Nessuno, dicevo, dubita realmente di cose simili. Soprattutto, nessuno ne dubita a livello pratico. Nella vita di tutti i giorni nessuno si sogna neppure di pensare che le pareti di casa sua esistano solo quando le vede o le tocca (a proposito, esistono nella stessa maniera quando le si vede ma non le si tocca e viceversa?). E nessuno pensa seriamente che la bistecca nel suo piatto esista solo quando ne gusta il sapore, o che sua moglie esista quando conversa con lui e si dilegui quando la conversazione termina. Vivendo siamo tutti realisti, questo è assodato. Ma vita e teoria non coincidono e, approfondendo, o credendo di approfondire, le cose il dubbio conquista una sua plausibilità. In fondo nella vita si danno per scontate tante cose che proprio scontate non sono, o si credono di conoscere cose che in realtà non si conoscono affatto. “Cosa è il tempo?” si chiedeva Agostino di Ippona, “se non ci penso son sicuro di saperlo, se ci penso non lo so più”. Si potrebbero fare considerazioni simili per tante altre cose: lo spazio, il movimento, la luce, la vita, il pensiero. Il dubbio non è sinonimo di follia, a volte ha una funzione positiva, come efficace antidoto del dogmatismo. Ma un dubbio generalizzato, invasivo, prepotente ha esiti nichilisti, distruttivi ed auto distruttivi. E diventa, a volte, esso stesso, dogma. E dogma distruttivo diventa assai spesso quel parente stretto del dubbio che potremmo chiamare “costruttivismo”, la pretesa cioè che la realtà non esista indipendentemente da “noi” (quel noi è fonte di enormi problemi, per questo lo ho virgolettato) e che tutto si riduca a “nostra” (idem come sopra) interpretazione.
Proprio perché non è follia e neppure, solo, volontà di stupire, o vagheggiamento sofistico, il dubbio va preso sul serio. Ogni discorso sul realismo non ne può prescindere. Vediamo di affrontarne, e cercare di criticarne, i principali argomenti.
Il soggettivismo scettico
“Vedo un albero in
giardino”. “C'è un gatto sulla sedia”. “Ti raggiungo in
auto”.
Nella vita di tutti i giorni diciamo spesso cose di
questo genere, e ne comprendiamo benissimo il significato. Se dico al
mio amico Carlo che domani lo raggiungerò in auto, do per scontato
che esistano fuori di me una persona di nome “Carlo” ed un
oggetto che chiamiamo “auto”. A dire il vero do per scontate
anche molte altre cose, ma per ora possiamo evitare di occuparcene.
Esistono
quindi sia Carlo che l'auto che mi permetterà di raggiungerlo. Ma,
obbietta lo scettico, questa esistenza ci è davvero data in maniera
indubitabile? La sua risposta è netta: no, non ci è data.
“Tu dici di
vedere un albero in giardino”, afferma lo scettico, “ma cosa vedi
realmente? Vedi forse l'albero come è in se?
No, tu vedi l'albero come ti appare.
Meglio, vedi la tua sensazione
dell'albero. Non vedi l'albero ma una certa immagine riflessa sulla
retina del tuo occhio, connessa ad una certa attività del tuo
cervello e dei tuoi nervi. Questo e solo questo tu vedi, non
l'albero. La “realtà” altro non è che l'insieme delle
nostre sensazioni”. Qualcuno
cambia il termine “sensazioni” con “rappresentazioni” o
“impressioni” ma la sostanza della cosa resta immutata. Il mondo
reale fuori di noi
non esiste, esistono solo le apparenze del mondo in noi.
Il discorso, per quanto anti intuitivo sembra molto profondo ed
in effetti ha affascinato molte teste pensanti. Si basa però su
alcuni equivoci che ne riducono di molto la forza. Proviamo ad
esaminarli.
“Tu non vedi l'albero in se”,
afferma lo scettico, “lo vedi solo come ti appare”.
