Si sente spesso parlare da un po' di
tempo a questa parte di “grande reset”. Si tratterebbe di un
disegno tendente ad imporre un po' ovunque una sorta di ibrido
comunista capitalista. Una economia mondiale totalmente dominata da
enormi imprese multinazionali strettamente alleate con il potere
politico. Per imporsi questo modello dovrebbe distruggere, o quanto
meno ridimensionare drasticamente il tessuto delle piccole e medie
imprese, colpire il ceto medio, eliminare o rendere totalmente
marginali gli stati nazionali ed i parlamenti che su base nazionale
sono eletti. Al mercato ed alla democrazia pluralista si
sostituirebbe una sorta di pianificazione sovranazionale di tipo
burocratico – monopolista. Per farla breve, si tratterebbe di una
estensione a tutto il mondo del “modello cinese”. Un ibrido,
appunto fra capitalismo ultra centralizzato e potere politico
comunista. Qualcosa di mai visti prima nella storia.
Di cosa è
risultante questo ibrido? Si tratta di un complotto? O della
conseguenza di scelte politiche non necessarie? O di un destino
fatale?
I processi spontanei in atto a livello economico e sociale
vanno in questa direzione? E' davvero in corso, ed è irresistibile,
una tendenza alla centralizzazione economica che spazzi via le
piccole e medie imprese, distrugga il ceto medio, renda marginali gli
stati nazionali? O si tratta invece di forzature politiche che
intervengono su alcune, non le uniche, tendenze in atto?
Non si
tratta di domande nuove, sono anzi estremamente vecchie.
Marx
e la piccola impresa.
La
previsione della fine delle piccole e medie imprese non è affatto
una novità. L'idea di una centralizzazione burocratica e
sovranazionale dell'economia che distrugge la piccola e media impresa
risale al socialismo pre marxiano ed è stata formulata con la
massima precisione proprio da Karl Marx.
Nelle fasi iniziali del
suo dominio la borghesia, afferma Marx, distrugge la proprietà
privata basata sul lavoro personale. Questa viene soppiantata dalla
proprietà privata capitalistica, basata sul lavoro salariato. Questo
però è solo il primo passo di un processo ampio e tormentato. Man
mano che il modo di produzione capitalistico si afferma i processi di
espropriazione assumono forma nuova: “a questo punto”, scrive
Marx nel Capitale,
“non è più il lavoratore indipendente che lavora per se quello
che deve essere espropriato, bensì il capitalista che sfrutta molti
operai. Questa espropriazione si attua mediante il meccanismo delle
leggi immanenti della produzione capitalistica
stessa, mediante la
centralizzazione dei capitali.
Ogni capitalista ne getta giù molti altri”. (1)
Il borghese
capitalista espropria il piccolo produttore individuale, l'artigiano,
il contadino parcellare, ma i meccanismi della accumulazione
capitalistica fanno si che i capitalisti più forti mettano fuori
mercato i più deboli. Il processo di concentrazione e
socializzazione dell'economia procede implacabile:
“Parallelamente
(…) all'espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi si
sviluppano in maniera sempre più ampia la forma cooperativa del
processo di lavoro (… ) la trasformazione dei mezzi di lavoro in
mezzi di lavoro da adoperarsi solo collettivamente, la economia di
tutti i mezzi di produzione tramite il loro uso come mezzi di
produzione del lavoro sociale combinato...” (2)
Il meccanismo
della concorrenza rende sempre più concentrata l'economia. Le
imprese diventano sempre più grandi, l'uso dei mezzi di produzione
assume sempre più un carattere immediatamente sociale.
Questo
processo ha carattere internazionale. Gli stati nazionali sono
destinati a perdere sempre più importanza in seguito al processo di
concentrazione sovranazionale delle economie capitaliste. “Con lo
sfruttamento del mercato mondiale” afferma Marx nel celeberrimo
Manifesto del
partito comunista “la
borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione ed al
consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il
suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari” (3)
La
borghesia è una classe internazionale e lo è, ancora di più il suo
antagonista storico: il proletariato:
“Gli operai non hanno
patria. (…) Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli
vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia,
con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità
della produzione industriale delle corrispondenti condizioni
d'esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora
di più”. (4)
Il discorso di Marx è coerente. Lo sviluppo
della concorrenza porta ad una crescente centralizzazione
dell'economia che è destinata ad abbattere le stesse frontiere
nazionali. I processi di concentrazione hanno come risultato una
radicale semplificazione della società. Il pluralismo cede il passo
ad una polarizzazione che vede contrapposti un pugno di grandissimi
capitalisti ad una massa enorme di proletari. A livello
internazionale i contrasti di nazionalità vengono soppiantati dai
contrasti di classe. Non a caso il
Manifesto termina con
la celebre esortazione: “proletari di tutti i paesi unitevi”. Nel
1914 Lenin la tradurrà in un programma politico molto preciso e
radicale: “trasformare a guerra imperialista in guerra civile
rivoluzionaria”.
