sabato 1 marzo 2014

IL CANALE




Arcipelago gulag” di Aleksandr Solzenicyn. Qualcuno lo può trovare un’opera confusa: né saggio, né romanzo, né autobiografia, una sorta di "mistura" senza il rigore del saggio nè la bellezza estetica del romanzo.  Anche io leggendolo, tempo fa, ho avuto, sulle prime questa impressione. Ma si trattava, appunto, di una impressione, ed alquanto superficiale La grandezza di quest’opera sta proprio nel suo carattere anomalo. Quel continuo alternare ricordi della propria esperienza e narrazioni di esperienze altrui, prosa carica di umana partecipazione ed esposizione minuziosa, quasi fredda, di fatti, date, cifre fanno di “Arcipelago gulag” un capolavoro della letteratura di tutti i tempi, il gigantesco affresco di una esperienza fra le più tragiche della storia.

Vorrei ricordare uno fra i tanti eventi che Solzenicyn descrive con la sua prosa piana, colloquiale ed efficacissima. Nel 1931 Stalin ebbe una splendida idea: bisognava costruire un canale che collegasse il mar Bianco col mar Baltico e bisognava costruirlo alla svelta, molto alla svelta!
“Il canale deve essere costruito in un termine breve e costare poco! Questa è l’indicazione del compagno Stalin (..) Venti mesi! Questo fu il tempo dato dal grande duce (..): dal settembre 1931 all’aprile 1933. Non potè dar loro neppure due anni completi, tanta fretta aveva. Duecentoventisei chilometri. Terreno roccioso, pianure ingombre di massi; paludi, sette chiuse nella scala di Povenec, dodici sulla discesa verso il mar baltico”(1)
Sicuramente doveva trattarsi di un’opera di enorme importanza se c’era tanta fretta di costruirla potrebbe pensare un lettore un po’ ingenuo, ma le cose stavano diversamente. Il canale era tanto importante che non fu stanziato per la sua costruzione neppure un copeco! Come è possibile una cosa simile? E le macchine? Non costano forse le scavatrici, i treni che devono portare materiale ai cantieri, le gru? Non costa la mano d’opera? Non costano gli operai, i tecnici, gli ingegneri? Beata ingenuità! “Fate lavorare contemporaneamente centomila detenuti, quale capitale vi può rendere di più? (..) C’era davvero da inferocirsi contro gli ingegneri sabotatori. Faremo strutture di cemento armato dicono. I cekisti rispondono: non c’è tempo. Gli ingegneri dicono: occorre molto ferro. I cekisti: sostituitelo col legno. Gli ingegneri dicono: occorrono trattori, gru, macchine! I cekisti: non ci sarà nulla di tutto questo, non un copeco, fate tutto a braccia” (2). Un canale di duecentoventisei chilometri in un territorio gelato per oltre metà dell’anno costruito senza l’ausilio di macchine moderne, a braccia, usando picconi, pale e carriole. Costruito da quegli schiavi che erano i detenuti nei gulag: questo era il piano di Stalin, piano che venne puntualmente realizzato. “I detenuti arrivano, continuano ad arrivare nel luogo del canale” continua Solzenicyn "e non vi sono ancora baracche, vettovaglie, arnesi e nemmeno un piano preciso: che cosa si deve fare? (non ci sono baracche ma in compenso c’è un precoce autunno nordico) (..) abbiamo tanta fretta che gli ingegneri finalmente giunti sul posto non posseggono carta millimetrata, righelli, puntine da disegno (!) e neanche c’è luce nella baracca di lavoro” (3).