Questa distinzione fra l'albero in se e l'albero come appare, il
fenomeno dell'albero,
è un po' il punto di partenza di tutte le argomentazioni del
soggettivismo scettico. Ma, cosa si intende di preciso quando si
afferma che noi non vediamo le cose come sono in se stesse ma solo i
loro fenomeni, le cose come ci appaiono?
Che io non veda nel mio
giardino l'albero in se è, a veder bene le cose, una ovvietà. Se
sono miope, presbite o daltonico, o porto occhiali scuri vedrò
l'albero diversamente da chi non è né miope, né presbite né
daltonico, né porta occhiali scuri. Indipendentemente da occhiali o
difetti della vista io vedo sempre l'albero da un certo punto di
vista, e basta questo ad impedire che lo possa vedere come è in se.
Per vedere l'albero come è in se dovrei vederlo scisso da ogni mia
facoltà conoscitiva e da ogni mio punto di vista. Dovrei gettare
sull'albero uno sguardo che non viene da nessun luogo e non dipende
da alcun occhio. Dio, forse, vede in questo modo l'albero, noi no di
certo. Una facoltà simile è preclusa agli esseri umani.
Se
chi nega che noi uomini possiamo conoscere le cose come sono in se
stesse intende dire che non siamo Dio non si può che concordare con
lui. Il punto controverso però non è questo. Il vero problema è:
ciò che noi conosciamo a partire dalle nostre facoltà e dai nostri
punti di vista, è qualcosa che esiste indipendentemente da noi,
dalle nostre facoltà e dai nostri punti di vista o no? Se vedo
l'albero da una certa angolazione ed indossando un paio di occhiali
scuri, lo vedrò diversamente da Tizio che lo osserva da una diversa
angolazione e senza occhiali; ma questo riduce l'albero alle
sensazioni che io e Tizio ne abbiamo? Se io e Tizio ci scambiamo i
punti di osservazione ed io do a lui gli occhiali che portavo,
succederà o no che io veda (più o meno) l'albero come lui prima lo
vedeva e viceversa? Basta porre la domanda giusta per avere la
risposta.
La affermazione secondo cui noi non conosciamo
mai le cose in se stesse, se intesa in maniera debole è del tutto
condivisibile: noi possiamo conoscere sempre meglio le cose
esaminandole a partire da numerosi punti di vista e utilizzando
diversi strumenti conoscitivi.
Intesa in maniera forte però
questa affermazione porta ad insuperabili difficoltà ed aporie.
“Tu
non vedi l'albero”, dice lo scettico, “vedi solo la sensazione
dell'albero”. Ma in questo caso ha senso continuare a parlare
dell'albero? Se
l'albero corrisponde alla mia sensazione dell'albero, quanti
alberi ci sono? L'albero che io
vedo è diverso da quello che vede Tizio e questo è diverso da
quelli che vedono Caio e Sempronio. Non solo, l'albero che io vedo
ora è altra cosa da quello che vedevo un attimo fa ed altra cosa
ancora da quello che vedrò fra un attimo. La sensazione è qualcosa
che vale solo per chi la esperisce nel momento in cui la esperisce.
Si riducano le cose a sensazioni, o impressioni, o rappresentazioni
in noi ed il mondo si
frantuma in una miriade multicolore di stati soggettivi su cui non è
possibile fondare alcuna esperienza condivisibile né alcun discorso
sensato.
Né questa è l'unica difficoltà in cui incorre il
soggettivista scettico. Il mondo è solo sensazione o
rappresentazione nel soggetto, afferma questi, ma il soggetto stesso
è dato attraverso le rappresentazioni e le sensazioni. Chi ci
ricorda che noi non vediamo l'albero ma la l'immagine dell'albero
nella nostra retina dimentica, molto semplicemente, che la stessa
retina ci è data da impressioni e sensazioni. Se non esiste nulla di
esterno al soggetto il primo a non esistere è proprio il
soggetto che si vede continuamente come “esterno” a se stesso.
Con gli occhi vedo le mie mani, con la mano destra tocco quella
sinistra, e col piede sinistro mi gratto il polpaccio della gamba
destra. Ha un qualche senso dire che il mio polpaccio destro esiste
solo come sensazione nel mio piede sinistro e viceversa? Né io
conosco il mio corpo solo percependone una parte tramite un'altra.