In effetti il processo storico che Marx
prevede non somiglia affatto al tranquillo evolversi della società
borghese verso il suo “superamento” sognato dalla componente
riformista del movimento operaio. Si tratta di un processo che da un
lato si traduce in sfruttamento ed oppressione di masse enormi di
proletari da parte di un numero sempre più esiguo di parassiti
capitalisti. Ed è, dall'altro, un processo che la borghesia non
può portare a termine.
“Il
monopolio del capitale diventa un ostacolo al progredire del modo di
produzione sorto insieme ad
esso e sotto di esso. L'accentramento dei mezzi di produzione e la
socializzazione del lavoro arrivano ad un punto in cui entrano in
contraddizione col loro rivestimento capitalistico. Ed esso viene
infranto. Suona l'ultima ora della proprietà privata
capitalistica. Gli espropriatori divengono espropriati.
(…) La produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la
necessità di un processo della natura, la propria negazione. E' la
negazione della negazione”
(5)
Il contrasto fra crescente centralizzazione della produzione
e proprietà capitalista altro non è che la forma specifica che
assume il contrasto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di
produzione che per Marx è la molla della evoluzione storica. E la
classe operaia, il cui impoverimento e le cui dimensioni sono
accentuate al massimo dai processi di concentrazione, è la forza
sociale destinata a risolvere questo contrasto. Non è un caso che,
al termine della sua profezia, Marx riesumi la hegeliana “negazione
delle negazione”. La sua è, hegelianamente, una storia a
soggetto. Deve
concludersi con la riunificazione di ciò che la alienazione
capitalista ha diviso.
La profezia e la storia
Marx
afferma alcune cose difficilmente contestabili, coglie tendenze
reali dell'evoluzione economica, tuttavia la sua analisi è viziata
da alcuni errori di fondo. Faccio solo un telegrafico accenno ad uno
di questi prima di passare al punto qui più importante. Marx è
spinto quasi inavvertitamente a considerare “sociale” solo ciò
che è frutto di una scelta collettiva intenzionale. La centralizzazione
accentua il carattere sociale dell'economia, afferma a più riprese,
come se i rapporti di mercato non fossero rapporti sociali e non
fosse un fatto eminentemente sociale la concorrenza. Marx incorre in
quella che Von Hayek definisce la superstizione del costruttivismo:
solo le organizzazioni coscientemente create per conseguire
determinati fini sono strutture sociali. L'ordine spontaneo non
sarebbe invece qualcosa di sociale. Eppure non solo il mercato, ma
anche fenomeni eminentemente sociali come il linguaggio e un certo
numero di regole di condotta sono in larga misura misura prodotti da
quest'ordine.
Torniamo al discorso sulla centralizzazione
economica. Marx coglie in questa, val la pena di ripeterlo, un
tendenza reale dell'economia di mercato, in un certo senso si
dimostra addirittura profetico: oggi più che ai tempi di Marx è
semplicemente impossibile negare la rilevanza del gigantismo
economico. Tuttavia l'analisi di Marx è viziata, dall'inizio alla
fine, da un grave difetto: l'unilinearismo estrapolazionista. Marx
analizza una tendenza reale della società a lui contemporanea, ma
sottovaluta, quando non ignora completamente, le tendenze diverse, a
volte addirittura opposte, che pure esistono; non se ne cura neppure
quando queste tendenze diverse sono alimentate dalla stessa tendenza
oggetto della sua analisi. Lo sviluppo della grande industria dà
vita all'indotto ed in questo prosperano moltissime medie e piccole,
a volte piccolissime, imprese. Lo sviluppo capitalistico incrementa
la produttività del lavoro, Marx lo riconosce senza esitazioni, ma
questa favorisce sia la crescita dei salari reali che la riduzione
dell'orario di lavoro, qualcosa di ben lontano dal pauperismo
profetizzato da Marx. Lo sviluppo del commercio internazionale ben
lungi dal decretare la fine degli stati nazionali li spinge a
cercare in questo una posizione di forza o di prestigio. Marx non si
cura troppo di queste controtendenze o le riduce a semplici
epifenomeni della produzione e dello sfruttamento capitalistici.
