giovedì 15 marzo 2018

MARX E LA TECNOLOGIA

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Valori, costi e prezzi

Di tutto si può accusare Marx meno che di essere ostile allo sviluppo tecnologico, semmai è giusto rimproverargli un atteggiamento eccessivamente fiducioso nei confronti della tecnologia, connesso alla sua fede nel futuro di assoluta felicità che attenderebbe il genere umano. La tecnologia, una volta liberata dalle pastoie che ad essa impone il modo di produzione capitalistico, costituirà lo strumento di una totale liberazione dell'uomo. Superata la fase dolorosa, ma storicamente necessaria, della alienazione e dello sfruttamento l'uomo, grazie anche alla tecnologia, tornerà a se stesso, riacquisterà la sua umanità perduta.
Marx riconosce senza esitazioni che la borghesia ha avuto un ruolo storicamente positivo, anzi, rivoluzionario, proprio perché ha favorito come mai nessuno prima lo sviluppo tecnologico.
“La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria”, afferma Marx nel “Manifesto del partito comunista” e prosegue: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti.” (1)
I modi di produzione precapitalistici erano sostanzialmente statici, quello capitalistico è invece dinamico, afferma Marx, e in questa dinamicità sta la sua funzione storicamente progressiva. Funzione solo temporanea però, perché destinata ad esaurirsi, anzi che già (già ai tempi di Marx) si sta esaurendo. Da buon hegeliano Marx crede nella astuzia della ragione. La “storia” si serve della borghesia e del capitalismo per sviluppare al massimo le forze produttive sociali e questo sviluppo prepara il passaggio al comunismo, positivo sbocco finale dell'avventura terrena dell'uomo.

L'economia di mercato è caratterizzata da costanti innovazioni tecnologiche, su questo concordano più o meno tutti. Quali sono per Marx le cause di questo fenomeno? Si può rispondere che l'innovazione tecnologica deriva dalla necessità, sentita da ogni imprenditore, di affermarsi nella sfida concorrenziale. L'innovazione riduce i costi unitari, permette di vendere a prezzi più contenuti le merci, ricavare sovraprofitti, e quindi di battere i concorrenti. Una simile riposta però fa ricorso a categorie che, anche se spesso usate da Marx, non sono a rigore marxiste.

La analisi marxiana del modo di produzione capitalistico è infatti condotta, tutta, in termini di valore. Marx non parla di prodotti, prezzi e costi, ma di valori, meglio, parla di prezzi, costi e prodotti come di forme fenomeniche dell'essenza profonda della merce: il valore di scambio o semplicemente valore. Il valore è dato dall'astratto lavoro umano contenuto nelle merci. Le varie merci che si scambiano sul mercato altro non sono che forme fenomeniche dell'essenza valore, generico lavoro umano, cristallo, gelatina, per usare termini cui spesso Marx fa ricorso, di lavoro. Un paio di scarpe rappresenta una certa quantità del tempo di lavoro sociale, e questa è il suo valore. Il prezzo del paio di scarpe costituisce una variazione in più o in meno, determinata dalla domanda e dall'offerta, rispetto al suo valore - essenza. Se in un paio di scarpe sono”cristallizzate” otto ore di lavoro astratto, quello è il loro valore. Il prezzo di queste scarpe, ad esempio 100 euro, costituisce la variazione fenomenica del loro valore.
Ma impostare in questo modo la ricerca vuol dire slegare il valore da qualsiasi tipo di empiria. Posso forse dire che il valore di un paio di scarpe è pari al numero delle ore lavoro che sono state necessarie per produrle? No perché questo è sempre tempo di lavoro
concreto, tempo di lavoro del calzolaio, meglio di quel calzolaio che ha fatto quelle scarpe. Il valore lavoro è invece costituito dal lavoro astratto. Si tratta allora del lavoro che il mercato ha reso astratto? No, perché il processo di astrazione che si verifica sul mercato riguarda i prezzi, non i valori lavoro. Il mercato eguaglia, ad esempio, camicia e scarpe nel prezzo dicendo che un paio di scarpe costa 100 euro quanto una camicia; in questo modo il prezzo è, insieme, astratto e legato al mondo empirico. E' un numero astratto che permette il concreto scambio delle merci. Ma da cosa sarà mai espresso il valore che sta dietro al prezzo? Quale numero lo esprime, quali scambi rende possibili? Stabilirlo è impossibile, in linea di principio oltre e prima che di fatto. Tutto il discorso marxiano sulla merce, cuore del “capitale” è condotto in termini essenzialisti, privi di legami col mondo empirico. 


Il plusvalore relativo

Secondo Marx il rapporto fra tecnologia e capitalismo va studiato in termini di valore. Il modo di produzione capitalistico è finalizzato alla produzione di valore, cioè lavoro umano astratto, estrinsecazione della forza lavorativa umana che prende le forme fenomeniche più diverse. Al centro di tutto sta la teoria marxiana del valore, e dello sfruttamento che non è qui il caso di esporre in maniera anche solo minimamente esaustiva. Mi permetto di rinviare chi fosse interessato al mio “l
a dottrina marxiana dello sfruttamento” presente nel blog “secondo Giovanni”.
Il valore di una qualsiasi merce è costituito dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla, questo, in sintesi estrema, il succo del discorso marxiano. Questo valore si divide però in due parti: una riproduce il lavoro morto, il tempo di lavoro cioè incorporato negli strumenti che sono serviti a produrre la merce. L'altra rappresenta il lavoro vivo, il lavoro di quanti hanno usato quegli strumenti nel processo produttivo. Se una certa merce, un tavolo ad esempio, ha il valore 100, 70 rappresenta il valore degli strumenti che sono stati necessari a produrla (seghe chiodi, martelli eccetera), 30 rappresenta invece il nuovo lavoro, il lavoro “vivo” degli operai che hanno prodotto il tavolo. Per Marx solo il lavoro vivo crea nuovo valore, quindi plusvalore. Il lavoro morto non fa che riprodurre se stesso. Poniamo che un capitalista investa 100 acquistando strumenti per 80 e pagando 20 per la forza lavoro dei “suoi “ operai. Al termine del processo produttivo, ipotizzando un tasso di sfruttamento del 50%, il valore totale sarà pari a 110. Di questo 80 sarà il valore dei mezzi di produzione trasferito nelle merci prodotte, 20 il valore della forza lavoro e 10 il plusvalore. Il 20 investito in forza lavoro riproduce inizialmente se stesso e crea nuovo valore pari a 10. Quanto investito in strumenti di lavoro non produce alcun nuovo valore. Si pone allora la domanda: perché mai il capitalista investe in mezzi di produzione? Sono indispensabili a produrre, si potrebbe rispondere, in termini, a rigore, non troppo marxiani. Una risposta di questo genere però lascia inalterata la questione: perché mai il capitalista, la cui mira costante è accrescere all'infinito il valore, dovrebbe investire in tecnologie sempre più raffinate che allontanano dal processo produttivo il lavoro vivo, l'unico che produce nuovo valore determinando inoltre, come vedremo, la caduta del saggio di profitto?

