“Principi del leninismo” è, come
si sa, una delle principali opere “teoriche” di Giuseppe Stalin.
Intere generazioni di militanti del vecchio PCI si sono formate su
questo libro, e questo spiega molte cose. Per capire di che tipo di
opera “teorica” si tratti, basta una sola citazione. Cediamo la
parola a Iosif Vissarionovic Dzugasvili.
“Dunque, che cosa è il leninismo?
Gli uni dicono che il leninismo è
l’applicazione del marxismo alle condizioni originali della
situazione russa. In questa definizione vi è una parte di verità,
ma essa è ben lontana dal contenere tutta la verità. Lenin ha
effettivamente applicato il marxismo alla situazione russa e l’ha
applicato in modo magistrale. Ma se il leninismo non fosse che
l’applicazione del marxismo alla situazione originale della Russia,
sarebbe un fenomeno puramente nazionale (...) Invece noi sappiamo che
il leninismo è un fenomeno internazionale, che ha le sue radici in
tutta l’evoluzione internazionale e non soltanto un fenomeno russo.
(...)
Altri dicono che il leninismo è la
rinascita degli elementi rivoluzionari del marxismo del decennio
1840-1850, (...) bisogna riconoscere
che anche questa definizione, (...) contiene una parte di verità.
Questa parte di verità consiste nel fatto che Lenin ha
effettivamente risuscitato il contenuto rivoluzionario del marxismo
(…). Ma questa non è che una parte della verità. La verità
intera è che il leninismo non solo ha risuscitato il marxismo, ma ha
fatto ancora un passo avanti, sviluppando ulteriormente il marxismo
nelle nuove condizioni del capitalismo e della lotta di classe del
proletariato.
Che cosa è dunque, in ultima analisi,
il leninismo?
Il leninismo è il marxismo dell’epoca
dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria..."
Non è mia intenzione entrare nel
merito di quanto Stalin afferma, né, tanto meno, cercare di
sottoporlo a critica. In realtà le affermazioni staliniane non
sono criticabili.
Si possono criticare delle
argomentazioni, o delle analisi dei dati di fatto, o le conclusioni
che si traggono da queste analisi. Ma quelle di Stalin non sono né
analisi del mondo empirico, né generalizzazioni tratte da queste
analisi, né, ancora, argomentazioni, affermazioni inserite in catene
deduttive che da alcune premesse traggono determinate conclusioni. Quelle di
Stalin sono affermazioni apodittiche la cui verità
non può che essere accettata. Alcuni dicono X, afferma Stalin, ma si
tratta di una verità parziale, altri dicono Y, ma si tratta ancora
di una verità parziale, la verità totale e Z. Quali siano le
ragioni, logiche o di fatto, che fanno si che X ed Y siano verità
“parziali” e Z la verità “intera”, Stalin non lo dice. “La
verità intera è che il leninismo non solo ha risuscitato il
marxismo, ma ha fatto ancora un passo avanti” afferma ad esempio
Stalin, ma non si preoccupa minimamente di ribattere alle obiezioni
dei molti, eminenti, socialisti che ritenevano il leninismo non un
“passo avanti” ma uno indietro rispetto alla elaborazione teorica
di Marx. Stalin del resto disponeva di strumenti di “persuasione”
ben più efficaci dell'analisi teorica.
Stalin era stato seminarista, e nella
prosa del dirigente bolscevico si rispecchia la formazione culturale
del giovane educato in seminario. Lunghe serie di affermazioni
apodittiche, domande a cui risponde con formule dichiarate vere a
priori; oppure serie di esortazioni, di impegni a cui si giura di
essere fedeli. Tipica a questo proposito l'orazione funebre tenuta da
Stalin ai funerali di Lenin.
“Lasciandoci il compagno Lenin ci ha
comandato di tener alto e serbar puro il grande appellativo di membro
del partito. Ti giuriamo, compagno Lenin, che noi adempiremo con
onore al tuo comandamento (…)
Lasciandoci il compagno Lenin ci ha
comandato di salvaguardare, come la pupilla dei nostri occhi, l'unità
del nostro partito. Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con
onore al tuo comandamento. (...)
Lasciandoci il compagno Lenin ci ha
comandato di salvaguardare e rafforzare la dittatura del
proletariato. Ti giuriamo, compagno Lenin, che non risparmieremo le
nostre forze per adempire con onore a questo tuo comandamento...”
E così via, in una lunga serie di “comandamenti” e “giuramenti”.
