giovedì 24 novembre 2016

GLI ANGELI E I DEMONI

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Esiste ed è abbastanza diffusa una concezione secondo cui l’uomo è un animale essenzialmente ed interamente storico-sociale. Il problema della natura umana, di cosa sia l’uomo sarebbe da questo punto di vista un falso problema. L’uomo si risolve integralmente nella storia e nella società. Non esiste l’uomo, esistono il russo e l'inglese, il borghese o il proletario. L’uomo è l’espressione dell’ambiente storico sociale che lo ha prodotto, si esca da questo e restano solo vuote astrazioni.
Chi si oppone a questa concezione rischia a sua volta di cadere in forme inaccettabili di naturalismo. Allo storicismo ed al contestualismo vengono opposte forme altrettanto dogmatiche di determinismo genetico.
In realtà chi rifiuta la concezione secondo cui tutto è cultura e società non sostiene necessariamente che tutto sia determinato dal patrimonio genetico. Cos’è l’uomo, cosa la natura umana è un problema che non può essere risolto molto facilmente, è un tipico problema aperto, a cui possono darsi risposte sempre nuove che hanno però la particolarità di non smentire mai totalmente le risposte vecchie. Oggi nessuno sosterrebbe che la definizione aristotelica di uomo come “animale razionale” esaurisca tutte le caratteristiche della natura umana, questo però non elimina il fondamentale frammento di verità che è contenuto in quella definizione.
Per Aristotele l’uomo è un animale razionale, per Agostino un essere decaduto cui però la grazia divina può permettere il riscatto, per Pascal è una canna, ma una canna che pensa, per Kant un essere capace di autodeterminarsi, per molti genetisti la natura umana si risolve (quasi?) interamente nel patrimonio genetico (e questo non conduce necessariamente al determinismo). E’ difficile trovare una risposta definitiva ed esaustiva al problema, nessuna definizione, per quanto elaborata può riassumere in una formula ciò che noi siamo.
Chi dice che non tutto nell’uomo è cultura, che non siamo determinati dal quadro socio culturale in cui viviamo non sostiene quindi una particolare concezione della natura umana. Non sostiene ad esempio, o almeno non sostiene necessariamente, che tutto in noi sia patrimonio genetico (potrebbe anche essere così del resto), né che la natura umana sia “immutabile”. Sostiene una cosa del tutto diversa: quale che sia la natura umana essa non è riconducibile in toto all’ambiente sociale, alla storia, alla cultura. Se così fosse resterebbe inesplicabile il fatto che l’uomo è capace di costruire ambienti sociali, fa la storia oltre ad esserne influenzato, crea le culture che poi lo condizionano. La natura umana è quel residuo che fa dell’uomo qualcosa di diverso dall'italiano e dal cinese, dal borghese e dal proletario, dal maschio e dalla femmina, dal nero e dal bianco. E’ il nostro essere genericamente membri del genere umano, persone, individui. Solo un residuo quindi, un “piccolo” residuo? Si, ma di immensa importanza.

Bisogna riconoscerlo francamente: molti aspetti della nostra natura sono francamente spaventosi. Unico animale in grado di elaborare i concetti di bene e di male l’uomo è capace di forme mostruose di violenza. Per fortuna è anche capace di reagire ad essa, di cercare quanto meno di circoscriverla. Da sempre c’è chi si è posto il problema di come controllare, ridurre ed infine bandire totalmente la violenza dalle relazioni umane. Su questo argomento ci sono state, com’è ovvio, una miriade di diverse prese di posizione che è assai difficile ridurre a comuni denominatori, tuttavia, pur tenendo conto di tutte le differenze possono individuarsi due principali filoni di pensiero cui molti altri sono riconducibili.
Il primo potremmo definirlo “riformista”. Occorre cercare di controllare la violenza favorendo lo sviluppo delle libertà individuali, della democrazia politica, del benessere e della cultura e intervenendo efficacemente contro il crimine quando questo si manifesta. Questa concezione mira a ridurre e a controllare la violenza, non ad eliminarla. Non si propone la costruzione di una società in cui la violenza non possa in alcun modo manifestarsi ma mira a gestire l’imperfezione, non vuole rifondare la natura umana ma solo controllarne e cercare di neutralizzarne gli aspetti distruttivi. Si tratta, com’è evidente, di una concezione liberale o socialdemocratica. In questa la perfezione può essere oggetto di speranza, non di programma politico.
Possiamo invece definire “rivoluzionario” un secondo filone di pensiero. Secondo questo non basta controllare la violenza, bisogna estirparla. In una società davvero “buona” la violenza non può neppure manifestarsi, è, letteralmente “impossibile”. Un obiettivo così radicale può essere raggiunto solo se con la società cambia in maniera totale la natura umana. Una società ed un tipo umano del tutto nuovi devono sostituire quelli vecchi. La concezione riformista, tutta centrata sul contenimento della violenza, non solo non risolve i problemi ma diventa di fatto il puntello di una società decadente. Cerca di correggere i vizi del vecchio mondo prolungandone in questo modo l’esistenza.