Un tentativo di soluzione è dato dalla teoria del saggio medio di profitto, del prezzo medio delle merci e del sovraprofitto.

La concorrenza nei e fra i settori produttivi porta, attraverso innumerevoli oscillazioni, alla formazione di un saggio di profitto medio e di prezzi unici di vendita nei vari settori produttivi. Questi sono dati dal costo del capitale investito più il profitto medio del settore, o addirittura del sistema. Per capitalisti che, grazie alla migliore produttività del loro capitale, riescono a ridurre i costi di produzione il prezzo di vendita medio sarà superiore al costo e ciò genera un sovraprofitto. Per quelli che invece producono a costi superiori perché in possesso di capitali meno produttivi, il prezzo medio sarà inferiore a quello a cui questi dovrebbero vendere per pareggiare i costi e conseguire un profitto. Da ciò deriva una decurtazione dello stesso.
Ma, a parte il fatto che, ancora una volta, la teoria ha scarse verifiche empiriche, una cosa salta agli occhi. E' possibile arrivare alle stesse conclusioni abbandonando del tutto la teoria del valore lavoro e dello sfruttamento ad essa connesso. Quello che conta nella teoria del saggio medio di profitto e dei prezzi medi sono i costi di produzione ed i prezzi, la domanda e l'offerta, non il valore lavoro ed il plusvalore. Ogni volta che cerca di avvicinarsi alla realtà empirica Marx si allontana dalla teoria del valore lavoro.


E' invece molto più in linea con la concezione marxiana del valore la teoria del del
plusvalore relativo.
Il plusvalore è dato dal valore che eccede il valore della forza lavoro, cioè, per Marx, il valore dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita la “specie” degli operai. Se il capitalista investe 20 in forza lavoro e la giornata lavorativa è di nove ore, nelle prime sei gli operai riproducono il valore 20 della propria forza lavoro, nelle ultime tre producono il plusvalore 10 che va al capitalista. Ma se per riprodurre il valore della forza lavoro sono necessarie non sei ma tre ore di lavoro, il plusvalore che va al capitalista non è più 10 ma 20. L'incremento della produttività del lavoro genera il
plusvalore relativo. Questo deriva non dall'allungamento della giornata lavorativa ma dalla riduzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione del valore della forza lavoro.
“Il capitale”, afferma Marx, “deve necessariamente sconvolgere le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo, vale a dire lo stesso
modo di produzione per potenziare la forza produttiva del lavoro, per diminuire il valore della forza lavoro tramite l'accrescimento della forza produttiva del lavoro e per accorciare in tal modo la parte della giornata lavorativa necessaria per riprodurre questo valore. (…) Il plusvalore prodotto tramite il prolungamento della giornata lavorativa io lo chiamo plusvalore assoluto e al contrario quello dovuto all'accorciamento del tempo di lavoro necessario ed alla conseguente modificazione del rapporto di grandezza delle due parti che costituiscono la giornata lavorativa io lo chiamo plusvalore relativo” (2)
Marx risponde subito alla ovvia obiezione che in questo modo lo sviluppo tecnologico resterebbe delimitato al solo settore dei mezzi di consumo, meglio, dei mezzi di consumo più miseri, il che era contraddetto dai fatti anche ai tempi di Marx. Il sistema economico, afferma Marx, è interconnesso: la riduzione del valore dei beni che costituiscono i mezzi di sussistenza destinati al mantenimento della classe operaia richiede un generale incremento della produttività del lavoro.
“Perché il
valore della forza lavoro possa diminuire l'accrescimento della forza produttiva deve prendere possesso di quei rami dell'industria i cui prodotti determinano il valore della forza lavorativa (…) Il valore di una merce non si determina però solo in base alla quantità di lavoro che le da forma definitiva, ma anche e altrettanto in base in base alla quantità di lavoro racchiusa nei mezzi di produzione.” (3)

La risposta di Marx è ingegnosa ma non risolve tutte le difficoltà, anzi, ne crea di nuove. In fin dei conti per secoli il consumo delle classi subalterne era stato ridotto a livelli di mera sussistenza senza che fosse stato necessario alcun incremento della produttività del lavoro. Marx fa l'esempio di un paio di stivali per produrre i quali occorrono cuoio, aghi eccetera, quindi l'aumento della produttività del lavoro nel settore del cuoio e degli aghi aumenta il plusvalore relativo nel settore delle calzature. Ma... perché mai un paio di stivali deve far parte dei mezzi minimali di sussistenza destinati alla classe operaia? I servi della gleba non portavano stivali, al contrario dei loro padroni. Inoltre, l'aumento della produttività del lavoro nei settori che producono mezzi di produzione e di di sussistenza destinati alla classe operaia non spiega il pari incremento in altri settori privi di relazioni col consumo delle classi subalterne. Se televisori e lavatrici
non fanno parte dei mezzi di sussistenza l'incremento della produttività nei loro settori non contribuisce in alcun modo alla creazione di plusvalore relativo. Marx lo ammette chiaramente, ma questo resta nel suo sistema un nodo irrisolto. O l'incremento della produttività nel settore delle lavatrici consente la creazione di plusvalore relativo, ed allora le lavatrici fanno parte dei mezzi di sussistenza destinati agli operai, e questo non quadra con la concezione marxiana secondo cui la borghesia tende costantemente a ridurne l'entità. O le lavatrici non fanno parte dei mezzi di sussistenza per la classe operaia, quindi non contribuiscono alla creazione di plusvalore relativo, e in questo caso non si vede perché sia aumentata vertiginosamente la produttività del lavoro nel loro settore. All'interno della categorie marxiane l'invenzione  e la produzione di massa di lavatrici, e con queste di moltissime altre cose, restano un mistero.