Soprattutto, non le ritiene in grado di ostacolare seriamente la
marcia del modo di produzione capitalistico verso la propria
autodistruzione. Estrapola da alcune tendenze reali le loro
conseguenze senza curarsi troppo del gioco estremamente complesso di
tendenze e contro tendenze.
La storia doveva dargli
clamorosamente torto. Nel 1899 Eduard Bernstein, esponente di
prestigio della seconda internazionale, pubblicò “i
presupposti del socialismo ed i compiti della socialdemocrazia”,
in cui sottoponeva a critica radicale l'intera previsione marxiana.
La centralizzazione capitalistica, che pure esisteva, non distruggeva
la piccola e media impresa, né marginalizzava il ceto medio. Non era
in atto un processo di impoverimento globale della classe operaia.
Gli stati nazionali conservavano la loro importanza. Lo sviluppo
della democrazia permetteva l'integrazione della classe operaia in
una libera società pluralista. Si trattava di una revisione radicale
delle fondamenta stesse del marxismo rivoluzionario, revisione che
provocò una valanga di polemiche roventi. Berntein venne accusato di
essere un “traditore” del socialismo ed in effetti, in un certo
senso, lo era. Ma nelle linee generali la sua critica era corretta.
La componente non rivoluzionaria del movimento operaio finì dopo un
lungo travaglio con l'accettare le tesi fondamentali di Bernstein.
Non solo, a veder bene le cose, le tesi di Bernstein vennero, in un
certo senso, accettate dalla stessa componente rivoluzionaria
leninista. Questa infatti si concentrò non tanto sull'analisi delle
tendenze del sistema capitalistico, quanto sul ruolo che in queste
doveva giocare la volontà rivoluzionaria. Oggettivamente il
capitalismo non va, forse, verso l'autodistruzione, ma un partito
ferreamente organizzato, capace di sfruttare la “buona occasione”,
può comunque forzare la storia e condurre la società verso la
realizzazione dell'ideale. La forzatura fu fatta, con i tragici
risultati che tutti conoscono.
Tendenze e
controtendenze economiche
Quando
si parla delle tendenze di lungo periodo dell'economia di mercato si
commette spesso errore abbastanza grossolano. Si considera la
concorrenza come una sorta di guerra di tutti contro tutti che ogni
impresa combatte senza esclusione di colpi cercando di espellere
tutte le altre dal mercato o di assorbirle. Questa però è una
semplificazione sostanzialmente errata. La concorrenza è lotta ma è
anche cooperazione. L'impresa A
è concorrente di B
ma può anche essere sua fornitrice o sua cliente. Anche se producono
più o meno lo stesso tipo di merci A
e B non sono
necessariamente in guerra. A può
rivolgersi ad un segmento di clientela che a B
non interessa o interessa meno. Nel centro di ogni grande città si
possono trovare, a pochi metri di distanza l'uno dall'altro, il
ristorante raffinatissimo, la tavola calda e la paninoteca. Tutti
operano nel settore della ristorazione ma la concorrenza fra loro non è
una guerra. Offrono i loro servizi a persone diverse o anche alle
stesse persone, ma per soddisfare loro esigenze diverse: una cena
raffinata o il panino nell'intervallo pasto, ad esempio. O mirano a
soddisfare le stesse esigenze delle stesse persone in maniera
diversa: Mc Donald, tavola calda, e paninoteca mirano tutti a
ristorare i lavoratori nell'intervallo pasto, ma ognuno lo fa a modo
suo, conquistando una propria fetta di mercato. Più si diffonde,
anche in seguito ai processi di concentrazione industriale, il
benessere più aumenta questa possibilità di conquistare nicchie di
mercato che permettono ad imprese di piccole, spesso piccolissime
dimensioni di vivere e a volte prosperare. L'esclusione dal
mercato delle imprese meno competitive è sicuramente una tendenza
dell'economia capitalistica, ma non è l'unica e non riguarda tutte
le imprese. Né riguarda solo
le piccole imprese. Si può essere piccoli ma competitivi
se si è in grado di fornire
merci e servizi di buona qualità a prezzi convenienti non
a tutti, ma determinati target di clientela.