E' stato detto che il leninismo è una semplificazione del marxismo e lo stalinismo una semplificazione del leninismo. C'è molto di vero in queste affermazioni. Marx, per quanto criticabili possano essere le sue conclusioni, analizza, studia, deduce. Lenin molto spesso sostituisce l'invettiva alla analisi. Gli basta dimostrare che il rivale, quasi sempre un esponente del movimento operaio, contraddice questa o quella affermazione di Marx o di Engels per bollarlo come “rinnegato”. A differenza che gli scritti di Marx, quelli di Lenin sono letteralmente traboccanti di citazioni, ed ogni citazione rappresenta “il verbo”, la verità di cui è empio anche solo dubitare. Stalin sostituisce l'invettiva leniniana con la affermazione apodittica, la formula sacramentale da recitare come si recitano le preghiere. Mao Tze Tung andrà, se possibile, ancora oltre. Le sue formulette, riunite nel libretto rosso, autentico breviario di preghiere, saranno recitate collettivamente da milioni di giovani cinesi. Nella prefazione al "libretto rosso" Lin Piao scriverà che le citazioni del presidente Mao devono essere lette di frequente da ogni buon comunista (e tutti i cinesi devono essere buoni comunisti) nel corso della giornata; meglio ancora è bene che vengano imparate a memoria. Per sua sfortuna Lin Piao diventerà anche lui, passata la fase calda della “rivoluzione culturale”, un ennesimo “traditore”. E sarà eliminato, come tanti altri. Il libretto rosso non lo aiuterà a salvare la pelle.
Parlare di Marx e di comunismo, di Lenin, Stalin e Mao sembra quasi, oggi, un vezzo di chi ama storia. Una distanza abissale sembra separare, ed in effetti separa, l'odierna sinistra italiana dall'esperienza comunista. Il comunismo è stato qualcosa di tragicamente unitario. Dietro alle formule da breviario di Stalin stavano grandi eventi storici, una concezione del mondo semplificata al massimo ma compatta, coerente; stavano soprattutto uno stato ed un paese immenso, indicato ai lavoratori di tutto il mondo come la “loro patria”.
Oggi tutto questo non esiste più. Il crollo del comunismo ha lasciato moltissime persone del tutto prive di punti di riferimento. Bramosi di assoluto molti militanti di sinistra si sono trovati, quasi dall'oggi al domani, ad esserne orfani. E sono andati alla ricerca di nuovi assoluti. E ne hanno trovati. Tanti piccoli assoluti in tono minore, frammenti di ideologie sono andati a sostituire il grande, compatto assoluto in cui per anni, addirittura per decenni, tanti militanti della sinistra avevano ciecamente creduto. Il femminismo radicale, con la donna che sostituisce la classe operaia quale “soggetto collettivo” capace di rifondare il mondo. L'ecologismo mistico, che predica l'integrazione armoniosa, senza alcun residuo o frizione, di uomo e ambiente. La retorica della moltiplicazione dei “diritti positivi”: diritto alla salute, alla casa, al lavoro, all'aria pulita ed al mare limpido, alla pratica sportiva, alla felicità, all'amore, al sesso, e chi più ne ha più ne metta. Più l'assoluto si dimostrava inaccessibile alla dimensione umana più si moltiplicavano gli assoluti fai da te. Salutismo, diete vegetariane, animalismo radicale, per finire con la teorizzazione, e l'invocazione, della assoluta onestà e la mitizzazione dei suoi supremi custodi. E, accanto agli assoluti positivi, quelli negativi. Il capitalismo quale fattore di crisi e sfruttamento è stato sostituito dai “capitalisti disonesti”, dai “magnati della finanza”, spesso “ebraica”, dai “politici papponi”, ed infine, da un solo uomo, un singolo essere umano incarnazione del male, un mostro ributtante da combattere giorno e notte, con ogni mezzo. Qualcuno ne conosce il nome?
Se quanto appena detto ha anche solo un minimo di fondamento non deve stupire che spesso e volentieri gli odierni discorsi degli esponenti della italica sinistra ricalchino lo stile da breviario caro a Stalin e Mao. E, ad essere sinceri sino in fondo, lo stile da breviario non è appannaggio solo degli esponenti della sinistra. E' ben presente nei media, in tutti i media, anche in quelli “berlusconiani”, coinvolge spesso anche partiti e movimenti che di sinistra non sono. Segno dei tempi.
Certo, le formule sono ben diverse. Nessuno parla più di rivoluzione comunista, o di dittatura del proletariato, ma lo stile non è, in fondo, troppo diverso. Come nei breviari maoisti e staliniani l'analisi della realtà e la coerenza logica scompaiono, ed il loro posto è preso da affermazioni apodittiche, sulla cui verità non è consentito avanzare il minimo dubbio.