Io mi conosco come soggetto corporeo anche, per fare solo un esempio,
guardandomi allo specchio. Ma se lo specchio è solo sensazione in me
cosa sono i miei occhi che vedo riflessi nello specchio? I miei
occhi, come lo specchio, esistono solo... come immagine nei miei
occhi e così via, in rimando infinito che ricorda quel tale che
sognava di sognare, di sognare, di sognare...
Considerazioni
analoghe si possono fare riguardo ad un altro dei punti chiave del
soggettivismo scettico. Questi esalta, come si è visto, l'importanza
del punto di vista da cui il soggetto osserva il mondo e fa di questo
un'arma per contestarne l'oggettività. Una montagna vista dalla
vetta è ben diversa dalla stessa montagna vista da valle, si dice.
Ed è perfettamente vero, ma non trasforma la montagna in una
impressione soggettiva; non lo può fare perché anche valle e cima
sono qualcosa di oggettivo, come la montagna. Render questa una
impressione soggettiva solo perché la si può osservare solo da un
certo punto di vista degrada ad “impressione soggettiva” lo
stesso punto di vista. Il punto di vista non esiste, dovrebbe dire il
soggettivista scettico, perché lo si può definire tale solo a
partire da un altro punto di vista, e così via, all'infinito. Se le
cose stanno così che valore potrà mai avere la affermazione secondo
cui tutto dipende dal punto di vista?
Il rimando
all'infinito è un po' una caratteristica distintiva del
soggettivismo scettico. Esaminiamo di nuovo la affermazione secondo
cui noi non vediamo l'albero ma la nostra sensazione dell'albero.
Cosa significa una cosa simile? Io non vedo, dovrebbe dire un
soggettivista scettico coerente, la “sensazione in se” ma la mia
sensazione della sensazione.
Dire che vedo l'immagine dell'albero impressa sulla mia retina
significa usare un modo di esprimersi realista: l'immagine
dell'albero che io vedo sulla mia retina è esterna a “me”
vedente esattamente quanto l'albero. Se ha ragione il soggettivista
scettico, per vederla ho bisogno di un'altra immagine, impressa in
un'altra retina e così via, all'infinito.
Qualcuno
potrebbe cercare di aggirare al difficoltà sostituendo l’enunciato:
“vedo la mia sensazione dell’albero”, che innesca con tutta
evidenza un rimando all’infinito con l’altro: “io ho
la mia sensazione dell’albero”: Ma la sostituzione di una parola
con l’altra non risolve di solito alcun problema e di certo non lo
risolve in questo vaso.
Il verbo avere rimanda
ad altro da noi esattamente come il verbo vedere
o sentire. Io ho una
casa, un abito, un’automobile, un debito o un credito. Case, abiti
e debiti sono qualcosa
di diverso da me, con cui instauro un rapporto da soggetto ad
oggetto, lo stesso che instauro col gatto quando dico: “vedo un
gatto sulla poltrona”. Inoltre, cosa significa di preciso avere, ad
esempio, la sensazione
di un albero, come si manifesta questo “avere”? Si manifesta nel
vedere, toccare, sentire l’albero, si torna al punto di partenza.
E non basta: dicendo
“ho la sensazione di un albero” io esprimo una consapevolezza,
ma, ancora una volta, mi
trovo di fronte ad una oggettività: ho una consapevolezza, qualcosa
di diverso da me, per lo meno, dal me pensante, ora
alla consapevolezza. Ma
il soggettivismo scettico rifiuta una tale oggettività: tutte è
dentro la mente, tutto è autocoscienza. Avere una consapevolezza
diventa avere consapevolezza di una consapevolezza,
e così via, di nuovo, all’infinito.
Si
può sfuggire dal regresso all’infinito in un solo modo: riducendo
tutto a sensazione, sensazione molto strana però, sensazione priva
del soggetto senziente. Se sono “io” a vedere, sentire, udire,
avere il rimando all’oggetto è inevitabile e questo porta alla
sensazione di sensazione, percezione di percezione, consapevolezza di
consapevolezza. Ma si elimini il soggetto e tutto sembra quadrare.
