domenica 24 novembre 2013

LA FALLACIA DELLA PIANIFICAZIONE






Il piano o i piani?

E' forse la più diffusa e deleteria fra le fallacie. Nel suo bellissimo libro “del buon uso del pessimismo” il filosofo inglese Roger Scruton la definisce come la convinzione che “si possa progredire collettivamente verso degli obiettivi adottando un piano comune, e lavorando in tal direzione sotto la guida di una qualche autorità generale come lo stato. E' la fallacia di credere che le società possano essere organizzate come eserciti, con un sistema di comando gerarchico dall'alto al basso e un sistema di responsabilità dal basso all'alto, garantendo la coordinazione efficace di molti intorno ad un piano elaborato da pochi” (1)
Per molti la programmazione segnerebbe il trionfo della razionalità contro l'”irrazionale” ed “anarchica” economia di mercato. In effetti, cosa è più razionale di un “piano”? Pianificare vuol dire fissare degli obiettivi ed individuare i mezzi atti a conseguirli, qualcosa di molto razionale, non c'è dubbio. Pianificazione come trionfo della ragione quindi, ma, ci si potrebbe chiedere, di quale pianificazione stiamo parlando? E, di quale ragione, della ragione di chi? Tizio, Caio e Sempronio sono esseri umani, ognuno di loro pianifica, in una certa misura, la propria vita, si dà degli obiettivi e cerca gli strumenti atti a realizzarli, ognuno di loro è razionale ed usa, ai suoi fini, la propria ragione. I teorici della pianificazione non oppongono piano ad anarchia, ragione ad irrazionalismo. Oppongono un piano centralizzato ed imposto a tutti i cittadini agli innumerevoli piani individuali che ognuno di noi elabora per la propria vita, oppongono una ragione centralizzata, onnipotente (o presunta tale), autoritaria alla ragione che tutti noi usiamo per far fronte alle incombenze del nostro esistere. Le scelte economiche fondamentali: quanto, cosa e come produrre e consumare spettano ad ognuno di noi, in coordinamento con gli altri, o devono essere monopolio di una autorità centrale che possa imporle a tutti? Questa è la vera alternativa fra ordine di mercato ed ordine della pianificazione.

Pianificazione e razionalità economica.
Fiedrich Von Hayek e Ludvig Von Mises hanno sollevato contro la presunta razionalità della pianificazione delle obbiezioni per molti aspetti decisive.
Von Mises ricorda come il sistema dei prezzi sia un ottimo indicatore della razionalità delle scelte economiche. L'imprenditore Tizio investe 100 per produrre televisori e vende ogni televisore al prezzo di 10. Però, in quel certo momento i consumatori, o una parte dei consumatori, non desiderano acquistare televisori, o, se intendono acquistarli, sono disposti a pagare non 10 ma 8 . Tizio ha quindi due possibilità: o vende i televisori a 8 o li lascia, almeno in parte, invenduti. In entrambi i casi subisce una perdita. Il meccanismo anonimo dei prezzi e del mercato ha detto a Tizio che la sua scelta di investimento è stata sbagliata. La società non vuole televisori, o non li vuole pagare al prezzo di 10. Tizio dovrà o razionalizzare la produzione o dovrà cambiare investimento, produrre ad esempio, dei PC invece che dei televisori.
Ma, funziona ancora questo meccanismo se Tizio viene sostituito dallo stato che detiene la totalità dei mezzi di produzione? Evidentemente no, argomenta Von Mises. Se tutte le scelte economiche sono appannaggio dello stato, che detiene la totalità dei mezzi di produzione, il fatto che certi beni restino invenduti non ha, per lo stato, conseguenza alcuna. A voler essere precisi, in una economia pianificata i beni non vengono venduti ma, più propriamente, distribuiti ai cittadini da parte dello stato pianificatore. L'autorità pianificatrice decide cosa e quanto produrre e poi distribuisce, secondo cuoi criteri, quanto prodotto ai cittadini consumatori. Se quanto viene distribuito non piace ai cittadini, tanto peggio per loro! Anche se i cittadini rifiutassero ciò che lo stato distribuisce loro questo non cambierebbe minimamente le cose. Lo stato resterebbe unico “proprietario” della totalità dei mezzi di produzione anche se i beni prodotti restassero a marcire nei magazzini statali. Questo è avvenuto nella Russia staliniana durante la collettivizzazione dell'agricoltura. Il grano strappato ai “kulaki” restava molto spesso a marcire al sole; questo aveva conseguenza tragiche per i contadini, ma nessuna per lo stato pianificatore che non ha caso proseguiva con le sue folli politiche. Fenomeni altrettanto gravi si sono verificati nella Cina di Mao, nella Cambogia di Pol Pot, a Cuba, in Corea del nord. L'economia pianificata non è in senso proprio una economia. In essa si decide sul come, il quanto e il cosa produrre non in base alle preferenze dei consumatori ed alle disponibilità degli investitori, ma in base a pure logiche politiche. Si tratta di economie di comando, del tutto scisse dal calcolo economico, dal raffronto cioè fra il costo di un investimento e la sua utilità sociale, misurata dal meccanismo della domanda e dell'offerta. Se per economia si intende quella attività volta a soddisfare determinati bisogni al minor costo possibile, appare evidente che le economie di comando, prive come sono di calcolo economico, sono quanto di più economicamente irrazionale si possa concepire.
Fra chi seguiva le lezioni di economia di Von Mises ci fu anche, per un certo periodo di tempo, l'esule Nikolaj Bucharin, esponente di primo piano del partito bolscevico. Bucharin fu molto impressionato dalle argomentazioni di Von Mises, e si convinse che anche una economia pianificata doveva dotarsi di un efficiente sistema dei prezzi. Ebbe a dire che i comunisti dovevano essere grati al loro nemico Mises per aver loro ricordato l'importanza di un simile problema. Però restò in fiero disaccordo con Von Mises, che riteneva impossibile la convivenza di economia pianificata e sistema dei prezzi. Bucharin tornò quindi in Russia ed ebbe una parte di primo piano nella politica del partito bolscevico vittorioso. Questa scelta gli costò la vita. Bucharn finì i suoi giorni di fronte ad un plotone d'esecuzione, simbolo estremo di quella economia di comando che lui riteneva compatibile con la razionalità del calcolo economico.

