venerdì 29 gennaio 2021

IL GRANDE RESET: COMPLOTTO, DESTNO O SCELTA POLITICA?

 

Si sente spesso parlare da un po' di tempo a questa parte di “grande reset”. Si tratterebbe di un disegno tendente ad imporre un po' ovunque una sorta di ibrido comunista capitalista. Una economia mondiale totalmente dominata da enormi imprese multinazionali strettamente alleate con il potere politico. Per imporsi questo modello dovrebbe distruggere, o quanto meno ridimensionare drasticamente il tessuto delle piccole e medie imprese, colpire il ceto medio, eliminare o rendere totalmente marginali gli stati nazionali ed i parlamenti che su base nazionale sono eletti. Al mercato ed alla democrazia pluralista si sostituirebbe una sorta di pianificazione sovranazionale di tipo burocratico – monopolista. Per farla breve, si tratterebbe di una estensione a tutto il mondo del “modello cinese”. Un ibrido, appunto fra capitalismo ultra centralizzato e potere politico comunista. Qualcosa di mai visti prima nella storia.
Di cosa è risultante questo ibrido? Si tratta di un complotto? O della conseguenza di scelte politiche non necessarie? O di un destino fatale?
I processi spontanei in atto a livello economico e sociale vanno in questa direzione? E' davvero in corso, ed è irresistibile, una tendenza alla centralizzazione economica che spazzi via le piccole e medie imprese, distrugga il ceto medio, renda marginali gli stati nazionali? O si tratta invece di forzature politiche che intervengono su alcune, non le uniche, tendenze in atto?
Non si tratta di domande nuove, sono anzi estremamente vecchie.

Marx e la piccola impresa.

La previsione della fine delle piccole e medie imprese non è affatto una novità. L'idea di una centralizzazione burocratica e sovranazionale dell'economia che distrugge la piccola e media impresa risale al socialismo pre marxiano ed è stata formulata con la massima precisione proprio da Karl Marx.
Nelle fasi iniziali del suo dominio la borghesia, afferma Marx, distrugge la proprietà privata basata sul lavoro personale. Questa viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica, basata sul lavoro salariato. Questo però è solo il primo passo di un processo ampio e tormentato. Man mano che il modo di produzione capitalistico si afferma i processi di espropriazione assumono forma nuova: “a questo punto”, scrive Marx nel
Capitale, “non è più il lavoratore indipendente che lavora per se quello che deve essere espropriato, bensì il capitalista che sfrutta molti operai. Questa espropriazione si attua mediante il meccanismo delle leggi immanenti della produzione capitalistica stessa, mediante la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne getta giù molti altri”. (1)
Il borghese capitalista espropria il piccolo produttore individuale, l'artigiano, il contadino parcellare, ma i meccanismi della accumulazione capitalistica fanno si che i capitalisti più forti mettano fuori mercato i più deboli. Il processo di concentrazione e socializzazione dell'economia procede implacabile:
“Parallelamente (…) all'espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi si sviluppano in maniera sempre più ampia la forma cooperativa del processo di lavoro (… ) la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro da adoperarsi solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione tramite il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato...” (2)
Il meccanismo della concorrenza rende sempre più concentrata l'economia. Le imprese diventano sempre più grandi, l'uso dei mezzi di produzione assume sempre più un carattere immediatamente sociale.
Questo processo ha carattere internazionale. Gli stati nazionali sono destinati a perdere sempre più importanza in seguito al processo di concentrazione sovranazionale delle economie capitaliste. “Con lo sfruttamento del mercato mondiale” afferma Marx nel celeberrimo
Manifesto del partito comunista “la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione ed al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari” (3)
La borghesia è una classe internazionale e lo è, ancora di più il suo antagonista storico: il proletariato:
“Gli operai non hanno patria. (…) Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale delle corrispondenti condizioni d'esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più”. (4)
Il discorso di Marx è coerente. Lo sviluppo della concorrenza porta ad una crescente centralizzazione dell'economia che è destinata ad abbattere le stesse frontiere nazionali. I processi di concentrazione hanno come risultato una radicale semplificazione della società. Il pluralismo cede il passo ad una polarizzazione che vede contrapposti un pugno di grandissimi capitalisti ad una massa enorme di proletari. A livello internazionale i contrasti di nazionalità vengono soppiantati dai contrasti di classe.  Non a caso
il Manifesto termina con la celebre esortazione: “proletari di tutti i paesi unitevi”. Nel 1914 Lenin la tradurrà in un programma politico molto preciso e radicale: “trasformare a guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria”.
In effetti il processo storico che Marx prevede non somiglia affatto al tranquillo evolversi della società borghese verso il suo “superamento” sognato dalla componente riformista del movimento operaio. Si tratta di un processo che da un lato si traduce in sfruttamento ed oppressione di masse enormi di proletari da parte di un numero sempre più esiguo di parassiti capitalisti. Ed è, dall'altro, un processo che la borghesia
non può portare a termine.
Il monopolio del capitale diventa un ostacolo al progredire del modo di produzione sorto insieme ad esso e sotto di esso. L'accentramento dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro arrivano ad un punto in cui entrano in contraddizione col loro rivestimento capitalistico. Ed esso viene infranto. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori divengono espropriati. (…) La produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la propria negazione. E' la negazione della negazione” (5)
Il contrasto fra crescente centralizzazione della produzione e proprietà capitalista altro non è che la forma specifica che assume il contrasto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione che per Marx è la molla della evoluzione storica. E la classe operaia, il cui impoverimento e le cui dimensioni sono accentuate al massimo dai processi di concentrazione, è la forza sociale destinata a risolvere questo contrasto. Non è un caso che, al termine della sua profezia, Marx riesumi la hegeliana “negazione delle negazione”. La sua è, hegelianamente, una storia a soggetto.
Deve concludersi con la riunificazione di ciò che la alienazione capitalista ha diviso.

