Per il materialismo storico marxiano il momento economico produttivo è la molla dello sviluppo storico e ad attivare tale molla sono gli interessi contrapposti ed inconciliabili delle classi che nascono sul terreno specificamente economico. Ma entrambi questi presupposti si rivelano ad una analisi più approfondita errati o quantomeno gravemente insufficienti. La ricerca del benessere materiale è solo
uno degli obiettivi dell'azione umana. Importante certo, ma non unico né sempre e comunque decisivo. Altri obiettivi sono possibili e questi sono in grado di indirizzare il comportamento umano quanto o più che non la mera ricerca del benessere materiale. Allo stesso modo la divisione del lavoro che sorge nell'ambito economico-produttivo non è la sola né è sempre quella che determina o condiziona in maniera decisiva tutto. Altrettanto e, a volte, più importante è la divisione della società in una sfera economica ed in diverse sfere extra economiche in grado di condizionare in profondità lo sviluppo  sociale. Il fatto che tutte queste sfere siano collegate fra loro e che, almeno in una certa misura, interagiscano, non fa di esse un sistema organico il cui cuore starebbe nell'economia. Esistono legami fra, ad esempio, le arti figurative e lo sviluppo socio economico di un certo paese, ma sarebbe fatica sprecata cercare di spiegare la pittura di Michelangelo partendo da considerazioni socio economiche sull'Italia del cinquecento. E solo il caso di aggiungere che la storia recente delle società aperte ha dimostrato che anche la teorizzazione di una assoluta inconciliabilità di interessi fra le classi economiche si è rivelata essere più una costruzione ideologica che il risultato di una seria analisi scientifica.


Importanza del momento extra economico
Se si guardano con attenzione e senza preconcetti gli eventi storici, ed anche politici, ci si rende inoltre conto di una cosa: obiettivi e comportamenti che sorgono nelle sfere non economiche sono quelli che spesso determinano alcuni degli eventi più importanti e, a volte, distruttivi della storia.
Poche cose hanno avuto tanta importanza nello sviluppo dell'occidente quanto la rivoluzione scientifica del cinque seicento. Una concezione del mondo e del posto dell'uomo nel mondo è radicalmente mutata in un tempo relativamente breve e questo ha avuto conseguenze immani in tutti campi, compreso quello direttamente economico produttivo. E la rivoluzione scientifica è stata soprattutto, un evento culturale teorico, ha riguardato la metafisica prima che la produzione sociale. Senza la confutazione della fisica aristotelica, la critica alla concezione aristotelica del moto e dei luoghi naturali la rivoluzione scientifica non sarebbe stata possibile, con tutte le conseguenze del caso.
Si è fatto un accenno agli eventi distruttivi. In effetti questi sorgono spesso in ambiti che con l'economia hanno relativamente poco a che fare. Che le guerra abbiano sempre origine economica è ormai un luogo comune. Comodo luogo comune che serve ad assolvere, ad esempio, ideologia e religione che invece con la guerra hanno avuto a che fare spesso e volentieri.
Perché dovrei fare la guerra a Tizio per impossessarmi del suo denaro e non perché lo considero un mostro che per il solo fatto di esistere offende i miei sentimenti più profondi? Possono convivere due stati uno dei quali considera l'altro un ricettacolo di corruzione in grado di infettare, prima o poi, i suoi stessi cittadini? Pensare che ci si possa ammazzare solo per denaro è una variante dell'idea secondo cui l'unico obiettivo che gli esseri umani perseguono è la ricerca del benessere materiale, ma questo è, molto semplicemente, falso. Il fanatismo religioso o ideologico, l'odio nei confronti di certe razze o certi popoli, la convinzione assoluta che certi pseudo ideali
debbano comunque affermarsi, costi quel che costi, son tutte cose che esistono e non riguardano solo sparuti gruppi di intellettuali. Le fedi irrazionali, gli ideali assoluti, gli stessi grandi filosofemi totalitari, debitamente banalizzati e semplificati, diventano spesso luoghi comuni popolari, sentimenti diffusi a livello di massa, esaltanti obiettivi collettivi, con le ben note conseguenze. Si elimini la componente fideistica, ideologica dalla storia ed eventi come la shoah, l'eliminazione del kulak in quanto classe o il fondamentalismo islamico diventano inspiegabili. Certo, qualcuno trova sempre qualche pozzo di petrolio o qualche contratto commerciale che spiegherebbe tutto. Però, contratti commerciali se ne fanno ovunque, e ovunque c'è qualche appetibile materia prima. Non ovunque però ci sono guerre e massacri.

L'autore del celebre bestseller “
lo scontro delle civiltà”, Samuel P. Huntington, rovescia addirittura la tesi secondo cui sono gli interessi economici la principale, se non l'unica, causa di guerra. I contrasti che hanno basi ideologiche, religiose o culturali sono anzi assai più sanguinosi e difficili da risolvere che non quelli derivanti da scontri di interessi economici. Un territorio ricco di materie prime può essere diviso, una città santa no. Quando ci si trova di fronte ad un contrasto di interessi economici il compromesso è sempre possibile, quando a scontrarsi sono ideologie o fedi contrapposte un, faticoso, compromesso è possibile solo se i fedeli non sono fanatici integralisti. Se lo sono, o lo è anche una sola delle parti in lotta, ogni compromesso diventa impossibile. La cosa può apparire strana solo a chi è ancora legato a concezioni ideologiche. L'interesse economico è misurabile, è soggetto al calcolo costi benefici e poche cose sono tanto costose, e rischiose, quanto una guerra. La fede ideologica e religiosa, se integralista e fanatica, sfugge invece ad ogni misurazione, ad ogni calcolo, quindi ad ogni ragionevole valutazione sulle possibilità ed i benefici del compromesso. Cercare sempre e comunque l'interesse economico quale spiegazione di lotte e guerre è profondamente stupido. Dobbiamo considerare un caso che il lembo di terra su cui sorge lo stato di Israele, terra arida, priva di materie prime, sia il luogo del pianeta più tormentato dalla guerra?

La concezione marxista che mette sempre e comunque l'economia al centro di tutto è, per concludere, semplicemente errata. Ed è fonte di equivoci sempre muovi, ed assai dannosi.

mercoledì 12 novembre 2014

LA DEA SRAGIONE




Esistono modi di argomentare, di difendere le proprie idee, che sono intrinsecamente sbagliati e finiscono per rovinare le stesse idee, eventualmente rispettabili, in difesa delle quali essi sono usati. Cercherò di esaminare alcuni di questi modi di ragionare perversi.

Molti in quella vasta e frastagliata area che si definisce "sinistra" basano le loro argomentazioni su un procedimento molto semplice: prima si compila un elenco di parole proibite, poi basta accusare qualcuno di fare, volere o perseguire ciò che la parola proibita designa e il gioco è fatto! Quel qualcuno diventa per ciò stesso un essere malvagio. Accanto alle parole proibite che designano qualcosa che è di per se negativo esistono poi le parole buone. Al contrario delle parole proibite esse designano qualcosa che è sempre e comunque positivo; chi fa, vuole o persegue ciò che queste parole virtuose designano è automaticamente buono. Non occorre analizzare un fatto, collocarlo nel suo contesto, vedere quali sono le sue premesse, quali le sue conseguenze, basta che si appiccichi a questo fatto una certa parola, ed esso diventa automaticamente buono o cattivo.
La parola naturale è buona, tutto ciò che è naturale è sempre e comunque buono. Se un evento naturale come lo zunami provoca morti in quantità industriali ciò è dovuto alla "umana follia". Che sia insensato parlare di bontà o cattiveria a proposito di eventi naturali non passa neppure per la mente di certi guru del radicalismo ecologico. La parola profitto invece è negativa. Una certa azienda persegue il profitto? Vuol dire che sfrutta i lavoratori, inquina l’ambiente eccetera. Che alti profitti possano coesistere con salari elevati o che si possano fare profitti anche vendendo depuratori è di nuovo allegramente ignorato dai super critici del sistema. E’ evidente che chi ragiona in questo modo non può discutere pacatamente coi propri interlocutori. Se uno di questi infatti si lascia scappare una parola proibita non occorre esaminare le sue tesi, vedere se sono logicamente coerenti e non contraddette dall’esperienza, basta urlare la propria indignazione.