Le obiezioni di Von Hayek all'ordine della pianificazione sono di tipo diverso, ma altrettanto calzanti. Hayek si concentra non sul calcolo economico ma sulla dispersione delle conoscenze. La conoscenza non riguarda solo le leggi generali, non è solo conoscenza dell'universale. Esiste anche la conoscenza di fatti particolari, riguardanti il qui e l'ora, e si tratta di una conoscenza che ha la massima rilevanza in economia. Il direttore di una piccola filiale di banca ha una conoscenza del merito creditizio di questo o quell'imprenditore locale molto maggiore di quella del più sofisticato analista di bilancio. Un commerciante bene inserito in un certo mercato conosce l'andamento dei prezzi e la qualità di molte merci prodotte in loco assai meglio di un laureato alla Bocconi, e un tecnico che effettua da anni la manutenzione di certi macchinari ne sa su quelli più di un ingegnere plurilaureato. Tutte queste conoscenze particolari sono disperse fra milioni di esseri umani e nessun programmatore centrale può appropriarsene; è il meccanismo anonimo del mercato che può centralizzare questa enorme massa di informazioni e conoscenze e permettere così a tutti di trarne beneficio. La onniscenza del pianificatore centrale è solo una finzione propagandistica: cercare di decidere a Roma, o a Bruxelles, cosa e come si debba produrre in un piccolo paese vuol dire solo rinunciare a quella gran massa di informazioni particolari che, sole, possono rendere davvero razionale la decisione. Ancora una volta la razionalità della pianificazione centralizzata si rivela una falsa razionalità. E' una pseudo razionalità che semplifica in maniera ridicola la realtà, non tiene conto delle caratteristiche specifiche in cui questa si articola e si traduce in una incredibile perdita di conoscenze preziose.

Un esempio di quanto questo autentico spreco di conoscenze del particolare possa avere conseguenze profondamente negative è costituito dai deliri programmatori della unione europea. L'unione europea non pretende di programmare centralmente l'economia dei paesi europei, anzi, si proclama a gran voce favorevole al libero mercato. Solo, impone a tutti, in nome della “salute”, della “sicurezza” della “tutela dell'ambiente” e di tantissime altre cose, norme che hanno il solo risultato di inceppare la crescita economica e di rendere sempre più difficile la vita dei cittadini europei. Un gruppo di burocrati si riunisce a Bruxelles e decide che, ad esempio, per “rispettare la salute” occorre che la produzione di quel certo bene avvenga in quel certo modo. Non conosce le realtà locali, le esigenze delle imprese che operano nelle più svariate situazioni, il clima, la conformazione naturale di questo o quel territorio, i gusti delle popolazioni. Conosce solo le sentenze inappellabili dei suoi “esperti”, e le impone a tutti, autoritariamente, come il più burocratico ed autoritario dei governi nazionali. Con una aggravante rispetto a questi. I governi nazionali impongono vincoli e divieti emettendo delle leggi che possono successivamente essere discusse e modificate, e che comunque sono decise da parlamenti democraticamente eletti. Le norme iper burocratiche dell'unione europea invece sono decise da organismi che nessuno ha eletto, e, una volta che gli stati membri le abbiano accolte, sono inserite nei trattati europei e diventano di fatto
immodificabili. Oggi le regolamentazioni europee ammontano a più di 170.000 (CENTOSETTANTAMILA) pagine e si occupano di tutto: dalla lunghezza dei gambi di carciofo al collaudo degli stivali di gomma, dal diametro della pizza alla temperatura dell'acqua con cui si fa il caffè espresso.
Nella sua opera già citata Roger Scruton ricorda che “A partire dal 1996 l'unione europea ha diramato una serie di direttive sulla qualità dell'aria, limitando la dimensione e la quantità delle particelle di polvere presenti in essa. Le direttive, approvate nella legge olandese del 2001, stabiliscono che le concentrazioni di polveri siano talmente basse da essere impossibili per un territorio densamente popolato come i paesi bassi dove, in ogni caso, il sale marino e le polveri dei terreni costituiscono il 55% delle polveri atmosferiche e due terzi delle rimanenti provengono dall'estero. La legge (…) ha implicato l'annullamento di un gran numero di progetti di costruzione, fra cui strade, parchi industriali e complessi abitativi (…). Numerosi studi epidemiologici indicano che, a causa delle polveri atmosferiche, la durata di vita di alcune migliaia di persone è ridotta di una frazione di tempo che va da pochi giorni a pochi mesi” (2)
Ovviamente la disoccupazione e la difficoltà a trovare alloggi hanno, non solo sul benessere, ma sulla salute e sulla aspettativa di vita delle persone, effetti assai più devastanti che non le famigerate polveri, ma questo non interessa gli euro burocrati. Ognuno di loro tiene conto solo del particolare settore che deve pianificare. I tecnici delle polveri non tengono conto della particolare conformazione dei paesi bassi o delle conseguenze economiche, sociali ed umane delle loro direttive, tutto questo riguarda l'”ufficio accanto”: altri burocrati, altri “tecnici” che emetteranno altre norme minuziosissime che avranno a loro volta effetti indotti negativi, per far fronte ai quali sarà creato un altro particolare ufficio e saranno pagati (profumatamente e coi soldi dei contribuenti) altri burocrati e così via, in una spirale infernale senza fine. La follia programmatoria distrugge una quantità enorme di conoscenze e priva in questo modo i presunti onniscienti burocrati degli strumenti che potrebbero consentir loro di operare in maniera davvero razionale, tenendo conto delle conseguenze reali delle loro azioni. Ancora una volta la presunta razionalità della programmazione si rivela per quella che è: una razionalità fasulla. Non a caso moltissime direttive della onnipotente commissione europea appaiono, agli occhi delle persone dotate di normale buon senso, indice non di razionalità ma di autentica follia.

