lunedì 19 febbraio 2018

L'UNITA' VALORE SUPREMO IN MARX

La filosofia mira a comprendere la totalità, ma la totalità non si lascia mai cogliere integralmente. Il pensiero umano deve sempre misurarsi col dato, assumere qualcosa che non è dimostrabile, che va semplicemente accettato, qualcosa di cui si può solo dire: “è così e così”. Ogni volta che cerca di superare i propri limiti il pensiero cade in contraddizioni, o si avvita in regressi all'infinito. Molti hanno cercato di uscire da queste difficoltà ridimensionando radicalmente le pretese dalla ragione umana. Il relativismo e lo stesso scetticismo sono sembrati soluzioni ragionevoli: il franco riconoscimento della nostra debolezza di uomini. Ma sia il relativismo, inteso in senso forte, che lo scetticismo cadono, anch'essi, in insuperabili contraddizioni. Anche solo per poter essere espressi relativismo e scetticismo devono riconoscere che qualcosa è vero, che alcune proposizioni hanno significato, che, per quanto sia debole, il pensiero umano qualcosa la può conoscere, e tanto basta a confutarli, irrimediabilmente.
La filosofia di Hegel può essere considerata come un enorme tentativo di uscire da questo dilemma fra un tendere all'assoluto che cade in contraddizioni ed un relativismo scettico che cade, anch'esso, in contraddizioni se non addirittura in paradossi. La filosofia di Hegel non tende all'assoluto, è l'auto esposizione razionale dell'assoluto, l'idea assoluta che espone se a se stessa. Per questo tale filosofia non teme ma assume in se la contraddizione. Hegel scioglie il nodo tagliandolo di netto. La contraddizione non va respinta ma accettata, è la forza viva e vitale che permette al pensiero di avanzare ed arricchirsi di sempre nuove determinazioni.
L'assoluto hegeliano è e resta l'assoluto del puro pensiero, il mondo finito ne fa parte, ma solo come “momento” del suo autosvolgimento. Tuttavia è nella storia umana che la auto esposizione dell'assoluto hegeliano raggiunge il suo livello più alto. A livello puramente logico concettuale la filosofia di Hegel sembra avvilupparsi in un gioco di continui rimandi fra i concetti, una sorta di avvitarsi del pensiero su se stesso che solo apparentemente è un movimento. Nella storia invece il movimento è, o sembra essere, reale. Il rimando continuo da un concetto all'altro diventa svolgimento temporale del dramma dell'uomo nel mondo, la razionalità puramente logico dialettica diventa scoperta di una razionalità immanente al corso storico, individuazione del suo fine e della legge del suo sviluppo. Ma la razionalità che Hegel scorge nella storia può svelarsi solo alla conclusione del dramma. Si tratta di una razionalità che emerge ex post, e che la speculazione filosofica espone e riassume. La filosofia della storia di Hegel è rivolta al passato. Come la nottola di Minerva la filosofia prende il volo al calar delle tenebre. La ragione assoluta di Hegel non anticipa i tempi, ne spiega il senso a cose fatte.

Il fatto che in Hegel la filosofia abbia il ruolo di “nottola di Minerva” non è qualcosa di secondario, o privo di importanza. La filosofia razionalizza “ex post” la storia perché se così non facesse, se cercasse di precorrere i tempi indirizzando in un certo modo il corso storico, assumerebbe il ruolo di astratto “ideale” che pretende di indicare alla storia la via che questa deve seguire. L'assoluto si dividerebbe così in essere e dover essere, il dato riapparirebbe nel sistema hegeliano minandolo dalle fondamenta. La filosofia di Hegel mostra che il mondo, e nel mondo la storia, è intimamente razionale, non prescrive ideali alla storia e al mondo. Per far questo deve intervenire a cose fatte, santificare come espressione della razionalità del divenire coloro che nella storia hanno vinto. Però deve pagare un prezzo a questa sua pretesa: deve considerare se stessa il compimento della filosofia, e deve considerare finita la storia. Se così non fosse la razionalità che oggi si attribuisce alla storia passata diventerebbe l'ideale che quella futura dovrebbe seguire e ricomparirebbe quel dualismo fra reale ed ideale che è per Hegel la massima espressione dell'irrazionale.

Marx capovolge radicalmente l'impostazione hegeliana. In Marx la dialettica cessa di essere processo di autosvelamento dell'idea assoluta per diventare legge del divenire mondano, cioè del concreto divenire storico sociale degli esseri umani. E cessa di essere dialettica riferita al passato, per diventare legge che prescrive alla storia il suo corso futuro. Prescrive alla storia il suo corso senza tuttavia introdurre in essa alcun dualismo fra ideale e reale, essere e dover essere. La nuova società che scaturirà dall'andamento degli eventi storici non è la realizzazione di un astratto ideale ma attualizzazione di quanto è già presente in potenza nella storia. Marx non deve aspettare che il dramma storico si concluda per poterne mostrare, ex post, la razionalità: egli ha scoperto la legge di quel dramma e sa qual'è l'esito del muoversi, apparentemente insensato, degli uomini nel gran palcoscenico della storia. Nel momento stesso in cui diventa filosofia del futuro il pensiero di Marx conserva tutto il razionalismo necessitante dell'hegelismo, anzi, Marx può presentare come futurista la propria filosofia proprio perché sa, o crede, di aver scoperto la legge cui gli eventi futuri dovranno necessariamente attenersi.