La profezia e la storia

Marx afferma alcune cose difficilmente contestabili, coglie tendenze reali dell'evoluzione economica, tuttavia la sua analisi è viziata da alcuni errori di fondo. Faccio solo un telegrafico accenno ad uno di questi prima di passare al punto qui più importante. Marx è spinto quasi inavvertitamente a considerare “sociale” solo ciò che è frutto di una scelta collettiva intenzionale. La centralizzazione accentua il carattere sociale dell'economia, afferma a più riprese, come se i rapporti di mercato non fossero rapporti sociali e non fosse un fatto eminentemente sociale la concorrenza. Marx incorre in quella che Von Hayek definisce la superstizione del costruttivismo: solo le organizzazioni coscientemente create per conseguire determinati fini sono strutture sociali. L'ordine spontaneo non sarebbe invece qualcosa di sociale. Eppure non solo il mercato, ma anche fenomeni eminentemente sociali come il linguaggio e un certo numero di regole di condotta sono in larga misura misura prodotti da quest'ordine.

Torniamo al discorso sulla centralizzazione economica. Marx coglie in questa, val la pena di ripeterlo, un tendenza reale dell'economia di mercato, in un certo senso si dimostra addirittura profetico: oggi più che ai tempi di Marx è semplicemente impossibile negare la rilevanza del gigantismo economico. Tuttavia l'analisi di Marx è viziata, dall'inizio alla fine, da un grave difetto: l'unilinearismo estrapolazionista. Marx analizza una tendenza reale della società a lui contemporanea, ma sottovaluta, quando non ignora completamente, le tendenze diverse, a volte addirittura opposte, che pure esistono; non se ne cura neppure quando queste tendenze diverse sono alimentate dalla stessa tendenza oggetto della sua analisi. Lo sviluppo della grande industria dà vita all'indotto ed in questo prosperano moltissime medie e piccole, a volte piccolissime, imprese. Lo sviluppo capitalistico incrementa la produttività del lavoro, Marx lo riconosce senza esitazioni, ma questa favorisce sia la crescita dei salari reali che la riduzione dell'orario di lavoro, qualcosa di ben lontano dal pauperismo profetizzato da Marx. Lo sviluppo del commercio internazionale ben lungi dal decretare la fine degli stati nazionali li spinge a cercare in questo una posizione di forza o di prestigio. Marx non si cura troppo di queste controtendenze o le riduce a semplici epifenomeni della produzione e dello sfruttamento capitalistici. Soprattutto, non le ritiene in grado di ostacolare seriamente la marcia del modo di produzione capitalistico verso la propria autodistruzione. Estrapola da alcune tendenze reali le loro conseguenze senza curarsi troppo del gioco estremamente complesso di tendenze e contro tendenze.