Restano le sensazioni, nude, incontaminate, oggettive. Però in
questo modo le sensazioni cessano di essere tali: diventano
sensazioni non “sentite” da nessuno. Il soggettivismo scettico si
trasforma in assoluto oggettivismo. E’ la situazione di cui parla
Wittgenstein nel tractatus quando dice che una sola cosa non si
incontra mai nel mondo: il soggetto senziente, un po’ come nel
campo visivo non si vede mai l’occhio che vede. E ciò che è visto
è l’oggetto nella sua assoluta oggettività, l’oggetto in
se.
Il filosofo
americano Jhon Searle recide
di netto il groviglio di contraddizioni in cui si avvolge il
soggettivismo scettico. In
“vedere le cose come sono”
Searle
contesta radicalmente, definendola “il cattivo argomento” la
concezione secondo cui noi vediamo, o percepiamo, o abbiamo
esperienza non delle cose ma delle nostre immagini delle cose.
Termini come “vedere”, percepire” o “esperire” rimandano
immediatamente a qualcosa che è oggetto della visione, della
percezione o dell'esperienza. Non si vede la visione, esattamente
come non si percepisce la percezione né si ha esperienza
dell'esperienza. Io vedo, sento, percepisco il mondo nella mia
esperienza, ma non ho esperienza della esperienza del vedere e del
percepire. Non vediamo le nostre immagini mentali del mondo
ma il mondo tramite le nostre immagini mentali.
Vedo l'albero, non la mia sensazione dell'albero.
Aristotele ha anticipato il filosofo americano dicendo che non
si può avere “sensazione della sensazione”.
Qualcuno però
potrebbe trovare tutto questo difficilmente comprensibile. Cosa vuol
dire, esattamente, “vedere il mondo tramite una immagine mentale”?
E come la mettiamo con le allucinazioni, immagini mentali cui nulla
corrisponde nella realtà?
Un esempio può, forse, chiarire la
questione. Immaginiamo una macchina fotografica non digitale che
fotografa il mondo impressionando una pellicola. Possiamo paragonare
il fotografare impressionando una pellicola al vedere impressionando
la retina. La macchina fotografica non fotografa la pellicola,
fotografa il mondo impressionando la pellicola, esattamente come
l'occhio non vede la retina ma il mondo tramite questa. In entrambi
il caso il rapporto è col mondo
tramite un qualcosa
(la retina, la pellicola), non è un rapporto con questo
“qualcosa”. Dire che noi
non vediamo il mondo ma la “nostra rappresentazione del mondo” è
come dire che la macchina fotografica fotografa la pellicola o che
l'occhio vede la retina, un evidente non senso.
Immaginiamo ora
che sulla pellicola della nostra macchina fotografica ci sia una
macchia nera. Nella foto che scatteremo, ad esempio del mare,
comparirà una macchia nera che nella realtà non esiste. Un difetto
della macchina fotografica fa si che il mondo venga fotografato come
in realtà non è.
Anche in questo caso tuttavia il rapporto è sempre macchina
fotografica – mondo, non macchina fotografica - pellicola.
Considerazioni del tutto analoghe possono essere fatte sostituendo
alla macchina fotografica la retina o, meglio ancora, il soggetto
vedente. Una alterazione del soggetto vedente, ad esempio, un certo
impulso neurologico, fa si che egli non veda
il mondo tramite una immagine mentale. Nel caso della allucinazione
in realtà il soggetto vedente non vede nulla,
meno che mai vede l'immagine sulla retina o l'impulso neurologico,
ha solo una immagine mentale cui nulla corrisponde nel mondo.