La caduta del saggio di profitto.

Marx sostiene da un lato che la molla fondamentale che muove il capitalismo è la indefinita valorizzazione del capitale e ne sottolinea la tendenza ad incrementare al massimo lo sviluppo tecnologico e la produttività del lavoro. Dall'altro ritiene che solo il capitale vivo, l'utilizzo della forza lavoro umana, crei valore. Tutto questo appare, obiettivamente, come una contraddizione nella teoria marxiana. Marx “sposta” invece questa contraddizione nel sistema capitalistico. Per Marx è il capitalismo, non la sua teorizzazione, ad essere contraddittorio. Il pensatore di Treviri cerca di dare aspetto scientifico a queste conclusioni esaminando la tendenza alla caduta del saggio di profitto.

Il capitale si compone di una parte costante (gli strumenti di produzione) ed una parte variabile (la forza lavoro). La
composizione organica del capitale è data dal rapporto fra la parte costante e quella variabile. “Per composizione del capitale” afferma Marx, “vogliamo significare (…) il rapporto fra i suoi elementi attivi e passivi, ossia fra il capitale costante ed il capitale variabile” (4). Lo sviluppo tecnologico aumenta, ovviamente la composizione organica del capitale, la parte fissa di questo diventa sempre maggiore rispetto alla sua parte variabile. Ma il plusvalore viene solo dalla parte variabile, solo questa consente, per Marx, la accumulazione crescente del capitale. Occorre a questo punto distinguere il saggio di plusvalore dal saggio di profitto. Il saggio di plusvalore è dato dal rapporto fra plusvalore e capitale variabile, indica per Marx l'intensità dello sfruttamento. Se si investe 20 in capitale variabile e questo crea un valore di 30 si ha un plusvalore di 10 ed un saggio di plusvalore del 50%. Se il valore creato è 40, il plusvalore sarà 20 ed il saggio di plusvalore del 100%. Il saggio di profitto è dato invece dal rapporto fra plusvalore e capitale totale investito. Visto che la composizione organica del capitale aumenta mentre il plusvalore si ottiene solo dalla sua parte variabile il saggio di profitto tenderà a diminuire. Chiamando C il capitale costante, V quello variabile, e p' il saggio di profitto, afferma Marx
“Se il saggio di plusvalore è del 100% avremo:
se C=50 e V = 100, p' = 100/150 = 66 2/3%;
se C = 100 e V = 100, p' = 100/200 = 50%
(…)
Se C = 400 e V = 100, p' = 100/500 = 20%” (5)
A parte frazioni e calcoli di percentuali il discorso è intuitivo: se aumenta la parte costante del capitale il rapporto fra il plusvalore, legato alla sola parte variabile, e la totalità dell'investimento non può che diminuire. Marx individua molte controtendenze che frenano la caduta del saggio di profitto. Il costante aumento della composizione organica del capitale dà vita a quello che Marx chiama
esercito industriale di riserva: molti lavoratori sono espulsi dal processo produttivo e questo provoca concorrenza fra occupati e disoccupati, contrazione del monte salari ed aumento del saggio di sfruttamento, che contrasta ovviamente con la caduta del saggio di profitto. Hanno lo stesso effetto l'incremento della intensità del lavoro e il calo dei valori di materie prime e strumenti di produzione come conseguenza del commercio estero. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto resta però, nel lungo periodo, valida. Rappresenta per Marx la legge fondamentale del modo di produzione capitalistico, la prova del suo carattere storicamente transitorio. La caduta tendenziale del saggio di profitto dimostra che il capitalismo non è in grado di sviluppare ulteriormente le forze produttive, entra in contraddizione con se stesso e deve essere abbattuto:
“Il
vero limite della produzione capitalistica è proprio il capitale, cioè è che il capitale e la sua autovalorizzazione si presentano come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e fine della produzione, che la produzione è soltanto produzione per il capitale, e non invece i mezzi di produzione sono i semplici mezzi per un costante allargamento del processo vitale per la società dei produttori (…) Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – entra costantemente in conflitto con lo scopo limitato, la valorizzazione del capitale esistente” (6)

Siamo al cuore della analisi marxiana. Il capitale non è un insieme di strumenti di lavoro, ricchezza finanziaria in mano ai borghesi, non è qualcosa che serva a determinate persone, siano anche queste dei feroci sfruttatori. No, il capitale è una
potenza impersonale che si muove di moto proprio. E' lavoro morto che si appropria costantemente di lavoro vivo e deve proseguire indefinitamente in questa opera insensata di appropriazione. Il proprietario dei mezzi di produzione, afferma Marx “come capitalista è soltanto capitale personificato. La sua anima è soltanto l'anima del capitale. Ma il capitale ha soltanto un unico istinto vitale, l'istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e che vive quanto più ne succhia”(7)
La teoria del valore si fonde qui con quella della alienazione. Nel capitalismo l'uomo è fuori di se, esiste in forma di cosa, di capitale costante o capitale variabile,
cose sociali, così le definisce Marx parlando del feticismo della merce, che vivono di vita propria. Prezzi e costi, mercati, preferenze dei consumatori, domanda ed offerta, le stesse sofferenze della classe operaia scompaiono o si muovono sullo sfondo, come pallidi fantasmi. Restano le categorie filosofico - economiche sostanzializzate. Sono queste le vere protagoniste del dramma. 


Essenzialismo.