Gli esponenti della sinistra radicale (ed altri, mi riferisco a loro solo perché sono più numerosi) usano spesso una forma di ragionamento che è più o meno la seguente “Se A fa X è malvagio, se fa non-X è malvagio lo stesso”. Vediamo di esemplificare.
Se i paesi occidentali vendono armi ai paesi del sud del mondo sono malvagi perché fomentano guerre e massacri, se non le vendono sono egualmente malvagi perché vogliono conservare per sé la supremazia militare.
Se i paesi occidentali hanno buoni rapporti con un dittatore sono malvagi perché aiutano chi nega i diritti umani, se cercano di far cadere questo dittatore sono egualmente malvagi perché si intromettono negli affari interni di una paese straniero e rischiano di causare una guerra.
Se il governo stanzia fondi per la scuola è malvagio perché la scuola serve a fornire al padronato mano d’opera qualificata, stanziando quei fondi il governo permette al padronato di risparmiare sulle spese di formazione della forza lavoro. Se non stanzia fondi per la scuola il governo è malvagio perché lascia il popolo nell’ignoranza.
Si potrebbe continuare, riempire pagine e pagine di simili esempi. Chi come me è, purtroppo, non più giovane ed ha vissuto l’esperienza degli anni 70 del secolo scorso sa bene che la fiorente editoria dell’estrema sinistra era traboccante di argomenti simili. Un celeberrimo (allora) documento del "potere studentesco" iniziava con una perentoria affermazione: “La scuola è scuola di classe due volte: perché esclude i proletari e perché diffonde l’ideologia borghese”. Appunto...

Altre argomentazioni dei super critici del “sistema” assumono invece la seguente forma: “Non è vero che A è malvagio perché fa X, è X ad essere malvagio se è fatto da A”. Anche qui vediamo di esemplificare. 
Gli Stati Uniti d’America sono stati spesso accusati di essere imperialisti per essere più volte intervenuti militarmente fuori dai loro confini. Si può ovviamente entrare nel merito di questa accusa ma il punto ora non è questo. Il punto è che gli stessi che accusavano gli Stati Uniti di imperialismo perché intervenivano militarmente fuori dai loro confini hanno usato un metro di giudizio del tutto diverso quando ad intervenire fuori dai propri confini erano altre potenze. L’intervento sovietico in Ungheria del 1956 venne a suo tempo definito dal PCI come un fraterno aiuto prestato dai sovietici al popolo ungherese, posizioni simili vennero espresse a proposito della invasione cinese del Tibet.
Un intervento militare è sempre e comunque un atto imperialista se è effettuato dagli Stati Uniti, diventa qualcosa di diverso se sono altri ad effettuarlo. La morte di un manifestante è intollerabile se a sparare è un poliziotto italiano, assai più tollerabile se avviene in un paese lontano e poco amico degli Stati Uniti come Cuba. Tenere chiusi a Guantanamo dei presunti (in realtà più che presunti) terroristi è un crimine, fucilare un povero diavolo perché cercava di scappare da Cuba non lo è.
Nietzske affermava che non è una nobile causa a giustificare la guerra, è la guerra  a rendere nobile ogni causa. Parafrasandolo si può dire: “l’occidente non è malvagio perché commette azioni malvagie, sono certe azioni a diventare malvagie se commesse dall’occidente”.

Quanto detto nei punti precedenti riguarda la forma di certi discorsi. Occorre ora fare alcune considerazioni su come chi fa certi discorsi si rapporta ai fatti che possono confermarli o smentirli.
Qui l’obiettivo delle persone che ragionano in maniera scorretta, tese solo a prevalere nel confronto dialettico, è quello di immunizzare il più possibile le loro teorie o, più modestamente le loro affermazioni, dalla dura critica delle cose.

Un primo artificio che costoro usano potremmo chiamarlo uso surrettizio del rapporto causa-effetto. Vediamo anche qui di esemplificare.
Nel mondo purtroppo esistono milioni di persone che soffrono la fame e ne esistono altre che, a loro confronto, possono certamente essere definite “ricche”. Un seguace del politicamente corretto a questo punto non ha dubbio alcuno: chi è povero lo è perché altri non lo sono o non lo sono più.  Ma è necessariamente corretto un nesso causale di questo genere? No, ovviamente. In un paese economicamente sviluppato in una giornata di lavoro si produce una quantità di beni enormemente superiore di quanti se ne producono nello stesso tempo in un paese povero. Un ettaro di terreno agricolo negli Stati Uniti ha un rendimento enormemente superiore ad un ettaro di terreno agricolo in Africa. E’ la diversa produttività del lavoro, il diverso rendimento della terra a fare la differenza fra ricchi e poveri. E dietro la diversa produttività stanno il divario tecnologico, lo sviluppo delle conoscenze, la ricerca. Tutto questo significa forse che si devono lasciare al loro destino i paesi poveri? No, ovviamente, significa solo che per aiutarli occorre capire quali sono i loro veri problemi. E non aiuta in questo compito l’idea secondo cui la miseria di alcuni e la, relativa, ricchezza di altri sono automaticamente collegate da un nesso causale. Se e quando questo nesso esiste va eventualmente dimostrato, non può essere presupposto.

Un secondo artificio consiste nell’escludere dalla scena come secondario, accidentale o ininfluente tutto ciò che contrasta con certe teorie o affermazioni. Contemporaneamente tutto ciò che non contrasta con tali teorie viene enfatizzato al massimo.  Esemplifichiamo.
Per molti l’unica causa di conflitti e guerre è l’economia, addirittura l’economia intesa in senso spicciolo, non più le esigenze della riproduzione allargata, o la caduta del saggio di profitto, o la necessità di trovare nuovi sbocchi per evitare crisi di sovra produzione. No, il fatto che in un certo stato abbondi la tal materia prima, che esistano dei contratti commerciali sono con sicumera additati da alcuni come cause “autentiche” delle guerre. Nel paese A c’è una guerra? Ma, in quel paese ci sono ricchezze naturali, quel paese ha stipulato anni fa dei contratti commerciali con i paesi B e C.. ecco le vere cause del conflitto! Facile no? Si… troppo facile. In ogni angolo del pianeta esistono materie prime, ovunque si stipulano contratti commerciali: è un gioco da ragazzi trovare questa o quella motivazione economica in grado di spiegare ogni conflitto ed ogni guerra. Chi vede dietro ad ogni conflitto sempre comunque e solo cause economiche ha sempre ragione, a meno che non gli si chieda come mai in certi paesi, con le loro materie prime ed i loro contratti commerciali, la guerra non ci sia. Ciò che spiega tutto non spiega nulla.
Nello stesso momento in cui si attribuiscono a certi fattori una importanza esorbitante altri, la cui rilevanza è sotto gli occhi di tutti, vengono letteralmente cancellati dalla scena.
La diffusione nel mondo in forme sempre più sanguinarie e fanatiche del fondamentalismo islamista è un fenomeno di enormi dimensioni ed importanza. Riguarda centinaia di milioni di esseri umani, ha un peso enorme sugli equilibri internazionali, nei rapporti fra gli stati, mina nel profondo la possibilità stessa di una civile convivenza fra appartenenti a diverse confessioni. Eppure questo fatto enorme scompare, letteralmente, nelle analisi di molti esponenti della sinistra ideologica. La fanatizzazione di masse rilevanti di esseri umani decade a fattore secondario, accidentale. Importante è l’essenza profonda del divenire storico, ciò che sta in superficie, i volgari fenomeni empirici, sono cose prive di autentica importanza.
Né la rimozione di fatti di enorme rilevanza riguarda solo l’oggi. Si estende al passato, alla storia. Il comunismo è stata una delle più grandi e drammatiche esperienze della storia, ha coinvolto oltre metà della popolazione mondiale, si è esteso sulla maggioranza delle terre emerse ed ha lasciato una scia di cadaveri impressionante. Ma del comunismo oggi non si può parlare ha stabilito qualcuno. Chi ne parla viene subito guardato con aria di compatimento. ”Ecco, uno che parla del comunismo, poverino, non è al passo coi tempi…” Tutti i totalitarismi hanno cercato di eliminare la storia, uno dei loro primi obiettivi è sempre stato quello di distruggere la memoria, si leggano a questo riguardo le bellissime pagine di Orwell in “1984”. Per molti che si definiscono “democratici” “progressisti”, “amanti della libertà” il comunismo non è morto nel 1989, il comunismo non è mai esistito, esattamente come non erano mai esistite le persone che nel romanzo di Orwell venivano “vaporizzate”.

E quando i fatti che smentiscono  certe teorie sono troppo evidenti e soprattutto troppo vicini ed attuali per venire semplicemente ignorati gli occidentali che non amano la loro civiltà hanno subito pronte due formidabili armi retoriche con le quali cercare di neutralizzarli.
La prima può essere definita teoria del complotto. Dietro ai fatti che non ci piacciono c’è l’azione di forze misteriose e potenti. Il terrorismo islamista colpisce ed ammazza? Sotto c’è di certo lo zampino della Cia. Il comunismo è crollato? Mah... di certo il governo degli Stati Uniti ha pescato nel torbido. Non c’è evento importante su cui non corrano voci di complotti e cospirazioni, dall’attentato alle torri gemelle allo sbarco sulla luna, dalla morte di Moro a quella di Lady Daiana.
Naturalmente i complotti esistono, sono sempre esistiti, solo, occorre provarli.  I teorici del complotto però non si danno troppa cura di portare prove credibili a sostegno delle loro fantasie. Le loro tesi non hanno mai convinto la giuria di un tribunale, né una commissione di esperti né la maggioranza dell’opinione pubblica, ma questo non li scoraggia per niente. La magistratura boccia le loro ipotesi? Chissà, forse anche i giudici fanno parte del complotto, esistono molti testimoni che sconfessano le loro tesi? Poco male, quelle persone sono prive di credibilità, sono state comprate dai congiurati. Coloro che vedono complotti ovunque non esitano ad inventarsi nuovi complotti che “spieghino” come mai le loro tesi non riescono ad affermarsi: un complotto sostiene l’altro e così via, potenzialmente all’infinito. E poi che bisogno c’è di prove? Chi organizza complotti è abile e potente, gode di protezioni invincibili, non lascia prove. La mancanza di prove è essa stessa una prova del complotto. La perfida e sapiente attività dei congiurati diventa in questo modo una nuova forma di essenza storica, una sorta di noumeno di nuovo tipo che fonda e spiega il mondo delle apparenze.