La storia doveva dargli clamorosamente torto. Nel 1899 Eduard Bernstein, esponente di prestigio della seconda internazionale, pubblicò “
i presupposti del socialismo ed i compiti della socialdemocrazia”, in cui sottoponeva a critica radicale l'intera previsione marxiana. La centralizzazione capitalistica, che pure esisteva, non distruggeva la piccola e media impresa, né marginalizzava il ceto medio. Non era in atto un processo di impoverimento globale della classe operaia. Gli stati nazionali conservavano la loro importanza. Lo sviluppo della democrazia permetteva l'integrazione della classe operaia in una libera società pluralista. Si trattava di una revisione radicale delle fondamenta stesse del marxismo rivoluzionario, revisione che provocò una valanga di polemiche roventi. Berntein venne accusato di essere un “traditore” del socialismo ed in effetti, in un certo senso, lo era. Ma nelle linee generali la sua critica era corretta. La componente non rivoluzionaria del movimento operaio finì dopo un lungo travaglio con l'accettare le tesi fondamentali di Bernstein. Non solo, a veder bene le cose, le tesi di Bernstein vennero, in un certo senso, accettate dalla stessa componente rivoluzionaria leninista. Questa infatti si concentrò non tanto sull'analisi delle tendenze del sistema capitalistico, quanto sul ruolo che in queste doveva giocare la volontà rivoluzionaria. Oggettivamente il capitalismo non va, forse, verso l'autodistruzione, ma un partito ferreamente organizzato, capace di sfruttare la “buona occasione”, può comunque forzare la storia e condurre la società verso la realizzazione dell'ideale. La forzatura fu fatta, con i tragici risultati che tutti conoscono.