Ma, pur con tutte le differenze, esiste fra Hegel e Marx un fondamentale punto di contatto: il valore assoluto che entrambi assegnano alla unità e il rigetto di tutto ciò che è divisione, limite, separazione. In Marx ancora più che in Hegel la divisione, la separazione diventano sinonimi di alienazione, perdita dell'essenza, reificazione. La società di mercato, retta dalle impersonali leggi dell'economia, separa gli uomini dai prodotti del loro lavoro, fa si che Tizio produca merci che saranno utilizzate da Caio, che egli neppure conosce; la società di mercato unifica gli esseri umani ma li unifica in maniera unicamente astratta, quantitativa. Nel mercato gli uomini sono in primo luogo compratori e venditori, questo equivale per Marx a ridurli a cose, privarli della loro viva e pulsante umanità. Certo, il momento della separazione degli uomini fra loro e dal prodotto del loro lavoro è per Marx storicamente necessario, ed anche, in una certa fase della storia, progressivo. Ma tutto il suo valore positivo consiste nel fatto che rende possibile la successiva unificazione degli esseri umani. L'unità è il valore supremo, assoluto, il fine del corso storico, il recupero da parte dell'uomo della sua intima essenza umana.
Unità quindi, a tutti i livelli. Fra gli uomini ed il prodotto del loro lavoro, quindi fra uomo e natura, fra individuo e genere, singoli e società, io e tu, fra essenza ed esistenza umane. E, a livello ancora più ampio, l'unità marxiana è unita di soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto, libertà e necessità. L'idea assoluta di Hegel diventa in Marx un assoluto storico sociale. Esattamente come Hegel, Marx rifiuta l'umana contingenza e, con essa, tutti i limiti che la natura, e la sua intima caducità, impongono all'uomo. Esattamente come Hegel Marx taglia di netto il nodo delle contraddizioni in cui il pensiero umano si avvolge ogni qual volta cerchi di avvicinarsi all'assoluto.

Da sempre il pensiero filosofico si interroga sulla conoscibilità o meno della natura, sul rapporto fra soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto. Per il senso comune la natura è qualcosa di esterno all'uomo, un grande, smisurato “ambiente” che lo circonda e lo limita. La scienza condivide col senso comune questa convinzione fondamentale, anche se, almeno nelle sue forme più pure, trasforma la natura in qualcosa di meramente quantitativo, un insieme di particelle, campi di forza, onde e corpuscoli che sono molto spesso quanto di più lontano dal senso comune si possa immaginare. La riflessione filosofica non accetta le evidenze del senso comune e neppure, a volte, i presupposti della ricerca scientifica. Meglio, non accetta queste evidenze e questi presupposti come qualcosa di assodato, su cui non valga la pena di riflettere e porsi interrogativi. L'esistenza del mondo esterno e la sua conoscibilità, la giustificazione e la portata del principio di causa, il rapporto fra linguaggio e mondo, pensiero ed essere, uomo e natura: tutti questi sono problemi per la filosofia, problemi mai interamente risolti, forse perché non compiutamente risolvibili.

La vita della specie, tanto nell'uomo quanto negli animali, consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l'uomo (come l'animale) vive nella natura inorganica, e quanto più universale è l'uomo dell'animale, tanto più universale è il regno della natura inorganica di cui egli vive” afferma il giovane Marx nei Manoscritti economico filosofici, e prosegue: “Le piante, gli animali, le pietre, l'aria, la luce eccetera come costituiscono teoricamente una parte della coscienza umana, in parte come oggetti della scienza naturale, in parte come oggetti dell'arte – si tratta della natura inorganica spirituale, dei mezzi spirituali di sussistenza, che egli non ha che da apprestare per goderne e assimilarli – così costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e della umana attività” (1).

L'uomo vive nella natura, ne è parte, questo è del tutto vero, ma non è questo il succo della concezione del rapporto fra uomo e natura che emerge dai “manoscritti” del '44, se così fosse del resto si tratterebbe di una verità assolutamente banale. La natura esterna all'uomo appare, nelle pagine di Marx, soprattutto, se non esclusivamente, “parte della coscienza umana” o parte della vita umana e delle umane attività. La natura insomma è considerata esclusivamente nel suo rapporto con l'uomo: la natura produce l'uomo, ente naturale, e nel contempo l'uomo modifica, la natura, produce una “nuova natura” umanizzata. Fra uomo e natura esiste un indissolubile legame dialettico: l'una trapassa nell'altro e viceversa, entrambi esistono solo nel loro rapporto. “L'universalità dell'uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell'uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l'oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell'uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l'uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l'uomo è una parte della natura” (2).
E' lo stesso Marx a sottolineare, più volte, i termini “corpo” e “corpo inorganico” riferiti alla natura. La natura è il corpo inorganico dell'uomo, una sorta di prolungamento oltre se stesso del suo essere. Ogni contrasto, ogni drammatizzazione nel rapporto fra uomo e natura qui scompaiono. La natura è corpo inorganico dell'uomo, mezzo di sussistenza, materia prima spirituale. Fra uomo e natura non esiste dualismo alcuno ma rapporto paritario, unità dialettica.
Dietro lo stato di apparente parità fra uomo e natura è però fin troppo chiaro scorgere nelle parole di Marx, una totale preminenza dell'uomo; perché, se è vero che l'uomo è parte della natura, ne è, per Marx, una parte particolarissima: ne costituisce il centro, il fulcro del movimento dialettico. La natura è corpo inorganico dell'uomo, afferma Marx, e non si sogna neppure di dire il contrario, che l'uomo cioè è il corpo organico della natura, e neppure gli passa per la mente che l'uomo è solo uno dei tantissimi enti esistenti in natura, l'abitante provvisorio di uno degli innumerevoli mondi che formano l'universo, quasi un nulla sperso nell'immensità dello spazio tempo. La natura è costituita per Marx dalle piante e dagli animali, e dalla terra, e dall'aria e dall'acqua con cui l'uomo è in relazione, cioè da una piccola parte degli enti che esistono, oggi, sul pianeta terra. E questi enti Marx li vede solo nel loro rapporto con l'uomo, meglio, nel loro rapporto almeno potenzialmente armonico con l'uomo. Che la natura sia infinitamente più estesa nello spazio e nel tempo, e che sia enormemente meno armonica, che sia drammaticamente indifferente agli umani destini, che l'uomo sia solo di passaggio nel mondo, tutto questo sfugge al giovane Marx.

E non solo al Marx giovane. Nella “ideologia tedesca”, opera in cui Marx espone alcuni capisaldi del suo pensiero che non abbandonerà più, il filosofo di Treviri dice sul rapporto uomo – natura cose assai simili a quelle dette nei “manoscritti”.