Noi
vediamo il mondo tramite immagini mentali, non le nostre immagini
mentali del mondo. Da questo ovviamente non
deriva che alle immagini corrisponda sempre qualcosa di reale. Non
sempre noi vediamo ciò che realmente esiste, il che non vuol dire
che nulla esiste al di fuori dalla visione. Trasformare la
possibilità di allucinazioni in un argomento contro il realismo
empirico è del tutto scorretto. Basta considerare, per
convincersene, al fatto che il concetto stesso di allucinazione è
logicamente collegato a quello di realtà. Posso dire che X
è una allucinazione proprio perché sono in grado di distinguere X
dal mondo, la allucinazione dalla realtà. Dire che il mondo reale
non esiste e tutto è allucinazione è come dire che tutte le
banconote sono false. Una sciocchezza perché ha senso parlare di
banconote false solo se esistono banconote “buone”
Il
soggettivista scettico può opporre a tutte queste argomentazioni un
discorso più o meno di questo tipo: ”Quando si parla di sensazioni
o impressioni soggettive non ci si riferisce al soggetto corporeo.
Questo fa parte del mondo esterno esattamente come le sedie e gli
alberi. Ci si riferisce al soggetto mentale, ad un sostrato
immateriale in cui le sensazioni si imprimono”.
Con un simile
discorso il soggettivista scettico sfugge alcune difficoltà solo per
imbattersi in altre, ancora più gravi.
Inizialmente il
soggettivista scettico ammonisce tutti ad attenersi ai dati
dell'esperienza sensibile. Non sono consentiti passaggi dalle
sensazioni agli oggetti, dai fenomeni alle cose in se. Poi, posto di
fronte alle contraddizioni in cui si trova invischiato, fa ricorso ad
una entità del tutto estranea ad ogni tipo di esperienza sensibile:
il soggetto mentale, o immateriale, astuti giri di parole per non
pronunciare una parola: “anima”
che sa troppo di vecchia metafisica. Eppure proprio di questa si
tratta. Le sensazioni sono impresse nell'anima e non ci rimandano a
nulla che non sia impresso nell'anima. Prima mi si vieta di passare
dall'immagine dell'albero impressa nella mia retina all'albero che
sorge nel giardino di casa mia. Poi, con noncuranza assoluta, si
passa dalla retina all'anima. Si tratta però di un passaggio, questo
si, del tutto infondato e privo di riferimenti empirici. In
ogni momento della mia vita ho coscienza dell'unità della mia
esperienza, ho coscienza cioè
del fatto che tutte le esperienze che vivo sono mie
e che mi riconosco come me stesso appunto vivendole, ma non ho mai
l'esperienza di questa unità,
cioè del sostrato immateriale, unitario, inesteso, di impressioni e
sensazioni. Questo non mi è mai dato in alcuna esperienza, non può
quindi essere usato da chi prescrive a tutti di attenersi in maniera
rigorosissima ai dati dell'esperienza sensibile.
L'argomento del sogno
Il filosofo cinese Lao Tze un giorno di primavera si addormentò sotto ad un albero e sognò di essere una farfalla. Quando si svegliò si chiese: era Lao Tze a sognare di essere una farfalla o la farfalla a sognare di essere Lao Tze?
L'argomento del sogno è da sempre uno dei preferiti dai filosofi scettici. Lo usa anche Cartesio nelle “meditazioni metafisiche”, apportandovi sapienti variazioni. Una è quella del genietto cattivo, l'antipatico personaggio che ci inganna costantemente facendoci credere che esista intorno a noi un mondo oggettivo di cose stabili, mentre nulla di tutto questo esiste. In tempi più recenti sogno e genietto sono stati resi più tecnologici. Invece del sogno si parla di realtà virtuale, di elettrodi piantati nel cervello che ci fanno credere che stiamo vivendo una vita che in realtà è solo una illusione. Il film “Matrix” è una reinterpretazione del sogno di Lao Tze o del genietto di Cartesio. Tutto ciò che ci circonda è illusione, non siamo uomini ma programmi informatici, e non viviamo nel mondo ma in un software.
Sono tutti argomenti piuttosto affascinanti, è difficile negarlo. Quando sogniamo siamo convinti che le esperienze che stiamo vivendo siano perfettamente reali. Come possiamo allora distinguere realmente il sogno dalla veglia? E stabilire che le esperienze che viviamo nella seconda siano reali mentre quelle del primo siano semplice “illusione”?