Tendenze e controtendenze economiche

Quando si parla delle tendenze di lungo periodo dell'economia di mercato si commette spesso errore abbastanza grossolano. Si considera la concorrenza come una sorta di guerra di tutti contro tutti che ogni impresa combatte senza esclusione di colpi cercando di espellere tutte le altre dal mercato o di assorbirle. Questa però è una semplificazione sostanzialmente errata. La concorrenza è lotta ma è anche cooperazione. L'impresa A è concorrente di B ma può anche essere sua fornitrice o sua cliente. Anche se producono più o meno lo stesso tipo di merci A e B non sono necessariamente in guerra. A può rivolgersi ad un segmento di clientela che a B non interessa o interessa meno. Nel centro di ogni grande città si possono trovare, a pochi metri di distanza l'uno dall'altro, il ristorante raffinatissimo, la tavola calda e la paninoteca. Tutti operano nel settore della ristorazione ma la concorrenza fra loro non è una guerra. Offrono i loro servizi a persone diverse o anche alle stesse persone, ma per soddisfare loro esigenze diverse: una cena raffinata o il panino nell'intervallo pasto, ad esempio. O mirano a soddisfare le stesse esigenze delle stesse persone in maniera diversa: Mc Donald, tavola calda, e paninoteca mirano tutti a ristorare i lavoratori nell'intervallo pasto, ma ognuno lo fa a modo suo, conquistando una propria fetta di mercato. Più si diffonde, anche in seguito ai processi di concentrazione industriale, il benessere più aumenta questa possibilità di conquistare nicchie di mercato che permettono ad imprese di piccole, spesso piccolissime dimensioni di vivere e a volte prosperare. L'esclusione dal mercato delle imprese meno competitive è sicuramente una tendenza dell'economia capitalistica, ma non è l'unica e non riguarda tutte le imprese. Né riguarda solo le piccole imprese. Si può essere piccoli ma competitivi se si è in grado di fornire merci e servizi di buona qualità a prezzi convenienti non a tutti, ma determinati target di clientela. Allo stesso modo si può essere grandi e niente affatto competitivi, se i vantaggi delle economie di scala vengono annullati da elefantiasi burocratica, con relativa incapacità di adeguare le politiche industriali alle sempre mutevoli esigenze del mercato. Alle sinergie delle grandi imprese le piccole possono contrapporre la conoscenza delle realtà locali in cui sono inserite. Una banca di dimensioni regionali come la Carige non poteva certo competere col San Paolo sul piano nazionale ed internazionale, ma la sua conoscenza e presenza capillare del mercato ligure le permetteva di resistere, livello regionale, a qualsiasi sfida concorrenziale. Questo fino a che una dirigenza mediocre, incantata dalle sirene che predicavano continui ampliamenti dimensionali, non la ha fatta entrare in crisi.
Né bisogna commettere l'errore di considerare le piccole imprese sempre impegnate in una lotta mortale, e necessariamente perdente, contro le grandi. I processi di concentrazione e di gigantismo industriale hanno come conseguenza, lo si è già detto, lo sviluppo dell'indotto e nell'indotto crescono moltissime imprese di medie e piccole dimensioni. Avviene qualcosa di simile anche nella rete. Il suo sviluppo favorisce al massimo la concentrazione dell'economia: i giganti del web hanno dimensioni mondiali e la loro potenza pone problemi non piccoli che i governi dovranno decidersi, prima o poi, ad affrontare. Ma la rete favorisce nel contempo lo sviluppo di molte attività autonome, di piccole, a volte piccolissime dimensioni. Di nuovo, le tendenze non sono univoche. Ciò che da un lato spinge verso il gigantismo favorisce dall'altro non solo la sopravvivenza, ma la proliferazione di piccole imprese.

Diamo una telegrafica occhiata alle statistiche. Nel 2016 in Italia esistevano 8,2 milioni di partite IVA, di cui 6,2 attive, 3,9 milioni riguardano persone fisiche. Sempre in Italia le imprese, comprese quelle individuali, hanno in media 4 dipendenti l'una ed esistono 66 imprese ogni 1.000 abitanti. Secondo dati della commissione europea nel 2020 le PMI in Italia ammontano a 148.531. Di queste, 123.495 sono piccole imprese e 25.036 sono medie aziende. Convenzionalmente si definisce micro impresa quella con meno di 10 addetti, è piccola quella che ne ha meno di 50 e media quella che non supera i 250.
Negli Stati Uniti, secondo un’interessante ricostruzione compiuta da AFME-Finance for Europe e da Boston Consulting le piccole e medie imprese sono 28 milioni, sei milioni più che in Europa, ed esprimono il 49 per cento dell’occupazione e il 46 per cento del valore aggiunto.
Non voglio dare soverchia importanza questi numeri, tutti facilmente controllabili in rete. So bene che se debitamente torturati i numeri possono dirci tutto ciò che vogliamo e so anche che una cosa sono i numeri relativi a piccole, medie e grandi imprese, altra cosa il loro potere economico e politico. Ma, appunto, di potere politico ed economico si tratta, non di inevitabile espulsione della piccola e media impresa dal mercato. Oggi come ai tempi di Bernstein le piccole e medie imprese mantengono posizioni chiave in tutte le economie di mercato. I grandi processi di concentrazione ed internazionalizzazione influiscono sul ruolo e l'importanza delle imprese di medie e piccole dimensioni senza tuttavia distruggerle. La tendenza alla grande concentrazione esiste, ma la previsione marxiana secondo cui questa avrebbe segnato la campana a morto delle piccole e medie imprese si è dimostrata clamorosamente errata.

Fine degli stati nazionali?