La seconda arma polemica può essere sintetizzata in tre parole: “chi li paga?”. Uno scienziato smentisce il catastrofismo di certi ambientalisti? Un economista fa affermazioni che non piacciono ad un no global? Non si esaminano le loro teorie, non si cerca di appurare se sono logicamente coerenti e non contraddette dall’esperienza. No, chi dice cose non gradite lo fa perché pagato da  qualcuno. Si tratta di una persona infida e disonesta che non deve essere confutata ma coperta di ingiurie, distrutta. Questo metodo è molto comodo, permette di non confrontarsi con i propri interlocutori, di non prendere sul serio ciò che dicono. Di nuovo, chi si avvale di simili metodi ha sempre ragione, come ha sempre ragione chi non discute ma prende a pugni (o a revolverate) colui che osa non essere d’accordo con lui.
Chi dice cose che non condividiamo potrebbe anche essere davvero pagato per dirle. Questo non ha nessuna importanza, afferma Popper, sul merito delle teorie che sostiene. Anche se Galileo fosse stato al soldo di oscuri nemici della Chiesa quanto da lui sostenuto nel “dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” non perderebbe un grammo della sua validità scientifica. Che io sappia neppure il tribunale della Santa inquisizione fu così terrorista da usare simili argomenti. Dovevano essere certi “progressisti” dei nostri tempi a farli tornare in auge.
I teorici del complotto e del “chi li paga?” non si rendono conto che le loro tesi sono perfettamente reversibili. Se tutto può essere spiegato con misteriosi complotti chi ci assicura che chi teorizza complotti ovunque non faccia parte di un grande, misterioso complotto che ha il fine di destabilizzare l’occidente? Se chi sostiene cose sgradite lo fa perché qualcuno lo paga chi ci dice che ad essere pagati non siano proprio coloro che accusano gli altri di essere al soldo di qualcuno? Se uno scienziato che contesta il catastrofismo di certi ambientalisti è pagato dalle multinazionali perché un seguace del radicalismo ecologico non potrebbe essere interessato ai milioni di euro di finanziamenti che girano intorno ai programmi ambientalisti? Chi usasse certi argomenti anche come ritorsione sbaglierebbe comunque. Essi, molto semplicemente, non devono essere mai usati da chi ama la ricerca della verità.

Uno dei difetti principali di coloro che usano il tipo di argomenti che sono stati esaminati è il totale vuoto di proposta che caratterizza i loro discorsi, l'impossibilità di trovare in essi ogni accenno ad una modello positivo di società, ogni rimando a qualcosa di esistente, di concretamente realizzato o quanto meno  in via di realizzazione.
Con tutti i suoi errori ed orrori il comunismo reale quanto meno un pregio lo aveva: era, appunto, reale. L’idea comunista si incarnava in “quella cosa lì”, in quello stato, in quegli stati; non era una semplice idea, frutto dei desideri, delle pulsioni o delle fantasie di qualche intellettuale sognatore. Il crollo del comunismo ha messo bruscamente fine a questo stato di cose. Gli ipercritici del sistema "capitalistico" non hanno più un modello da seguire, da additare ad esempio. E non solo non hanno un modello positivo da additare, sono incredibilmente poveri di proposte concrete, di progetti da discutere, criticare, cercare gradualmente di mettere in atto. Quando si tratta di passare dalla protesta alla proposta il super critico del sistema diventa subito straordinariamente elusivo, riesce solo a fare affermazione ultra generiche del tipo: “vogliamo un mondo nuovo, pacifico, senza misera ed oppressione” (e chi non vuole un mondo simile?) oppure proposte minimaliste, a volte condivisibili, altre no, ma sempre del tutto slegate da ogni visione d’insieme della società e dei suoi problemi (risparmiamo energia, usiamo lampadine a basso consumo, coibentiamo le abitazioni).
Questo impressionante vuoto di progetto è assai vantaggioso per il super critico del sistema, ovviamente. Chi non ha esempi da additare, chi non propone niente o quasi non può essere sottoposto ad alcuna critica, si trova nella invidiabile situazione di poter criticare tutto e tutti senza poter mai essere criticato. Ma è proprio questo il suo difetto maggiore, questa la critica principale che gli si può rivolgere! Come mai non hai esempi da additare, proposte da fare, progetti da cercare di realizzare? Esiste un nome che definisce chi critica e non propone, distrugge e non costruisce. Questo nome è nichilista. Il super critico del sistema (sia esso di sinistra o di destra) è un nichilista, ama il negativo ma non il positivo, prova una soddisfazione enorme nel distruggere, nel mettere in ridicolo, nell’additare al pubblico disprezzo, e il costruire non è affar suo. Forse è per questo che il terrorismo omicida non gli incute alcun ribrezzo, non ingenera in lui preoccupazione alcuna. I terroristi che si fanno esplodere al solo fine di distruggere vite umane a casaccio per quanto possano essere lontani dal suo modo di pensare fanno qualcosa che in fondo lo affascina: distruggono, mettono in crisi il quieto vivere dei “borghesucci” occidentali, rovinano la pace di chi si sollazza sulle miserie del mondo, introducono la paura in quella moderna Sodoma che è l’occidente. In questo non esiste alcuna differenza fra nichilisti di destra e nichilisti di sinistra, sempre pronti a darsele di santa ragione ma uniti nel disprezzo verso la civiltà di cui entrambi sono figli degeneri. 
In pressoché tutti i suoi capolavori Dostoewskij traccia memorabili profili di nichilisti , mette a nudo la loro pochezza intellettuale, il vuoto morale che accompagna le loro azioni ed i loro pensieri. Questi personaggi non sono purtroppo solo un ricordo del passato né lo splendido parto di una mente geniale. Il nichilismo può diventare la malattia mortale della nostra civiltà, già oggi corrode in profondità la sua cultura. E la Dea sragione è la sua musa.