Polemizzando con Feuerbach, Marx infatti afferma: “Egli non vede che il mondo sensibile che lo circonda sia non una cosa data immediatamente dall'eternità, sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell'industria e delle condizioni sociali; e precisamente nel senso che è un prodotto storico, il risultato dell'attività di tutta una serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata sulle spalle della precedente (…) anche gli oggetti della più semplice “certezza” sensibile gli sono dati solo attraverso lo sviluppo sociale, l'industria e le relazioni commerciali. E' noto che il ciliegio, come quasi tutti gli alberi da frutta, è stato trapiantato nella nostra zona solo pochi secoli or sono grazie al commercio, e perciò grazie a questa azione di una determinata società in un determinato tempo esso fu offerto alla “certezza sensibile di Feurbach” (3)
Come nei “manoscritti” anche nella “ideologia tedesca” Marx vede la natura solo ed esclusivamente nella sua dimensione storico sociale, nel suo rapporto con l'uomo. Non solo, grazie a questa integrale storicizzazione della natura Marx può dichiarare “risolto” il problema epistemologico. La natura è un prodotto storico sociale, esattamente come l'uomo è un prodotto della natura, questo “risolve” il problema della conoscibilità del mondo, lo assorbe nel processo di trasformazione ed umanizzazione dello stesso: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica” (4), afferma Marx nella seconda delle famose tesi su Feurbach, che si chiudono, non a caso, con la notissima esortazione
a cambiare il mondo: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di mutarlo” (5)


Prodotto della natura, l'uomo modifica, umanizza l'ambiente naturale per costruire le proprie condizioni materiali di esistenza. Questo processo è insieme di trasformazione e di conoscenza del mondo, ed è anche processo di produzione dell'uomo, di costruzione della sua essenza. Nella storia, afferma Marx, sempre nella
ideologia tedesca, “si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente (…) questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo ed ogni generazione si trova come qualcosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come sostanza ed essenza dell'uomo” (6). L'essenza umana è la risultante del processo di costruzione delle condizioni materiali di esistenza. La formula marxiana ha un fortissimo potere di suggestione, ma basta pensarci un attimo per rendersi conto che non risponde ad una domanda essenziale: se 'essenza umana è la risultante del processo di costruzione delle condizioni materiali di esistenza come è mai potuto partire e svilupparsi tale processo? Se l'uomo è il risultato della storia come ha mai potuto iniziare ad avere una storia? Risolvendo l'uomo nella storia è la storia che diventa un enigma.

L'errore fondamentale delle concezioni di Marx che abbiamo cercato di esporre brevemente non consiste, come potrebbe sembrare a prima vista, nell'importanza che egli attribuisce al processo di costruzione delle condizioni materiali di esistenza. Marx esagera l'importanza di quello che è stato definito il “fattore economico” della storia, ma di certo si tratta di un “fattore” rilevante, spesso ingiustamente sottovalutato. L'errore decisivo di Marx va cercato nella sua autentica adorazione per l'unità, nella sua concezione unitaria, compatta del rapporto uomo natura, e quindi della storia e del suo corso, e del rapporto essere sociale coscienza, soggetto oggetto, pensiero ed essere. L'errore principale di Marx va cercato insomma nel suo rifiuto di ogni forma di dualismo. Questo è un punto di essenziale importanza ai fini del nostro discorso, per cui è bene cercare di chiarirlo al massimo.
Se intese in senso debole molte affermazioni di Marx appaiono non solo del tutto accettabili ma, addirittura, quasi ovvie. In effetti è vero che l'uomo è parte della natura, e la modifica con la sua attività, costruendo in questo modo le condizioni materiali della propria esistenza. Ed è vero che la coscienza degli esseri umani è influenzata dall'ambiente storico sociale in cui questi vivono, ambiente che condiziona e limita anche la attività pratica degli uomini. Ed è infine abbastanza condivisibile la affermazione marxiana secondo cui l'uomo nel corso della storia acquista coscienza non solo del mondo, ma anche di se stesso, acquista cioè una autocoscienza.
Affermazioni di questo genere possono essere discusse, ovviamente, ma non mettono in discussione i capisaldi della tradizionale teoria della conoscenza: la divisione fra soggetto ed oggetto, la presenza del dato nel processo conoscitivo, il fatto che la conoscenza sia sempre conoscenza a partire da un certo punto di vista.

Il problema è in fondo quello del
dato. Nella concezione marxiana in realtà non c'è posto per il dato inteso come qualcosa di realmente altro rispetto alla attività umana. Il dato è tutto interno ad un processo in cui la natura "produce" se stessa e l'umo, e l'uomo a sua volta "produce" la natura e se stesso.
La natura si autoproduce, afferma Marx, ma cosa vuol dire una simile affermazione? Che la natura “produce” se stessa nel senso che esiste come propria “autoproduzione”? Ma l'esistenza di qualcosa non può essere “autoprodotta” per il semplice fatto che per prodursi qualcosa deve esistere. La natura è un insieme relazionato di enti
dati. Ci sono e basta. Il movimento di questi enti, le loro relazioni ed i loro scontri li trasformano e danno vita ad enti nuovi. L'uomo è “prodotto” della natura solo nel senso che è la risultante di una lunghissima selezione naturale, delle interazioni fra enti dati che lottano per l'esistenza in un dato ambiente. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la “produzione” della natura da parte di se stessa, a meno che non si tratti di una espressione metaforica.
Proseguiamo. L'uomo è parte della natura e la conosce e modifica a suoi fini. Però, questo
non trasforma la natura nel “corpo inorganico” dell'uomo, una sorta di sua prosecuzione; la natura non umana resta altra rispetto all'uomo, qualcosa di dato, che esisterebbe anche se l'uomo non esistesse,  è  esistita prima della sua comparsa e continuerà ad esistere dopo che l'uomo sarà scomparso. E la conoscenza di questo dato è decisiva al fine di adattare la natura, meglio, una sua piccola parte, al soddisfacimento, parziale e limitato, di alcune esigenze umane.
Ed ancora, è vero che l'ambiente storico sociale influenza l'attività umana e che questa modifica l'ambiente, ma, di che tipo sono queste reciproche influenze? Esiste una autonomia dell'uomo rispetto all'ambiente storico sociale in cui egli si trova o uomo e ambiente storico sociale formano una inscindibile “unità dialettica”? Lo stesso interrogativo vale se si esamina il ruolo del pensiero rispetto all'essere sociale. Il pensiero ha un suo fondamentale momento di autonomia, quindi una sua storia, una sua interna dinamica o è semplice parte, momento necessario, di un più ampio sviluppo storico - sociale dell'uomo? E cosa si intende dire, con precisione, quando si afferma che la conoscenza è interna ad un processo di trasformazione del mondo? Ogni attività umana è interna a qualche processo, il problema resta quello di stabilire le caratteristiche di questa attività. Il fatto di essere “interna” al processo di trasformazione del mondo fa perdere alla attività conoscitiva le sue caratteristiche specifiche? La fa diventare un “momento” di questo processo? E questo fa decadere a domande oziose i problemi gnoseologici che da sempre il pensiero ha cercato di risolvere?
In tutto l'universo nessun ente è assolutamente isolato, privo di relazioni con gli altri enti. Ma, l'avere relazioni con gli altri enti significa formare una “unità”, sia pure “dialettica” con loro? Significa degradare le caratteristiche specifiche di ogni ente a qualcosa di “inessenziale” che va esaminato solo quale “momento” della totalità dialettica? Gran parte degli equivoci della concezione marxiana del rapporto uomo natura, essere pensiero nascono da qui, dalla confusione fra “l'avere relazioni” ed il formare una compatta “totalità dialettica”.