La tendenza alla internazionalizzazione delle economia esisteva già ai tempi di Marx ed è quanto mai forte e vitale ai nostri giorni. Non si tratta solo di commercio internazionale, ma anche di movimenti di capitali, spostamenti di cifre da capogiro da un'area del mondo all'altra. Negare l'importanza di simili tendenze è impossibile, e, prima ancora, profondamente stupido. La domanda non riguarda l'esistenza e l'importanza di tendenze che sono sotto gli occhi di tutti. Queste tendenze portano ad una progressiva marginalizzazione, se non addirittura alla scomparsa degli stati nazionali? Questa è la domanda corretta che dobbiamo porci. Lo stato nazionale è destinato a sparire, travolto dalla globalizzazione o, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad fenomeni complessi, all'intrecciarsi di tendenze e controtendenze che rendono il quadro assai più articolato di quanto potrebbe sembrare a prima vista?

Ai sostenitori del mondialismo piace presentarsi come coloro che “seguono la ruota della storia”. Chi considera ancora importanti gli stati nazionali, quindi ritiene non superati confini e frontiere, viene guardato con una certa aria di commiserazione. Anche quando, generosamente, non lo si definisce “razzista” lo si compatisce. Si tratta di una persona con lo sguardo rivolto all'indietro, nel migliore dei casi di un romantico incapace di stare al passo coi tempi.
E' quanto meno assai dubbio che esista una “ruota della storia”. Nella storia agiscono tendenze che è possibile favorire o contrastare, cosa ben diversa dall'inarrestabile, fatale procedere di presunte “ruote”. Specificato questo val la pena di chiedersi: è davvero scontato che simili tendenze marcino nel senso della abolizione di stati, confini e frontiere? La risposta è molto semplice:
NO.
I grandi imperi sono una caratteristica dei epoche passate più che dei tempi presenti. La storia antica è in larga misura storia di formazione e dissoluzione di imperi e forse non è un caso che i livelli di più elevato sviluppo culturale raggiunti nell'antichità riguardino la polis greca, non gli imperi persiano o macedone o lo stesso, pur assai civile, impero romano.
Il ventesimo secolo è stato caratterizzato dal crollo dell'impero austro ungarico prima, poi dal crollo degli imperi coloniali inglese e francese, infine dal crollo rovinoso dell'ultimo impero: quello comunista. Ed i crolli di questi imperi hanno tutti dato vita ad un gran numero di stati nazionali.
Oggi esistono nel mondo ben 208 stati nazionali, di cui 196 riconosciuti internazionalmente. Erano molto meno all'inizio del ventesimo secolo. In 30 anni circa, dal 1990 ad oggi, sono sorti 32 nuovi stati nazionali, più o meno uno all'anno. Forse lo stato nazionale è destinato a sparire, ma ad oggi questa sparizione sembra assai lontana. Più che sparire, gli stati a dimensione nazionale tendono a moltiplicarsi.