Le condizioni di lavoro sono atroci, ovviamente: “la norma è: spaccare due metri di roccia granitica e trasportarli con una carriola a distanza di cento metri, nevica, tutto viene ricoperto (..) Le carriole sbandavano sulle assi bagnate, si rovesciavano (..) una carriola richiede un’ora per essere caricata non diciamo di pietre ma anche solo di terra ghiacciata. (..) gli uomini si aggiravano inciampando nei sassi . A due, a tre si chinavano, abbracciavano un masso, tentavano di sollevarlo. Il masso non si muoveva, allora chiamavano un quarto, un quinto. Ma a questo punto interviene la tecnica del nostro secolo glorioso, i massi vengono tirati fuori dalla depressione in una rete attaccata ad una fune a sua volta azionata da un tamburo fatto ruotare da un cavallo” (4). Non ci sono neppure asce e seghe per abbattere gli alberi e procurarsi il legname che serve per il lavoro. Che fare? A tutto c’è rimedio: “Anche a questo riesce la nostra ingegnosità: si legano funi agli alberi e le brigate tirano alternativamente in direzioni opposte” (5).
In terre ghiacciate, con temperature polari decine di migliaia di "controrivoluzionari" si "redimono" contribuendo alla costruzione del socialismo! “Sta proprio in ciò la grandiosità della costruzione: si compie senza l’intervento della tecnica moderna e senza forniture dal paese! Non è il ritmo del decadente capitalismo europeo e americano. Sono ritmi socialisti” (6) tutto ciò che occorre viene fatto sul posto, dai detenuti che lavorano allegramente, in spirito di emulazione socialista. “No, non sarebbe giusto” prosegue Solzenicyn “confrontare questa pazzesca costruzione del XX secolo, un canale sul continente costruito con la piccozza ed il piccone, con le piramidi egiziane: Infatti per quelle si usò la tecnica del tempo. La nostra tecnica era infatti arretrata di quaranta secoli rispetto al tempo in cui vivevamo. Erano queste le nostre camere della morte. Ci mancava il gas per fare le camere a gas” (7).
"Ci mancava il gas per fare le camere a gas"! Stragismo tecnologicamente arretrato quello di Stalin, stragismo ecologico, a chilometro zero! Niente gas, niente macchine, niente attrezzi e inquinamento; solo gelo e sudore umano!
E come costringere tanta gente a lavorare in una simile  maniera? Con la più dura repressione contro gli “sfaticati sabotatori”, l’uso dei delinquenti comuni contro i “politici” e gli incitamenti all’emulazione socialista. Piccoli “privilegi” (ad esempio potersi riscaldare accanto ad un falò) come premio per il raggiungimento di obiettivi sempre più folli ed irrealistici. L’impresa ha costi umani atroci, ovviamente: “Dicono che nel primo inverno, dal 1931 al 1932, morirono in centomila” (8), afferma Solzenicyn, che valuta in un quarto di milione di vittime il costo umano complessivo di quest’opera folle. “Alla fine della giornata lavorativa sul cantiere rimangono dei cadaveri. La neve ricopre le loro facce. Qualcuno si è rannicchiato sotto una carriola capovolta, ha nascosto le mani in tasca ed è morto così. Là sono congelati in due, appoggiati uno alla schiena dell’altro (…) Di notte parte una slitta per raccattarli (..) d’estate si trovano le ossa dei cadaveri non raccolti per tempo.” (9)

Costi umani altissimi certo, ma, ma alla fine sarà pur rimasto qualcosa, una grande opera pubblica, un canale di enorme utilità per la patria del socialismo! No, neppure questo. Solgenicyn racconta di aver visitato il canale, tanti anni dopo, nell’era della cosiddetta destalinizzazione, e di averlo trovato incredibilmente deserto. “Quel giorno passai sul canale circa otto ore. Durante quel tempo un barcone navigò da Povenek a Soroka e un altro dello stesso tipo da Soroka a Povenek. (..) il carico era identico: tronchi di pino ammuffiti buoni solo come legna da ardere” (10)
Il canale era troppo poco profondo, non più di cinque metri e costruito malissimo, neppure i sommergibili, che pescano pochissimo potevano attraversarlo, insomma: un’opera praticamente inutile, costata però circa duecentocinquantamila vite umane!
“A Stalin occorreva” afferma Solzenicyn “in un posto qualunque una grande impresa realizzata da detenuti che assorbisse molta mano d’opera e molte vite umane (l’eccedenza di uomini dovuta al piano di eliminazione dei kulaki), efficace come una camera della morte ma più a buon mercato di questa, lasciando al tempo stesso un grande monumento, sul tipo delle piramidi, del suo regno” (11). La cosa può apparire folle, e lo è, ma si tratta della follia tipica dei totalitarismi, una follia che ha in fondo una sua sinistra razionalità. I kulaki (cioè i contadini considerati “ricchi” ) erano per il tiranno georgiano degli implacabili nemici, eliminarli (ed eliminare con loro moltissimi altri) facendoli sfiancare di lavoro poteva in fondo essere "razionale" , dal suo punto di vista, ovviamente.
Questo del resto è solo un evento, uno solo fra i tantissimi che Solgenicyn racconta. Quel quarto di milione di vittime sono solo una piccola parte del totale delle vittime sacrificate sull’altare della nuova società.