giovedì 30 ottobre 2014

SOCRATE GLI ISRAELIANI ED I PALESTINESI









GIANNI FATTIMO: Salve o nobile Socrate!
SOCRATE: O carissimo Gianni, che piacere vederti! Mi sembri assai contento. Un sorriso di soddisfazione è stampato sul tuo volto intelligente.
F. Beh, si, ho appena terminato un pubblico dibattito e ho messo in chiara difficoltà il mio nemico.
S. Nemico? Ma, nei dibattiti non ci sono nemici. Si discute per cercare, insieme, la verità che è sempre una, la stessa per tutti; e tutti siamo felici quando ci avviciniamo al vero.
F. Sai, il mio era un dibattito su un argomento particolare, che divide fra amici e nemici, inevitabilmente.
S. Davvero? E di cosa si trattava?
F. Dello stato di Israele e della sua politica aggressiva, criminale.
S. Politica aggressiva, criminale? Da parte di uno stato non più grande della Lombardia? Circondato da stati enormi, popolatissimi?
F. O Socrate, cosa contano le dimensioni? Israele è armato fino ai denti, grazie all'appoggio degli imperialisti americani. Forte di questo appoggio da decenni mette in atto una politica di aggressione e massacri. E' sotto gli occhi di tutti.
S. Ma non erano gli attivisti di Hammas a far piovere ogni giorno su Israele un sacco di missili?
F. O Socrate, che delusione! Parli come il mio nemico di oggi! Un grande filosofo come te!
S. Sei tu il grande filosofo nobile Fattimo. Io sono solo un uomo ignorante che cerca la verità...
F. Comunque, i missili di cui tu parli sono armi giocattolo, che non uccidono nessuno.
S. Strano però, per neutralizzare queste armi giocattolo Israele si è dovuto dotare di un costosissimo sistema anti missile.
F. Con l'aiuto dei suoi complici, gli imperialisti americani, come io dicevo.
S. Non era questo l'oggetto del contendere...
F. Smettila coi dettagli, o Socrate. Prova a confrontare il numero dei morti palestinesi ed israeliani e non potrai che convenire con me.
S. Fammi capire. Gli israeliani sono aggressori e criminali perché riescono a neutralizzare gli attacchi di Hammas, mentre i palestinesi sono delle vittime perché non riescono a neutralizzare la risposta israeliana?
F. I palestinesi sono vittime perché i loro morti si contano a migliaia, gli Israeliani aggressori perché solo pochissimi di loro cadono.
S. Dunque chi ha la peggio ha, per definizione, ragione?
F. Ha ragione chi viene massacrato da nemici più potenti. E' una cosa che tutti possono capire o Socrate.
S. Forse, però a me non risulta del tutto chiara. Mi permetti qualche domanda, per chiarirmi le idee?
F. E come no?
S. Allora dimmi, o uomo eccellente, tu sei abile nel combattimento?
F. Non credo, sono avanti negli anni...
S. Beh, se per questo anche io. Però, poniamo che tu sia un eccellente lottatore, giovane e forte. Un giorno quattro giovinastri israeliani, imbestialiti per le cose che scrivi e che loro, da perfetti nazisti, giudicano oscene, ti aggrediscono sotto casa. Sono armati, vorrebbero ucciderti. Anche tu però sei armato e ti difendi egregiamente. Ne mandi uno al cimitero e tre all'ospedale; quanto a te, te la cavi con poche ferite superficiali. Dimmi, chi è in questo caso il brutale aggressore, tu o i quattro giovinastri?
F. I quattro giovinastri, sembrerebbe.
S. E non ti pare che ciò che si può dire dei singoli valga anche per gli stati?
F. Stai barando o Socrate! Mi deludi sempre più!
S. La cosa mi spiace moltissimo, nobile amico, ma, perché starei barando?
F. Dimentichi la cosa più importante! Gli Israeliani sono armati sino ai denti mentre i poveri palestinesi dispongono solo di armi giocattolo. Qui non si tratta di una scazzottata con dei giovinastri ma della politica di uno stato, politica criminale, genocida.
S. Quindi tu dici che se uno stato ben armato si scontra con uno male armato quello male armato ha ragione, a priori, indipendentemente dagli atti che compie?
F. Basta coi sofismi! Io affermo che chi bombarda con aerei sofisticatissimi ed attacca con possenti carri armati un povero popolo armato di armi giocattolo è un nazista che sta compiendo un genocidio, chiaro?
S. Non ti scaldare caro Gianni, stiamo solo discutendo, pacatamente. Dimmi piuttosto: se sono armati solo di inoffensive armi giocattolo perché mai i militanti di Hammas attaccano Israele?
F. Cosa vuoi dire? Non ti seguo.
S. Come giudicheresti un ometto di quaranta chili che cerca di colpire con i suoi inoffensivi pugnetti il campione del mondo dei pesi massimi?
F. Lo giudicherei un folle
S. Magari con pulsioni suicide?
F. Forse...
S. E allora, perché mai i poveri, inoffensivi, palestinesi di Hammas, armati solo di armi giocattolo, attaccano un nemico tanto potente come Israele? Perché lanciano i loro miseri razzi contro questo gigante potentissimo, alleato di un altro gigante, ancora più potente? E perché mai lo fanno, se sanno che i criminali israeliani si vendicheranno colpendo senza ritegno innocenti civili? C'è chi dice che la loro è una cultura di morte, che cercano il martirio e son disposti a morire a migliaia pur di uccidere un solo israeliano. Altri dicono che sono ben lieti di avere tante perdite, perché, non potendo vincere sul piano militare, cercano di vincere su quello della propaganda, e piazzano volutamente rampe di missili giocattolo nelle vicinanze di scuole ed ospedali.
F. Menzogne, pure invenzioni della propaganda imperialista e sionista! In realtà i poveri palestinesi sono costretti ad una lotta tanto impari perché questo è l'unico modo che hanno di ribellarsi contro i nazisti israeliani che li tengono in schiavitù.
S. Fammi capire. Tu dici che gli Israeliani tengono in una condizione di schiavitù i palestinesi e questi, per cercare di uscire da una situazione tanto tragica, sono costretti ad accettare uno scontro impari, e a morire eroicamente. Questo tu dici?
F. Si, questo dico.
S. Chissà, può essere che tu abbia ragione...
F. Finalmente rinsavisci o Socrate! Iniziavo a pensare che anche tu fossi diventato schiavo della propaganda sionista!
S. Però... ho qualche dubbio, cerca di chiarirmi un po' le idee, nobile amico.
F. Altri dubbi? Strano, mi sembravi rinsavito. Comunque sarò ben lieto di chiarirti le idee.
S. Dimmi allora, o eccelso filosofo. Esisteva in America la schiavitù fino alla guerra di secessione?
F. Che domande, si.
S. Infatti, ed in molti paesi mussulmani la schiavitù è esistita fino alla metà dello scorso secolo, e c'è chi dice che in molti di quei paesi le donne siano di fatto, ancora oggi, schiave...
F. Basta con la propaganda o Socrate!
S. Non mi sembra propaganda, comunque... dimmi, è mai successo che un proprietario di schiavi abbia abbandonato la sua tenuta ed abbia lasciato i campi e la casa e le stalle con cavalli e buoi, e le galline ed i maiali ai suo schiavi?
F. Che io sappia no.
S. E se lo avesse fatto li si dovrebbe considerare ancora schiavi?
F. Mi sembrerebbe di no
S. E, hai mai saputo di schiavi che hanno un loro territorio e da quello lanciano razzi, contro le terre dei loro padroni?
F. Non ricordo un simile fatto.
S. E di schiavi che, nelle terre dei padroni, hanno loro chiese, loro partiti politici, loro giornali?
F. No, neppure questo ricordo.
S. E di padroni che non possono entrare in casa degli schiavi?
F. No, non mi pare sia mai successo nulla di simile
S. Ti sbagli nobile Fattimo. Questo succede a Gaza e in Cisgiordania ed in Israele.
F. Che dici mai o Socrate?
S. I palestinesi sono tenuti in schiavitù dagli Israeliani, dici. Però in Israele ci sono partiti Arabi, e deputati filo palestinesi siedono in parlamento. A suo tempo i padroni israeliani hanno abbandonato Gaza lasciandola ai loro schiavi palestinesi. E gli schiavi palestinesi amministrano anche una parte rilevante della Cisgiordania. Oggi da Gaza gli schiavi palestinesi bombardano i padroni israeliani. Ed a Gaza non c'è una sinagoga in cui i padroni possano pregare, mentre in Israele quasi duecento moschee sono a disposizione degli schiavi per le loro preghiere. E se qualcuno a Gaza, e forse anche nelle zone della Cisgordania controllate dai palestinesi, viene sospettato di essere amico dei padroni israeliani viene linciato dagli schiavi palestinesi. Si tratta di uno strano tipo di schiavi e di padroni, non ti pare?
F. O Socrate, confondi le carte in tavola e per farlo ti appiccichi alle parole, le interpreti in senso letterale...
S. Beh, le parole hanno un senso e schiavo vuol dire schiavo, tu hai usato questa parola...
F. In senso lato, metaforico e tu subito ti ci aggrappi perché sei a corto di argomenti. Io intendevo dire che i palestinesi sono oppressi, discriminati dagli israeliani, come lo erano i neri nel sud Africa razzista.
S. Quindi non di schiavitù ma di discriminazione si tratta.
F. Così è.
S. Benissimo. Mi permetti di farti qualche piccola domanda, così, per capirci meglio?
F. Permetto.
S. Dimmi allora, o sapiente. Cosa intendi tu per discriminazione?
F. Intendo il trattamento non paritario riservato ad individui o gruppi. I palestinesi ad esempio vengono costretti a vivere dietro ad un orribile muro, i loro movimenti sono limitati. Cosa si può pensare di più discriminante?
S. Se permetti del muro parleremo fra un attimo. Intanto devo dire che la tua definizione mi trova concorde. Si discrimina quando si trattano individui e gruppi in maniera non paritaria, quando ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B.
F. Benissimo, vedo che alla fine sei costretto a concordare con me.
S. Mah... non saprei. Dimmi o Fattimo, se per professare la mia fede io dovessi pagare una tassa mentre chi professa una fede diversa non ha simile obbligo, saremmo di fronte ad una discriminazione?
F. Non mi risulta che questo avvenga a Gaza.
S. E' avvenuto ed avviene in parti del mondo islamico, ma, lasciamo perdere. Non avviene a Gaza, dici, ma a Gaza è possibile costruire sinagoghe?
F. Mi pare di no.