Eravamo partiti dalla domanda: come mai il capitale sviluppa la tecnologia se questa porta, nel lungo periodo, ad una contrazione della valorizzazione?
La domanda non è affatto ingenua. Lo sviluppo della tecnolo già ha portato, fra le altre cose, ad una riduzione netta del tempo di lavoro ed alla crescita dei salari reali. Non c'è nulla di strano in questo. Proviamo ad immaginare una società totalmente automatizzata, in cui basti premere un bottone per avere tutto ciò che si vuole. In una società simile non esisterebbero più economia, scambio, calcolo del rapporto costi ricavi. Né esisterebbero redditi, perché il reddito è qualcosa che serve ad acquistare beni scarsi e non esiste la scarsità nel regno di bengodi. E' possibile immaginare seriamente che in una simile società i capitalisti mirerebbero ad uno sfruttamento intensivo di operai ormai inutili? O distruggerebbero le merci per fare acquistare loro valore? Ovviamente no, a meno di non considerare certe categorie di persone come mentalmente perverse. E, in ogni caso, che potere avrebbero mai in un nuovo paradiso terrestre simili strani demoni?
Fenomeni molto gravi di sovraproduzione e disoccupazione accompagnano o possono accompagnare i processi di meccanizzazione ed automazione
proprio perché il lavoro continua a restare necessario. Se in un certo settore un certo numero di operai sono diventati “eccedenti” si possono avere fenomeni di sovraproduzione e disoccupazione, con i drammi connessi, proprio perché esistono ancora il lavoro, lo scambio, il calcolo economico; non si vive nel regno dell'abbondanza. Da qui l'importanza di politiche che agevolino la ricollocazione dei lavoratori, ne sostengano i redditi e, soprattutto, favoriscano la crescita. Ma per Marx tutto questo è "riformismo piccolo borghese", inconcludente ed illusorio.
Marx crede che
nel lungo periodo sia possibile una società caratterizzata da abbondanza generalizzata, in cui il lavoro inteso come fatica diventi obsoleto e sia sostituito dal lavoro piacere, estrinsecazione di umana creatività.
Si tratta di una prospettiva radicalmente, ontologicamente, impossibile. La rendono tale non i rapporti di produzione capitalistici, come pensava Marx, ma la limitatezza delle risorse a nostra disposizione, l'umana finitezza e, insieme, la potenziale illimitatezza delle nostre esigenze. Ma, nel momento stesso in cui crede in una impossibile società senza fatica né alcun tipo di penuria Marx non crede sia possibile, nella società esistente, alcun miglioramento sostanziale delle condizioni di vita per larghe masse di popolazione. Perché?

La tecnologia, Marx lo ha visto bene, consente di produrre quantità enormi di beni con l'impiego di quantità decrescenti di lavoro. Perché questo non dovrebbe consentire una graduale riduzione degli orari, un innalzamento dei salari reali ed almeno una certa diffusione del benessere? Già Smith intuisce un simile fenomeno quando afferma, all'inizio de “
la ricchezza delle nazioni”, che un operaio povero dei suoi tempi è, per certi aspetti, più ricco di un monarca del passato. Marx invece, a parte qualche oscillazione, respinge simili suggestioni, come mai?
Le radici di questo autentico abbaglio si trovano nella impostazione essenzialistica del suo pensiero. Per Marx il capitalismo non mira a produrre quantità crescenti di beni a costi contenuti, da vendere a prezzi competitivi, meglio, mira a queste cose come semplici mezzi per ottenere una indefinita crescita del
valore. Non i beni prodotti, ma i valori sono il fine ultimo della produzione capitalistica. E i valori, meglio, il valore è dato solo dal lavoro vivo. Le conseguenze che Marx trae da una simile impostazione sono paradossali, ma logicamente coerenti.
Poniamo che due diversi paesi capitalistici siamo caratterizzati da diverse produttività del lavoro. Nel paese A si investe 100 di cui 90 è lavoro morto e 10 lavoro vivo. Al termine del processo produttivo il valore totale in A è 110. Questo valore totale però è incorporato in mille unità di merci. In B invece si investe 100 di cui 50 è lavoro morto e 50 lavoro vivo. Al termine del processo produttivo il valore totale è 150, che però si incorpora in cento unità di merci.
Dal punto di vista di Marx è il paese B ad essere capitalisticamente espansivo. A è invece il paese di un capitalismo potenzialmente stagnante. In ultima istanza a contare è il valore, non la quantità di beni in cui questo si incorpora. Una quantità crescente di beni prodotti a prezzi competitivi rende possibile la crescita dei salari reali e la riduzione degli orari di lavoro, ma per Marx una simile crescita deve necessariamente tradursi in disoccupazione e miseria perché contrasta con la massimizzazione dell'essenza valore. Prigioniero della sua visione essenzialista Marx sostituisce il capitalismo - essenza al capitalismo reale, la empirica economia di mercato di cui non sa prevedere altro che crolli rovinosi. E sottovaluta, non a caso, i graduali miglioramenti della propria condizione che, già ai suoi tempi, i lavoratori riuscivano a conquistare. Per Marx le lotte operaie possono ottenere solo risultati estremamente modesti. Il vero risultato di uno sciopero non è tanto l'aumento del salario o la riduzione dell'orario quanto la coscienza che nello sciopero gli operai acquisiscono della inconciliabilità dei propri interessi con quelli dei “padroni”. Engels modificherà in parte una simile impostazione senza tuttavia abbandonarla. Sarà abbandonata, a gran fatica, dalla componente riformista del movimento operaio, e sempre riproposta dalle sue frange rivoluzionarie.

Non è il caso di dilungarsi ancora. L'essenzialismo del valore impedisce a Marx di cogliere le tendenze vere e le stesse potenzialità positive dello sviluppo tecnologico. Oggi mediocri demagoghi, travestiti da profeti da quattro soldi propongono suggestioni che ricordano alcune analisi marxiane, ovviamente storpiate sino alla caricatura. Il reddito di cittadinanza, ad esempio, può ricordare la suggestione marxiana di un mondo senza lavoro, ma in Marx questo riguarda solo la società comunista del futuro, ed è reso possibile da uno sviluppo senza precedenti delle forze produttive sociali. Oggi un profeta comico genovese parla di “mettere al centro l'uomo, non il mercato del lavoro”, come se il mercato del lavoro non riguardasse l'uomo. L'analisi economica, la speculazione filosofica sono sostituiti da slogan sguaiati e da “ragionamenti” privi di logica. Visto che le macchine consentono di lavorare meno “allora” un buon numero di persone può campare vita natural durante senza lavorare, pagate da chi invece lavora. Che una simile prospettiva distrugga il lavoro, la produttività, quindi le stesse possibilità d mantenere qualcuno è una possibilità che neppure viene presa in considerazione. Invece di legare tempo libero a produttività del lavoro si rivendica l'ozio a spese di chi lavora. L'idiozia al posto della analisi.
Viviamo davvero in tempi brutti.