E così via, in una lunga serie di “comandamenti” e “giuramenti”.
E' stato detto che il leninismo è una semplificazione del marxismo e lo stalinismo una semplificazione del leninismo. C'è molto di vero in queste affermazioni. Marx, per quanto criticabili possano essere le sue conclusioni, analizza, studia, deduce. Lenin molto spesso sostituisce l'invettiva alla analisi. Gli basta dimostrare che il rivale, quasi sempre un esponente del movimento operaio, contraddice questa o quella affermazione di Marx o di Engels per bollarlo come “rinnegato”. A differenza che gli scritti di Marx, quelli di Lenin sono letteralmente traboccanti di citazioni, ed ogni citazione rappresenta “il verbo”, la verità di cui è empio anche solo dubitare. Stalin sostituisce l'invettiva leniniana con la affermazione apodittica, la formula sacramentale da recitare come si recitano le preghiere. Mao Tze Tung andrà, se possibile, ancora oltre. Le sue formulette, riunite nel libretto rosso, autentico breviario di preghiere, saranno recitate collettivamente da milioni di giovani cinesi. Nella prefazione al "libretto rosso" Lin Piao scriverà che le citazioni del presidente Mao devono essere lette di frequente da ogni buon comunista (e tutti i cinesi devono essere buoni comunisti) nel corso della giornata; meglio ancora è bene che vengano imparate a memoria. Per sua sfortuna Lin Piao diventerà anche lui, passata la fase calda della “rivoluzione culturale”, un ennesimo “traditore”. E sarà eliminato, come tanti altri. Il libretto rosso non lo aiuterà a salvare la pelle.
Parlare di Marx e di comunismo, di Lenin, Stalin e Mao sembra quasi, oggi, un vezzo di chi ama storia. Una distanza abissale sembra separare, ed in effetti separa, l'odierna sinistra italiana dall'esperienza comunista. Il comunismo è stato qualcosa di tragicamente unitario. Dietro alle formule da breviario di Stalin stavano grandi eventi storici, una concezione del mondo semplificata al massimo ma compatta, coerente; stavano soprattutto uno stato ed un paese immenso, indicato ai lavoratori di tutto il mondo come la “loro patria”.
Oggi tutto questo non esiste più. Il crollo del comunismo ha lasciato moltissime persone del tutto prive di punti di riferimento. Bramosi di assoluto molti militanti di sinistra si sono trovati, quasi dall'oggi al domani, ad esserne orfani. E sono andati alla ricerca di nuovi assoluti. E ne hanno trovati. Tanti piccoli assoluti in tono minore, frammenti di ideologie sono andati a sostituire il grande, compatto assoluto in cui per anni, addirittura per decenni, tanti militanti della sinistra avevano ciecamente creduto. Il femminismo radicale, con la donna che sostituisce la classe operaia quale “soggetto collettivo” capace di rifondare il mondo. L'ecologismo mistico, che predica l'integrazione armoniosa, senza alcun residuo o frizione, di uomo e ambiente. La retorica della moltiplicazione dei “diritti positivi”: diritto alla salute, alla casa, al lavoro, all'aria pulita ed al mare limpido, alla pratica sportiva, alla felicità, all'amore, al sesso, e chi più ne ha più ne metta. Più l'assoluto si dimostrava inaccessibile alla dimensione umana più si moltiplicavano gli assoluti fai da te. Salutismo, diete vegetariane, animalismo radicale, per finire con la teorizzazione, e l'invocazione, della assoluta onestà e la mitizzazione dei suoi supremi custodi. E, accanto agli assoluti positivi, quelli negativi. Il capitalismo quale fattore di crisi e sfruttamento è stato sostituito dai “capitalisti disonesti”, dai “magnati della finanza”, spesso “ebraica”, dai “politici papponi”, ed infine, da un solo uomo, un singolo essere umano incarnazione del male, un mostro ributtante da combattere giorno e notte, con ogni mezzo. Qualcuno ne conosce il nome?
Se quanto appena detto ha anche solo un minimo di fondamento non deve stupire che spesso e volentieri gli odierni discorsi degli esponenti della italica sinistra ricalchino lo stile da breviario caro a Stalin e Mao. E, ad essere sinceri sino in fondo, lo stile da breviario non è appannaggio solo degli esponenti della sinistra. E' ben presente nei media, in tutti i media, anche in quelli “berlusconiani”, coinvolge spesso anche partiti e movimenti che di sinistra non sono. Segno dei tempi.