S. Ed in Israele ci sono moschee?
F. Sembra di si
S. Sembrerebbe allora che siano i palestinesi a discriminare...
F. Propaganda, sofismi!!
S. Tralasciamo. Dimmi ora, a Gaza è possibile far propaganda filo israeliana?
F Ci mancherebbe altro.
S. Ed in Israele è consentita la propaganda filo palestinese?
F. Forse...
S. Di nuovo sono gli israeliani a non discriminare, ed i palestinesi a farlo...
F. Propaganda, sofismi!!
S. Tralasciamo. Dimmi ora, cosa succede a Gaza ad un apostata?
F. Forse rischia qualcosa
S. Si, forse, e, ad un omosessuale?
F. Beh, forse non se la vede bella...
S. Si, forse. E, ad una adultera?
F. Avrebbe dei problemi...
S. Si, probabilmente. Dimmi ora, rischiano qualcosa in Israele adultere, omosessuali e apostati?
F. Non mi pare...
S. E non rischia neppure chi è amico dei palestinesi e fa propaganda filo palestinese?
F. Non saprei.
S. Mettiamola così allora. Rischia di più un amico di Israele a Gaza o un amico dei palestinesi in Israele?
F. Non so... però... forse un amico di Israele a Gaza.
S. Allora, chi fa discriminazioni? Chi tratta l'altro in maniera non paritaria? I palestinesi o gli israeliani?
F. Basta o Socrate! Tu mistifichi, cambi le carte in tavola! Fai girare i concetti come trottole! I palestinesi sono discriminati perché sono segregati, costretti a vivere dietro ad un muro. Possibile che un simile orrore non susciti la tua indignazione?
S. Non ti agitare nobile amico. Ti vedo fremente e rosso in volto. Ma, noi stiamo solo discutendo, cerchiamo, insieme, la verità, quale che essa sia.
F. E nessuno può negare il dramma di un popolo costretto a vivere dietro ad un muro.
S. Dimmi, o Fattimo, perché a tuo parere si costruiscono i muri?
F. Che domande, o Socrate. Sembra quasi che tu dimentichi che stai parlando con un intellettuale, un filosofo.
S. Non lo dimentico affatto. Conosco la formidabile potenza del tuo ingegno, e per questo voglio, con te, approfondire le cose. Dimmi dunque, perché si costruiscono i muri?
F. E sia! Per delimitare degli spazi.
S. Ed anche per ripararli, difenderli, dai venti ad esempio, o dagli attacchi di animali selvaggi?
F. Si, anche per questo.
S. Ed anche per difendere certi territori da incursioni di individui o popoli nemici?
F. Si, anche per questo.
S. Ed è vero o falso che prima della costruzione del muro moltissimi palestinesi si sono fatti esplodere in autobu, pizzerie, asili e discoteche?
F. Si, pare che simili episodi siano avvenuti.
S. Non si potrebbe allora definire il muro una semplicissima opera difensiva?
F. No, assolutamente, perché gli attentati dei palestinesi erano solo una comprensibile reazione agli atti discriminatori di Israele.
S. Ma, abbiamo visto che sono semmai i palestinesi a compiere atti di discriminazione, mi riferisco agli apostati ammazzati, alle presunte spie israeliane linciate a Gaza, e a tante altre simili atrocità...
F. Ma no! Lo ripeto, il massimo atto di discriminazione è stato quello di costruire il muro! Dopo un simile gesto anche gli attentati si spiegano!
S. Quindi sarebbe stato il muro la causa degli attentati?
F. E' così.
S. Ma il muro è stato costruito dopo numerosi attentati, questo non puoi negarlo.
F. Attentati causati dalla discriminazione!
S. Ma è il muro il principale atto discriminatorio, tu lo hai detto. Quindi il muro, costruito dopo gli attentati, sarebbe la causa degli attentati stessi, non ti sembra di invertire l'ordine fra la causa e l'effetto, o sapientissimo amico?
F. Basta o Socrate! I tuoi giri di parole, i tuoi sofismi mi fanno girare la testa!
S. O no amico carissimo! Una testa potente come la tua deve essere preservata da ogni dolore!
F. Comunque nessun sofisma può cancellare la verità. E la verità è che a Gaza è in corso un genocidio. Dilettati pure Socrate con i muri e le discriminazioni e la schiavitù. Le cose non cambiano.
S Veramente sei tu che hai iniziato accusando gli israeliani di schiavismo, e poi di discriminazione e poi della più grave azione discriminatoria: la costruzione del muro. Io mi sono limitato a discutere, con te, queste tue accuse.
F. E ti sei dimenticato la cosa più grave di tutte: il genocidio in corso a Gaza.
S. A Gaza è in corso un genocidio?
F. Si, è così! Oltre duemila morti non sono forse un genocidio?
S. Veramente, negli attentati dell'undici settembre ci sono state oltre tremila vittime, e nessuno, neppure il governo americano, ha parlato di genocidio.
F. Paragoni assurdi, improponibili, indegni di un filosofo.
S. Lasciamo perdere. Dimmi o Fattimo, sbaglio o tu hai detto che gli israeliani sono potentissimi?
F. Certo, e lo ribadisco.
S. Hanno armi micidiali?
F. Si.
S. E vogliono usarle per massacrare quanti più palestinesi è possibile?
F. Si.
S. Ed è vero che Gaza è molto popolosa?
F. Si, il che rende più facile il compito dei boia israeliani.
S. Ma, non ti sembra che se davvero gli Israeliani volessero uccidere il più palestinesi possibile ne avrebbero uccisi, in oltre un mese di raid, ben più di duemila?
F. Non saprei...
S. Nella seconda guerra mondiale il bombardamento su Dresda causò, in una sola notte, dalle venticinquemila alle cinquantamila vittime, e le armi che si usavano nel 1945 erano assai meno distruttive di quelle che si usano oggi.
F. Così pare.
S. Nessuno ha mai parlato di genocidio riferendosi al bombardamento di Dresda, e neppure a quello di Tokio, e neppure ai due bombardamenti atomici subiti dal Giappone. Furono atti moralmente molto discutibili ma non dei genocidi. Mi spieghi allora perché dovremmo considerare genocidio le duemila vittime causate in oltre un mese di combattimenti a Gaza?
F Scusa, dove vuoi arrivare? Ti metti a fare la contabilità sui cadaveri?
S. Mi sembra che se davvero gli israeliani fossero intenzionati a compier un genocidio ci sarebbero decine, forse centinaia di migliaia di palestinesi morti, non duemila.
F. Ma che discorsi! Israele teme la condanna della opinione pubblica democratica di tutto il mondo e le reazioni della comunità internazionale. Per questo compie il genocidio dei palestinesi a piccoli passi.
S. Interessante questo concetto di genocidio a piccoli passi! Comunque, tu dici che Israele non fa maggiori massacri per timore delle reazioni dell'opinione pubblica democratica e della comunità internazionale?
F. Si, questo dico.
S. Ma, non ti sembra che ognuno tema le reazioni negative di coloro a cui si sente vicino?
F. Non ti seguo.
S. Ai militanti di Al Qaeda interessavano le reazioni della pubblica opinione democratica e della comunità internazionale quando hanno fatto crollare le torri gemelle?
F. Non saprei... forse no.
S. Ed ai militanti dell'Isis importano qualcosa le reazioni  ai filmati degli sgozzamenti di occidentali?
F. Sembra di no.
S. Ed i militanti di Boko Aran sono interessati alle reazioni della comunità internazionale e della pubblica opinione democratica quando rapiscono le donne e le spediscono negli Harem o le fucilano se non si convertono? O quando crocifiggono cristiani?
F. Forse no...
S. Potremmo dire che è interessato alla pubblica opinione democratica chi ne condivide i valori e teme le reazioni della comunità internazionale chi è e ne vuole restare membro?
F. Forse potremmo dirlo.
S. E fra le regole della comunità internazionale è contemplato il “diritto” a commettere genocidi?
F. Certo che no.
S. E il genocidio è un valore per la pubblica opinione democratica?
F, Certo che no.
S. Quindi, Israele, che è membro della comunità internazionale e condivide i valori della pubblica opinione democratica, non può volere commettere un genocidio. Ed infatti non ne commette alcuno, a meno di identificare con atto di genocidio l'uccisione di nemici in battaglia, con gli inevitabili, tristissimi effetti collaterali sui civili.
F. Ma no! Israele teme un intervento contro di lui della comunità internazionale, ha paura delle conseguenze, ecco perché non ammazza centinaia di migliaia di palestinesi!
S. Quindi, di fatto, non compie alcun genocidio.
F. Compie dei microgenocidi...
S. Nuovo interessante concetto. Peccato che Hitler, Stalin e Pol Pot non lo conoscessero...
F. Hai poco da ironizzare! Israele teme l'intervento militare della comunità internazionale. Israele è uno stato canaglia, teme solo la forza militare. Solo questo frena la sua mano omicida! Altro che pubblica opinione democratica, i sionisti temono le armi!
S. Interessante la tua tesi. Però, dimmi, quali armi Israele teme? Forse quelle delle "brigate internazionali" che tu vorresti formare? Lo ho letto in una tua intervista.
F. Magari si formassero queste brigate! Però, per ora non credo che Israele le tema. Purtroppo.
S. Allora teme l'intervento degli stati. Quali? La Russia? Putin potrebbe far la guerra ad israele?
F. Non credo, ha le sue gatte da pelare in Ucraina.
S. L'Unione europea?
F. Ma no!
S E ce la vedi la Cina che dichiara guerra ad Israele?
F. Non molto
S. Non restano che gli USA, per esclusione. Gli israeliani temono gli Usa. Forse addirittura un loro intervento altrimenti, quanto meno, il blocco degli aiuti militari ed economici. Sarebbero gli Stati Uniti a bloccare la politica genocida dei nazisti israeliani, ad impedir loro di uccidere due, trecentomila palestinesi, è così?
F. Si, forse si.
S. Ma, all'inizio del nostro dialogo non avevi detto che gli israeliani possono mettere in atto la loro politica di massacro grazie all'appoggio degli imperialisti americani?
F. Si, mi sembra di si.
S. Ed ora ipotizzi che i briganti americani mettano paura ai loro complici, i briganti israeliani?
F. Non saprei...
S. Quindi gli americani rendono nel contempo possibile ed impossibile il genocidio dei palestinesi, così stanno le cose?
F. Basta Socrate, la testa mi scoppia! Ti lascio.
S. No, non te ne andare! E' assai piacevole discutere con un filosofo del tuo calibro.
F. Addio Socrate.