Allo stesso modo si può essere grandi e niente affatto
competitivi, se i vantaggi
delle economie di scala vengono annullati da elefantiasi burocratica,
con relativa incapacità di adeguare le politiche industriali alle
sempre mutevoli esigenze del mercato. Alle sinergie delle grandi
imprese le piccole possono contrapporre la conoscenza delle realtà
locali in cui sono inserite. Una banca di dimensioni regionali come
la Carige non poteva certo competere col San Paolo sul piano
nazionale ed internazionale, ma la sua conoscenza e presenza
capillare del mercato ligure le permetteva di resistere, livello
regionale, a qualsiasi sfida concorrenziale. Questo fino a che una
dirigenza mediocre, incantata dalle sirene che predicavano continui
ampliamenti dimensionali, non la ha fatta entrare in crisi.
Né
bisogna commettere l'errore di considerare le piccole imprese sempre
impegnate in una lotta mortale, e necessariamente perdente, contro le
grandi. I processi di concentrazione e di gigantismo industriale
hanno come conseguenza, lo si è già detto, lo sviluppo dell'indotto
e nell'indotto crescono moltissime imprese di medie e piccole
dimensioni. Avviene qualcosa di simile anche nella rete. Il suo
sviluppo favorisce al massimo la concentrazione dell'economia: i
giganti del web hanno dimensioni mondiali e la loro potenza pone
problemi non piccoli che i governi dovranno decidersi, prima o poi,
ad affrontare. Ma la rete favorisce nel contempo lo sviluppo di molte
attività autonome, di piccole, a volte piccolissime dimensioni. Di
nuovo, le tendenze non sono univoche. Ciò che da un lato spinge
verso il gigantismo favorisce dall'altro non solo la sopravvivenza,
ma la proliferazione di piccole imprese.
Diamo una telegrafica
occhiata alle statistiche. Nel 2016 in Italia esistevano 8,2 milioni
di partite IVA, di cui 6,2 attive, 3,9 milioni riguardano persone
fisiche. Sempre in Italia le imprese, comprese quelle individuali,
hanno in media 4 dipendenti l'una ed esistono 66 imprese ogni 1.000
abitanti. Secondo dati della commissione europea nel 2020 le PMI in
Italia ammontano a 148.531. Di queste, 123.495 sono piccole imprese e
25.036 sono medie aziende. Convenzionalmente si definisce micro
impresa quella con meno di 10 addetti, è piccola quella che ne ha
meno di 50 e media quella che non supera i 250.
Negli Stati
Uniti, secondo un’interessante ricostruzione compiuta da
AFME-Finance for Europe e da Boston Consulting le piccole e medie
imprese sono 28 milioni, sei milioni più che in Europa, ed esprimono
il 49 per cento dell’occupazione e il 46 per cento del valore
aggiunto.
Non voglio dare soverchia importanza questi numeri,
tutti facilmente controllabili in rete. So bene che se debitamente
torturati i numeri possono dirci tutto ciò che vogliamo e so anche
che una cosa sono i numeri relativi a piccole, medie e grandi
imprese, altra cosa il loro potere economico e politico. Ma, appunto,
di potere politico ed economico si tratta, non di inevitabile
espulsione della piccola e media impresa dal mercato. Oggi come ai
tempi di Bernstein le piccole e medie imprese mantengono posizioni
chiave in tutte le economie di mercato. I grandi processi di
concentrazione ed internazionalizzazione influiscono sul ruolo e
l'importanza delle imprese di medie e piccole dimensioni senza
tuttavia distruggerle. La tendenza alla grande concentrazione esiste,
ma la previsione marxiana secondo cui questa avrebbe segnato la
campana a morto delle piccole e medie imprese si è dimostrata
clamorosamente errata.
Fine degli stati
nazionali?