L'argomento del sogno, malgrado il suo fascino, si basa per intero su equivoci. Innanzitutto noi siamo perfettamente in grado di distinguere il sogno dalla veglia: se questo non fosse vero le stesse parole ”veglia” e “sogno” sarebbero prive di senso. Gli eventi che viviamo da svegli hanno una coerenza, una regolarità ed una prevedibilità che i sogni sono ben lungi dal possedere. Si potrebbe obiettare: “e se così non fosse? Se l'esperienza del sogno avesse la stessa nitidezza e la stessa regolarità di quella della veglia? Un po' come nel film “Matrix”, dove la vita “finta” dei protagonisti non si differenzia quanto a realismo da quella “vera”? Se così fosse non avrebbe senso parlare di sogno e veglia. Io sarei Tizio per un certo numero di ore e Caio per il restante numero. Non ci sarebbero sogno e realtà ma due realtà, del tutto scisse fra loro. Una simile situazione dissolverebbe il sogno, non la realtà.
Se l'argomento del sogno si limitasse a sostenere che noi non siamo in grado di distinguere il sogno dalla veglia sarebbe stato da subito confutato in maniera definitiva. Ed infatti tale argomento è più complesso e profondo. Tutta la nostra vita potrebbe essere un sogno, dicono i suoi sostenitori, TUTTA, compreso l'atto di svegliarci e di riaddormentarci e di discutere sul sonno, la veglia e la loro differenza. Esposto in questi termini l'argomento diventa ipso facto inconfutabile, ma, come molte argomentazioni inconfutabili, si fonda su un equivoco. Ammettiamolo pure, tutta la nostra vita potrebbe essere, anzi, è un sogno, ed allora? L'essere sogno riduce la vita ad illusione se il sogno è in qualche modo diverso dalla vita, la realtà dall'illusione. Ma se tutto è sogno questa distinzione scompare: è sogno anche la differenza fra sogno e realtà, è illusione anche la diversità fra realtà ed illusione. Se la realtà è sogno il sogno è realtà, nulla cambia, tutto rimane esattamente come prima. Sostenere che tutta la vita è un sogno è come affermare che tutte le banconote sono false, una evidente assurdità perché il concetto di “banconota falsa” ha un senso solo se accanto alle banconote false ne circolano altre, vere.
La trasformazione della realtà in sogno, o in illusione, o in realtà virtuale, o in inganno del genietto maligno di Cartesio o di uno scienziato pazzo che ci ha infilato degli elettrodi nel cervello, la trasformazione della realtà in sogno, dicevo, non fa altro che riproporre, in maniera emotivamente coinvolgente, una vecchia illusione essenzialista. Quale è la vera essenza del mondo? Il suo fondamento ontologico ultimo? Spesso gli uomini si sono posti una simile domanda, che non a caso attende ancora risposta. Lo scettico che trasforma la realtà in un sogno la da, questa risposta: il fondamento ultimo di tutto il reale è un uomo che dorme. Un uomo molto strano, non identificabile con nessuno degli esseri umani empirici che incontriamo nella vita di tutti i giorni, questi fanno parte del sogno; un uomo molto strano che dorme un sonno molto strano, un sonno di cui nessuno ha esperienza, e che fa sogni molto strani, sogni che nessuno riesce mai ad identificare come tali, e che è scorretto, a ben vedere le cose, definire sogni perché lo stesso significato del termine “sogno” è... un sogno. E' impossibile, ovviamente, confutare una simile tesi: nessuno potrà mai provare che l'uomo che sogna non esiste, per il semplice motivo che anche questa prova sarebbe parte del suo sogno, ma... ha una qualche importanza confutarla?
Trasformare la realtà in sogno lascia le cose esattamente come stanno. Ma un sostenitore di questa trasformazione potrebbe obiettare che non è proprio così. “Se la realtà è sogno”, potrebbe dire, “si tratta di un mio sogno. Io dormo e sogno, quindi gli oggetti e le persone che vedo in sogno non sono reali, esistono solo in me che sto dormendo, e questa è una differenza importante fra la presunta “vera” realtà e la realtà trasformata in sogno. Non è quindi privo di importanza non riuscire a confutare la tesi che eguaglia sogno e realtà”.