lunedì 13 ottobre 2014

LIBERTA' PRIVATA E LIBERTA' PUBBLICA






Democrazia e libertà


Nell’uso comune i termini “libertà” e “democrazia” sono considerati quasi equivalenti. Un partito politico tempo fa coniò come proprio lo slogan: “libertà è democrazia”, proprio così, con la è accentata e sottolineata, a rimarcare l’identità fra i due termini. A parte questi eccessi, rivelatori quanto meno di una forte confusione mentale, si sente spesso parlare del valore di libertà e democrazia senza che fra esse venga fatta alcuna distinzione. Sembra a molti quasi ovvio affermare che dove vi è libertà là vi è democrazia e viceversa. Le cose però non sono tanto semplici: anche se collegate libertà e democrazia non sono coincidenti; almeno in teoria è possibile concepire una democrazia senza libertà ed una libertà senza democrazia. A prima vista la cosa può apparire paradossale ma non lo è.
Essere liberi significa poter disporre di uno spazio proprio. Io sono libero se posso decidere, scegliere; la mia libertà coincide con lo spazio al cui interno posso decidere e scegliere senza che altri mi  impongano nulla.
La democrazia invece non riguarda l’area al cui interno il singolo è padrone di decidere, riguarda il governo della cosa pubblica. La libertà ha a che fare con la domanda: “fin dove io ho il potere di decidere?” la democrazia con un’altra domanda, piuttosto diversa: “chi deve prendere le decisioni inerenti le scelte collettive? Chi deve governare la vita pubblica?”.
La democrazia ha a che fare con politica e nella politica è sempre presente un momento coercitivo. Si può vivere nella più ampia e tollerante democrazia del mondo, l’approvazione di una legge può essere la risultante del più libero dibattito, della più approfondita discussione che si possano immaginare, ma alla fine la legge è obbligatoria ed è obbligatoria per tutti. La democrazia vuole che a decidere sia la maggioranza, ma  le decisioni che la maggioranza prende sono imposte anche a chi non è d’accordo. In questo non c’è nulla di particolarmente negativo. Se occorre prendere decisioni che vincolino tutti e se non è possibile che su queste decisioni tutti concordino è inevitabile che queste assumano carattere coercitivo. Se questo non avvenisse non esisterebbe legge né regola alcuna ed i rapporti fra esseri umani sarebbero caratterizzati con ogni probabilità dalla più cruda violenza. Tutto questo però dimostra che il campo d’azione della democrazia è diverso da quello della libertà. E’ radicalmente diverso, potremmo dire, perché, in senso proprio, la libertà, inizia esattamente laddove finisce l’area delle decisioni collettive. Nell’area in cui io solo sono padrone la maggioranza non ha voce in capitolo, la discussione pubblica non è richiesta, le elezioni non hanno alcuna rilevanza.
Qualcuno potrebbe obbiettare che non si tratta tanto di differenza fra libertà e democrazia quanto fra diversi tipi di libertà: la libertà privata e la libertà pubblica o, come afferma Isaiah Berlin fra libertà positiva e libertà negativa. La democrazia, intesa in questo senso, coincide con la libertà pubblica, la libertà di decidere sulle questioni che riguardano tutti. Non si può che essere d’accordo, ovviamente. Questo però non elimina la sostanza del problema: chiamiamo pure libertà pubblica la democrazia e libertà privata la libertà, le cose non cambiano molto. Ed il mutamento terminologico non rende affatto veritiero, ad esempio, lo slogan: “libertà è democrazia”, non lo rende veritiero perché, in primo luogo, tale slogan instaura fra libertà pubblica e libertà privata una identità che non esiste e, in secondo luogo, perchè tale proclamata identità fa passare del tutto in secondo piano il problema delle garanzie che devono esistere a tutela della libertà privata. Se la libertà pubblica coincide con la libertà privata come proteggere la seconda dalle incursioni della prima che ha, non dimentichiamolo, il potere di imporre con la forza le sue decisioni? E’ il grande problema del garantismo liberale.

Nella vita di ognuno di noi esiste una fondamentale dimensione pubblica, non a caso Aristotele ha definito l’uomo animale politico e sociale oltre che razionale, ed è importante che ad ognuno di noi sia garantita la libertà pubblica. La democrazia consente a tutti di partecipare alla vita politica ed è perciò un valore ed un bene prezioso; non è l’unico però. Se è bene disporre della libertà politica è molto pericoloso ampliare senza limiti l’area delle decisioni politiche ed è ancora più pericoloso non rendersi conto dell’esigenza di tutelare la libertà privata dalle incursioni della politica, sia pure della più democratica delle politiche.
“Vi sino alcuni” scrive Alexis de Tocqueville “che hanno osato affermare che un popolo, nelle questioni che interessano lui solo, non può mai, per definizione, uscire dai limiti della giustizia e della ragione, e quindi non si deve temere di dare tutto il potere alla maggioranza che lo rappresenta. Ma questo è un linguaggio da schiavi. Cos’è infatti una maggioranza, presa collettivamente, se non un individuo che ha opinioni e più spesso interessi contrari a quelli di un altro individuo che si chiama minoranza? Ora, se si ammette che un uomo, investito di potere assoluto, può abusarne contro i suoi avversari perché non ammettere la stessa cosa per una maggioranza? (…) un potere onnipotente, che io rifiuto a uno dei miei simili, non l’accorderei mai a parecchi” (1). La maggioranza deve avere potere, deve poter legiferare, ma non può disporre di un potere assoluto, senza limiti. Deve rispettare i diritti delle minoranze e degli individui. “L’onnipotenza è in sé cosa cattiva e pericolosa.” prosegue Tocqueville “Il suo esercizio mi sembra al di sopra delle forze dell’uomo, chiunque egli sia; e non vedo che Dio che possa senza pericolo essere onnipotente. (…) Non vi è dunque sulla terra autorità tanto rispettabile in sé stessa o rivestita di un diritto tanto sacro, che io vorrei lasciar agire senza controllo e dominare senza ostacoli. Quando io vedo accordare il diritto e la facoltà di far tanto ad una qualsiasi potenza, chiamasi essa popolo o Re, democrazia o aristocrazia, sia che esso si eserciti in una democrazia o in una repubblica, io affermo che là vi è il germe della tirannide.” (2)
Il potere, anche il potere della maggioranza, deve essere limitato. Deve incontrare limiti all’interno dell’area politica (la maggioranza non può ledere i diritti delle minoranze), e deve rispettare norme che delimitino l’area stessa della politica. C’è chi ha affermato che queste posizioni di Tocqueville riflettono il suo carattere conservatore, la sua nostalgia per il regime aristocratico, ma si tratta di una distorsione del suo pensiero. Tocqueville ha sempre dimostrato simpatia per l’aristocrazia, era lui stesso un nobile, ma ciò che contrappone al pericolo di un governo assoluto della maggioranza è la democrazia liberale, non un impossibile ritorno al vecchio regime. L’ideale del grande pensatore francese è il governo costituzionale, limitato, non il predominio della casta aristocratica, di cui comunque riconosce i meriti storici.