La tendenza
alla internazionalizzazione delle economia esisteva già ai tempi di
Marx ed è quanto mai forte e vitale ai nostri giorni. Non si tratta
solo di commercio internazionale, ma anche di movimenti di capitali,
spostamenti di cifre da capogiro da un'area del mondo all'altra.
Negare l'importanza di simili tendenze è impossibile, e, prima
ancora, profondamente stupido. La domanda non riguarda l'esistenza e
l'importanza di tendenze che sono sotto gli occhi di tutti. Queste
tendenze portano ad una progressiva marginalizzazione, se non
addirittura alla scomparsa degli stati nazionali? Questa è la
domanda corretta che dobbiamo porci. Lo stato nazionale è destinato
a sparire, travolto dalla globalizzazione o, anche in questo caso, ci
troviamo di fronte ad fenomeni complessi, all'intrecciarsi di
tendenze e controtendenze che rendono il quadro assai più articolato
di quanto potrebbe sembrare a prima vista?
Ai sostenitori del
mondialismo piace presentarsi come coloro che “seguono la ruota
della storia”. Chi considera ancora importanti gli stati nazionali,
quindi ritiene non superati confini e frontiere, viene guardato con
una certa aria di commiserazione. Anche quando, generosamente, non lo
si definisce “razzista” lo si compatisce. Si tratta di una
persona con lo sguardo rivolto all'indietro, nel migliore dei casi di
un romantico incapace di stare al passo coi tempi.
E' quanto meno
assai dubbio che esista una “ruota della storia”. Nella storia
agiscono tendenze che è possibile favorire o contrastare, cosa ben
diversa dall'inarrestabile, fatale procedere di presunte “ruote”.
Specificato questo val la pena di chiedersi: è davvero scontato che
simili tendenze marcino nel senso della abolizione di stati, confini
e frontiere? La risposta è molto semplice: NO.
I
grandi imperi sono una caratteristica dei epoche passate più che dei
tempi presenti. La storia antica è in larga misura storia di
formazione e dissoluzione di imperi e forse non è un caso che i
livelli di più elevato sviluppo culturale raggiunti nell'antichità
riguardino la polis greca, non gli imperi persiano o macedone o lo
stesso, pur assai civile, impero romano.
Il ventesimo secolo è
stato caratterizzato dal crollo dell'impero austro ungarico prima,
poi dal crollo degli imperi coloniali inglese e francese, infine dal
crollo rovinoso dell'ultimo impero: quello comunista. Ed i crolli di
questi imperi hanno tutti dato vita ad un gran numero di stati
nazionali.
Oggi esistono nel mondo ben 208 stati nazionali, di cui
196 riconosciuti internazionalmente. Erano molto meno all'inizio del
ventesimo secolo. In 30 anni circa, dal 1990 ad oggi, sono sorti 32
nuovi stati nazionali, più o meno uno all'anno. Forse lo stato
nazionale è destinato a sparire, ma ad oggi questa sparizione sembra
assai lontana. Più che sparire, gli stati a dimensione nazionale
tendono a moltiplicarsi.
I processi di globalizzazione
esistono, sono fortissimi e sono anche, in una certa misura,
positivi. Il commercio esiste da quando esiste la divisione del
lavoro, cioè da tempo immemorabile. Gli scambi internazionali e gli
stessi movimenti internazionali di capitali esistono da quando
esistono nazioni e stati. Negare simili fenomeni o cercare di
sminuirne l'importanza è semplicemente stupido. Questi processi
però, ben lungi dal distruggere i sentimenti di appartenenza
nazionale dei vari popoli li hanno accentuati.
“L'impulso alla
integrazione del mondo è reale” scrive Samuel Huntington nel
celeberrimo Lo
scontro delle civiltà,
“ed è esattamente questo che genera resistenza ai distinguo
culturali e a una maggiore presa di coscienza della propria civiltà
di appartenenza”. (6)
I popoli inseriti nel vortice della
globalizzazione non intendono tanto ritagliarsi impossibili isole
autarchiche quanto affermare, dentro questo vortice, il valore della
propria identità. Questa, oltre che nazionale, tende ad essere
culturale. Le identità nazionali, pur restando tali, tendono a
raggrupparsi secondo linee culturali.