Molto interessante, ma, ancora una volta, tutto si basa su un equivoco. La realtà tutta è, si dice, un mio sogno, sono io che la sto sognando. Ma... che valore hanno quell”'io” e quel “mio”?
Poniamo che stanotte io abbia sognato di essere un generale che guida il suo esercito alla battaglia, parla coi suoi ufficiali ed incita la truppa. Come posso dire che sono io ad avere avuto questo sogno, che si tratta di un sogno mio?
Posso dirlo semplicemente perché dispongo di criteri che mi permettono di distinguere i miei stati di veglia da quelli di sonno. Ricordo di essermi messo a letto ieri sera e di essermi svegliato stamattina, e ricordo di aver sognato di essere un generale che incitava i suoi soldati. Quando dico che il sogno era “MIO” non mi riferisco al generale che parla ai soldati, ma alla persona che si è coricata, addormentata e risvegliata. E' quella persona che dice: “il sogno era mio”. Ma se il sogno è onnicomprensivo, se riguarda tutta la vita, che senso ha parlare di un mio sogno? Mio di chi? Di me che dormo, mi risveglio e parlo dei miei sogni? No, tutto questo è sogno, come il generale e gli ufficiali. Se il sogno riguarda tutto non posso dire: “IO ho sognato” per il semplicissimo motivo che anche IO sono parte del sogno.
Si possono fare analoghe considerazioni riguardo alle cose che ho sognato e che sarebbero solo interne a me, prive di autonoma realtà. Io ho sognato stanotte di essere un generale che parlava con i suoi ufficiali, incitava la truppa ed esaminava i cannoni. Ufficiali, truppa e cannoni non esistono realmente, esistono solo in me che le sogno, si può dire. Tutto vero, ma, a quale “me” ci si riferisce? Al “me” generale che parla, incita, esamina? No ovviamente, sono interne al me dormiente, alla persona che ieri sera si è addormentata e stamattina si è svegliata. Per far diventare irreali ufficiali, soldati e cannoni occorre passare da un livello di realtà ad un altro, dal sogno al risveglio. E' questo passaggio che fa diventare irreali non solo gli ufficiali, i soldati ed i cannoni, ma anche il generale che io sarei stato. Fin che si resta nel sogno ufficiali, soldati e cannoni sono reali come il generale. E così siamo di nuovo al punto di prima: un sogno onnicomprensivo impedisce precisamente quel passaggio ad un livello di realtà che ci permette di giudicare irreali, presenti solo in me dormiente, le figure del sogno. Se tutto è sogno non ha senso alcuno giudicare esistente solo in me dormiente ciò che si sogna. Non lo ha perché il “me dormiente” è precisamente ciò che non appare mai, è il non sogno. Ma il non sogno non può esistere in una realtà integralmente trasformata in sogno.
L'argomento del sogno, e con lui i suoi equivalenti classici o tecnologici: il genietto, il cervello nella vasca, la realtà virtuale, si scontrano tutti nella medesima difficoltà: riducendo tutto ad illusione cancellano ogni differenza fra illusione e realtà. Ripristinano in questo modo, e per intero, quella realtà che intendevano cancellare. Il vecchio Lao tze si chiedeva: “è Lao Tze a sognare di essere una farfalla o è la farfalla a sognare di essere Lao Tze?”. Se intendeva riferirsi ai sogni di cui noi abbiamo esperienza, e che sappiamo essere distinti dalla veglia, il vecchio taoista conosceva, probabilmente, la risposta: è Lao Tze a sognare di essere una farfalla. Se invece si riferiva ad un sogno che coincide con la totalità della vita allora la sua stessa domanda risultava essere priva di senso: tutto è sogno, anche Lao Tze che sogna di essere farfalla e la farfalla che sogna di essere Lao tze. E' probabile che anche questa risposta non sfuggisse ad una mente acuta come quella del grande filosofo cinese.
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