I processi di globalizzazione esistono, sono fortissimi e sono anche, in una certa misura, positivi. Il commercio esiste da quando esiste la divisione del lavoro, cioè da tempo immemorabile. Gli scambi internazionali e gli stessi movimenti internazionali di capitali esistono da quando esistono nazioni e stati. Negare simili fenomeni o cercare di sminuirne l'importanza è semplicemente stupido. Questi processi però, ben lungi dal distruggere i sentimenti di appartenenza nazionale dei vari popoli li hanno accentuati.
“L'impulso alla integrazione del mondo è reale” scrive Samuel Huntington nel celeberrimo
Lo scontro delle civiltà, “ed è esattamente questo che genera resistenza ai distinguo culturali e a una maggiore presa di coscienza della propria civiltà di appartenenza”. (6)
I popoli inseriti nel vortice della globalizzazione non intendono tanto ritagliarsi impossibili isole autarchiche quanto affermare, dentro questo vortice, il valore della propria identità. Questa, oltre che nazionale, tende ad essere culturale. Le identità nazionali, pur restando tali, tendono a raggrupparsi secondo linee culturali.
“Gli stati nazionali sono e resteranno i protagonisti della politica internazionale, ma i loro interessi, legami e conflitti vengono determinati in misura sempre maggiore da fattori inerenti alla loro cultura e civiltà di appartenenza”. (7) Globalizzazione da un lato e riscoperta dall'altro del valore delle proprie identità, sia più ristrette, nazioni, che più larghe, civiltà. Un processo ben più articolato e complesso di quello immaginato da molti.
Il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda avevano invece determinato in molti l'illusione di una unificazione liberal democratica del globo, spinta dal vento della globalizzazione. Il libro di un nippo americano: Francis Fukuiama: “
la fine della storia e l'ultimo uomo” aveva espresso in termini teoricamente dignitosi questa speranza. Che però doveva rivelarsi una mera illusione: “il modello di un unico mondo armonioso appare palesemente troppo distante dalla realtà per poter fungere da utile guida del mondo post guerra fredda” (8). E' difficile non condividere questo giudizio di Huntington.
Val la pena di aggiungere che la profezia di Fukuyama non solo si sarebbe rivelata illusoria, ma avrebbe subito una sorta di degenerazione interna. Il mondo preconizzato dal saggista nippo americano non era  brutto: si trattava di un mondo unificato che conservava però, nell'unificazione, alcune delle sue particolarità positive. Il mondialismo politicamente corretto doveva però trasformare l'utopia di Fukluyama nella distopia di un mondo privo di differenze. Una enorme area grigia senza confini e nazioni, culture e civiltà, senza sessi e senza storia. Il mondo di quello che oggi molti definiscono “il grande reset”.

Destino, complotto o scelte politiche?

Il grande reset è scritto a lettere cubitali nel libro del destino? Molti lo pensano. Il nostro futuro è segnato, andiamo verso il “capitalismo di relazione” o l'ibrido comunista capitalista. Il mondo sarà dominato da alcune enormi concentrazioni economiche, alleate col potere politico. La piccola e media impresa non hanno futuro, il ceto medio è destinato a contrarsi e a perdere rilevanza. Gli stati nazionali saranno marginalizzati, i confini perderanno senso. Gli spostamenti di popolazioni da un paese e da un continente all'altro diventeranno la norma ancor più di quanto già oggi non siano. Chi cerca di opporsi a tutto questo è un “sovranista razzista” o, nella migliore delle ipotesi, uno stupido che non capisce il corso ed il senso della storia.
In realtà le cose
NON stanno così. Certo, esistono forti tendenze che vanno in questo senso, ma non sono le uniche né sono fatalmente destinate ad affermarsi. E non sono neppure tanto generalizzate quanto i loro entusiasti sostenitori cercano di far credere. La fine di confini e frontiere ad esempio, riguarda solo gli stati occidentali, come solo la cultura occidentale è fatta oggetto di continui attacchi nichilistici. La marginalizzazione degli stati nazionali dal canto suo non colpisce nella stessa misura tutti gli stati. Riguarda l'Italia o la Grecia, molto meno gli USA o la Germania, non riguarda affatto la Cina.
Esistono forti tendenze verso il “grande reset”, ma non si tratta del fatale e generalizzato procedere di una presunta “ruota della storia”. Se il mondo sembra muoversi verso il “modello cinese” o “capitalismo di relazione” questo avviene
non per destino ma per determinate, e non obbligate, scelte politiche.
Ci tengo a sottolinearlo con la massima chiarezza:
si tratta di scelte politiche, non di complotti. I grandi flussi migratori, la centralizzazione e globalizzazione delle economie, il diffondersi in occidente di mode culturali nichiliste non sono una invenzione di un pugno di avidi finanzieri: si tratta di tendenze oggettive che riguardano decine, centinaia di milioni di esseri umani. Non sono però né le uniche né sempre e necessariamente in radicale contrasto con altre, pure assai forti, né, meno che mai, fatalmente destinate ad affermarsi. I governi intervengono sulle tendenze in atto privilegiandone alcune a scapito di altre, favorendo determinate forze sociali, politiche e culturali ed ostacolandone, spesso con mezzi ignobili, altre. E lo fanno in maniera differenziata, scontrandosi ognuno con ostacoli e difficoltà. Negli USA i mondialisti si sono dovuti sorbire quattro anni di presidenza Trump, un incubo per loro, poi sono riusciti ad impedire la rielezione del “mostro” solo grazie ai brogli, rischiando di una acutizzazione senza precedenti dello scontro politico e sociale.
Nella vecchia Europa i fanatici della UE hanno alla fine dovuto accettare la brexit, in Italia questi stessi fanatici vanno avanti a tentoni, imponendo al popolo governi che suscitano la nausea di un numero sempre crescente di persone, i paesi dell'est, dal canto loro, non hanno la minima intenzione di aprirsi ai “migranti”.