Molto tempo dopo la pubblicazione della “Democrazia in America” in cui sono contenute le critiche di Tocqueville al potere illimitato della maggioranza, il già citato filosofo liberale Isaiah Berlin si faceva promotore di posizioni simili. “Alcuni dei miei critici” afferma Berlin “si indignano al pensiero che una persona (..) possa godere di maggior libertà negativa sotto il dominio di un despota indolente o inefficiente che in una democrazia decisamente egualitaria, ma rigida. Me esiste un significato ben preciso in cui si può dire che Socrate avrebbe avuto maggiore libertà – almeno di parola ma anche di azione – se, come Aristotele, fosse fuggito da Atene invece di accettane le leggi, quelle buone e quelle cattive emanate ed applicate dai suoi concittadini nella democrazia di cui faceva parte a pieno titolo e che accettava coscientemente. Allo stesso modo un individuo può abbandonare uno stato a democrazia realmente partecipata, in cui le pressioni sociali e politiche siano per lui soffocanti e preferire un clima in cui può darsi minor partecipazione civile ma più privacy, una vita comunitaria meno dinamica e coinvolgente, meno socievolezza ma anche minor sorveglianza.” (3)
La pacata ma severa critica di Berlin ad ogni tipo di potere che soffochi l’autonomia dell’individuo non spinge il filosofo liberale a negare il valore positivo della libertà politica o a non vedere quanto la stessa libertà privata sia fragile ed instabile in regimi politicamente autoritari: “Il dispotismo in quanto tale è irrazionale e ingiusto e degradante perché nega i diritti umani, anche se i suo sudditi sono contenti” (4), inoltre “qualunque libertà negativa di cui si possa godere in un dispotismo tollerante e inefficiente è precaria o limitata a una minoranza” (5). Resta il fatto che la situazione descritta, quella cioè di una democrazia onnipotente che soffoca o riduce in maniera soffocante l’autonomia individuale è non solo possibile ma anche decisamente poco gradevole. La soluzione passa, ancora una volta, per la via stretta ma realistica della convivenza di principi e valori non contraddittori ma diversi: una libertà individuale ampia ma non anarchica si accorda perfettamente con una democrazia forte ma non onnipotente. E’ la strada percorsa dalle grandi democrazie dell’occidente, la strada della democrazia liberale.





Note

1) Alexis de Tocqueville: La democrazia in America. In I Grandi filosofi, Tocqueville. Ed Il sole 24 ore. 2006 pag. 480-481.

2) Alexis de Tocqueville: Opera citata pag. 482.

3) Isaih Berlin: Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli 1989, pag. 55

4) Isaiah Berlin: Opera citata pag. 55

5) Isaiah Berlin: opera citata pag. 55




 
Alcune interpretazioni

Se libertà e democrazia non coincidono non sono però neppure in contraddizione fra loro, anzi, storicamente le uniche democrazie che hanno saputo affermarsi sono le democrazie liberali. Oggi in praticamente tutti gli stati democratici i fondamentali diritti della persona vengono riconosciuti e garantiti. Laddove questo non avviene, come nei pochi paesi islamici in cui esiste un simulacro di istituzioni democratiche la democrazia è, appunto, ridotta a simulacro.
Il filosofo americano Stephen Holmes sostiene, anche in polemica con Berlin, tesi di questo genere. Per Holmes non esiste democrazia senza regole. La democrazia assembleare non è vera democrazia. Senza elezioni regolari che coinvolgano tutta la popolazione, senza regole per il dibattito, rispetto per le minoranze e gli individui non esiste democrazia. Le regole liberali poste a difesa della libertà privata si accordano perfettamente con le procedure democratiche. Potrebbe esistere democrazia se la maggioranza avesse il potere di opprimere la minoranza? O se gli esponenti della minoranza potessero essere arrestati arbitrariamente, la loro posta controllata, la loro privacy violata? E, al contrario, sarebbero solide le libertà individuali se tutto il potere fosse concentrato nelle mani di un despota non sottoposto ad alcun controllo e in grado di prendere le decisioni più arbitrarie? No, evidentemente. “Non esiste” afferma Holmes “una scelta collettiva al di fuori di tutte le procedure e le istituzioni precedentemente scelte. Le elezioni con cui i partiti politici in lizza conquistano il potere o lo perdono e il confronto pubblico condotto in larga misura mediante una stampa libera e pluralistica dipendono entrambi dal fatto che il costituzionalismo liberale ha messo solide radici. Questa considerazione suggerisce l’idea che in uno stato moderno il liberalismo è condizione necessaria, ma non sufficiente dell’esistenza di un qualche grado di democrazia” (1)
E’ difficile non concordare con queste posizioni. Solo se liberale la democrazia riesce ad essere davvero democratica, separata dal riconoscimento e dalla tutela delle libertà civili la democrazia degrada rapidamente in tirannide. Però è impossibile negare che sia esistita ed esista una fortissima tendenza a separare democrazia e libertà e siano esistite sia esperienze storiche che teorizzazioni di una democrazia non liberale. Una cosa è evidenziare la debolezza di certe teorizzazioni o constatare il carattere fallimentare di certe esperienze, altra cosa negarle: Rousseau, ad esempio, costituisce il caso tipico di un pensatore democratico ma non liberale, anzi, ferocemente antiliberale. Il ginevrino teorizza insieme la democrazia assembleare e la proibizione delle rappresentazioni teatrali, un’ampia partecipazione democratica a tutte le scelte rilevanti e la proibizione dei partiti politici, il controllo dal basso sugli eletti e una forte ingerenza dello stato nella vita privata dei cittadini. Il suo pensiero è contraddittorio? Forse, ma non necessariamente. E’ quanto meno ipotizzabile una società caratterizzata da un altissimo grado di coesione e conformismo in cui esiste una autentica partecipazione popolare alla vita pubblica e insieme una limitazione inaccettabile dell’area delle libertà private. In nessuna democrazia liberale sarebbe possibile qualcosa come il processo a Socrate ma sarebbe sbagliato negare che l’antica Atene fosse una democrazia. E, per venire a tempi meno remoti, nei territori palestinesi esiste una certa democrazia, si svolgono addirittura elezioni semi regolari, ma i disgraziati che sono sospettati di essere spie degli israeliani vengono praticamente linciati al termine di processi burla. Prima o poi queste situazioni sono destinate ad essere superate? Evolveranno verso una qualche forma di democrazia liberale o regrediranno verso forme di spietata tirannide? Probabilmente si, ciò non toglie che di esperienze reali si tratti. La democrazia liberale è il regime politico in cui forse la maggioranza degli esseri umani vorrebbero vivere, questo però non elimina il fatto che centinaia di milioni di esseri umani vivano, e a molti piaccia vivere, in regimi del tutto diversi e che in alcuni di questi regimi esistano forme distorte ed illiberali di democrazia.

Holmes sostiene anche che le democrazie liberali sono, al contrario di quanto comunemente si pensa, assai forti, più forti, soprattutto nei momenti davvero difficili, dei regimi autoritari e totalitari. La limitazione del potere statale non fa di questo un potere debole, al contrario lo rafforza. Il filosofo liberale americano ripropone, sul problema della forza dello stato liberale un parallelismo simile a quello fatto fra libertà e democrazia. Così come libertà e democrazia si rafforzano e si sostengono a vicenda, le istituzioni democratico liberali e la forza dello stato, ben lungi dal configgere sono complementari. La democrazia liberale rafforza lo stato ed uno stato sufficientemente forte è un ottimo presidio dei diritti liberali.
“Sorprendentemente una piccola isola non lontana dalle coste nord occidentali dell’Europa dominò oltre un terzo del globo. Non c’è alcun senso serio in cui si possa dire che la patria del liberalismo politico abbia dato prova di debolezza. La verità è anzi che la Gran Bretagna si è rivelata così forte da saper perdere il suo impero senza subire alcun collasso politico interno” (2) Non è casuale una simile manifestazione di forza da parte di uno stato il cui potere è limitato e rispettoso della libertà dei cittadini. “L’oppressione” infatti “indebolisce lo stato. L’intolleranza approfondisce i conflitti confessionali e spinge i cittadini operosi ad emigrare. La censura blocca il flusso delle informazioni, che sono un innesco vitale per il governo di un grande paese. Le punizioni eccessive e crudeli opprimono lo spirito dei comuni cittadini così privando il governo della loro attiva collaborazione. I regolamenti oppressivi sui commerci comprimono la ricchezza privata che alla fine avrebbe potuto essere drenata a vantaggio delle finanze pubbliche. Una politica liberale è molto più adatta di una tirannica a stimolare la cooperazione dei cittadini nel perseguimento di obiettivi comuni.” (3)
La libertà oltre ad essere in sé un valore è conveniente allo stato, ne accresce invece che diminuirne la forza. Nelle società libere esistono solo pochi obiettivi comuni ma su tali, limitati, obiettivi è possibile raggiungere un consenso di massa che manca in società in cui tutto o quasi è pubblico e l’area di autonomia dei singoli è terribilmente compressa. Uno stato che persegue pochi ma importanti obiettivi è più efficiente, più forte e più ricco di uno stato che pretenda di regolare tutto; governare col consenso e la fiducia dei governati è più semplice ed efficace che governare col terrore. E, anche in questo caso, il discorso si può invertire. Uno stato forte ed autorevole è un presidio insostituibile dei diritti liberali. “Violare i diritti liberali significa disobbedire allo stato liberale. In una condizione di assenza di sovranità, i diritti possono essere immaginati ma non sperimentati. In una società con uno stato debole, per esempio nel Libano del decennio appena trascorso, o virtualmente priva di uno stato, per esempio nella Somalia di oggi, (lo scritto di Holmes è del 1995, nota di B.) i diritti o non esistono o restano in larga misura lettera morta.” (4)