Note.

1)Marx Englels: Manifesto del partito comunista. Einaudi. 1962 pag. 102 - 103 -104
2) Karl Marx: Il capitale. Libro primo. Avanzini e Torraca 1965. pag. 397. Sott. Di Marx.
3) Ibidem sott. Di Marx
4) Karl Marx: Il capitale. Libro terzo. Avanzini e Torraca 1965. pag. 9.
5) Ibidem pag. 99
6) Ibidem pag 152 sott. Di Marx.
7) Marx Il capitale, citato in Leszek Kolakowski: Nascita sviluppo e disosluzione del marxismo. Sugar 1976 pag.304 305 Sott. mie.






































venerdì 9 marzo 2018

TECNOLOGIA, LAVORO, REDDITO (DI CITTADINANZA)


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Il problema
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Ne parlano un po' tutti. L'aumento della meccanizzazione e della automazione contrae l'occupazione. Si produce di più ma ci sono più poveri, il risultato finale di una simile tendenza sarebbe un mondo ricchissimo di beni ma caratterizzato da una povertà generalizzata. Un incubo.
La risposta a questo stato di cose è quella di slegare il reddito dal lavoro. Il lavoro non serve più quindi il reddito non deve essere commisurato al lavoro svolto. Il famoso reddito di cittadinanza dei “grillini” significa esattamente questo: fra reddito e lavoro non dovrebbe più esistere alcun legame. Si dispone di un reddito perché si è cittadini, o addirittura solo residenti in un paese.
Si badi bene, non si tratta della banale ovvietà secondo cui una parte della ricchezza prodotta in un paese deve servire a mantenere persone che sono fuori dal mercato del lavoro. Questo avviene ovunque. Il lavoro crea ricchezza ed una parte di questa serve a mantenere persone che ancora non lavorano o non lavorano più, come i vecchi ed i bambini. O che non possono lavorare, come i malati e i disabili. In un paese civile serve anche ad aiutare chi senza colpa è stato espulso dal mercato del lavoro e cerca di rientrarvi. Tutto questo però non slega in alcun modo il reddito dal lavoro, né, in una società sana, riguarda un numero spropositato di persone. I bambini sono mantenuti dai genitori e molte persone anziane o non in grado di lavorare trovano nella famiglia la fonte primaria di sostentamento. Gran parte degli anziani sono pensionati che vivono di reddito differito; quanto a chi è stato espulso dal mercato del lavoro, il sacrosanto aiuto che deve ricevere è finalizzato a favorire il suo reinserimento nello stesso. Tutte le misure sociali di sostegno ai meno abbienti sono insomma ampliamenti o eccezioni alla regola aurea secondo cui il reddito è legato al lavoro. E, come tutti gli ampliamenti e tutte le eccezioni, non fanno altro che confermare la regola.
Dietro a molte proposte si cela però qualcosa di radicalmente diverso: si teorizza che i processi di automazione rendono il lavoro superfluo, quindi che si possa spezzare il legame fra lavoro e reddito. E questo non per certe categorie o per certi periodi di tempo, no, tendenzialmente per tutti ed in maniera permanente. Pochi lo dicono chiaramente ma questo è il senso dei loro discorsi.

Tendenze di lungo periodo.

Molte teorizzazioni sulla “fine del lavoro” sono presentate da chi le elabora come assolute novità. In realtà non lo sono per niente. Per Marx, che non è un autore recentissimo, il comunismo è proprio questo: una società senza lavoro o meglio, col lavoro trasformato da duro mezzo per soddisfare bisogni umani in bisogno esso stesso. Il lavoro come creatività, gioco, piacere. Non il lavoro come fatica. Marx aveva anche teorizzato la tendenza del capitalismo ad un continuo sviluppo tecnologico, ma pensava che questa positiva tendenza fosse contrastata dai rapporti di produzione capitalistici. Ne parla nel terzo libro del “capitale”, quando predice la tendenza alla caduta del saggio di profitto come inevitabile conseguenza, nel capitalismo, dello sviluppo tecnologico. Una delle previsioni marxiane più clamorosamente smentite dai fatti.
Non è qui il caso di dilungarci su questi temi, ne ho accennato solo per ricordare che certe “novità” non sono affatto tali. Vale invece la pena di chiederci: quali sono state, finora, le conseguenze di lungo periodo dello sviluppo tecnologico?

La disoccupazione tecnologica non è una invenzione di Beppe Grillo. Appare con la rivoluzione industriale e da allora accompagna le vicende dell'economia, in tutte le loro fasi. Ma è un errore fondamentale affrontare questo problema, come altri, in un'ottica unilineare ed estrapolazionista.
Molti prendono una tendenza reale, la isolano dalle altre, estrapolano da questa un certo numero di possibili conseguenze e traggono da tutto il procedimento determinate conclusioni, per lo più disastrose. Avviene questo quando si parla, ad esempio, della popolazione della terra o delle risorse naturali, con le fosche previsioni di un pianeta super affollato, o di un occidente desertico da “ripopolare” coi migranti; o ancora di un pianeta senza più materie prime, distrutte dall'umana ingordigia. Avviene lo stesso con lo sviluppo tecnologico che per alcuni dovrebbe portare ad un mondo ricchissimo di beni ma abitato da centinaia di milioni di miserabili.
Le tendenze vanno invece esaminate non isolatamente ma nelle loro reciproche relazioni, insieme alle controtendenze che ne frenano o annullano le conseguenze. Si tratta, in fondo, di una banalità, che alcuni però non riescono a capire.