Considerazioni simili possono farsi a proposito della famosa “autocoscienza”. Cosa si intende, con precisione, con questo termine? Io ho coscienza di me, cosa intendo dire affermando questo? Che, kantianamente, la coscienza del mio me accompagna tutte le mie rappresentazioni? Se è così, questa coscienza irriflessa è altra cosa rispetto alla conoscenza, al pensiero. Infatti li accompagna, un po' come la sensazione del freddo mi accompagna quando scio, senza costituire alcuna unità col mio atto di sciare (posso infatti aver freddo senza sciare, o sciare senza aver freddo). O per autocoscienza si intende il pensiero che io ho di me? Il fatto che io pensi ai miei pensieri, ai miei stati interni, o che esamini il mio stesso corpo? In questo caso la conoscenza è, tradizionalmente, qualcosa di dualistico: io, come soggetto pensante, penso a me stesso come oggetto. Il mio corpo, i miei precedenti pensieri o i miei stati interni o esterni sono l'oggetto del mio pensare: la divisione fra soggetto e oggetto qui non è superata, al contrario, affermata con forza. Per Marx, come per Hegel, le cose stanno però ben diversamente. Per autocoscienza Marx ed Hegel intendono coincidenza del soggetto pensante e della cosa pensata. Pensando me io sono nel contempo oggetto del pensiero e soggetto dello stesso. Ancora una volta alla relazione fra enti che, pur relazionandosi, conservano la loro autonomia, viene sostituita l'unità, naturalmente “dialettica”, degli stessi.
Il valore di questa “riduzione ad uno” che Marx opera a tutti i livelli appare in tutto il suo valore politico quando il pensatore di Treviri affronta il problema della coscienza rivoluzionaria del proletariato. Quando il proletariato acquista autocoscienza del suo ruolo egli è nel contempo soggetto storico e oggetto della coscienza di se in quanto soggetto storico, e, attenzione, è entrambe queste cose
contemporaneamente. Non è che il proletariato esamini come un oggetto la sua condizione, faccia delle ipotesi sul modo in cui questa può essere migliorata, cerchi a queste delle conferme. Questa sarebbe una normale procedura di ricerca scientifica aperta, in quanto tale, all'errore. No, nel momento stesso in cui il proletariato stabilisce che il comunismo è il suo fine immanente esprime il suo essere oggettivamente la classe che ha come fine immanente il comunismo. Se non stabilisse questo sarebbe “fuori di se”, alienato dalla sue essenza. Nell'atto dell'autocoscienza del proletariato coincidono il suo essere oggettivamente classe rivoluzionaria ed il suo aver coscienza di se in quanto classe rivoluzionaria.

La coincidenza nel variare dell'ambiente e dell'attività umana può solo essere concepita e compresa razionalmente come pratica rivoluzionaria” (7) afferma Marx nella terza delle sue undici tesi su Feurbach. Si tratta di una affermazione assai chiarificatrice. La concezione marxiana della storia si trova infatti costantemente di fronte ad un problema insolubile. Da un lato il pensiero è risultante dell'essere sociale, dall'altro la coscienza rivoluzionaria è fondamentale per fare la rivoluzione. Ma come si può acquisire la coscienza rivoluzionaria se il pensiero è imprigionato dall'essere sociale, se, come afferma il “Manifesto” le idee dominanti sono le idee della classe dominante? La teorizzazione della “unità dialettica di soggetto ed oggetto” cerca di risolvere questo dilemma.
La coscienza rivoluzionaria è insieme il presupposto ed il risultato della prassi rivoluzionaria. La classe operaia è insieme oggetto e soggetto del movimento storico. Come semplice oggetto non potrebbe mai acquistare coscienza rivoluzionaria, ma come soggetto cosciente della storia, può acquisire tale coscienza. D'altro canto la acquisizione di tale coscienza non è mai qualcosa di distaccato dalla storia, mero ideale che si contrappone al reale. Questa acquisizione è a sua volta qualcosa di oggettivo perché la classe operaia è oggetto oltre che soggetto della storia. Il principio di non contraddizione come si vede va a farsi benedire. L'oggetto diventa soggetto quando si tratta di giustificare la prassi rivoluzionaria, il soggetto diventa oggetto quando si tratta di slegare il socialismo “scientifico” dal romanticismo utopico.
Nella
ideologia tedesca Marx è, se possibile, ancora più chiaro in proposito: “Tanto per la produzione di massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun'altra maniera, ma anche perché la classe che l'abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società” (8).
Non si potrebbe essere più chiari. La classe rivoluzionaria sa di essere tale nel momento stesso in cui fa la rivoluzione e solo in quel momento
si purifica di tutto il “vecchio sudiciume” ed acquisisce coscienza rivoluzionaria. Ogni dualismo fra pensiero ed essere, soggetto ed oggetto qui scompare. Si fa la rivoluzione perché si ha coscienza rivoluzionaria, ma si ha coscienza rivoluzionaria perché si fa la rivoluzione. Solo i misteri della dialettica salvano Marx da inestricabili aporie.
Non solo, l'unità non riguarda solo il soggetto e l'oggetto della conoscenza, si amplia, diventa unità fra fatti e valori, essere e dover essere. Fare la rivoluzione si identifica coll'affermare il valore morale della stessa. Nel momento stesso in cui “abbatte” il dominio della borghesia il proletariato libera se stesso e la società tutta dal “vecchio sudiciume”, e rigenera il mondo. Marx non spreca una parola per cercare di dimostrare perché mai il sudiciume sia tale e cosa in concreto dovrebbe sostituirlo. Se lo facesse ricadrebbe nel dualismo fra fatti e valori, realtà ed idea. Il sudiciume è tale perché la società esistente è il regno della alienazione, della separazione degli uomini fra loro e dal prodotto del loro lavoro. E questa separazione sarà superata in un movimento teorico pratico, una rivoluzione, appunto. In questo modo la rivoluzione resta l'unica giustificazione di se stessa, a livello etico come gnoseologico.