Ancora una volta è difficile dissentire dalle tesi di Holmes, tuttavia è bene tener presente che, se estremizzate, tali tesi possono portare a conclusioni assai discutibili. E’ vero che il riconoscimento e la tutela delle libertà individuali rafforzano e non indeboliscono lo stato, l’esempio della Gran Bretagna fatto da Holmes è a questo proposito assai convincente. Ma, il rafforzamento dello stato è il fine principale, l’obiettivo primario da perseguire o non è invece la libertà a dover essere perseguita in quanto tale? In altre parole, la libertà va tutelata per sé stessa o perché grazie ad essa lo stato diventa più forte? Non è una questione di lana caprina. Se un ulteriore rafforzamento dello stato potesse essere perseguito a spese della libertà andrebbe comunque ricercato? La separazione dei poteri, il riconoscimento delle libertà individuali, il garantismo vanno difesi perché rendono forte lo stato o al contrario è la forza dello stato ad essere desiderabile in quanto tutela più efficacemente libertà dei singoli, garantismo, separazione dei poteri? La forza di uno stato non è in quanto tale un obiettivo sempre desiderabile, è fondamentale stabilire di quale stato si desidera la forza. Se uno stato totalitario si dimostrasse più forte di uno liberal democratico, occorrerebbe aumentare la forza dello stato liberal democratico, non certo renderlo meno liberale e meno democratico per farlo più forte. Ed ancora, è vero che assai spesso gli stati liberali e democratici sono anche forti ma ciò non è vero sempre e comunque. Le democrazie occidentali hanno sconfitto il nazismo, è vero, ma lo hanno fatto solo dopo una guerra lunga ed estremamente sanguinosa e dopo che una democrazia come la Francia è stata travolta dalle armate di Hitler e un’altra come l’Inghilterra è stata costretta in una posizione di inferiorità che non le avrebbe mai consentito di vincere da sola il conflitto. Soprattutto le democrazie occidentali hanno vinto la guerra contro nazismo anche grazie all’alleanza con una potenza totalitaria come l’Unione Sovietica che è uscita trionfatrice dalla guerra e si è espansa a macchia d’olio dopo il 1945, costringendo interi popoli a gustare le delizie del comunismo staliniano.
Democrazie e libertà sono fattori di forza ma non bastano da soli a dare ai paesi liberi una superiorità decisiva sui loro nemici. Fondamentale a questo proposito è l’adesione di larga parte dei popoli liberi ai valori fondanti le loro società. Se democrazia e libertà si trasformano in relativismo culturale, se la tolleranza viene scambiata con l’accettazione di tutto, se il giusto riconoscimento degli errori, ed anche degli orrori, della propria civiltà diventa incapacità di vedere e criticare errori ed orrori altrui, la forza delle società libere declina rapidamente, molto rapidamente. L’incertezza, il balbettio confuso con cui larga parte dell’occidente ha reagito e reagisce all’attacco dell’integralismo islamista è a questo proposito un sintomo quanto mai preoccupante. La libertà è forte quando c’è gente disposta a combattere per la libertà, se questo non avviene la libertà è debole, molto debole.

Holmes riduce, come si è visto, le distanze fra libertà e democrazia dimostrando (o cercando di dimostrare) che questi valori sono complementari e non possono, se correttamente intesi, entrare in conflitto fra loro. Un grande pensatore dello scorso secolo, Karl Raimund Popper, annulla praticamente la distanza fra questi valori ma lo fa seguendo una strada del tutto diversa, da quella seguita da Holmes. Per Holmes i diritti liberali rafforzano la democrazia, per Popper tali diritti vengono praticamente ad identificarsi con la democrazia.
Si è detto che la democrazia ha a che fare con la domanda: “chi deve prendere le decisioni che riguardano tutti?” o, più celermente: “chi deve governare?” mentre la libertà riguarda la domanda: “fino a dove si estende l’area in cui io solo posso decidere?”. Si tratta come si vede di domande diverse volte a tutelare valori ed esigenze diverse: nel primo caso la partecipazione di tutti alle scelte collettive, nel secondo l’area dell’autonomia individuale. Il problema del garantismo liberale riguarda i rapporti fra questi valori e queste esigenze diverse. Il garantismo parte dal franco riconoscimento che un momento coercitivo è presente in ogni scelta politica e si preoccupa di fissare limiti volti ad impedire che tale momento possa espandersi troppo. Popper invece ritiene che il garantismo non sia tanto una dottrina dei limiti del potere democratico quanto la caratteristica fondamentale di tale potere. La domanda “Chi deve governare?” è per Popper una domanda intrinsecamente sbagliata ed il solo porsela lascia aperta la strada a involuzioni autoritarie. Coloro che si pongono la domanda: “chi deve governare?” hanno una concezione potenzialmente totalitaria della politica. “presuppongono che il potere politico sia, per essenza, sovrano. Se si parte da questo presupposto allora, evidentemente, la domanda: chi deve essere il sovrano è la sola domanda importante a cui si deve rispondere” (5). Ma il vero problema non è, per Popper, quello di stabilire chi deve governare ma come si deve governare, con quali limiti, quali controlli, quali contrappesi all’azione di governo. Occorre “sostituire alla vecchia domanda: chi deve governare? La nuova domanda: Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi e incompetenti facciano troppo danno?” (6). Il governo maggioritario non è buono in sé ma è da scegliere perché permette un controllo periodico sull’attività dei governi, la democrazia non è qualcosa di positivo in quanto tale ma solo in quanto consente di resistere alla tirannide: ”La teoria alla quale intendo riferirmi è una teoria che non discende dall’intrinseca bontà o legittimità del governo maggioritario ma piuttosto dall’illegittimità della tirannide; per essere più precisi è una teoria che si fonda sulla decisione, o sull’adozione della proposta, di evitare la tirannide, di resistere ad essa”.(7)

Da quanto precede è fin troppo evidente il legame fra il Popper politico ed il Popper epistemologo: una teoria scientifica non può mai essere definita “vera” ma al massimo non (ancora) falsificata, allo stesso modo la democrazia non è qualcosa di positivo ma una condizione per evitare qualcosa di negativo: la tirannide. Ma, ritenere provvisoriamente “non falsa” una teoria scientifica non equivale in qualche modo a ritenerla, almeno provvisoriamente, vera? E definire indesiderabile la tirannide non significa in qualche modo ritenere buona la democrazia? Poter partecipare, partecipare in positivo, alle decisioni che riguardano tutti non è un valore? Non risponde ad una esigenza umana profonda? Certo, non è l’unico valore, occorre evitare che l’area del pubblico invada e annichilisca quella del privato. Popper ha mille ragioni quando difende il garantismo liberale, si preoccupa dei limiti all’azione del governo, dei pesi e contrappesi. Il limite della concezione di Popper emerge però quando egli tenta di assorbire la domanda relativa a chi deve governare nell’altra domanda relativa al come si deve governare. Interessato, giustamente, al garantismo Popper si spinge fino a ritenere che sia poco importante stabilire chi deve governare e giunge ad affermare che porsi una tale domanda porta ad una china autoritaria. Ma le cose non stanno così. Non stanno così in primo luogo perché, come lo stesso Popper ammette, il fatto che governi qualcuno e non qualcun altro (il popolo o un principe ereditario ad esempio) non è senza conseguenza sulla possibilità o meno che esistano vincoli all’azione di governo: le elezioni periodiche sono un vincolo e nelle elezioni periodiche il popolo esprime la sua volontà. E, in secondo luogo, le cose non stanno così perché il partecipare alle scelte pubbliche è in se un valore, anche se non l’unico o l’assolutamente prioritario. Anche se possono sembrare simili le concezioni di Popper e Berlin sono diverse. Teorizzando il possibile contrasto fra libertà negativa e libertà positiva Berlin parla di due valori, due libertà, e difende la prima dalle possibili incursioni della seconda. Popper cerca invece di risolvere il problema dei possibili contrasti fra le due libertà assorbendo praticamente la seconda nella prima, ma incorre in questo modo in un errore speculare, anche se forse meno grave, a quello in cui cadono i teorici della sovranità che egli critica. Mentre per questi se è il popolo a comandare non si pongono problemi di vincoli e garanzie all’azione de governo, per Popper se questi vincoli e garanzie esistono il problema di chi governa diventa ipso facto secondario. I due problemi sono invece entrambi importanti. E’ giusto che governino coloro che sono interessati alle scelte pubbliche, in breve, il popolo decidendo a maggioranza, ed è giusto che il governo popolare non sia illimitato, sia costretto a rispettare le minoranze e gli individui. Eliminare un problema non significa risolverlo.







Note

1) Stephen Holmes: Passioni e vincoli. Edizioni di Comunità 1998. Pag. 14

2) Stephen Holmes: Opera citata pag. 26. Sottolineatura di Holmes.

3) Stephen Holmes: Opera citata pag. 27.

4) Stephen Holmes: Opera citata pag. 27.

5) Karl Raimund popper: La società aperta e i suoi nemici. Armando 1981 pag. 175.

6) Karl Raimund Popper: Opera citata pag. 174.

7) Karl Raimund Popper: Opera citata pag. 178.