“Gli stati nazionali
sono e resteranno i protagonisti della politica internazionale, ma i
loro interessi, legami e conflitti vengono determinati in misura
sempre maggiore da fattori inerenti alla loro cultura e civiltà di
appartenenza”. (7) Globalizzazione da un lato e riscoperta
dall'altro del valore delle proprie identità, sia più ristrette,
nazioni, che più larghe, civiltà. Un processo ben più articolato
e complesso di quello immaginato da molti.
Il crollo del comunismo
e la fine della guerra fredda avevano invece determinato in molti
l'illusione di una unificazione liberal democratica del globo, spinta
dal vento della globalizzazione. Il libro di un nippo americano:
Francis Fukuiama: “la fine della storia e l'ultimo uomo”
aveva espresso in termini teoricamente dignitosi questa speranza. Che
però doveva rivelarsi una mera illusione: “il modello di un unico
mondo armonioso appare palesemente troppo distante dalla realtà per
poter fungere da utile guida del mondo post guerra fredda” (8). E'
difficile non condividere questo giudizio di Huntington.
Val la
pena di aggiungere che la profezia di Fukuyama non solo si sarebbe
rivelata illusoria, ma avrebbe subito una sorta di degenerazione
interna. Il mondo preconizzato dal saggista nippo americano non era
brutto: si trattava di un mondo unificato che conservava però,
nell'unificazione, alcune delle sue particolarità positive. Il
mondialismo politicamente corretto doveva però trasformare l'utopia
di Fukluyama nella distopia di un mondo privo di differenze. Una
enorme area grigia senza confini e nazioni, culture e civiltà, senza
sessi e senza storia. Il mondo di quello che oggi molti definiscono
“il grande reset”.
Destino, complotto o scelte
politiche?
Il grande
reset è scritto a lettere cubitali nel libro del destino? Molti lo
pensano. Il nostro futuro è segnato, andiamo verso il “capitalismo
di relazione” o l'ibrido comunista capitalista. Il mondo sarà
dominato da alcune enormi concentrazioni economiche, alleate col
potere politico. La piccola e media impresa non hanno futuro, il ceto
medio è destinato a contrarsi e a perdere rilevanza. Gli stati
nazionali saranno marginalizzati, i confini perderanno senso. Gli
spostamenti di popolazioni da un paese e da un continente all'altro
diventeranno la norma ancor più di quanto già oggi non siano. Chi
cerca di opporsi a tutto questo è un “sovranista razzista” o,
nella migliore delle ipotesi, uno stupido che non capisce il corso ed
il senso della storia.
In realtà le cose NON stanno
così. Certo, esistono forti tendenze che vanno in questo senso, ma
non sono le uniche né sono fatalmente destinate ad affermarsi. E non
sono neppure tanto generalizzate quanto i loro entusiasti sostenitori
cercano di far credere. La fine di confini e frontiere ad esempio,
riguarda solo gli
stati occidentali, come solo la cultura occidentale è fatta oggetto
di continui attacchi nichilistici. La marginalizzazione degli stati
nazionali dal canto suo non colpisce nella stessa misura tutti gli
stati. Riguarda l'Italia o la Grecia, molto meno gli USA o la
Germania, non
riguarda affatto la Cina.
Esistono forti tendenze verso il “grande
reset”, ma non si tratta del fatale e generalizzato procedere di
una presunta “ruota della storia”. Se il mondo sembra muoversi
verso il “modello cinese” o “capitalismo di relazione” questo
avviene non per
destino ma per determinate, e non obbligate, scelte
politiche.
Ci tengo a
sottolinearlo con la massima chiarezza: si tratta di scelte
politiche, non di complotti. I
grandi flussi migratori, la centralizzazione e globalizzazione delle
economie, il diffondersi in occidente di mode culturali nichiliste
non sono una
invenzione di un pugno di avidi finanzieri: si tratta di tendenze
oggettive che riguardano decine, centinaia di milioni di esseri umani.
Non sono però né le uniche né sempre e necessariamente in radicale
contrasto con altre, pure assai forti, né, meno che mai, fatalmente
destinate ad affermarsi. I governi intervengono sulle tendenze in
atto privilegiandone alcune a scapito di altre, favorendo
determinate forze sociali, politiche e culturali ed ostacolandone,
spesso con mezzi ignobili, altre. E lo fanno in maniera
differenziata, scontrandosi ognuno con ostacoli e difficoltà. Negli
USA i mondialisti si sono dovuti sorbire quattro anni di presidenza
Trump, un incubo per loro, poi sono riusciti ad impedire la
rielezione del “mostro” solo grazie ai brogli, rischiando di una
acutizzazione senza precedenti dello scontro politico e
sociale.