Certo, le formule sono ben diverse. Nessuno parla più di rivoluzione comunista, o di dittatura del proletariato, ma lo stile non è, in fondo, troppo diverso. Come nei breviari maoisti e staliniani l'analisi della realtà e la coerenza logica scompaiono, ed il loro posto è preso da affermazioni apodittiche, sulla cui verità non è consentito avanzare il minimo dubbio.
Nel 1971 Carla Lonzi, esponente del femminismo radicale scriveva “la donna clitoridea e la donna vaginale”, un breve pamphlet in sui si sosteneva che:
“ Il sesso femminile e' la clitoride, il sesso maschile e' il pene.
Avere imposto alla donna una coincidenza che non esisteva come dato di fatto nella sua fisiologia e' stato un gesto di violenza culturale che non ha riscontro in nessun altro tipo di colonizzazione.
La cultura sessuale patriarcale, essendo rigorosamente procreativa, ha creato per la donna un modello di piacere vaginale”.
Nel 1971 il comunismo non era ancora crollato, e l'estrema sinistra comunista era molto forte in Italia. Il femminismo radicale stava però mettendone in crisi i presupposti ideologici. La contraddizione lavoro - capitale stava per essere sostituita da quella uomo – donna. Lo stile declamatorio, l'enunciazione di verità su cui ogni dubbio è ritenuto a priori impossibile però non cambiava. La Lonzi dimostrava forse che “nell'uomo il meccanismo del piacere e' strettamente connesso al meccanismo della riproduzione”, o che l'orgasmo vaginale è la risultante di una “colonizzazione” imposta alle donne? Le sue parole erano sostenute da una analisi dei dati di fatto? Non è forse vero che anche l'orgasmo maschile può essere non riproduttivo? E non è vero che le donne hanno un ciclo mestruale, un utero, delle mammelle, che possono restare in cinta eccetera? Inezie. Visto che la “contraddizione principale” è quella fra uomo e donna l'orgasmo vaginale, in cui la presenza dell'uomo è necessaria, o, quanto meno, importante, diventa la risultante di una “violenza”; e la donna a cui questo tipo di orgasmo piace diventa ipso facto “subalterna alla cultura del pene”, una povera alienata che non sa neppure distinguere il piacere “vero” da quello “imposto”. Molti esponenti del movimento gay faranno, tempo dopo, considerazioni simili. La prevalenza numerica dei rapporti eterosessuali non avrebbe alcuna base naturale, alcun legame con un fatterello secondario come la riproduzione della specie. Sarebbe, di nuovo, la risultante di una imposizione violenta. Però, come è stata possibile questa "imposizione" se non esisteva già una prevalenza della eterosessualità sulla omosessualità? Mistero.
Cambiamo argomento e veniamo a periodi più vicini ai nostri.
James Lovelock, un esponente dell'ecologismo radicale ebbe ad affermare: “Gli umani sulla terra si comportano per certi versi come un organismo patogeno, o come le cellule di un tumore o di una neoplasia (…) la specie umana è talmente numerosa da costituire una grave malattia planetaria: Gaia soffre di primatemaia disseminata, un’epidemia di genti”.
L'uomo è un "tumore" insomma, ma “la natura” può guarire da un simile tumore se l'uomo rinuncia alla sua “follia” e si integra armoniosamente nell'ecosistema. Però, se siamo un tumore perché non dovremmo comportarci da tumore? In natura ogni specie vivente, ed ogni individuo, mirano alla propria sopravvivenza, a scapito di quella altrui. Le cellule tumorali distruggono le cellule dell’organismo che le ospita, questa è la loro natura; è vero che così facendo finiscono per autodistruggersi, ma è anche vero che se facessero diversamente accelererebbero la loro fine. Ridurre l’uomo a componente subordinata di una totalità naturale e pretendere nel contempo che agisca diversamente da come la sua natura lo spinge ad agire significa cadere in una grossolana contraddizione. Ma questo non preoccupa gli esponenti dell'ecologismo radicale. L'importante è sostenere tesi scioccanti, la coerenza logica può andare a farsi benedire.
Si potrebbe continuare ma non sarebbe troppo utile. Del resto, ad ognuno di noi capita di sentire, credo, frasi del tipo: “Le prostitute sono, tutte, povere schiave”, o “I “migranti” in realtà sono rifugiati politici”, oppure “ovunque le donne subiscono violenza. Non trasformiamo la lotta alla violenza sulle donne in occasione di scontro con i nostri fratelli mussulmani”. Affermazioni simili costituiscono l'A B C dei discorsi di moltissimi esponenti della sinistra italiana; e ce le ripetono giorno e notte i media, con ossessiva, goebbelsiana insistenza.