Su cosa basa il marxismo una fiducia tanto grande nella futura rivoluzione? Cosa assicura che questa ci sarà e che sarà una cosa buona? Io e mondo, soggetto ed oggetto, essere e pensiero costituiscono una “unità dialettica”, lo si è visto. Ora, prescindiamo pure dal fatto che unificare io e mondo, soggetto ed oggetto, viola il principio di non contraddizione: se soggetto ed oggetto coincidono, quale è il senso dei termini “oggetto” e “soggetto”? Evitiamo pure di rispondere a questa domanda, diamo pure per scontato che chi la pone sia negativamente influenzato da una “vecchia” ed “angustamente formale” concezione della logica. Resta il fatto che la coincidenza di oggetto e soggetto non dovrebbe dar vita ad altro che ad una quieta unità. Perché mai questo soggetto e questo oggetto coincidenti dovrebbero dividersi dando vita alla fase della “alienazione” e della "reificazione"? Quale necessità spinge in questo senso? E perché poi questa “divisione” dovrebbe essere superata nella fase della riunificazione finale?
A ben vedere le cose
anche accettando la concezione marxiana che inserisce senza riserve il pensiero nel processo sociale e lega  ogni fase del pensiero alla relativa fase dello sviluppo socio economico, non potremmo sapere nulla sulla conclusione del processo storico: la conoscenza della “fine della storia” ci sarebbe comunque preclusa. Per dire qualcosa sul processo nel suo insieme il pensiero dovrebbe rapportarsi al processo come al suo oggetto, analizzarlo da un punto di vista assunto come dato, un po' come uno scienziato analizza oggettivamente, ad esempio, l'orbita di un pianeta. E dovremmo, ovviamente, accettare che ogni nostra ipotesi o teoria potrebbero rivelarsi errate. Ma è proprio questo ad essere estraneo alla concezione marxiana del rapporto essere pensiero. Tutto il discorso sulla divisione che segue l'originaria unità e sulla ricomposizione che “necessariamente” seguirà si basa così, molto semplicemente, sulla fede. La rivoluzione è inevitabile, ed inevitabilmente buona perché noi crediamo nella rivoluzione. In questo fideismo il marxismo dimostra di essere una religione, una religione atea, senza Dio e senza trascendenza. Una religione che divinizza ciò che, per definizione, non può essere divinizzato: la accidentalità del mondo.











Note
1) K. Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 76 772) Ibidem pag. 77. Sottolineature di Marx.
3) K. Marx: L'ideologia tedesca. Editori Riuniti 1972 pag. 16.
4) K. Marx: tesi su Feurbach. Reperito in rete.
5) Ibidem.
6) K. Marx: l'ideologia tedesca Editori riuniti 1972 pag. 30
7) K. Marx: tesi su Feurbach. Reperite in rete.
8) K. Marx: L'ideologia tedesca, Editori riuniti 1972. Pag. 29.













martedì 13 febbraio 2018

FASCISMO ED ANTIFASCISMO.


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Si parla sempre più spesso di “antifascismo”. Il termine viene quasi sempre usato a sproposito. Gli “antifascisti” accusano di “fascismo” più o meno tutti coloro che non condividono le loro posizioni, soprattutto, ma non solo, in tema di immigrazione. Coloro che hanno sempre in bocca la parola “fascismo” e la appiccicano più o meno a mezzo mondo, (è fascista Salvini, è “fascista Trump, addirittura sono “fascisti” i militanti dell'Isis, ottimo espediente per condannarli senza tirare in ballo l'islam), coloro, dicevo, che giocano di continuo con la parola “fascismo” non fanno in realtà proprio nulla di nuovo. Usano gli stessi strumenti polemici a suo tempo usati da Stalin contro la socialdemocrazia prima e le democrazie occidentali dopo.