Se nel processo produttivo viene introdotta una macchina che permette di produrre con 10 ore di lavoro la stessa quantità di merci che prima veniva prodotta in 100 ore una parte degli operai diventa “esuberante”. Il loro lavoro non serve più, devono essere licenziati. Ma questo accade solo se si mantiene fissa la produzione totale. Se invece di produrre la quantità X di merce si producono dieci, o venti o 100 volte X ad aumentare non è la disoccupazione, ma, al contrario, la occupazione. Ed è questo che è storicamente avvenuto, non a caso.
A partire dalla rivoluzione industriale la produzione è diventata sempre più di massa. Gli strati privilegiati come principali referenti della produzione sono stati sostituiti dalle persone comuni. Dietro ai processi di meccanizzazione prima e di automazione poi non c'è tanto l'esigenza, pure reale, di risparmiare lavoro. C'è soprattutto l'esigenza di incrementare la produttività per allargare la produzione e soddisfare mercati sempre più di ampi. Considerazioni analoghe si possono fare per il settore dei servizi.
Ricorda Piero Melograni nel bel libro “La modernità e i suoi nemici” (Mondadori 1996) che in Francia la popolazione attiva ammontava a circa 14 milioni di unità nel 1856 mentre superava i 23 milioni nel 1983. In Italia le persone attive erano 14 milioni nel 1861, erano 21 milioni nel 1990. Oggi raggiungono i 23 milioni.
Negli Stati uniti i lavoratori erano 12 milioni e mezzo nel nel 1870, sono diventati 86 milioni nel 1970, passando dal 31 al 42% del totale della popolazione globale.
Nelle epoche preindustriali il numero dei lavoratori si manteneva grosso modo stabile. Dalla rivoluzione industriale in poi il numero degli occupati è cresciuto, malgrado che uno sviluppo tecnologico senza precedenti abbia consentito un formidabile aumento della produttività del lavoro.

Ma esistono altri due fenomeni di cui tener conto per avere un quadro esaustivo della situazione. Il primo, importantissimo, è dato dalla graduale riduzione del tempo di lavoro a fronte di retribuzioni reali crescenti. Quando Engels scriveva “la situazione della classe operaia in Inghilterra” la giornata lavorativa raggiungeva le 12, a volte anche le 14 ore giornaliere. Oggi si lavora poco più, a volte meno, di 35 ore settimanali. Nei primi anni del diciannovesimo secolo molti, sventurati, esseri umani iniziavano a lavorare a 10, 12 anni e continuavano senza interruzione sino alla fine dei loro giorni. Oggi, grazie a Dio, alla tecnologia ed anche, non dimentichiamolo, a sacrosante e dure lotte dei lavoratori, esistono le pensioni e le ferie pagate. Ne “l'ambientalista scettico” (Mondadori 2003) Bjorn Lomborg ricorda che nel 1856 nel Regno unito un lavoratore trascorreva in media 124.000ore della sua vita lavorando. Oggi le ore si sono ridotte a 69.000. Nel 1856 gli uomini passavano sul lavoro il 50% della loro vita, oggi la percentuale si è ridotta al 20%, per la combinazione di allungamento della vita media, pensionamenti, ferie e riduzione della giornata lavorativa.
Infine, per valutare correttamente le tendenze di lungo periodo occorre tenere conto che lo sviluppo della tecnologia stimola l'emergere di nuovi settori produttivi. L'introduzione di un robot rende “esuberanti” degli operai alla catena di montaggio ma richiede nuovi tecnici informatici. E il generale innalzamento del tenore di vita stimola a sua volta le possibilità di investimenti differenziati. In una società in cui la gran massa della popolazione vive più o meno al livello di sussistenza non potrà di certo svilupparsi l'industria dello spettacolo o la grande distribuzione. Settori come quello bancario ed assicurativo saranno di dimensioni molto ridotte perché riservati ad una ristretta clientela di elite. Gli esempi potrebbero continuare.

Tutto va bene allora? Non ci sono problemi? NO, assolutamente NO. Guardare solo alle serie secolari, prendere in esame solo i grandi numeri può essere molto mistificante. In fondo un certo miglioramento delle condizioni di vita nel lungo periodo è sempre possibile, se non altro perché ogni generazione poggia sui risultati delle precedenti. I lunghi periodi sono fatti da periodi brevi, dentro i grandi numeri ci sono i numeri piccoli. Se perdo oggi il posto di lavoro mi consola poco sapere che l'occupazione in Italia è aumentata dal 1870 ad oggi. Se l'automazione espelle dal mercato del lavoro 10 operai ad Agrigento il loro dramma non è reso meno grave dal fatto che 10 giovani sono assunti come tecnici informatici a Milano. Le tendenze che abbiamo esaminato operano in maniera non sincronica né armonica, con frizioni e difficoltà, e tutto questo provoca gran quantità di sofferenze umane. Per questo, in fondo, esiste la politica. Per questo si fa ricorso alle manovre della liquidità, o al sostegno dei redditi, ai corsi di riqualificazione o agli ammortizzatori sociali.
E restano, ovviamente, le domande di fondo. La tendenza alla disoccupazione tecnologica è inarrestabile? Come contrastarla? Il reddito di cittadinanza è una risposta corretta?


Due casi limite teorici
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Poniamo che io lavori 40 ore la settimana per un salario reale pari a 100. Grazie alla migliore produttività del lavoro resa possibile dallo sviluppo tecnologico, e grazie anche a fior di ore di sciopero, riesco a lavorare 37 ore settimanali con un salario reale pari a 110. Lavoro meno e guadagno di più.
In un certo senso quel 10 in più che percepisco a fronte di tre ore di lavoro settimanali in meno è un reddito di cittadinanza. Se chi propone il reddito di cittadinanza chiede che la maggiore produttività del lavoro sia accompagnata da una riduzione dell'orario e da un incremento della ricchezza per i lavoratori non propone nulla di “rivoluzionario”. Si accoda semplicemente ad una tendenza già in atto da tempo. Riduzioni di orario ed incremento dei salari reali non violano però la regola aurea secondo cui redditi e lavoro devono essere collegati. Semplicemente, una cosa è collegare il reddito ad un lavoro a produttività X, altra cosa è collegarlo ad un lavoro a produttività 10X. Una cosa è dire che un lavoro più produttivo permette salari reali più elevati ed orari più brevi, cosa completamente diversa, anzi, opposta, è pretendere che il reddito sia indipendente dal lavoro, che alla base del reddito con ci sia il lavoro, più o meno produttivo, ma la “cittadinanza”.