Pianificazione e libertà.
Scrive il filosofo liberale Isaiah Berlin: “Normalmente si ritiene che io sia libero nella misura in cui nessun individuo o società di individui interferisce con la mia attività. In questo senso la libertà è semplicemente l'area entro cui una persona può agire senza essere ostacolata da altri. Nella misura in cui mi si impedisce di fare qualcosa che altrimenti potrei fare, io non sono libero; se quest'area viene ridotta oltre un certo limite minimo si può dire che io sia costretto con la forza o, forse, ridotto in schiavitù” (3). Esiste,
deve esistere per Berlin, un'area dentro la quale solo io ho il potere di decidere. Che lavoro voglio fare? Preferisco il mare o la montagna? Dove andrò a vivere? Di chi mi innamoro? Mi sposero, avrò dei figli? Quali sono le mie preferenze sessuali? E quali quelle alimentari? Kant mi convince più o meno di Hegel? Credo in Dio? A tutte queste domande posso rispondere solo io, quanto meno, solo io ho su questi argomenti il diritto di dire l'ultima parola. Nessuna autorità, neppure una assemblea democraticamente eletta, o il più autorevole consesso di “esperti”, può stabilire se io mi devo o non mi devo sposare, o può costringermi ad andare in vacanza in una certa località, o a preferire le verdure alle bistecche. “Esiste”, prosegue Berlin, “una certa area minima di libertà personale da non violarsi per nessuna ragione: se essa fosse calpestata, l'individuo si troverebbe in uno spazio troppo ristretto persino per uno sviluppo minimale delle sue facoltà naturali. (…). Si tratta dunque di segnare un confine tra l'area della vita privata e quella dell'autorità pubblica. Dove esso vada tracciato è materia di discussione, anzi, di trattativa” (4). Si può discutere su quanto sia ampia l'area delle mie decisioni private, ma questa deve esistere e non essere troppo angusta. Si può limitare questa area per garantire le altrui libertà, per le esigenze della vita sociale, per tutelare valori diversi dalla libertà, ma a volte egualmente importanti, per garantire a tutti un livello minimo di benessere ad esempio. Ma se si restringe troppo quest'area si distrugge la libertà e con questa ciò che di più essenziale esiste in noi, ciò che ci fa, propriamente, uomini.

Stabilito che un certo livello almeno di libertà individuale è irrinunciabile per gli esseri umani, ci si può porre la domanda: questa libertà è compatibile con una economia globalmente pianificata? In altre parole, posso essere libero in un paese ove l'autorità pubblica decide quanto, e come e cosa si debba produrre? La risposta è molto semplice: NO.
L'uomo è un essere finito, limitato. Ha bisogno di cose, oggetti materiali per raggiungere i propri fini, ne ha bisogno quasi sempre. Anche al più spirituale dei poeti occorrono penna ed inchiostro per scrivere le sue poesie, e un amante della musica ha bisogno quanto meno di uno spartito e di uno strumento da suonare, chi prova un piacere intenso nel leggere impazzirebbe se non ci fossero quegli strani oggetti chiamati libri. Siamo nel mondo e dipendiamo dal mondo, da un mondo che non è stato creato per noi e che dobbiamo modificare per procurarci ciò che ci serve per vivere. Chi stabilisce cosa, quanto e come si debba produrre stabilisce anche cosa e quanto noi possiamo consumare, e come e quanto e dove dobbiamo lavorare; stabilisce in questo modo come noi possiamo vivere.
Io vorrei fare il medico a Genova, ma l'autorità pianificatrice decide che servono guardie forestali in Calabria, quindi è li che dovrò vivere e lavorare. Vorrei avere un figlio, ma il pianificatore ha deciso che siamo già in troppi, quindi, dovrò rinunciare alle gioie della paternità. Mi piacciono le escursioni in montagna, ma un comitato di esperti psicologi ha stabilito che chi ama la montagna è un individuo introverso, poco propenso alla socializzazione, amante della solitudine, ed ha anche deciso che è socialmente utile contrastare queste pericolose tendenze antisociali. Quindi il pianificatore stabilisce che non si producano scarponi da montagna, né linee ferroviarie che mi portino nelle località montane, e che in queste non siano costruiti alberghi, né case da dare in affitto a pericolosi turisti amanti della solitudine. Io devo rinunciare alla mia passione. Si potrebbe continuare, ovviamente. Chi stabilisce i mezzi decide anche sui fini. Piaccia o non piaccia la cosa, la pianificazione è incompatibile con la libertà.
 