Quando si parla di “antifascismo” è necessario porsi una domanda: cosa si designa con precisione con tale termine? Per essere chiari, è possibile che col termine “antifascismo” si designi in positivo una dottrina politica? Ci si riferisca ad una visione del mondo o ad un insieme minimamente coerente di idee e valori, ad un programma finalizzato alla loro realizzazione ed alla tutela di determinati interessi?
Termini come “comunista”, “liberale”, “nazista” hanno un significato abbastanza chiaro. Si dice “liberale” e si pensa alla divisione dei poteri, alla democrazia parlamentare ed alla economia di mercato. Si dice “comunista" e si pensa alla economia centralmente pianificata ed alla dittatura del proletariato. Si dice “nazista” e si pensa allo spazio vitale, all'antisemitismo ed alla shoah. Ma a cosa si pensa quando si dice “antifascista”? E' antifascista chi si oppone al fascismo, ovviamente, ma dietro a questa opposizione sta forse una univoca filosofia politica? No, ovviamente. E' antifascista un liberale come un comunista. Era antifascista Churchill come lo era Stalin. Può essere antifascista un anarchico come un democristiano, un rivoluzionario come un conservatore. Considerazioni simili possono farsi col termine “anticomunista”. E' anticomunista un liberale come un socialdemocratico. Erano anticomunisti Turati e Mussolini, De Gaulle e Adolf Hitler. Un “ANTI” in realtà non designa nulla in positivo, se non la mera opposizione a qualcosa. E' importante e può essere estremamente positivo opporsi a qualcosa (al fascismo ad esempio, ma quello VERO). Ma il semplice fatto della opposizione non dice nulla sulle idee, i valori, i programmi della forza politica che la pratica. La particella “anti” in politica è molto simile a ciò che è in logica il negativo “non”. Non si dice nulla di un ente dicendo che è un “non uomo”. Un “non uomo” può essere un cane o un monte, un abete o un carro armato pesante, esattamente come un “anti - fascista” in politica può essere uno stalinista o un anarchico individualista.

Gli “anti” non possono quindi rimandare a nulla in positivo, indicano solo una opposizione, una negazione. Non c'è in questo nulla di strano. Ciò che un ente è non deriva da ciò che non è; al contrario, ciò che un ente non è deriva da ciò che è. Tizio è un uomo, quindi non è un cane, un abete eccetera. Allo stesso modo: Tizio è un democratico liberale, quindi è anti fascista, anti comunista, si oppone agli anarchici, è diverso dai socialisti e dai socialdemocratici eccetera. Si parte dalla definizione in positivo di una certa dottrina politica per stabilire di cosa questa sia “anti”. Non vale il contrario.
Eppure con l'antifascismo è successo qualcosa di diverso. Con la politica dei fronti popolari inaugurata nel 1934 – 35, e poi con la grande alleanza antifascista fra URSS, USA e Gran Bretagna si è dato, da parte sovietica, un senso in positivo all'antifascismo, e questo escamotage teorico è stato tacitamente accettato dalle potenze occidentali fino allo scoppio della guerra fredda.

L'alleanza fra URSS, USA e Gran Bretagna è stata una necessità imposta dalla storia. C'era l'esigenza assolutamente prioritaria di battere la Germania nazista, ed il patto fra l'URSS di Stalin e le due democrazie anglofone ne è stata la conseguenza. Ma l'URSS non era un semplice stato fra gli altri, era la patria del socialismo e la guida di un grande movimento internazionale. Le sue scelte politiche dovevano avere una giustificazione ideologica. La politica dell'URSS in quanto stato doveva esser parte della strategia rivoluzionaria mondiale del movimento comunista. E questo, si badi, non era una semplice aggiunta, qualcosa di inessenziale che seguisse le scelte diplomatiche e militari di Stalin. Era una componente essenziale della sua politica, la conseguenza diretta del fatto che l'URSS era uno stato, ma si proclamava nel contempo “guida della rivoluzione”.
Alla alleanza fra stati si è quindi accompagnata la elaborazione della teoria secondo cui l'antifascismo non sarebbe un semplice “anti”, risultante di un accordo imposto dalle tragiche necessità della guerra. No, l'antifascismo designerebbe una dottrina in positivo. Suo contenuto sarebbe l'aspirazione ad una democrazia di tipo “nuovo”, non ancora socialista ma non più capitalista; un nuovo tipo di formazione politica e sociale, la "democrazia progressiva", che, pur caratterizzata dalla presenza del mercato e della proprietà privata dei mezzi di produzione, consentirebbe alla classe operaia ed alle “forze progressiste” di portare su un piano più alto la loro lotta. L'antifascismo insomma come tappa intermedia, conquista parziale che fa avanzare il “fronte di classe” e prepara nuove vittorie per le forze del progresso, in attesa della resa dei conti finale con la borghesia. Resa dei conti che, essa sola, permetterà la sconfitta definitiva del fascismo. Perché, è chiaro, al fondo di tutta la concezione sta l'idea che il fascismo ed il nazismo siano figli legittimi del capitalismo. La “democrazia progressiva” porta ad un livello più alto la lotta del proletariato per il comunismo. La vittoria definitiva sulla borghesia, quando verrà, segnerà, insieme, la fine senza appello del capitalismo e del nazifascismo.
Antifascismo come dottrina della “democrazia progressiva” quindi, basata a livello internazionale sulla grande alleanza fra URSS, USA e Gran Bretagna e a livello interno sulla unità di tutte le forze antifasciste, laiche e cattoliche. I comunisti ed i socialisti a quel tempo loro alleati interpreteranno in questo senso la stessa costituzione repubblicana. La Costituzione, se coerentemente applicata, fonderebbe la “democrazia progressiva”, sarebbe la base su cui edificare uno stato di tipo nuovo, non ancora socialista ma non più borghese.

Si tratta, come è fin troppo facile vedere, di concezioni largamente ideologiche. La teoria della “democrazia progressiva” non rappresenta in realtà una elaborazione teorica originale. E' piuttosto il tentativo di fare di necessità virtù. L'Italia e la Francia, i paesi dell'Europa occidentale dove è più forte il movimento comunista, sono fuori dalla sfera di influenza sovietica, PCI ed il PCF devono adeguarsi. Non se la sentono di tentare il colpaccio, sanno che Stalin non ha intenzione di rischiare, al momento, uno scontro con Truman ed hanno sotto gli occhi la per loro fallimentare esperienza greca ad invitarli alla prudenza. E mettono da parte la carta rivoluzionaria. Optano per la “democrazia progressiva”. E si autoproclamano i difensori più coerenti della costituzione.
Ma quando l'alleanza antifascista internazionale si rompe i fatti dimostrano che la costituzione repubblicana, per quanto largamente influenzata dalle concezioni dei comunisti, può benissimo fare da supporto non alla “democrazia progressiva” ma ad una normale democrazia parlamentare. I comunisti denunceranno come “incostituzionale” la loro cacciata dal governo, ma si tratterà solo di propaganda che dimostra il loro desiderio di assoluta egemonia.
D'altro canto, nei paesi “liberati” dall'armata rossa i comunisti imporranno in breve tempo a tutti la loro dittatura. I partiti liberali, cattolici, socialdemocratici saranno messi fuori legge, i loro leader incarcerati, a volte fucilati. Inizia per i loro sventurati popoli un duro inverno che durerà sino al 1989. In ogni caso in quelle esperienza l'antifascismo non partorirà alcuna “democrazia progressiva”.