Nella vecchia Europa i fanatici della UE hanno alla fine
dovuto accettare la brexit, in Italia questi stessi fanatici vanno
avanti a tentoni, imponendo al popolo governi che suscitano la nausea
di un numero sempre crescente di persone, i paesi dell'est, dal canto
loro, non hanno la minima intenzione di aprirsi ai
“migranti”.
Dietro al reset non ci sono complotti né
destini, solo scelte politiche. Scelte politiche talmente impopolari
che spesso chi le sostiene deve, per cercare di farle digerire a
recalcitranti opinioni pubbliche, fare un uso sfacciato di vere o presunte
emergenze.
Le fondamentali sono ad oggi due, una autentica ed una
in larga misura fasulla. Si tratta, è chiaro, della pandemia Covid e
dei “mutamenti climatici”.
Il Covid esiste e rappresenta una
minaccia grave per tutti noi, però è molto evidente che molti cercano di usarlo per
spingere il mondo in una certa direzione. Grazie al Covid la Cina,
da cui tutto ha avuto origine, sta diventando la prima potenza
economica del mondo. In occidente il covid diventa pretesto per
chiedere più centralizzazione, più cessioni di sovranità dagli
stati nazionali a grandi organizzazioni burocratiche sovranazionali.
Queste, lo si è visto benissimo nel corso della pandemia, non sono
affatto più efficienti nella lotta alla malattia. Che la
centralizzazione significhi sempre e comunque più efficienza è solo
un mito, la tragica esperienza del comunismo sta lì a dimostrarlo.
Ma questo interessa poco ai fanatici del mondialismo.
I mutamenti
climatici di origine antropica sono invece una emergenza fasulla.
Certo, esiste ed è giustamente sentita da molti l'esigenza di
salvaguardare l'ambiente dagli affetti a volte distruttivi delle
attività umane, ma nessuno oggi pensa davvero
che fra otto o nove anni ci sarà la fine del mondo, come
profetizzato dalla piccola Greta; probabilmente nessuno si
accorgerebbe della “emergenza” climatica se non fosse per la
propaganda continua, martellante dei media. I mutamenti climatici
ovviamente esistono, sono sempre
esistiti, probabilmente le attività umane hanno contribuito negli
ultimi due secoli ad aggravarli, anche se in misura limitata, ma
tutto questo dista anni luce dall'allarmismo isterico che sui
mutamenti climatici è stato innestato. E su cui giocano i
sostenitori del mondialismo. Le attività umane portano alla fine del
mondo, quindi bisogna lottare centralmente contro i mutamenti
climatici di origine antropica, occorre che a decidere non siano i
parlamenti degli stati nazionali, eletti dai popoli, ma la
commissione europea, L'ONU, o qualche organismo mondiale posto a
difesa del clima (come se il clima potesse essere “difeso” da
quattro burocrati). La strada è sempre quella.
Non è il caso
di rendere ancora più lungo uno scritto certo non breve. Il grande
reset non è né un complotto né un destino che dovremo
obbligatoriamente subire. Si tratta della risultante, ancora in
divenire, di scelte politiche volte a favorire certe tendenze a
scapito di altre, a far diventare uniche tendenze che invece avanzano
spesso strettamente intrecciate ad altre.
Contrapporre
ai processi di concentrazione, digitalizzazione ed
internazionalizzazione delle economie chiusure autarchiche o
l'ideologia della “decrescita felice” è una idiozia criminosa.
Ma è altrettanto idiota e criminoso ignorare o sottovalutare i
pericoli di cui è gravida la distopia mondialista politicamente
corretta. Tanto più che, paradosso dei paradossi, le due distopie,
quella della decrescita e quella mondialista, sono spesso sostenute
dalle stesse persone.
Ad essere centrale
in questa fase è la capacità di governare i processi in atto, in
tutta la loro complessità. Oggi torna ad essere centrale la
politica. Intesa intesa in senso nobile, al di fuori degli spettacoli
degradanti cui questa ci sta abituando. Dentro e fuori dall'Italia.
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