La libertà invece non è incompatibile con l'esistenza di ammortizzatori sociali che difendano gli individui dalle turbolenze, spesso micidiali, dell'economia di mercato. Lo stesso, ultraliberista, Hayek parla chiaramente di “reti protettive” che, fuori dal mercato, abbiano il compito di tutelare gli esseri umani dal suo andamento a volte sussultorio e consentano a chi, senza colpa, è stato espulso dalla attività produttiva di rientrarci al più resto e senza subire nel frattempo, danni devastanti. Il vero limite del mercato non consiste nella sua presunta natura “non sociale”. Il mercato è qualcosa di essenzialmente sociale e sociali, nel senso più proprio del termine, sono le relazione che si instaurano nel mercato. Il mercato è un ottimo selettore degli investimenti, lo si è visto. Il mercato è invece, spesso, spietato coi singoli, questo è il suo vero limite. Se una certa fabbrica produce beni che nessuno più richiede la sua chiusura è la soluzione migliore, dal punto di vista sociale. Ma, che debbono fare degli individui che ci lavorano? Possono essere considerati “scarti” di una produzione obsoleta? NO, ovviamente. Non sono “scarti”, sono esseri umani, esseri umani le cui esigenze vanno tutelate. Da qui le varie politiche sociali che, quando non degenerano in forme deplorevoli di assistenzialismo parassitario, non sono solo perfettamente compatibili col liberalismo, ma, attenuando il conflitto sociale, contribuiscono alla sopravvivenza ed allo sviluppo di una società libera.

La pianificazione totale.
Al peggio non c'è mai fine. Nella esperienza dei grandi totalitarismi dello scorso secolo il controllo statale sulla vita dei cittadini non è avvenuto solo in maniera indiretta, tramite la pianificazione della produzione e del consumo. No, è avvenuto anche direttamente, con una intrusione sempre più ampia dello stato nella vita quotidiana dei singoli, fino ad annullare del tutto il concetto stesso di vita privata. Quella sfera in cui solo io posso decidere, la cui esistenza è per Berlin è l'essenza stessa della libertà, si è via via sempre più contratta, sino a sparire del tutto. Alle proibizioni si sono sommati i comandi, ed ai comandi sul fare quelli sul pensare, e poi sul desiderare, sull'amare, sull'essere. In uno stato totalitario il cittadino, meglio, il suddito, non è solo obbligato a fare certe cose, deve anche pensarne certe altre, pensarle con convinzione, e deve amare certe istituzioni, meglio ancora, certe persone che di quelle istituzioni sono la vivente incarnazione. La pianificazione totale riguarda il corpo come la mente degli esseri umani, il loro fare ed insieme il loro pensare, desiderare, amare. Non può esistere nessuna autonomia, nessuna spontaneità, a nessun livello, perché ogni autonomia, ogni spontaneità metterebbero in discussione il piano e la sua presunta “razionalità”. Non a caso uno dei nemici di ogni stato totalitario e pianificatorio è stata, sempre, ovunque, la famiglia. Nella famiglia gli esseri umani stanno insieme perché si amano, la famiglia sorge perché sorgono legami di amore fra esseri umani, autonomi, spontanei legami d'amore. La famiglia costituisce un'area di “privatezza” che nessuno può, o potrebbe, o dovrebbe violare. Quando sono in casa mia, con la mia famiglia si alza una sorta di muro fra me ed il resto del mondo, sono nell'area del “solo mio”. Certo, altri possono entrare in quell'area: amici, parenti, conoscenti, ma siamo io ed i miei cari a decidere chi può entrarvi. Tutto questo è inaccettabile per i totalitari che non a caso odiano la famiglia, ed intendono distruggerla.
E la hanno distrutta in effetti. Nelle comuni agricole staliniane e maoiste tutto era comune, pentole e piatti compresi, si mangiava e si dormiva tutti insieme, in grandi anonime camerate, padri e figli, mariti e mogli venivano spesso separati. La convivenza forzata imposta dallo stato sostituiva la convivenza volontaria della famiglia. Il processo ha raggiunto le punte più aberranti nella esperienza cambogiana, quando la divisione forzata delle famiglie divenne pratica diffusa, ed era lo stato, meglio i tirannelli locali della “Kampucea democratica” a decidere se Tizio e Caia potevano sposarsi.

Purtroppo tendenze alla pianificazione totale sono ben presenti nell'occidente odierno, asservito al politicamente corretto. Certo, tendenze non così devastanti come l'orrore istituzionalizzato nella Cina di Mao o nella Cambogia di Pol Pot ma molto, molto preoccupanti.
I burocrati del politicamente corretto cercano di pianificare il linguaggio, imponendo a tutti, a partire dai media, una orrenda neo lingua, quella dei “genitori uno e due”, dei “femminicidi” o dei “verticalmente svantaggiati”.
E cercano di ridurre al minimo l'influenza dei genitori sui figli, stabiliscono i criteri della “buona genitorialità”, vorrebbero controllare il tipo di educazione che chi di noi ha figli impartisce loro.
E si preoccupano della nostra salute, del nostro benessere fisico e mentale, intendono obbligarci a star bene. E stanno bene attenti che i nostri sentimenti verso certi soggetti siano improntati all'amore ed alla comprensione, e sono pronti ad accusarci di “razzismo” se per caso nutriamo sentimenti diversi.
E si preoccupano della nostra sessualità, dei rapporti coi nostri mariti e le nostre mogli, o i nostri e le nostre amanti. Li preoccupa la pubblicità che guardiamo, e se in essa compare una ragazza a seno nudo subito strillano contro la “mercificazione” del corpo femminile. E vedono ovunque offese a questo e a quello, così che ogni opinione non piaccia a loro diventa, automaticamente, una “offesa”. Si potrebbero scrivere pagine e pagine su questi argomenti.
In una società libera lo stato fornisce agli individui alcuni fondamentali supporti, i pubblici servizi, la scuola soprattutto, e fissa alcune rigide proibizioni: non si può aggredire, offendere, picchiare, molestare nessuno. Ognuno è tenuto, è obbligato, a rispettare gli altri. Tutto il resto, l'evolvere cioè delle concezioni del sesso, delle pratiche educative, dei rapporti interpersonali, del linguaggio è lasciato all'autonomia delle persone e della società. Ai totalitari questo non piace. Non piace perché i totalitari sono convinti di essere enormemente più intelligenti, più profondi, più lungimiranti della stragrande maggioranza degli esseri umani. Lasciare autonomia agli esseri umani è per loro sinonimo di degrado, irrazionalità, perdizione. E così, in maniera subdola ma costante, cercano di condizionare tutto, di comandare su tutto, di sottoporre tutto al loro controllo ossessivo. E riescono solo a immiserire, degradare, far imputridire tutto, e tutti. Ci sono riusciti, alla grande, nelle tragiche esperienze totalitarie dello scorso secolo. Ci stanno riuscendo oggi in formato minore. I danni che stanno facendo sono oggi di certo assai meno gravi di ieri, non per questo sono da sottovalutare, o da prendere alla leggera.