Slegare reddito e lavoro è teoricamente prima ancora che praticamente una idiozia, se non altro per il semplicissimo motivo che
il reddito è precisamente l'utile derivante da una attività, quindi da un lavoro. Anche le rendite finanziarie, a ben vedere le cose, sono legate ad una attività lavorativa. Un titolo rende se la azienda che lo ha emesso produce. Parlare di scissione fra reddito e lavoro è una contraddizione in termini. Il reddito è tale se serve a procurarsi beni scarsi e i beni sono scarsi solo il lavoro può produrli. Il reddito è sempre legato, più o meno direttamente, al lavoro.
Per rendersene conto ancora meglio val la pena di esaminare due casi limite puramente teorici.
Immaginiamo una società completamente automatizzata. Nessuno lavora, tutti hanno a disposizione una quantità illimitata di ricchezza. Basta premere un bottone per avere tutto ciò che si vuole e questo non crea alcun problema di carenza di risorse o compatibilità ambientali. Si tratta di una situazione
radicalmente, ontologicamente impossibile, ma, prescindiamo da questo. Chiediamoci invece: avrebbe senso in una simile società parlare di “reddito”? NO, ovviamente. In una simile società saremmo tutti, insieme, ricchi e disoccupati. Non avremmo un reddito perché saremmo illimitatamente ricchi ed il reddito è invece qualcosa che permette a qualcuno di appropriarsi di beni scarsi. Nel paese di bengodi non esistono redditi perché non esistono economia e calcolo economico.
Immaginiamo ora una società, anch'essa radicalmente impossibile, in cui tutti vivano in meditazione trascendentale, si limitino a respirare e a mangiare ogni tanto qualche filo d'erba. Avrebbe senso in questa società parlare di “reddito di cittadinanza”? Di nuovo la risposta è
NO. In una simile società saremmo tutti poveri e tutti disoccupati, ma questo non interesserebbe a nessuno. La povertà sarebbe un valore bene accetto da tutti. Anche questa società sarebbe priva di economia, quindi di redditi. Esistono i redditi laddove esiste economia, calcolo economico, scarsità e necessità di misurare costi e benefici. Non esiste economia né in paradiso né all'inferno. E neppure esiste economia in una società di asceti. E dove non esiste economia non esistono redditi di nessun tipo, meno che mai redditi “di cittadinanza”.


Il vero problema.

Il vero, grande, problema non è lo sviluppo tecnologico, è il suo andamento non armonico, diseguale
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Nel settore A, ad elevato sviluppo tecnologico, viene inserita una innovazione che permette di produrre merci a costi ridotti e venderle a 10. Il settore B, a sviluppo tecnologico minore, continua invece a produrre e vendere a 100. Questo sbilancio nei prezzi relativi può creare grossi problemi di occupazione proprio in A. I prezzi elevati in B contribuiscono infatti, o possono contribuire, a portare i salari in A ad un livello incompatibile con nuovi investimenti. Nella determinazione dei salari in A entrano infatti le valutazioni dei prezzi in B, specie se questi riguardano beni di largo consumo. I salari in A rischiano in questo modo di attestarsi ad un livello incompatibile con ampliamenti della produzione e questo provoca eccessi di manodopera. Non si sta dicendo, deve essere chiaro, che il settore A, tecnologicamente avanzato, entrerà in crisi, cesserà di essere all'avanguardia. Si dice solo che in quel settore, a fronte di innovazioni che permettono di “risparmiare” lavoro, non ci sarà (potrebbe non esserci) un aumento della produzione che ne compensi l'impatto negativo sull'occupazione.
In se l'innovazione tecnologica rende possibile sia la riduzione degli orari che il maggior valore reale delle retribuzioni. E' la
disarmonia nello sviluppo tecnologico a creare problemi di eccedenza di forza lavoro.
Se
tutta l'economia fosse in grado di produrre grandi quantità di beni a costi minimi non si creerebbero particolari problemi di occupazione. Ma se solo alcuni settori riescono a raggiungere standar elevatissimi di produttività i problemi ci sono, eccome! Se una azienda agricola produce tonnellate di arance che possono essere vendute per pochi centesimi l'una e se con quei pochi centesimi chi vende arance non può comprare il pane che invece è prodotto a costi molto più elevati, si pongono, proprio per l'azienda agricola, problemi di sovraproduzione, quindi di eccedenza di manodopera.

Si può far fronte ad una simile situazione regalando indistintamente soldi alla gente? No, ovviamente. Fermo restando che
nessuna politica economica è in grado di risolvere tutti i problemi, le soluzioni migliori vanno cercate nel trasferimento del lavoro dai settori in cui questo è meno utile a quelli in cui è più utile e, soprattutto, in politiche espansive volte a rendere meno onerosi gli investimenti e a diffondere il più possibile lo sviluppo tecnologico a tutti i settori dell'economia. Naturalmente sono necessarie anche politiche di sostegno dei redditi di chi venga a trovarsi espulso dal mercato del lavoro, combinate con vasti programmi di riqualificazione professionale. Ma, val la pena di ripeterlo, una cosa è il sostegno dei redditi in vista di un reinserimento nel mercato del lavoro, cosa opposta l'elargizione di redditi slegati dal lavoro.

Il reddito di cittadinanza
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Occorre chiedersi: la proposta del M5S sul reddito di cittadinanza può essere considerata una “normale” proposta di sostegno dei redditi? E' corretto presentarla come un aiuto dato a chi si trova fuori dal mercato del lavoro in vista di un suo reinserimento? Per rispondere la si deve esaminare con un minimo di attenzione.