Noi occidentali siamo spesso straordinariamente miopi. Vediamo molto bene le brutture che ci sono vicine ma riusciamo a non vedere brutture ben più gravi se solo vengono perpetrate un po’ lontano da noi. Quanti sapevano del canale? Quanti ne sanno qualcosa oggi? Pochi, molto pochi.  Democratici, progressisti, difensori dei diritti umani, associazioni umanitarie sono riusciti solo a tacere mentre nella Russia staliniana veniva perpetrata una delle più formidabili mattanze della storia, anzi, molti "intellettuali impegnati", poeti, scrittori, registi hanno firmato appelli, petizioni, manifesti in difesa.. di chi? Delle vittime del padre dei popoli? No, in difesa dell’Unione sovietica minacciata dall’"imperialismo americano"! Altri si giustificano: "non si sapeva" dicono, "non si poteva sapere". E lo stesso avviene oggi. Oggi non sappiamo cosa avviene in Corea del nord, come ieri non sapevamo quel che avveniva in Cina o in Cambogia, come avremmo potuto, come potremmo condannare? Si, l’altro ieri non si sapeva cosa avveniva in URSS, ieri non si sapeva della Cambogia, oggi della Corea de Nord. Ma si sapeva, si sa, che quei paesi erano (e sono) protetti da una formidabile cortina che impedisce ogni testimonianza. Si trattava, e si tratta, di paesi in cui non si poteva né entrare né uscire se non guardati a vista da funzionari governativi, paesi da cui non escono notizie, testimonianze, scritti che non siano filtrati e controllati. Quando un silenzio impenetrabile circonda un paese si può star certi che entro i suoi confini stanno avvenendo cose mostruose, non ci vuol molto a capirlo, basta volerlo capire. Solzenicyn ci ha sbattuto in faccia la verità, ci ha detto chiaramente cosa avveniva dietro la cortina del silenzio, delle frasi fatte, delle visite guidate, ci mostra un panorama infernale che deve farci riflettere, che ci obbliga a fare i conti con la nostra coscienza.
Certo, essere grati a Solzenicyn non significa condividerne tutto il pensiero, non vuol dire accettare senza riserve la sua filosofia. Il grande scrittore è un rivale della modernità, è uno dei tanti convinti che il comunismo sia il risultato velenoso ma in fondo coerente del processo di secolarizzazione: la via che conduce ai gulag inizierebbe con l’illuminismo. In questo il suo pensiero (del resto assai complesso e poco riducibile a formule) è in qualche modo simile a quello di Dostoevskji e di papa Wojtila; personalmente, ed umilmente, mi permetto di non essere d’accordo con questa impostazione. Ma, quali che possano essere i distinguo forse nessuno scrittore contemporaneo merita come lui il titolo di grande.


Note

1) A. Solzenicyn: Arcipelago Gulag, Mondatori. Volume 2° pag. 90-91
2) Ibidem pag. 91
3) Ibidem pag. 92
4) Ibidem pag. 94
5) Ibidem pag. 94
6) Ibidem 95-96
7) Ibidem pag. 96
8) Ibidem pag 103
9) Ibidem pag. 103
10) Ibidem pag. 106
11) Ibidem pag. 90

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