Del resto, fin dal momento del suo sorgere, prima che si formasse a livello di stati la grande alleanza antifascista, l'antifascismo ed il concetto di “democrazia progressiva” avevano mostrato tutte le loro contraddizioni. La politica antifascista dei fronti popolari era stata preceduta dalla sventurata tattica del “socialfascismo” che avrebbe molto agevolato la scalata di Hitler al potere. Per l'internazionale comunista a guida staliniana
tutte le forze anti o semplicemente non comuniste erano “fasciste”. I socialdemocratici erano definiti “socialfascisti”, il nazismo tedesco considerato meno pericoloso della democrazia “borghese” e della socialdemocrazia. I comunisti proseguirono questa politica folle almeno sino al 1934, quando Stalin, convintosi della pericolosità del tiranno nazista, operò una brusca svolta, firmò addirittura con la Francia un patto politico militare e diede il via alla politica antifascista dei “fronti popolari”. Con questa i comunisti smettevano di equiparare la socialdemocrazia al fascismo ed ammettevano che la democrazia “borghese” era degna di essere difesa. Miravano a costituire vaste alleanze con forze socialdemocratiche e democratico borghesi sul terreno della difesa della democrazia. Questa politica però aveva un prezzo, sia per i socialdemocratici che per i sostenitori della democrazia “borghese”: bisognava evitare, per quanto possibile, ogni critica nei confronti dell'URSS di Stalin. L'URSS era alla testa di un vasto fronte democratico antifascista, “quindi” era pienamente legittimata dal punto di vista democratico, anzi, era enormemente più libera di paesi come la Francia e la Gran Bretagna in cui esisteva ancora lo “sfruttamento capitalistico”. Proprio nel momento in cui Stalin stava per scatenare mostruose “purghe” ed in cui centinaia di migliaia di cittadini sovietici erano ridotti di fatto, nei gulag, in una condizione di schiavitù, l'URSS doveva essere universalmente accettata quale avanguardia dello schieramento democratico. E, paradosso dei paradossi, mentre Stalin, in nome dell'antifascismo, diventava il paladino della “democrazia” i suoi oppositori comunisti diventavano “fascisti”. Trotzkij, Bucharin, Zinovie'v, Kamenev, Radek... tutti fascisti, tutti, a parte il primo, rei “confessi” di essere “spie al soldo di Hitler”. La legittimazione democratica di Stalin coincideva con la lugubre parata dei processi di Mosca.

Né le contraddizioni si fermano qui. Le vicende dell'antifascismo e della democrazia progressiva sono sempre collegate alla politica staliniana, in tutte le sue svolte e controsvolte. Nel 1939 Stalin cerca di mantenersi fuori dalla guerra incombente e non trova nulla di meglio da fare che allearsi con Hitler. Il famoso “patto di non aggressione” fra Germania e URSS è un patto di alleanza a tutti gli effetti. Prevede la spartizione della Polonia fra sovietici e tedeschi, la assegnazione all'URSS degli stati baltici ed un programma di mutuo aiuto fra la Germania di Hitler e l'URSS di Stalin. Questa fornirà dal settembre del 1939 al giugno del 1941 alla Germania grandi quantità di materie prime di cui questa ha bisogno per il proseguimento del conflitto.
Naturalmente i partiti comunisti seguono fedelmente la loro guida. L'antifascismo è abbandonato, la guerra in corso diventa “guerra interimperialista” come lo era stata la guerra del '14. In Francia chi sostiene la difesa della patria dalla aggressione hitleriana è bollato come “socialpatriota”.
Solo nel Giugno 1941 la situazione muta di nuovo. La aggressione nazista costringe l'URSS a tornare alla strategia antifascista. Il mostruoso contributo di sangue, conseguenza anche degli errori pacchiani e della incredibile imperizia di Stalin, che questo paese darà alla sconfitta di Hitler lo accrediteranno di fronte a vaste masse di popolo come “guida” dell'antifascismo. Un riconoscimento sicuramente immeritato.

Quelle cui telegraficamente ricordate sono solo alcune vicende dell'antifascismo. Altre se ne potrebbero aggiungere, ad esempio le lotte intestine alla resistenza fra i partigiani comunisti e gli altri o la sistematica eliminazione, da parte degli staliniani, di ogni dissidenza interna nel corso della guerra civile spagnola. Non è però il caso di dilungarsi troppo. Quello che emerge in maniera incontrovertibile è che
l'antifascismo non è mai stato un movimento politico unitario caratterizzato da programmi, valori, interessi, visioni del mondo comuni fra le sue varie componenti. L'antifascismo è stato l'incontro di forze radicalmente diverse unite solo dalla impellente necessità di battere il nazismo. Malgrado questo fine comune, è stato caratterizzato da lotte intestine risolte molto spesso a suon di plotoni di esecuzione e in quanto tale non è sopravvissuto al crollo del nazifascismo.
Col crollo del nazifascismo l'antifascismo come fenomeno unitario è finito, ma non è morto l'antifascismo in generale: ha solo cambiato natura. Prima era stato il terreno di incontro fra forze diverse e la base teorica su cui i comunisti avevano elaborato il concetto di “democrazia progressiva”. Dopo il 1945 è diventato il centro della propaganda comunista. Scomparso il fascismo vero è rimasto l'antifascismo. Staccato dalla situazione reale questo è diventato una ricetta valida per tutti gli usi. Gli appelli alla lotta antifascista si cono moltiplicati in maniera esponenziale proprio nel momento in cui il fascismo ha cessato di esistere.
E, paradossalmente, mai il fascismo è stato tanto esteso quanto dopo la sua sconfitta. I “fascisti” si sono moltiplicati all'infinito proprio nel momento in cui il nazifascismo come esperienza storica reale era oggetto di una sacrosanta ed universale esecrazione.