Il reddito di cittadinanza prevede l'erogazione di un sussidio pari a 780 euro per chi è senza reddito o ha un reddito inferiore a tale soglia, di 1.014 euro per un genitore solo con un figlio minore e di 1.638 euro per una coppia con due figli minori. Il sussidio dovrebbe andare sia ai cittadini italiani che ai residenti in Italia da almeno due anni.
Qui vale subito la pena di fare due considerazioni. La prima è che estendere il reddito di cittadinanza anche a chi cittadino italiano non è costituisce un formidabile incentivo per la immigrazione clandestina. La seconda, più importante, riguarda l'ammontare del sussidio. Dovrebbe essere evidente che un sostegno del reddito non dovrebbe esser tale da disincentivare chi lo riceve dal cercare un lavoro. Ora, in Italia c'è un sacco di gente che lavora per meno di 780 euro. Uno stipendio di 1.638 euro è poi più o meno uguale a quanto guadagnano moltissimi lavoratori, e non dei più disagiati. Non si vede davvero perché guadagnando senza far nulla 1.638 euro mensili qualcuno si dovrebbe prendere la briga di cercarsi un lavoro regolare. E' molto più probabile che si cerchi, semmai, un lavoro in nero che gli dia un reddito esentasse da affiancare al “reddito di cittadinanza”. Oltre che la immigrazione clandestina questo è destinato a favorire l'area del sommerso.
Continuiamo. Chi beneficia del reddito dovrà rinunciarci se rifiuta per te volte consecutive l'offerta di un centro per l'impiego. Non basta un rifiuto, ce ne vogliono addirittura
TRE!
Non solo, l'offerta rifiutata deve avere le seguenti caratteristiche:
1) Essere attinente alle caratteristiche professionali di chi usufruisce del reddito di cittadinanza. Altro che reddito di sostegno in vista di un reinserimento nel mercato del lavoro! Per essere reinserito nel mercato del lavoro qualcuno deve adeguare le proprie caratteristiche professionali a quanto richiesto dallo stesso. Ma ai grillini questo particolare interessa poco. Se sono un pizzaiolo mi si dovrà offrire un nuovo posto di pizzaiolo, e basta. Fantastico!
2) La paga oraria deve essere pari almeno all'ottanta per cento della paga percepita nel lavoro di provenienza. Avevo un lavoro retribuito con 2.000 euro mensili. Lo perdo ed usufruisco di un”reddito di cittadinanza” di 1.638 euro. Mi si offre un lavoro retribuito con 1.590 euro. Lo posso rifiutare perché la paga risulta inferiore all'ottanta per cento dei 2.000 euro che percepivo originariamente. Insomma, rifiuto un lavoro da 1.590 euro e mi tengo i 1.638 del reddito di cittadinanza. Non fa una piega!
3) Il luogo di lavoro deve essere situato nel raggio di 50 chilometri dal luogo di residenza e deve essere raggiungibile entro ottanta minuti con i mezzi pubblici. Io ho lavorato per anni in località distanti oltre un centinaio, in un caso addirittura due centinaia, di chilometri dal mio comune di residenza. Avrei avuto diritto ad un super reddito di cittadinanza!
Bastano queste scarne note per capire che in nulla il reddito di cittadinanza può essere spacciato per un normale sostegno dei redditi affiancato da una azione di formazione finalizzata al reinserimento nel mercato del lavoro. Si tratta in realtà di un reddito
sostitutivo del lavoro. Nulla di strano visto che Grillo ha da sempre teorizzato esplicitamente che deve essere rotto il legame fra lavoro e reddito.
E' inoltre davvero divertente vedere da dove i grillini vogliono tirar fuori le coperture di questa loro trovata. Un po' di soldini dovrebbero venir fuori dalla riduzione delle indennità parlamentari, dal taglio del finanziamento pubblico ai partiti, dalla riduzione della auto blu ed altre simili facezie. Si dovrebbero poi tassare le “pensioni d'oro”, quindi per regalare soldi a Tizio occorre toglierne a Caio che la pensione si presume se la sia pagata versando fior di contributi. E non basta. I seguaci del comico genovese chiedono la “riduzione delle detrazioni Irpef” che consentirebbe di avere a disposizione ben 5,3 miliardi di euro. Insomma, per pagare il reddito di cittadinanza dovremmo, tutti, pagare più tasse. Dovrebbero pagarle anche coloro che lavorano guadagnando 1.600 euro al mese, lo stesso che i grillini vogliono regalare a chi non lavora. Val la pena di aggiungere che un simile inasprimento fiscale renderebbe più difficile qualsiasi politica espansiva.
Molto interessanti anche le tassazioni su banche ed assicurazioni da cui i “grillini” pensano di ricavare circa 2 miliardi. Non li sfiora neppure l'idea che banche ed assicurazioni hanno un fondamentale ruolo nella creazione della ricchezza e che un aumento della pressione fiscale a loro carico potrebbe rendere più difficile l'erogazione del credito quindi la crescita economica. Stesso discorso vale per la tassazione delle trivellazioni petrolifere che dovrebbe rendere, dicono loro, circa un miliardo e mezzo. Qualcuno dovrebbe spiegare a questi sapientoni che si trivella per cercare il petrolio e che il petrolio ha una leggerissima utilità economica.
Da morire dalle risate infine la proposta della abolizione degli enti inutili. Negli enti definiti inutili lavora un bel po' di gente, che resterebbe disoccupata nel caso questi venissero aboliti. Che fare con questi disoccupati? Semplice, dar loro il reddito di cittadinanza.

Direi che basta.
Non siamo di fronte a qualcosa che assomigli anche lontanamente a politiche di sostegno del reddito combinate con scelte espansive di politica economica. Quando non sono pura demagogia o pagliacciate da circo Barnum le proposte grilline mirano a finanziare il famoso reddito di cittadinanza con misure deflattive. Si impedisce la crescita economica per garantire un reddito a chi è danneggiato dal blocco della crescita! Non c'è nulla di casuale in tutto questo. E' semplicemente la messa in atto di una ideologia che affonda le sue radici nella teoria della “decrescita felice”. Una teoria che considera “obsoleto” il lavoro vero e che spaccia per possibile e desiderabile il ritorno ad una economia di auto consumo. Riproposizioni di quelle che a suo tempo Marx definiva utopie reazionarie, fatte tra l'altro senza il minimo approfondimento teorico né la minima conoscenza di ciò di cui si sta parlando.
Qualcuno potrebbe definirlo un film comico. Viste le conseguenze che una simile stronzata può avere preferisco definirla la comica finale.