Queste due diverse concezioni non riguardano, com’è ovvio solo il problema della violenza.
L’antitesi fra concezione riformista e concezione rivoluzionaria tocca tutte le problematiche umane, dai rapporti fra gli uomini, al rapporto uomo - natura. La società umana avrà sempre dei difetti o è possibile una società perfetta? Esisteranno sempre delle differenze ed anche dei contrasti di interessi, valori, aspirazioni fra gli esseri umani ed esisterà sempre di conseguenza la necessità della mediazione politica? Oppure tutti gli esseri umani finiranno per avere valori, fini, interessi ed aspirazioni comuni? La politica e con essa lo stato sono destinati a deperire o costituiscono una costante delle società umane? Sarà sempre necessario il lavoro inteso come fatica, sforzo da compiere per ottenere dei benefici o l’unico lavoro che un giorno gli esseri umani faranno sarà il lavoro creativo, il lavoro-gioco, fine e non mezzo? E’ possibile la conciliazione fra uomo e natura o la natura serberà sempre delle insidie per l’uomo e, di converso, l’azione umana avrà sempre sulla natura un impatto almeno potenzialmente pericoloso? Insomma, avremo sempre dei problemi da risolvere, uno ad uno, con rigore ideale ma anche con una buona dose di realismo, oppure raggiungeremo un armonico equilibrio in cui tutte le nostre esigenze saranno soddisfatte una volta per sempre? Su tutti questi problemi la concezione riformista e quella rivoluzionaria divergono radicalmente. Il riformista si sforza di dare buone soluzioni ai problemi che via via si pongono; cerca di rendere meno duro il lavoro, di evitare il degrado ambientale, di costruire una buona politica, il rivoluzionario considera vani e alla lunga pericolosi simili sforzi.