La propaganda comunista aveva da sempre esteso in maniera scorretta il concetto di “fascismo”. A parte gli orrori del “socialfascismo”, basta ricordare la tendenza ad assimilare al fascismo ogni tipo di regime dittatoriale di destra per rendersene conto. Il fascismo è qualcosa di diverso da una “normale” dittatura di destra. Dei militari golpisti
non sono, in quanto tali, fascisti. Il fascismo e, in misura enormemente maggiore, il nazismo sono dittature totalitarie di destra risultanti da movimenti di massa “rivoluzionari” o, se si preferisce, eversivi e che mirano ad un consenso di massa attivo e generalizzato. Non è il caso di approfondire qui il discorso ma bastano queste scheletriche considerazioni per marcare la differenza fra fascismo e dittature classiche di destra o regimi conservatori di tipo autoritario.
Questa tendenza ad ampliare oltre misura il significato del termine “fascismo” diventa però parossistica dopo il 1945. Con lo scoppio della guerra fredda i comunisti appiccicano un po' a tutti l'etichetta di “fascista”. Prima erano fasciste l'Italia e la Germania, dopo il 1945 diventano fascisti gli Stai uniti, la Gran Bretagna (unico paese che ha combattuto Hitler dal 1939 al 1945), l'Italia la Francia, la Germania federale, insomma, tutti coloro che si oppongono alla Russia di Stalin. E in Italia diventano “fascisti” fior di antifascisti come Alcide De Gasperi o Giuseppe Saragat. Qualcuno afferma che per i comunisti se il fascismo non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Non ha torto.

La situazione cambia ancora nel 1989, con il crollo del comunismo.
Quel crollo lascia orfani i nostalgici dell'assoluto. D'improvviso si ritrovano senza un paese, o almeno una esperienza storica concreta, cui poter fare riferimento. Ma non abbandonano la tendenza al “totalmente altro”. Prima questa si realizzava in una ideologia totalizzante, un assoluto onnicomprensivo mirante alla integrale trasfigurazione del mondo e dell'uomo. Dopo il 1989 questo è sostituito da tanti assoluti. Una miriade di assoluti in formato ridotto, una pletora di ideologie riguardanti ognuna un settore limitato del reale, ma propugnate e difese con lo stesso settarismo con cui prima veniva propugnata e difesa la grande, e sanguinosa, utopia comunista. Ambiente, rapporti fra i sessi, accoglienza sono i nuovi campi di battaglia ed in ognuno i nostalgici dell'assoluto, non troppo numerosi ma incredibilmente settari ed agguerriti, bollano i loro nemici (hanno sempre e solo nemici questi personaggi) come esseri spregevoli, nemici del genere umano, in una parola... “
fascisti”.

La tragedia del “socialfascismo” si trasforma nella farsa dei nostri giorni. Nel 1932, alla vigilia della presa del potere di Hitler, erano “socialfascisti” i socialdemocratici, nel 2018 sono “negazionisti”, quindi, sotto sotto, “fascisti”, coloro che non credono troppo all'effetto serra. Sono “fascisti” coloro che rifiutano la immigrazione fuori controllo o che non credono che l'Islam sia una religione di pace. Per i no global sono fascisti sia i sostenitori della globalizzazione che coloro che si oppongono alla UE. Per le frange più estremiste dei “liberal” americani sono “fascisti” Trump e i suoi sostenitori. In Italia è, ovviamente, “fascista” Salvini. Berlusconi sembra salvo da tale infamante accusa, ma quando era più giovane e pericoloso molti intellettuali lo avevano paragonato ad Hitler. Paradosso dei paradossi è “fascista” lo stato di Israele, fondato dagli scampati ai forni crematori nazisti. La stella di Davide, marchio di riconoscimento per i destinati al macello, viene equiparata alla svastica. I palestinesi invece, che nel secondo conflitto mondiale avevano appoggiato le forze dell'asse, sono i nuovi “antifascisti”. Il mondo rovesciato.
I termini “fascista” ed “antifascista” perdono in questo modo qualsiasi significato concreto. Designano tutto ed il contrario di tutto, a seconda dei momenti. Fanno da puntello a questa esplosione di “antifascismo” piccoli gruppi davvero fascisti privi però di reale peso politico. Sono gruppetti che su molte cose, ad esempio su Israele, hanno posizioni molto simili a quelle dell'estrema sinistra, ma non conta. La loro esistenza viene presa a pretesto per chiedere che partiti importanti come la lega o fratelli d'Italia vengano messi fuori legge. Tutto questo mentre gli “antifascisti” inneggiano alle foibe, e trasformano spesso e volentieri le città in campi di battaglia.

Non è il caso di dilungarsi ulteriormente. Sopravvissuto al crollo del fascismo prima e del comunismo dopo l'antifascismo è oggi solo un fantasma. Un fantasma polemico che con i suoi precedenti storici ha poco o nulla a che vedere. Certo, eventuali insorgenze fasciste vanno combattute, ma pensare siano un pericolo reale è solo un contorcimento polemico senza fondamento. Paradossalmente è proprio il cosiddetto “antifascismo” a dare a piccoli gruppi di nostalgici la possibilità di acquistare un peso ed una visibilità che sono loro preclusi dal processo storico reale. Il moltiplicarsi senza fine dei “fascismi” fasulli finisce in questo modo per dar spazio ai, per fortuna largamente minoritari, fascismi reali. Anche questo non è, a veder bene le cose, un fenomeno nuovo. Si tratta, sotto sotto, della riproposizione, in forme nuove della demenziale politica del “social fascismo”. Solo, quella fu una tragedia, questa una farsa. Una farsa che può però diventare molto pericolosa. E trasformarsi a sua volta in tragedia.