NOTE

Roger Scruton: Del buon uso del pessimismo. Lindau 2011. Pag, 103.
Ibidem pag. 120 121.
Isaiah Berlin: due concetti di libertà. Feltrinelli 2000. pag. 12.
Ibidem pag. 15.


sabato 16 novembre 2013

IL RELATIVISTA E L'ALTRO





Poniamo che venga scoperto nei pressi di Roma un dischetto d'oro riportante l'effige di Nerone. Diremmo, senza pensarci troppo su, che si tratta di una antica moneta. Apparentemente si tratta di una conclusione ovvia, ma così non è. Possiamo dire che quel dischetto d'oro riportante l'effige di Nerone è una moneta perché sappiamo che gli antichi Romani, come noi, praticavano il commercio. Se in questo gli antichi romani non fossero stati simili a noi non potremmo dire che il dischetto d'oro è una antica moneta, diremmo, ad esempio, che si tratta di un gioiello o di una sua parte, ma, di nuovo, potremmo trarre una simile conclusione solo perché sappiamo che le donne romane amavano ornarsi con oggettini d'oro e pietre preziose, come avviene per le donne, e gli uomini, di oggi. Non intendo dilungarmi negli esempi. Si può conoscere qualcosa, o qualcuno, che ci è diverso solo se ha alcuni tratti in comune con noi, se la sua diversità da noi non è assoluta. Se fra noi e gli antichi romani non ci fosse nulla di comune non dovremmo definirli diversi da noi ma “alieni” e non capiremmo nulla del loro modo di agire e di pensare. Quel dischetto d'oro non sarebbe per noi una moneta, né la parte di un gioiello né qualsiasi altra cosa; la sua natura resterebbe un mistero insolubile.
Si può conoscere e riconoscere il diverso solo su una base di unità. E lo si può riconoscere anche nella sua diversità spesso radicale da noi. Il fatto che si abbiano cose in comune col diverso non significa affatto assimilarlo a noi, ridurre le differenze a dettagli insignificanti, oppure cercare di di interpretare queste differenze usando categorie che, queste si, hanno rilevanza solo all'interno di certi contesti culturali. Per tornare al nostro esempio, il fatto che nell'antica Roma esistesse il commercio ci permette di affermare che il dischetto d'oro con l'effige di Nerone è una moneta, ma nulla sarebbe più sciocco che studiare il commercio nell'antica Roma usando categorie che valgono solo per il mondo di oggi.

Uno dei difetti del relativismo è proprio questo. I relativisti parlano in continuazione di “riconoscimento dell'altro” ma si rivelano incapaci proprio di riconoscere l'altro nella sua diversità, spesso radicale, da noi.
Il relativista occidentale evita ogni confronto fra culture, ed ogni condanna di pratiche, usi e costumi che ripugnano la nostra sensibilità democratica. Se qualcuno appartiene ad una cultura diversa dalla nostra viene subito posto in una sorta di limbo etico, al riparo da ogni valutazione, e da ogni condanna. “Le civiltà non sono superiori ed inferiori, solo diverse”, afferma cinguettando il relativista. “Chi siamo noi per giudicare, condannare?” prosegue con angelica bontà. Gli si potrebbe replicare, citando Dostoevskij: “chi siamo noi per non condannare?" Però, pensare che gli argomenti di un Dostoevskij scuotano il relativista è davvero eccessivo...
Visto che non esiste nulla che in qualche modo accomuni i “diversi” ogni condanna del diverso, ad esempio, del fondamentalista islamico, è impossibile, per il relativista. Con somma incoerenza questi predica una universale tolleranza, una bontà generalizzata e mielosa, e cerca di sostituire questa melassa al giudizio, alla presa di posizione. Però, il relativista ha un problema, un problema piuttosto grosso che neppure la sua incoerenza gli permette di aggirare. Viviamo in un mondo sempre più piccolo. Le notizie viaggiano in tempo reale e la rete si affianca ai media tradizionali nel farle viaggiare. Ignorare i fatti oggi non è più possibile, anche perché molti di questi fatti ci riguardano in prima persona. Di fronte ad eventi come gli attentati dell'undici settembre non ci si può limitare a borbottare qualcosa sulla diversità fra le culture, non lo si può fare perché dopo quell'evento moltissimi occidentali si sentono potenziali vittime di simili attentati. E neppure ci si può limitare ai borbottii buonisti quando quando si vedono in rete le immagini di una lapidazione. Si poteva, ieri, far finta di nulla, dire che si tratta di eventi che avvengono in aree tanto diverse dalla nostra, ma, quando questi eventi li vedi non puoi limitarti a farfugliare generiche banalità. Insomma, il relativista deve dire qualcosa, qualcosa di preciso, su eventi che non può ignorare. Dire: “è la loro cultura” non basta quando tanta gente sente minacciata la propria cultura, se non la propria vita, dalla inquietante vicinanza di questa diversità. E così il relativista deve, gli piaccia o meno la cosa, scoprirsi, giudicare. E lo fa, in effetti. Lo fa, ma usa, nel giudicare il diverso, proprio quelle categorie che non tengono in alcun conto la sua diversità. Agendo in questo modo il relativista resta se stesso in fondo. Una volta ridotto tutto al contesto socio culturale, come si fa a non usare le proprie categorie, tutte rigorosamente interne a quel contesto? Proprio rapportandosi al diverso, che tanto ama, Il relativista dimostra di non saperlo riconoscere, non da alcun peso ed alcuna importanza alla sua diversità.