La filosofia politica di Karl Marx rappresenta una delle più ampie e profonde, forse la più ampia e profonda manifestazione del secondo filone di pensiero.
Da buon seguace di Hegel Marx ha una concezione finalistica del divenire storico. La società di classe, soprattutto nella sua forma capitalistica, ha radicalmente corrotto la natura umana. L’uomo che vive nella società borghese moderna è un uomo alienato, un uomo che ha fuori e contro di se la sua umanità. Sia il borghese che l’operaio incarnano, da opposti punti di vista, la stessa umana alienazione. L’operaio è un uomo ridotto ad uno stato semi animale, con desideri e fini che non superano il livello della mera animalità, il borghese è il simbolo stesso della cupidigia e dello sfruttamento: pur sguazzando nell’abbondanza egli è ancora più meschino e miserabile dell’operaio che sfrutta. Ma l’operaio può, o meglio, deve rovesciare a società che lo opprime. Deve farlo perché la soddisfazione dei suoi bisogni di oggi, i bisogni di un essere alienato e miserabile, è incompatibile con il sistema capitalistico. Nelle rivendicazioni operaie non c’è nulla di realmente comunista: chiedere più salario o meno orario non modifica nella sostanza il meccanismo sociale fondato sulla compra vendita della forza lavoro. Ma il sistema non può reggere l’impatto delle lotte operaie, esso va incontro a crisi economiche sempre più gravi ed è per questo destinato a crollare. Il capitalismo sarà sostituito dal comunismo, alla fase della alienazione seguirà la fase della riunificazione. L’uomo ritroverà la sua umanità smarrita, natura umana e società subiranno la più radicale trasformazione di tutti i tempi. Nella accezione marxiana il comunismo è un rovesciamento totale di uomo, natura e società. Il comunismo non si identifica con lo stato giusto ma con la abolizione dello stato, non persegue una economia efficiente ma la fine dell’economia, non rivendica un lavoro ben retribuito ma la fine del lavoro inteso come strumento per procacciarsi da vivere, non vuole controllare e reprimere la violenza, vuole eliminarla, renderla impossibile. Col comunismo l’uomo esce dalla preistoria ed entra nella storia, diventa, per la prima volta, realmente ed integralmente umano.
Lasciamo la parola a Marx: “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo (…) questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera soluzione dell’antagonismo fra natura e uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa fra l’esistenza e l’essenza, (..) la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie, è la soluzione dell’enigma della storia” (1).
C’è poco da commentare: la storia giunge al suo termine rovesciandosi, l’uomo recupera la sua essenza diventando integralmente altro rispetto all’essere miserabile che è stato per millenni. Di fronte a tanta sfavillante bellezza la prospettiva riformista appare insipida, grigia, triste.

La concezione marxiana contiene (fra le altre) una contraddizione particolarmente grave, che la sua bellezza ipnotica può nascondere ma non cancellare. Se l’uomo è un essere meschino ed alienato come può rovesciare la società esistente? Marx risolve integralmente l’uomo nei rapporti sociali ma se in ogni epoca l’uomo è l’espressione dei rapporti sociali dominanti come può andare oltre questi rapporti? Come può l’uomo alienato ritrovare la sua essenza perduta se ha desideri, aspirazioni, valori da, appunto, alienato?
Alcuni marxisti del ‘900, Korsch in particolare, hanno cercato di risolvere a livello teorico la contraddizione di cui si è detto. Il marxismo non è un determinismo affermano costoro. L’uomo è condizionato dal quadro sociale ma lo modifica a sua volta con la sua azione e la sua volontà. In questo potevano trovare puntelli nella stessa opera di Marx che in varie occasioni aveva affermato che nella prassi rivoluzionaria la modificazione delle circostanze coincide con l’automodificazione delle coscienze.
La soluzione però era più apparente che reale. A parte il fatto che Marx ripete fino alla noia che è l'essere sociale a determinare la coscienza, a parte questo decisivo "particolare", è vero che l’uomo può modificare l’ambiente in cui vive e modificare in questo modo se stesso, ma la automodifica dell’uomo parte sempre e comunque dalla natura umana. L’uomo modifica se stesso a partire da quello che è, può cambiarsi ma non trascendersi, modificare questo o quell’aspetto, non la totalità della sua natura, può favorire certe pulsioni e controllarne altre, può imporsi regole di condotta, ma non può uscire da sé stesso, diventare totalmente ed integralmente nuovo. Considerazioni simili possono essere fatte se si considerano la natura extraumana e la società. L’uomo può cambiare il mondo che lo circonda ma può farlo solo se conosce e rispetta le leggi fondamentali che presiedono al suo funzionamento. Si può cambiare una parte del mondo facendo leva sull’altra e questo per il semplice fatto che noi siamo nel mondo, ne siamo parte. E lo stesso vale per la società, per la politica e l’economia. Si cambia la società sempre a partire da esigenze, valori, interessi che sono nati e che vivono nella società che si vuole cambiare, si può aumentare il benessere solo se non si violentano le leggi economiche fondamentali, si modificano i rapporti di forza politici sempre a partire da una situazione politica. Il nuovo parte sempre dal vecchio ed è condizionato dal vecchio nel suo essere nuovo. L’assolutamente nuovo, il rovesciamento radicale non sono possibili, almeno, non sono possibili in positivo. La storia può fare passi avanti o tornare indietro, può conoscere accelerazioni o periodi di stasi, non può rovesciarsi, uscire da se stessa. L’innovazione radicale non conduce a nulla che non sia la distruzione.
 