Nessuno, ovviamente, fornisce al popolo bue dati che confermino che “tutte le prostitute sono schiave”, o che tutti i “migranti” sono “rifugiati politici”. E nessuno cerca di chiarire la contraddizione insita nel dichiararsi, insieme, per l'emancipazione femminile e l'amicizia con chi lapida le dultere. La coerenza logica, la corrispondenza fra il mondo e ciò che si dice del mondo non interessano; sono state sostituite da brevi frasette, esortazioni, indicazioni di imperativi assoluti. Esattamente come nei breviari di Stalin e Mao.
Da un certo punto di vista la situazione attuale è addirittura peggiore di quella dei breviari mao staliniani. Oggi non ci si limita a sostituire verità e coerenza con formulette stereotipate, si cambiano addirittura le parole per farle meglio aderire al senso (o al non senso) di queste formulette. Anche i breviari staliniani e maoisti erano pieni di orribili neologismi: “socialfascista”, “gruppo antipartito”, “comintern”, “socialimperialismo”; questi sembrano però poca cosa di fronte all'orgia di parole costruite a tavolino che sta oggi letteralmente pervertendo la lingua parlata e scritta. I vecchi neologismi riguardavano prevalentemente la politica, quelli nuovi la vita nel suo complesso. L'attuale discorso politicamente corretto ha eliminato, quando le vittime sono donne, l'omicidio per sostituirlo col “femminicidio”. Ha eliminato termini come “immigrati” o “clandestini”, per sostituirli con “migranti”, ha reso “non vedenti” i ciechi e “verticalmente svantaggiati” coloro che non superano il metro e settanta di altezza. Il pensiero unico politicamente corretto, non contento di aver sfregiato logica e verità, prende d'assalto la bellezza e la musicalità della lingua, e con queste il semplice, vecchio buon senso.
Non voglio essere, e neppure apparire, esagerato, estremista. So benissimo che dietro alle litanie mao staliniane c'era qualcosa di più che non un pensiero unico intollerante e fanatico. C'erano i gulag e i laogai, e le deportazioni di massa, ed i plotoni d'esecuzione. Paragonare la dittatura politicamente corretta che sta cercando di imporsi in occidente con simili orrori non è solo ingiusto e profondamente stupido, è anche offensivo per le innumerevoli vittime del terrore maoista e staliniano.
Però, sarebbe sbagliato sottovalutare quanto il pensiero unico politicamente corretto sia pericoloso per la democrazia e, soprattutto, per la libertà. L'ideologia politicamente corretta, dietro all'apparente mitezza, alla ostentata, mielosa, “bontà”, persegue un obiettivo profondamente autoritario, meglio, totalitario: il controllo globale della vita sociale, l'imposizione a tutti di modelli di vita e di pensiero dichiarati a priori come gli unici buoni.
In occidente nessuno, per ora, rischia il carcere o i lavori forzati se parla di “clandestini” invece che di “migranti”. Però... però subito viene additato al pubblico disprezzo come “razzista xenofobo”. Se Tizio non usa il termine “femminicidio” viene guardato come se fosse un amico di chi usa violenza alle donne, se Caio è contrario ai matrimoni gay diventa immediatamente “omofobo”, e se Sempronio definisca “barbarie” la pena di morte per gli apostati è affetto da “islamofobia”. Chi non si integra nella ideologia politicamente corretta non è un individuo che sbaglia (ammesso che sbagli), o che ha idee, valori, interessi comunque legittimi. No, è un essere cattivo, intollerante, non rispettoso degli altri. Non è un criminale, per ora, ma potrebbe diventarlo presto.
Viviamo un brutto momento, a tutti i livelli, ed il pessimismo è d'obbligo. Ma, per fortuna, c'è qualcosa che ci consente di moderarlo. A livello di massa l'ideologia politicamente corretta è molto meno forte di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Fortissimo, quasi invincibile, anche perché non contrastato praticamente da nessuno, sui media, il politicamente corretto è abbastanza estraneo alla maggioranza degli esseri umani. Nel linguaggio di tutti i giorni nessuno usa i neologismi che impazzano in TV, e, sotto sotto, sono in pochi a credere davvero alle formulette che i media presentano come verità indubitabili. Questo però non basta. Non basta la difesa passiva contro le litanie da oratorio progressista. Queste litanie si trasformano in leggi, regolamenti, obblighi, penetrano in profondità nella vita sociale fino a trasformarla del tutto. Possono pervertire le coscienze quando la resistenza viene sgretolata. Se questo avviene ci si ritrova, tutti, molto meno liberi, forse non più liberi. Forse (FORSE) siamo ancora in tempo per evitare una simile fine.
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