Uno dei procedimenti che il relativista usa quando parla di ciò che è “diverso” potremmo definirlo riduzione al generico. Si tratta di qualcosa di molto semplice. Abbiamo notizia della lapidazione di una adultera. Non possiamo ignorarla, dobbiamo dire qualcosa, tutti, compreso il relativista. E lui parla infatti. “E' qualcosa di orribile” afferma contrito, “ma... stiamo attenti a non cadere nel razzismo, nella xenofobia. Il maschilismo esiste ovunque, anche in occidente. Dobbiamo condannare il maschilismo, l'oppressione della donna ovunque, anche nei paesi mussulmani”. Davvero ingegnoso no? Si condanna una lapidazione assimilandola ad un generico maschilismo che, in effetti, esiste ovunque. E, quello che avviene per la lapidazione avviene per tante altre cose che riguardano il diverso e non ci piacciono. Così, l'usanza di combinare matrimoni fra ragazzine di tredici, quattordici anni e uomini cinquantenni o sessantenni, viene assimilata alla pedofilia, la pena di morte inflitta ad apostati e bestemmiatori ad un generico integralismo religioso, le persecuzioni ai gay ad una altrettanto generica “omofobia”. E, si fa notare, l'omofobia, l'integralismo religioso, la pedofilia sono ben presenti in occidente, quindi, condanniamole senza prendere pretesto da questa condanna per rifiutare il diverso e la sua cultura.
In effetti maschilismo ed omofobia, integralismo e pedofilia esistono anche in occidente. Solo che assimilare una lapidazione al maschilismo o la fucilazione di un gay all'omofobia è un po' come definire la “pietà” di Michelangelo un “pezzo di marmo”. La “pietà” è anche un pezzo di marmo, questo non si discute, ma è qualcosa di più: è quel certo pezzo di marmo, con quella certa forma che lo differenzia radicalmente da tutti i pezzi di marmo esistenti sul pianeta e ne fa qualcosa di unico. Il relativista politicamente corretto riduce al generico tutto ciò che sente essere inaccettabile nella cultura del “diverso”, ma così facendo ignora precisamente la differenza specifica che lo caratterizza e lo fa essere quello che è. Il diverso non è l'alieno, l'assolutamente altro. Ha virtù e vizi che sono in una certa misura di tutti, ma li ha in un certo modo, in una certa misura, con certe caratteristiche che sono solo sue. Maschilismo e integralismo religioso ci sono anche in occidente, è vero, ma non informano di se le leggi dello stato, non si concretizzano in atti barbari come una lapidazione, non hanno nella società civile la diffusione soffocante, capillare e quasi incontrastata che hanno invece nei paesi mussulmani. Questo rende noi e loro diversi, ed è questo ciò che il relativista ignora.

Un secondo procedimento che il relativista politicamente corretto mette in atto, quando ha a che fare con le marachelle dei suoi amati “diversi”, consiste nella giustificazione non richiesta. Ovunque nel mondo ci sono uomini bomba che si fanno esplodere al fine di uccidere esseri umani che hanno il solo torto di essere nati in Israele o negli Stati uniti, in Gran Bretagna o in Spagna. Si tratta di un fenomeno sconvolgente che non ha praticamente precedenti nella storia. Assimilarlo alle azioni suicide dei kamikaze giapponesi, che erano guerrieri e morivano in battaglia, è del tutto fuorviante. Posto di fronte ad un gesto tanto assurdo, tanto intriso di fanatismo omicida, cosa fa il relativista politicamente corretto? Analizza forse quel fanatismo? Cerca di capire da cosa nasce e che conseguenze può avere? No, semplicemente ignora il fanatismo e giustifica la bomba umana con argomenti che questa non si sognerebbe mai di sostenere. “Il terrorista suicida compie un gesto molto brutto” dice il buonissimo relativista “ma, cerchiamo di capirlo. E' arrabbiato, ha dovuto subire infami ingiustizie, vive in una situazione di miseria ed oppressione... ecco dove stanno le radici dei suoi gesti. Comportiamoci in maniera giusta con lui ed i suoi compagni, aiutiamoli economicamente, andiamo loro incontro e il problema si risolverà”.
Non mi interessa qui stabilire se davvero il fondamentalista che si trasforma in bomba umana ha dovuto subire le terribili ingiustizie che fanno piangere il relativista politicamente corretto, il punto non è questo, ora. Anche ammettendo che tali ingiustizie siano reali, resta da risolvere un problemino: come mai solo il fondamentalista islamico reagisce a queste ingiustizie trasformandosi in bomba umana? Ogni giorno nel mondo avvengono moltissime ingiustizie, che riguardano molti popoli ed etnie; la storia poi è una lunga sequenza di ingiustizie e soprusi. Se l'analisi del relativista politicamente corretto contenesse anche un solo briciolo di verità ogni giorno nel mondo dovrebbero farsi esplodere quantità industriali di persone e la storia dovrebbe essere una sorta di esplosione permanente di bombe umane. Come mai nessun ebreo si è mai fatto esplodere a Berlino? E si che forse gli ebrei qualche motivo per non amare troppo i tedeschi lo avevano! L'analisi del relativista politicamente corretto ignora, di nuovo, la differenza specifica che caratterizza le azioni dell'integralista islamico, non considera ciò che lo fa diverso e rende uniche le sue azioni. Prende in esame la rabbia dell'integralista, sentimento comune a tutti gli esseri umani, ma non i fattori che fanno si che quella rabbia assuma quelle certe, specifiche forme. L'integralista islamico viene in questo modo spogliato precisamente delle sue particolarità, la sua diversità si dissolve, assorbita nella generica categoria della “rabbia per l'ingiustizia”.