In realtà la soluzione prospettata da Korsch non è tanto quella di una interazione fra circostanze e coscienze considerata ognuna nella propria autonomia: A e B hanno ognuno la loro autonomia e si influenzano a vicenda. Una simile concezione è del tutto compatibile col riformismo. La soluzione di Korsch si basa sulla hegeliana identità di soggetto ed oggetto: la coscienza operaia è oggettivamente subalterna perché la classe operaia è oggetto dello sfruttamento capitalistico ed in quanto tale fa sua la ideologia della classe dominante. Nello stesso tempo però la classe operaia è soggetto rivoluzionario e in quanto tale rifiuta e mette in crisi il sistema borghese. In quanto radicata nell'oggetto la rivoluzione perde ogni carattere utopico, in quanto radicata nel soggetto rivoluzionario si scioglie non solo da ogni determinismo, ma anche da ogni condizionamento sociale. Peccato che in questo modo il principio di non contraddizione vada a farsi benedire e tutto il discorso precipiti nel non senso.
L’andamento delle lotte operaie dal canto suo, ben lungi dal confermare le astruserie della dialettica ha finito per mettere in crisi la visione marxista del divenire storico. Ben lungi dal far collassare il sistema le rivendicazioni dei lavoratori sono state gradualmente assorbite nel sistema. Lo sviluppo della democrazia politica invece di aprire nuove aree di crisi ha favorito l’integrazione di masse sempre più vaste di popolazione nel sistema finendo per stabilizzarlo. Invece di dimostrarsi una forza radicalmente eversiva la classe operaia ha dimostrato di essere interna al sistema, una forza sociale i cui orizzonti non superano la concezione riformista. La speranza marxiana che nella lotta per soddisfare i suoi bisogni di oggi (bisogni alienati di uomini da alienati) la classe operaia mettesse in crisi verticale il “sistema” si è rivelata illusoria.

Prima di Marx la contraddizione di cui si è parlato era stata affrontata da Rousseau.
Per Rousseau l’uomo è un essere profondamente corrotto dalla civiltà. Il contratto sociale è il punto di partenza della sua redenzione. Stipulando il contratto sociale l’uomo cede tutta intera la sua libertà al collettivo in cui entra a far parte ma facendo questo resta interamente libero: cedendo il suo potere a tutti egli in realtà non lo cede a nessuno. La volontà generale che ora regola la sua vita non è altro che la sua volontà, obbedendo alla volontà generale ognuno obbedisce solo a se stesso. L’ingresso dell’uomo nella nuova comunità modifica nel profondo al sua natura. L’egoismo, la vana ambizione, l’amor proprio scompaiono e vengono esaltati al massimo gli elementi altruistici e comunitari della natura umana. L'amor proprio scompare, subentra la virtù civica.
Ma anche il ginevrino deve fare i conti con un problema simile a quello che Marx dovrà affrontare dopo di lui. Se l’uomo è corrotto dalla civiltà perché mai dovrebbe stipulare il contratto? Se è incapace di vedere il suo “vero” bene come può entrare in un collettivo che contrasta quelli che non sono “davvero” i suoi interessi ma che gli sembrano tali?
“Perché un popolo al suo nascere potesse capire le grandi massime della giustizia (…) bisognerebbe che l’effetto potesse divenire causa, che lo spirito sociale che deve essere il frutto dell’istituzione presiedesse all’istituzione stessa e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono diventare per opera loro” (2) afferma Rousseau nel “contratto sociale”. Il discorso è chiarissimo: il contratto redime l’uomo ma per stipulare il contratto l’uomo dovrebbe essere già redento.