Dietro al reset non ci sono complotti né destini, solo scelte politiche. Scelte politiche talmente impopolari che spesso chi le sostiene deve, per cercare di farle digerire a recalcitranti opinioni pubbliche, fare un uso sfacciato di vere o presunte emergenze.
Le fondamentali sono ad oggi due, una autentica ed una in larga misura fasulla. Si tratta, è chiaro, della pandemia Covid e dei “mutamenti climatici”.
Il Covid esiste e rappresenta una minaccia grave per tutti noi, però è molto evidente che molti cercano di usarlo per spingere il mondo in una certa direzione. Grazie al Covid la Cina, da cui tutto ha avuto origine, sta diventando la prima potenza economica del mondo. In occidente il covid diventa pretesto per chiedere più centralizzazione, più cessioni di sovranità dagli stati nazionali a grandi organizzazioni burocratiche sovranazionali. Queste, lo si è visto benissimo nel corso della pandemia, non sono affatto più efficienti nella lotta alla malattia. Che la centralizzazione significhi sempre e comunque più efficienza è solo un mito, la tragica esperienza del comunismo sta lì a dimostrarlo. Ma questo interessa poco ai fanatici del mondialismo.
I mutamenti climatici di origine antropica sono invece una emergenza fasulla. Certo, esiste ed è giustamente sentita da molti l'esigenza di salvaguardare l'ambiente dagli affetti a volte distruttivi delle attività umane, ma nessuno oggi pensa
davvero che fra otto o nove anni ci sarà la fine del mondo, come profetizzato dalla piccola Greta; probabilmente nessuno si accorgerebbe della “emergenza” climatica se non fosse per la propaganda continua, martellante dei media. I mutamenti climatici ovviamente esistono, sono sempre esistiti, probabilmente le attività umane hanno contribuito negli ultimi due secoli ad aggravarli, anche se in misura limitata, ma tutto questo dista anni luce dall'allarmismo isterico che sui mutamenti climatici è stato innestato. E su cui giocano i sostenitori del mondialismo. Le attività umane portano alla fine del mondo, quindi bisogna lottare centralmente contro i mutamenti climatici di origine antropica, occorre che a decidere non siano i parlamenti degli stati nazionali, eletti dai popoli, ma la commissione europea, L'ONU, o qualche organismo mondiale posto a difesa del clima (come se il clima potesse essere “difeso” da quattro burocrati). La strada è sempre quella.

Non è il caso di rendere ancora più lungo uno scritto certo non breve. Il grande reset non è né un complotto né un destino che dovremo obbligatoriamente subire. Si tratta della risultante, ancora in divenire, di scelte politiche volte a favorire certe tendenze a scapito di altre, a far diventare uniche tendenze che invece avanzano spesso strettamente intrecciate ad altre.

Contrapporre ai processi di concentrazione, digitalizzazione ed internazionalizzazione delle economie chiusure autarchiche o l'ideologia della “decrescita felice” è una idiozia criminosa. Ma è altrettanto idiota e criminoso ignorare o sottovalutare i pericoli di cui è gravida la distopia mondialista politicamente corretta. Tanto più che, paradosso dei paradossi, le due distopie, quella della decrescita e quella mondialista, sono spesso sostenute dalle stesse persone.
Ad essere centrale in questa fase è la capacità di governare i processi in atto, in tutta la loro complessità. Oggi torna ad essere centrale la politica. Intesa intesa in senso nobile, al di fuori degli spettacoli degradanti cui questa ci sta abituando. Dentro e fuori dall'Italia.