La giustificazione non richiesta rimanda ad un'altra tecnica messa in atto dal relativista politicamente corretto, la più diffusa ed importante, che molto spesso riguarda, di nuovo, gli integralisti islamici. Potremmo chiamarla tecnica della mistificazione delle cause. Secondo questa tecnica le azioni degli integralisti sarebbero la conseguenza di quegli stessi eventi che per noi occidentali hanno grandissima rilevanza (ma ne hanno altrettanta per gli integralisti? Il problema è tutto qui).
Ecco ad esempio come la suora pacifista francescana Rosemary Linch commentava, all’indomani del massacro, gli attentati dell’undici settembre 2001:

“Alcuni episodi (…) anche se non possono minimamente sminuire il male degli attacchi diretti contro gli Stati Uniti l'11 settembre, possono aiutarci a comprendere alcune persistenti animosità e perfino odii diretti contro il paese che amiamo. Non molti anni fa gli Stati Uniti hanno dato sostegno e partecipato alle guerre a bassa intensità in Centro America, (...). Possiamo aver dimenticato qui lo scandalo Iran-Contras, ma sulle regioni colpite ha lasciato cicatrici ancora aperte. Il Cile ricorda l'assassinio di Allende. La Baia dei Porci, Grenada, Panama, la Libia, il Viet-Nam - tutti episodi che hanno lasciato il segno, che hanno avuto effetti negativi. Abbiamo imparato a metterci in relazione con gli altri popoli in una posizione che non sia di dominio?”.

Perfetto! Per motivi di ragion di stato gli Usa hanno appoggiato a volte fior di dittature, è innegabile, come è innegabile che non sono stati gli unici a farlo. Questo basta all'occidentale “comprensivo” per “spiegare” un evento come l'attacco alle torri gemelle. Si mette in relazione tale attacco con la guerra in Vietnam o il colpo di stato di Pinochet in Cile. Ci sarebbe da chiedersi come mai non siano stati i cileni o i vietnamiti ad abbattere le due torri. Incapace di comprendere la specificità di un fenomeno come il fondamentalismo islamico, il relativista politicamente corretto tratta gli uomini bomba di Al qaeda come se fossero dei democratici liberali indignati per le troppe connivenze fra varie amministrazioni americane e regimi dittatoriali, dimenticando, tra l'altro, che alcuni dei regimi dittatoriali con cui gli Usa hanno buone relazioni sono precisamente delle teocrazie islamiste.
Una delle manifestazioni più assurde di questo ridicolo modo di ragionare è data dalla riduzione del conflitto fra israeliani e palestinesi a pura questione territoriale. Un popolo, quello palestinese, sarebbe stato cacciato dalle sue terre e costretto a vivere in campi profughi, da qui il conflitto con gli israeliani. Non mi interessa qui rilevare come questa ricostruzione del conflitto israelo palestinese contenga moltissime falsità: è noto ad esempio che gli insediamenti ebraici in Palestina hanno assunto per decenni la forma dell'acquisto di terre. Qui mi interessa sottolineare un'altra cosa. La storia è piana di tragici episodi di migrazioni forzate, per fare solo un esempio a noi noto, si pensi alla fuga degli italiani dall'Istria. Eppure nessuno di questi tragici ed ingiusti episodi si è incancrenito, ha dato vita ad un conflitto che dura, irrisolto, da oltre 60 anni. I profughi istriani non si sono accampati in campi profughi aspettando il ritorno nelle terre d'origine, né hanno preso a bombardare con missili la Jugoslavia titina. La stessa cosa si può dire dei tanti, troppi, popoli che hanno dovuto subire il dramma e l'ingiustizia di migrazioni forzate. Questo invece è avvenuto con i palestinesi, come mai? Davvero il loro conflitto con gli israeliani è spiegabile solo e tutto con problemi territoriali? Si può seriamente pensare che uno stato piccolissimo, non molto più esteso dell'Emilia, che sorge su un territorio desertico, privo di ricchezze naturali, costituisca un problema territoriale tanto profondo da non poter essere in alcun modo risolto? Le controversie territoriali sono un fattore del conflitto, senza dubbio, ma di certo non sono il solo fattore e neppure quello più importante. Un conflitto come quello fra Israele e stati arabi, e palestinesi, non è spiegabile se si prescinde dal peso della religione, e, specificamente, dalla convinzione diffusissima nel mondo islamico, secondo cui una terra che è stata islamica deve continuare ad esserlo “fino al giorno del giudizio”. E' questo il motivo per cui la stessa esistenza di Israele costituisce per l'Islam fondamentalista un affronto insopportabile. Si prescinda da questo, si riduca tutto ad una controversia territoriale, e si perde la possibilità di capire il conflitto medio orientale nella sua specificità. Precisamente questo è ciò che fa l'occidentale relativista politicamente corretto. Non capisce il diverso nella sua diversità.