Rousseau cerca di risolvere la contraddizione introducendo la figura del “legislatore”. Il legislatore è un uomo eccezionale che impone al suo popolo quelle leggi grazie alle quali tutti cambieranno la loro natura: “chi affronta l’impresa di dare istituzioni ad un popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere” (3). Il legislatore che compie questa titanica impresa è “un intelletto superiore che conosce tutte le passioni degli uomini senza provarne nessuna, che non ha alcun rapporto con la nostra natura e che la conosce a fondo” (4), insomma, una sorta di semidio.
Non bisogna credere che il legislatore usi la violenza in questa opera di trasformazione radicale dell’uomo: “Il legislatore, non potendosi servire né della forza né del ragionamento deve ricorrere ad un’autorità d’altro ordine che possa trascinare senza violenza e persuadere senza convincere. Ecco ciò che convinse in tutti i tempi i padri delle nazioni a ricorrere all’intervento celeste perché i popoli (..) obbedissero liberamente e portassero docilmente il giogo della felicità pubblica”. (5)
Il legislatore attribuisce a Dio ciò che è opera sua, fa apparire come prescrizioni divine quelle leggi che sono necessarie alla redenzione dell’uomo e spinge in questo modo gli esseri umani laddove non sarebbero mai andati spontaneamente. La figura del legislatore introduce una cesura radicale nel corso storico. Questo non va spontaneamente verso la sua meta redentrice, occorre la volontà di un uomo superiore, una sorta di semidio che è in effetti creduto tale dalle masse, per forzare il corso storico e portare gli esseri umani alla salvezza. Naturalmente la soluzione di Rousseau è del tutto illusoria. A livello pratico la contraddizione fra natura umana corrotta ed esigenza del suo rovesciamento sarà “risolta” non dalla “persuasione senza convinzione” ma dalla lama affilata della ghigliottina. A livello di teoria politica Il ginevrino non può risolverla perché deve cercare fuori dall’uomo e dalla storia la soluzione di un problema umano e storico. Anche il legislatore è un uomo: questa sola constatazione mette in crisi tutta la costruzione di Rousseau. Essa però ha una importanza eccezionale e sarà foriera di sviluppi di estrema importanza; il più prossimo sarà, com’è noto, l’esperienza del giacobinismo e anche tramite questa esperienza il pensiero di Jean Jacques Rousseau avrà una grande influenza in alcuni momenti decisivi della storia contemporanea.

Vissuto parecchi anni dopo Marx, Lenin si rende conto che il corso storico non va nella direzione da questi auspicata ma, a differenza di una parte sempre crescente dei socialisti europei, non è affatto intenzionato a rinunciare al fine comunista.
In Lenin il partito rivoluzionario gioca il ruolo che Rousseau affida al legislatore. Il partito ha il compito di introdurre dall’esterno nella classe operaia quella coscienza comunista che da sola questa non è in grado di raggiungere. Formato da rivoluzionari di professione il partito deve preservare la purezza dell’idea rivoluzionaria da ogni contaminazione ideologica, educare le masse e soprattutto stare sempre vigile, sempre pronto a sfruttare l’occasione che possa consentirgli un colpo di mano. E l’occasione venne, come tutti sanno. Sfruttando le eccezionali circostanze causate dal primo conflitto mondiale il partito bolscevico, sebbene rappresentasse una minoranza non solo del popolo ma della stessa debole classe operai russa, fu capace di conquistare il potere e di mantenerlo. Soprattutto usò il potere per mettere in atto il suo programma, integralmente e senza sconti.

I lavoratori non vogliono il socialismo? Questo può venire loro imposto dalla avanguardia che conosce quale deve essere la “autentica” coscienza di classe. La maggioranza della popolazione russa è formata da contadini? I contadini sono legati all’ideologia borghese, non sognano altro che la proprietà di un  pezzo di terra. Dovranno essere condotti volenti o nolenti all’economia collettivizzata. I partiti non bolscevichi hanno la maggioranza dei consensi? Siano messi fuori legge. Nel partito bolscevico si formano correnti che possono metterne a rischio l’unità? Che siano abolite. Si iniziò con l’abolire la libertà per borghesi e poi si dovette restringere sempre più il cerchio, fino a concentrare un potere immenso nelle mani di un dittatore. Lo stato che doveva estinguersi divenne sempre più forte fino a diventare quasi onnipotente, i lavoratori vennero ridotti in uno stato di semischiavitù, la cultura irreggimentata in maniera mai vista prima nella storia, ogni autonomia di pensiero distrutta. La produzione si separò in maniera sempre più netta dalle esigenze dei consumatori. La natura umana dovette subire in effetti una torsione mai vista, l’uomo divenne la materia prima di un esperimento sociale di grandiosa ampiezza. L’individuo fu davvero, come auspicava Rousseau, inserito in un collettivo più grande, mostruosamente più grande di lui, da cui riceveva “l’essere e la vita”, ed anche, assai spesso, le deportazioni, la tortura, la morte.
Le dimensioni della “normale” violenza criminale si ridussero ovviamente nella Russia staliniana: come poteva esserci in una società simile una criminalità ”comune”? Ma si ampliò fino a diventare gigantesca la criminalità istituzionalizzata. Solzenicyn ci ricorda che il sistema dei gulag raggiunse dimensioni mostruose e arrivò ad ospitare contemporaneamente molte centinaia di migliaia, addirittura milioni di esseri umani. Lo storico sovietico Roy Medved, di certo non sospettabile di anticomunismo “viscerale”, calcola le vittime dello stalinismo in ventidue milioni di esseri umani, né queste sono le sole vittime del prometeico “assalto al cielo” tentato dai comunisti.

Ovunque l’esperienza comunista condusse agli stessi risultati. Per la Cina si calcolano vittime nell’ordine di settanta milioni di esseri umani uccisi dalle repressioni e dalle carestie provocate dalla politica agricola irresponsabile e disumana di Mao. Nel libro “Mao la storia sconosciuta” la scrittrice cinese Jung Chang (autrice del bellissimo romanzo “i cigni selvatici”) ed il marito Jon Halliday così descrivono l’esperienza del gran balzo in avanti, cioè del tentativo messo in atto da Mao fra il 1958 ed il 1962 di aumentare a tappe forzate la produzione industriale e di fare della Cina una super potenza militare (voglio ricordare che il libro è documentatissimo, di ogni cifra, di ogni fatto si cita la fonte. Al termine del volume ci sono 214 pagine di note e bibliografie, la sola bibliografia delle fonti ne occupa 64).
“Nell’estate del 1958 Mao concentrò di punto in bianco l’intera popolazione rurale in nuove unità allargate definite “comuni popolari”. Disse senza mezzi termini che la concentrazione dei contadini in un minor numero di unità – oltre 26.000 in tutta la Cina era più facile da controllare. (…). Le comuni erano de facto dei campi di lavoro forzato. (..) come nei campi di lavoro i reclusi erano obbligati a mangiare in mensa. (..) il controllo totale sul cibo conferì allo stato un’arma terrificante: negare i pasti divenne una forma comune di punizione “lieve” che i funzionari rurali esercitavano a piacimento” (6).
“I quadri dovevano controllare che i contadini non “rubassero” il loro stesso raccolto. Si infliggevano spesso punizioni orribili: alcuni furono sepolti vivi, altri strangolati (..) ad altri ancora fu tagliato il naso” (7)
Questa politica provocò una carestia senza precedenti, ovviamente: “A livello nazionale la carestia iniziò nel 1958 e terminò nel 1961, raggiungendo l’apice nel 1960. (..) Secondo un famoso sostenitore del regime, Hang Suyn, nel 1960 le casalinghe delle città assumevano al massimo 1200 calorie al giorno.” (8). Nel frattempo la Cina esportava derrate alimentari: “nel 1958 e 1959 le sole esportazioni di cereali che ammontarono quasi certamente a sette milioni di tonnellate avrebbero potuto fornire l’equivalente di oltre 840 calorie al giorno per 38 milioni di persone: la differenza fra la vita e la morte” (9). In breve, “nei quattro anni del gran balzo in avanti e della carestia morirono di fame e di lavoro circa 38 milioni di persone” (10) . Trentotto milioni in quattro anni, un bel record non c’è che dire.