A molti occidentali sembra impossibile che ci sia qualcuno che davvero sogna un mondo islamizzato, che voglia riconquistare terre che secoli fa furono islamiche, o che odi gli occidentali solo perché occidentali. Da noi il fanatismo religioso è in larga misura un ricordo di tempi brutti e abbastanza lontani, e ci sembra incredibile che in altre parti del mondo questo giochi un ruolo tanto rilevante.
In occidente è molto diffusa una mentalità calcolatrice. Siamo abituati a valutare le cose in termini di costi – benefici, tanto abituati che ci sembra impossibile che altri tengano in minor conto questo aspetto del mondo. Ogni volta che sbattiamo la faccia su conflitti etnici, odi tribali, fanatismi, siamo così portati a chiederci: “cosa c'è sotto?”, e quasi sempre ci lludiamo di averlo trovato, quello che c'è sotto. In un certo paese sono in corso lotte fra etnie diverse, molti esseri umani si massacrano in nome della religione, tutto vero ma, in quel paese ci sono miniere, ricchezze naturali, in passato sono stati stipulati accordi commerciali... "ecco la vera causa del conflitto!" affermano esultanti tanti occidentali sciocchi. Peccato che ricchezze naturali esistano ovunque nel mondo, e che ovunque si stipulino accordi commerciali, ma non ovunque ci siano guerre, massacri tribali, scontri etnici.
Molti occidentali sono talmente convinti che il loro modo di vedere le cose sia l'unico possibile che trasformano le cose,  travisano i fatti per adattarli a schemi mentali più familiari. E quando tutte le tecniche di addomesticamento dei fatti risultano inefficaci resta a questi occidentali un'ultima, efficacissima tecnica: la teoria del complotto.
“Gli attentati dell'undici settembre...siamo sicuri che il responsabile sia Bin Laden? E, siamo sicuri che non ci siano stati rapporti fra Bin Laden e la Cia, ed il Mossad? Gli americani lo hanno ucciso, Bin Laden, appunto, per eliminare uno scomodo testimone”. Chi non ha letto o sentito simili “ragionamenti”? Se non si riesce ad adattare i fatti a certi schemi mentali i fatti devono scomparire. La realtà si dilegua e al suo posto sorge un mondo di fantasmi. Gli attentati insanguinano mezzo mondo? Verissimo, ma sono stati organizzati dai perfidi americani in combutta con gli ancor più perfidi israeliani. Non ci sono le prove di tutto questo? Ciò “prova” la diabolica astuzia dei cospiratori. Migliaia di testimoni hanno visto l'aereo schiantarsi sul pentagono? Sono americani, quindi “complici del loro governo”. Ci sono moltissime prove della matrice integralista degli attentati? Sono state costruite. Il complotto deve essere spiegato con altri complotti, e così via, all'infinito. E le folle plaudenti in molti paesi islamici dopo l'undici settembre? Per forza applaudivano! Odiano gli Usa che hanno organizzato il golpe in Cile...
Con il complottismo il relativismo politicamente corretto diventa patologia, si trasforma in dottrina paranoica. Prima cercava di piegare il mondo al suo buonismo da quattro soldi, ora sostituisce al mondo reale un non mondo virtuale di vaghe ombre. Tutto è falso, tutto è irreale, l'unica cosa reale sono i cospiratori che nell'ombra organizzano tutto, e di tutto tirano le fila. Ciò che si vede, si sente, si tocca, non esiste, esiste ciò che non si vede, non si sente, non si tocca e non si può vedere, sentire, toccare. Il noumeno kantiano assume nuova forma, la misteriosa “cosa in se” è finalmente svelata: ha la forma di un agente della Cia o del Mossad , o magari del direttore generale di qualche grande “multinazionale”. Sembra incredibile ma nell'occidente evoluto e razionalista c'è tanta gente che “ragiona” (sic!) in questo modo....

Cerchiamo di concludere. Il diverso può essere riconosciuto solo su una base di unità. Se non esistesse una razionalità genericamente umana, valori che interessano o possono interessare tutti gli esseri umani, se non ci fossero esigenze, vizi e virtù comuni, in una certa misura, a tutti i membri del genere umano, non riusciremmo neppure a capire che Tizio è diverso da noi. Una volta però che, grazie a questi elementi di unità, si riesce a riconoscere e comprendere il diverso, nulla è più stupido che sottovalutare la sua diversità, assorbirla in una genericità banale, cercare di inquadrare le azioni, o certe azioni, del diverso in categorie del tutto inadeguate. Riconoscere e capire la diversità, anche quando è radicale, è invece il modo migliore per battere tutto ciò che di disumano esiste o può esistere in quella diversità. Ed è anche il miglior modo per difendere quei valori universali, umani, a cui lo stesso “diverso” è, o può essere interessato.
Il relativista occidentale fa due errori gravissimi e connessi fra loro. Non riconosce l'esistenza di valori genericamente umani, valori che è dovere di tutti cercare di far affermare ovunque, e non riesce a capire il diverso, non ne riconosce la diversità. Irretito dal suo buonismo mieloso e da un falso concetto di tolleranza, non sa far altro che giudicare il diverso in base a categorie del tutto inadeguate e fuorvianti. Quanto questi errori siano gravi, e quante conseguenze negativa abbiano lo possiamo constatare tutti i giorni, purtroppo.