La Cambogia di Pol Pot fu il paese in cui l’aspirazione al cambiamento totale della natura umana assunse le forme forse più sanguinarie e demenziali. Il denaro, il vile, corruttore “Dio denaro” fu abolito, le grandi città, covo di corruzione, evacuate, chi sapeva leggere e scrivere fu qualificato “intellettuale” e fucilato, la tecnologia “borghese” venne bandita e masse enormi di nuovi schiavi vennero mandate a coltivare i campi praticamente senza attrezzi, le famiglie vennero separate (la famiglia è una istituzione borghese...) la religione, la alienante religione, vietata, i templi buddisti distrutti, una preghiera era punita con la morte. La natura umana andava rifondata, l’uomo vecchio doveva sparire per far posto all’uomo nuovo, la vecchia cultura distrutta per far posto alla nuova, i vecchi rapporti fra padri e figli, marito e moglie, fratello e sorella distrutti per lasciar posto a nuovi e più elevati rapporti umani. Nel giro di pochissimi anni vennero fatti fuori in Cambogia, un piccolo paese con circa 12 milioni di abitanti, dai due ai tre milioni di esseri umani, quasi un quarto della popolazione. E oggi c'è chi definisce il "dramma dei migranti" la "più grande emergenza umanitaria del dopoguerra"...

Come si vede i comunisti non seguirono le raccomandazioni di Rousseau, non limitarono la loro violenza alle forme alquanto truffaldine che il ginevrino suggeriva. Andarono molto più a fondo nei loro intenti. Questo del resto era l’unico modo per metterli in atto, già i primi seguaci di Rousseau lo avevano capito. Nulla è casuale in questo processo mostruoso. Chi dice ad esempio che i crimini che si sono ricordati costituiscono un tradimento del comunismo dimostra di non aver capito nulla del fenomeno comunista. E’ stato precisamente il loro "alto" ideale a spingere i comunisti sulla strada senza ritorno del terrorismo di massa. Lo stato onnipotente è figlio dello stato che si “doveva estinguere”, la violenza di massa deriva direttamente dalla pretesa utopica di rendere impossibile ogni violenza. Certo, moltissimi comunisti divennero poi burocrati corrotti e privi di principi, satrapi miserabili interessati solo a meschini tornaconti personali. Al suo tramonto l’impero comunista era diventato assai più corrotto del più corrotto dei paesi capitalistici. Ma il sistema in cui questi satrapi, i demoni del comunismo, poterono prosperare e quella corruzione svilupparsi non avrebbe potuto nascere senza l’azione spirituale e materiale degli angeli, dello stesso: degli idealisti, dei rivoluzionari incorruttibili che volevano davvero, sinceramente, cambiare dalle fondamenta il mondo e l’uomo.
La costruzione dell’uomo nuovo non può farsi (non può nemmeno tentarsi) se non al prezzo della morte di milioni di uomini “vecchi”, la fine di ogni violenza, di ogni possibilità di violenza, implica necessariamente una violenza sconfinata che colpisce masse enormi di esseri umani. La natura e la società umana non possono essere rovesciate senza l’intervento di un mostruoso “legislatore” che tratta gli uomini come creta, o come spazzatura.
E, ovviamente, da tutto ciò non sorge alcuna figura umana davvero “nuova”. Sorgono solo sconfinate schiere di poveri esseri umani incarcerati, torturati, mutilati, privati, loro si davvero privati, della loro umanità. E montagne di cadaveri.









Note

1) K. Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 111

2) J.J. Rousseau: Il contratto sociale. Ne: I grandi filosofi: Rousseau. Edizioni del “sole 24 ore” 2006. pag. 268

3) Ibidem pag. 266

4) Ibidem pag. 266

5) Ibidem pag. 268 sottolineatura mia

6) Jung Chamg: Mao la storia sconosciuta. Longanesi 2001. pag. 511

7) Ibidem pag. 512

8) Ibidem pag. 515

9) Ibidem pag. 516

10) Ibidem pag. 515